Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Dignità e sorte degli embrioni soprannumerari (di Ippolito Barone)


Al fine di individuare le soluzioni di miglior tutela degli embrioni c.d. soprannumerari il contributo indaga lo statuto giuridico dell’embrione attraverso l’analisi del fondamento costituzionale della sua tutela e delle fonti normative interne ed internazionali secondo l’interpretazione delle più alte corti nazionali ed europee.

L’Autore evidenzia la necessità di comporre il conflitto tra le esigenze individuali e collettive sottese all’attività di ricerca scientifica e l’esigenza di tutelare la vita dell’embrione alla luce del principio personalista. Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche sull’accertamento dello stato di salute dell’embrione, in un ordinamento democratico fondato sulla norma personalista, la soluzione della destinazione degli embrioni alla ricerca scientifica non appare praticabile poiché si risolverebbe nella negazione del valore sovrautilitaristico della persona. Occorre invece indagare, de iure condendo, la possibilità di strumenti giuridici, come l’adozione per la nascita, che consentano di offrire all’embrione soprannumerario una possibilità di sopravvivenza.

Dignity and destiny of supernumerary embryos

The paper deals with the legal status of the embryo through the analysis of the constitutional basis of its protection and of the domestic and international legal sources according to the interpretation of the highest national and European courts in order to identify the best solutions for the protection of the so-called supernumerary embryos.

The author highlights the need to settle the conflict between, on the one side, the individual and collective requirements underlying scientific research activity and, on the other, the need to protect the embryo’s life, in the light of the personalist principle.

In consideration of the current scientific knowledge on the assessment of the state of health of the embryo, in a democratic legal order based on the personalist norm, the solution of the destination of embryos for scientific research does not appear feasible because it would result in the negation of the superutilitarian value of person. Instead, de jure condendo, it is necessary to investigate the possibility of legal instruments, such as the “adoption for birth”, that allow to offer the supernumerary embryo a chance of survival.

Ippolito Barone - Dignità e sorte degli embrioni soprannumerari

SOMMARIO:

1. Premessa. - 2. Lo statuto giuridico dell’embrione. - 3. La tutela della vita prenatale nelle fonti sovranazionali. - 4. Le misure di tutela dell’embrione nella legislazione nazionale. - 5. La tutela dell’embrione secondo il bilanciamento della Corte costituzionale e le deroghe al generale divieto di crioconservazione. - 6. La questione degli embrioni soprannumerari. - 7. Il divieto di sperimentazione tra tutela della dignità umana e libertà di ricerca scientifica. La composizione del conflitto. - 8. L’adozione per la nascita. - 9. Dignità del vivente e destinazione post mortem alla ricerca scientifica.


1. Premessa.

Il progresso scientifico sfugge al dominio della natura sul corso ordinario delle vicende inerenti l’esistenza umana, dal suo principio così sino al suo volgere al termine, ponendo sempre nuovi interrogativi a cui l’interprete, sulla base del dato normativo vigente sia pure non sempre “attuale”, non può sottrarsi, essendo suo precipuo compito quello di fornire le soluzioni ermeneutiche che hic et nunc siano in grado di offrire la miglior tutela agli interessi coinvolti nel singolo caso concreto. In caso di potenziale conflitto tra intessi costituzionalmente rilevanti occorre, da un lato, che alla composizione del medesimo si pervenga attraverso la tecnica del bilanciamento costituzionale in quanto nessuno di essi può essere ritenuto di per sé sempre e comunque prevalente affinché si eviti la c.d. tirannia dei valori[1] e, dall’altro, che la soluzione che sia pure prima facie appaia idonea a disciplinare il singolo caso concreto risulti coerente con il sistema della legalità costituzionale poiché diversamente si aprirebbe la stura a soluzioni stridenti coi principi fondamentali dell’ordinamento[2], specie con riferimento a quei settori come le scienze mediche e biotecnologiche che hanno inciso così profondamente la nozione di genitorialità rimodulandola in relazione all’an, al quando e al quomodo fino al punto da mettere in discussione anche l’an, il quando e il quomodo della stessa esistenza umana. La presente indagine muove dall’analisi dello statuto giuridico dell’embrione formato in vitro nell’ambito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita al fine di individuare le soluzioni di miglior tutela degli embrioni crioconservati, con particolare riferimento a quelli c.d. soprannumerari, residui, in esubero ai fini dell’impianto nell’utero materno e, quindi, non più “utili” a soddisfare il desiderio di genitorialità della coppia che accede alle tecniche di PMA, affinché de iure condendo possa essere superato il “pilatesco silenzio” del legislatore sul destino degli embrioni che giacciono nel limbo della crioconservazione sine die[3].   * Il presente lavoro costituisce il prodotto dell’attività svolta nell’ambito del progetto di ricerca “La procreazione medicalmente assistita e le prospettive di tutela degli [continua ..]


