Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

«Terapie» di conversione e responsabilità genitoriale (di Marco Farina)


La legge tedesca n. 28 del 12 giugno 2020 vieta per la prima volta in Europa le c.d. “terapie” di conversione, per tali intendendosi i trattamenti di vario genere volti a ri-orientare sessualmente soggetti non eterosessuali. La novità offre lo spunto per interrogarsi sulle conseguenze di natura civilistica che possano scaturire da una simile fattispecie nell’ordinamento italiano. Illustrato il rapporto esistente tra “responsabilità genitoriale” e rispetto della “identità di genere” del minore, vengono analizzati i rimedi della decadenza dalla responsabilità genitoriale, della diseredazione e dell’indegnità a succedere, nonché, infine, della responsabilità civile da illecito endo-familiare.

Conversion “Therapies” and Parental Responsibility

German law 12 June 2020, n. 28 is the first in Europe to ban the so-called conversion “therapies”, meaning any kind of treatment aiming at sexually re-orienting non-heterosexual individuals. The German reform offers the chance to investigate how Italian private law would tackle similar treatments. Once having showcased the nexus between “parental responsibility” and a child’s right to “gender identity”, the paper shifts to all the remedies descending from the parental responsibility’s loss. Those are disinheritance, unworthiness to succeed, and, lastly, civil liability for child abuse.

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Marco Farina - «Terapie» di conversione e responsabilità genitoriale

SOMMARIO:

1. Introduzione. - 2. Status di figlio e diritti connessi: responsabilità genitoriale e rispetto dell’identità di genere del minore. - 3. I rimedi: la decadenza dalla responsabilità genitoriale. - 4. (Segue): indegnità a succedere, obbligo di alimenti e diseredazione. - 5. (Segue): la responsabilità civile da illecito c.d. endo-familiare. - 6. Conclusione.


1. Introduzione.

Il 12 giugno 2020 rappresenta una data storica per la comunità di persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender (LGBT): la Germania – primo Paese europeo a farlo – approva una legge federale in tema di «Protezione dai trattamenti di conversione» (Gesetz zum Schutz vor Konversionsbehandlungen – KonvBG)[1]. La legge tutela i minorenni, nonché i maggiorenni il cui consenso al trattamento sia viziato[2]. Scopo dichiarato è quello di vietare, con conseguenze di rilievo anche penale, le cc.dd. «terapie» di conversione, locuzione che indebitamente individua tutte quelle pratiche volte a modificare l’originario orientamento sessuale di un individuo, in vista della affermazione della sua eterosessualità. Come spesso accade, la conquista legislativa consegue ad una maturata consapevolezza scientifica in ordine all’inutilità – rectius alla dannosità – di simili «terapie» sulla salute psico-fisica dei «pazienti»[3]. D’altro canto, la riforma tedesca rappresenta il punto di arrivo di un percorso molto faticoso, ancora in essere in moltissimi Paesi occidentali, segnato da radicate resistenze culturali, nonché, spesso, finanche da una profonda negazione delle istanze promosse dalla comunità LGBT[4]. La gravità del fenomeno non esime, evidentemente, anche gli interpreti degli altri Paesi e, nello specifico, l’interprete italiano dall’individuare rimedi adeguati avverso trattamenti di conversione perpetrati a danno dei soggetti omosessuali, bisessuali o transessuali. Ebbene, in assenza di un’espressa presa di posizione del legislatore in materia, la reazione a contegni simili non può che essere affidata a fattispecie “classiche”, dalla più ampia portata regolamentare, delle quali va attentamente sondata la capacità di rispondere in maniera effettiva alle istanze di tutela di volta in volta emergenti. Il presente contributo si propone di affrontare più da vicino i rapporti tra genitori e figlio minore, con particolare riguardo alle ipotesi in cui siano i primi a sottoporre coattivamente il secondo a trattamenti asseritamente volti a ri-orientarne l’identità sessuale. È d’obbligo, al riguardo, una notazione preliminare: la giurisprudenza (stando per lo meno alle decisioni edite) non è stata ancora chiamata, ad oggi, ad [continua ..]


2. Status di figlio e diritti connessi: responsabilità genitoriale e rispetto dell’identità di genere del minore.

I principali referenti normativi che si offrono all’interprete sono, in prima battuta, gli artt. 147 e 315-bis c.c. e, in seconda battuta, gli artt. 330, 463, n. 3-bis, 448-bis e 2043 c.c. Il primo gruppo di disposizioni qualifica il rapporto endo-familiare tra genitore e figlio, dettagliando i rispettivi diritti e doveri; il secondo gruppo di disposizioni individua le possibili, rilevanti conseguenze scaturenti dalla violazione dei doveri genitoriali. L’art. 315-bis c.c. – introdotto per opera della l. 10 dicembre 2012, n. 219, e del successivo decreto legislativo attuativo 28 dicembre 2013, n. 154 – consacra la centralità della figura del figlio[1]. Al principio di unicità dello status di figlio consegue, infatti, il riconoscimento in capo a quest’ultimo di tutta una serie di situazioni giuridiche attive, le quali sono proiezione dei doveri genitoriali scolpiti nell’art. 147 c.c. e rappresentano, altresì, primaria estrinsecazione del valore costituzionale della persona. Di particolare interesse ai nostri fini sono il 1° e 3° co. dell’art. 315-bis c.c. Il 1° co., in piena attuazione del disposto dell’art. 30 Cost., riconosce al figlio il diritto al mantenimento, all’educazione, all’istruzione e all’assistenza morale da parte dei genitori. La cura dovuta dai genitori al figlio abbraccia tanto la sfera patrimoniale, quanto quella non patrimoniale: alla cura del patrimonio si accompagna, con egual forza, la cura della persona del figlio[2]. Il trapasso dal concetto di «potestà» a quello di «responsabilità» genitoriale[3] è, in tal misura, significativo di un nuovo modo di intendere la funzione genitoriale, la quale si emancipa dallo schema della supremazia e della soggezione[4], per divenire strumento a servizio del processo di crescita del minore. La famiglia diventa, così, luogo di autorealizzazione del minore e – in piena aderenza con lo spirito dell’art. 2 Cost. – formazione sociale in cui si si coltiva la personalità e si esalta la dignità del singolo[5]. Su questo sfondo, acquista particolare pregnanza il dovere educativo cui sono chiamati i genitori. Tale dovere abbraccia sicuramente anche l’educazione sessuale e va correttamente assolto non attraverso l’imposizione, a danno del figlio, di specifici contegni o modelli, bensì attraverso un pieno [continua ..]


3. I rimedi: la decadenza dalla responsabilità genitoriale.

Stabilito che le «terapie» di conversione integrano una grave violazione dei diritti fondamentali riconosciuti al minore, occorre ora volgere lo sguardo ai rimedi, o, più in generale, agli strumenti che l’ordinamento sembra mettere a disposizione per il caso in cui si dia una violazione, ad opera dei genitori, dei precetti di cui agli artt. 147 e 315-bis c.c. Come anticipato, al riguardo, vengono in rilievo gli artt. 330, 463, n. 3-bis, 448-bis e 2043 c.c. L’art. 330 c.c. attribuisce al giudice[1] il potere di pronunciare la decadenza dalla responsabilità genitoriale tutte le volte in cui il genitore, con «grave pregiudizio» del minore, violi i diritti-doveri di cui agli artt. 147 e 315-bis c.c. In tali casi, si può anche dar luogo, ricorrendone gravi motivi, all’allontanamento del figlio, ovvero del genitore dalla residenza familiare[2]. Si tratta di un rimedio radicale, che assume una funzione cautelare più che sanzionatoria[3], poiché sospende l’esercizio della responsabilità genitoriale con l’intento di scongiurare il pericolo di gravi danni nei confronti della prole[4]. La giurisprudenza germogliata intorno alla norma è copiosa e interpreta con grande ampiezza i relativi presupposti. Per quanto attiene al «pregiudizio», esso viene valutato alla luce della complessiva situazione ambientale nella quale versa il minore ed è inteso in modo tale da abbracciare sia lesioni di natura materiale che lesioni di natura morale[5]. Anche con riguardo all’individuazione delle condotte pregiudizievoli, la lettura che si offre della disposizione è estensiva: possono fondare una pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale sia condotte commissive che omissive, purché, beninteso, si dia prova dell’inadempimento di uno dei doveri genitoriali e del conseguente grave pregiudizio per il figlio[6]. Viene, così, pronunciata la decadenza in ipotesi di maltrattamenti fisici diretti, a danno del minore[7], ovvero indiretti, a danno di stretti congiunti cari al minore[8]. E la decadenza può colpire, in casi simili, anche l’altro genitore, che, assunta piena consapevolezza dei danni inferti alla prole, si astiene da qualsivoglia intervento e continua a vivere con il partner aggressivo[9]. Al medesimo risultato si è giunti, altresì, nell’ipotesi in cui la violenza sia [continua ..]


4. (Segue): indegnità a succedere, obbligo di alimenti e diseredazione.