2. Lo statuto giuridico dell’embrione.

Alla base della riflessione della letteratura civilistica sullo statuto giuridico dell’embrione umano si colloca senz’altro la ricerca dell’“inizio della vita umana”[1] sulla scorta della vexata quaestio della soggettività giuridica del medesimo[2]. Sebbene la legge n. 40 del 2004 disponga – o, almeno originariamente, si proponesse – di assicurare i diritti di tutti i “soggetti coinvolti” nel ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, “compreso il concepito”, elevando così espressamente il medesimo al livello di “soggetto”, il problema dell’individuazione dell’inizio della vita umana rimane irrisolto. La qualificazione del concepito come soggetto giuridico non può infatti ritenersi di per sé dirimente al fine di risolvere il quesito se il concepito sia o non sia persona, non potendosi in alcun modo ritenere quest’ultimo preliminare e decisivo poiché “non condiziona la verifica della rilevanza e neanche di una tutela riferita allo stesso concepito”[3]. Sotto il profilo della tutela giuridica, i primi interpreti del codice civile identificavano l’inizio della vita umana con l’acquisto della capacità giuridica che l’art. 1 del codice civile ricollega al momento della nascita (comma 1) e al cui evento sono subordinati i diritti che la legge riconosce a favore del concepito (comma 2)[4]. Il contesto giuridico in cui si inscrivevano tali interpretazioni, nonché la stessa disposizione in questione, era però piuttosto differente da quello attuale. E ciò in disparte l’intervento del legislatore del 2004, sebbene non siano mancate letture piuttosto estensive dell’art. 1 della legge n. 40 del 2004, nel senso di ritenerla norma innovatrice dell’ordinamento giuridico, estensiva dell’attribuzione della capacità giuridica al concepito – uno di noi – in applicazione del principio di uguaglianza[5]. Certo dovrebbe comunque ritenersi un dato ormai acquisito quello secondo cui la nozione di soggettività giuridica – almeno in termini generali e che, peraltro, l’art. 1 della legge n. 40 del 2004 riconosce espressamente al concepito – abbia un’estensione più ampia di quella di capacità giuridica delle persone fisiche con conseguente non assoluta coincidenza, da un punto di vista [continua ..]


3. La tutela della vita prenatale nelle fonti sovranazionali.

Nella medesima prospettiva di protezione della vita prenatale, in ragione dell’indubbia appartenenza dell’embrione alla specie umana, si collocano anche le fonti internazionali nonché l’interpretazione che delle medesime è offerta dalle più alte corti europee. Viene innanzitutto in rilievo la Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata in Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176[1]. Ai sensi dell’art. 1, ai fini della Convenzione, per fanciullo si intende “ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni, salvo che abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile”. La disposizione non apparirebbe dirimente ai nostri fini, onerando ancora una volta l’interprete del compito della qualificazione giuridica della vita prenatale. Viene tuttavia in soccorso il Preambolo della Convenzione che, pur non essendo vincolante per gli Stati contraenti, acquista un indiscusso valore interpretativo. Esso, riprendendo quanto già indicato nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ritiene il fanciullo, “a causa della sua mancanza di maturità fisica e intellettuale”, bisognoso “di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita”. La sicura rilevanza di tale indicazione si coglie nella circostanza per la quale essa è ripresa dalla nostra Corte costituzionale nella sentenza n. 35 del 1997 a sostegno del principio costituzionale di tutela della vita umana fin dal suo inizio al fine di dichiarare l’inammissibilità della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione di talune parti della legge 22 maggio 1978, n. 194[2]. Ne consegue che nella nozione di “essere umano” di cui alla Convenzione sui diritti del fanciullo debba essere ricompreso anche il “fanciullo” non nato, il cui superiore interesse deve avere una considerazione preminente in tutte le decisioni che lo riguardano (art. 3), anche prima e a prescindere, quindi, dalla sua nascita. Inoltre, gli Stati si impegnano a riconoscere ad ogni fanciullo  un “diritto inerente alla vita” e ad assicurarne “in tutta la misura del possibile la sopravvivenza e lo sviluppo” (art. 6). Sotto il profilo della tutela del diritto alla dignità ed alla [continua ..]