La decadenza dalla responsabilità genitoriale incide in maniera rapida, diretta ed efficace sul rapporto patologico genitore-figlio minore, ma può recare con sé anche ulteriori ripercussioni, apprezzabili a distanza di tempo dall’accertamento della violazione dei doveri genitoriali e particolarmente rilevanti sul piano patrimoniale[1]. Anzitutto, ai sensi dell’art. 448-bis c.c., il genitore decaduto perde il diritto agli alimenti nei confronti del figlio maltrattato. Ancora, ai sensi del nuovo art. 463, n. 3-bis, c.c., la decadenza rappresenta una causa di indegnità a succedere al figlio maltrattato. Infine, sempre ai sensi dell’art. 448-bis c.c., quando non sia integrata una causa di indegnità, il figlio maltrattato può «escludere» (cioè diseredare) dalla successione il genitore decaduto. Appare chiara la funzione delle disposizioni citate, che è quella di colpire e, così, disincentivare condotte negligenti da parte di chi debba istituzionalmente prendersi cura della prole. L’approccio legislativo, tuttavia, sembra in questi ultimi casi orientato da un intento sanzionatorio[2], più che strettamente cautelare/preventivo (proprio, come detto, dell’art. 330 c.c.). Infatti, gli artt. 448-bis e 463, n. 3-bis, c.c. operano quando i fatti lesivi sembrano ormai risalenti nel tempo: l’obbligo di alimenti presuppone che il figlio abbia guadagnato un’autosufficienza economica; l’indegnità viene in rilievo solo rispetto ad una successione aperta, nelle ipotesi in cui sia il genitore a sopravvivere al figlio[3]; la possibilità di diseredazione si realizza al momento della testamenti factio. Si tratta di momenti in cui è verosimile che il figlio abbia raggiunto una piena maturità e si sia fisiologicamente emancipato dal giogo genitoriale. In questi momenti, appare, dunque, ormai sbiadita l’esigenza di tutelare l’interesse esistenziale del soggetto debole, mentre emerge con maggior forza una carica punitiva (con severe conseguenze sul piano patrimoniale e, in specie, successorio) a discapito di chi è stato dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale. Non è questa la sede in cui indugiare nell’analisi degli artt. 463, n. 3-bis e 448-bis c.c., né, soprattutto, sui dibattuti rapporti tra gli stessi[4]. Ai fini della presente indagine, basti notare che, pur con [continua ..]


5. (Segue): la responsabilità civile da illecito c.d. endo-familiare.

Esauriti i rimedi che più specificamente si collegano alla decadenza dalla responsabilità genitoriale, resta da analizzare in che misura la clausola generale del «danno ingiusto» di cui all’art. 2043 c.c. si presti ad accogliere entro la propria area semantica la fattispecie oggetto di indagine. L’utilizzo dello strumento risarcitorio per le responsabilità derivanti da illeciti che si consumano nell’ambito della famiglia (cc.dd. endo-familiari) rappresenta una conquista abbastanza recente[1]. Le indicazioni derivanti tanto dal dettato costituzionale, quanto dall’attuale impianto codicistico fanno della famiglia una comunità: in essa sbiadiscono i rapporti gerarchici e recuperano centralità le istanze facenti capo agli individui. Tale processo, di cui già si è detto in precedenza, comporta una più agevole penetrazione entro la cornice domestica di strumenti e tecniche di diritto privato generale, le quali si affiancano ed integrano la tutela offerta dagli istituti speciali del diritto di famiglia, sopra analizzati[2]. Protagonisti indiscussi di questo processo sono il contratto e, soprattutto, la responsabilità civile. Con particolare riferimento a quest’ultima, la violazione dei doveri genitoriali può comportare un danno tanto patrimoniale, quanto non patrimoniale, sulla scorta della natura degli interessi lesi. Nella relazione verticale genitore-figlio, la violazione dei fondamentali doveri di cura della persona di cui all’art. 315-bis c.c. integra una condotta anti-giuridica, potenzialmente foriera di una responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. o, più correttamente, ex art. 2059 c.c., in capo al soggetto agente[3]. Ciò ovviamente non basta perché si conclami l’illecito civile, dovendo ulteriormente provarsi un’attuale – e significativa – lesione di un interesse giuridicamente rilevante della vittima[4], nonché, evidentemente, la sussistenza di un nesso eziologico tra condotta e danno. Anche sul punto, la giurisprudenza offre utili spunti di riflessione. Viene, a più riprese, evidenziata la violazione del dovere di cura del minore ad opera del genitore che si rifiuti di instaurare e coltivare un rapporto col figlio, così esponendo quest’ultimo ad un grave turbamento psichico, ingenerato dalla mancanza di una figura di riferimento e, altresì, [continua ..]


6. Conclusione.