4. Le misure di tutela dell’embrione nella legislazione nazionale.

Riconosciuta, in modo incontestabile, l’appartenenza alla specie umana dell’embrione nel suo essere persona umana in divenire e in disparte i profili inerenti la norma personalista quale principio cardine dell’intero sistema ordinamentale[1], occorre prendere atto che il legislatore ha espressamente qualificato il concepito come soggetto “imponendo di salvaguardarne la vita quando ciò sia possibile”[2]. Invero, come autorevolmente osservato, già la legge 22 maggio 1978, n. 194, che disciplina l’interruzione volontaria di gravidanza, proclamando che lo Stato “tutela la vita umana dal suo inizio” e riconoscendo quindi il diritto alla vita del concepito, ne esprimeva la “soggettività”[3]. La legge n. 40 del 2004, almeno nelle intenzioni originarie del legislatore[4], prima quindi dell’opera di riscrittura costituzionale della stessa[5], disciplinava il ricorso alla procreazione medicalmente assistita secondo un modello autoritario improntato alle esigenze di tutela assoluta dell’embrione, fulcro attorno al quale ruotava l’intero assetto normativo delle medesima[6]. Dall’impianto normativo della legge n. 40 del 2004 emerge innanzitutto la preferenza accordata dal legislatore alla procreazione naturale, quale sede privilegiata in funzione della tutela della pari dignità del concepito, di tutti i concepiti[7]. In primo luogo, infatti, la procreazione medicalmente assistita è configurata come modalità procreativa residuale, il cui ricorso è consentito “qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità” (art. 1, comma 2); in secondo luogo, il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, consentito solo quando sia accertata  l’impossibilità di  rimuovere altrimenti le cause impeditive  della  procreazione, è circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto  medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico (art. 4, comma 1) ed è informato al principio di gradualità in forza del quale, tra quelle astrattamente applicabili, occorre fare ricorso alle tecniche di PMA che presentano il minor grado di invasività tecnico e psicologico per i destinatari delle [continua ..]


5. La tutela dell’embrione secondo il bilanciamento della Corte costituzionale e le deroghe al generale divieto di crioconservazione.

Sebbene l’impianto originario della disciplina della PMA rispondesse ad un modello autoritario volto a consacrare l’equiparazione dei soggetti concepiti ai soggetti già nati in funzione di una tutela “forte” dell’embrione, la circostanza per la quale – inevitabilmente – i diritti di cui il concepito è titolare possano entrare in conflitto con diritti, ugualmente fondamentali, facenti capo ad altri soggetti “coinvolti” nell’applicazione delle tecniche di PMA, primo fra tutti il diritto alla salute della donna che accede alle tecniche, ha segnato il passaggio compiuto dalla Corte costituzionale dalla ratio dell’esclusività della tutela assoluta dell’embrione alla necessaria composizione del conflitto attraverso la tecnica del bilanciamento[1]. In simili casi, infatti, posto che la tutela dell’embrione “non è comunque assoluta”[2], il ricorso alla tecnica del bilanciamento rappresenta l’ineludibile passaggio ermeneutico in grado di impedire che, in un ordinamento democratico, possa verificarsi qualsiasi automatismo nell’affermazione di un valore a scapito di un altro, rifuggendo così dal pericolo della “tirannia” di un valore[3]. Certamente la composizione del conflitto non può essere demandata all’autodeterminazione dei singoli portatori dei medesimi valori in nome della privacy, potendo ciascun soggetto in virtù del principio di autodeterminazione disporre esclusivamente di propri diritti e non già di quelli facenti capo ad altri soggetti[4]. Il primo intervento demolitorio operato dalla Corte costituzionale con la produzione di effetti a detrimento della protezione forte dell’embrione è rappresentato dalla sentenza costituzionale 8 maggio 2009, n. 151 dichiarativa della illegittimità costituzionale dell’art. 14, commi 2 e 3, con riferimento al limite di formazione di non più di tre embrioni, all’obbligo di impianto contestuale e alla mancata previsione che l’obbligo di trasferimento degli embrioni, crioconservati in quanto prodotti ma non impiantati per scelta medica, da realizzare non appena possibile debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna. L’iter argomentativo seguito dalla Corte prende le mosse dalla circostanza per la quale la stessa legge n. 40 del 2004 rivela, in conformità alla [continua ..]


6. La questione degli embrioni soprannumerari.

L’opera di riscrittura costituzionale della legge n. 40 del 2004 ha determinato quella che potrebbe essere ormai definita come la “questione” degli embrioni soprannumerari. Se, infatti, l’impianto normativo originario, funzionale ad una tutela “forte” dell’embrione, si premuniva o, almeno, si impegnava a premunirsi di garantire l’effettività del generale divieto di crioconservazione riducendo al minor numero possibile gli embrioni creati in vitro e non (più) destinati alla sopravvivenza attraverso l’impianto nell’utero materno – non essendo comunque possibile eliminare del tutto tale evenienza –, le dichiarazioni di illegittimità costituzionale della legge n. 40 del 2004 intervenute a riprese successive hanno, di fatto, determinato l’incremento esponenziale ora – in generale – del numero di embrioni formati in vitro, ora – in particolare e in misura più che proporzionale – del numero di embrioni destinati alla crioconservazione sine die. Nel primo senso intervengono l’eliminazione del limite massimo di tre embrioni che possono essere prodotti nell’ambito delle procedure di PMA e dell’obbligo di procedere al contestuale impianto dei medesimi (sent. n. 151 del 2009), nonché l’estensione della platea dei soggetti che possono accedere alle tecniche di PMA alle coppie affette da sterilità o da infertilità assolute ed irreversibili (sent. n. 162 del 2014) ed alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili (sent. n. 96 del 2015). Nel secondo senso interviene più specificamente l’ammissibilità della diagnosi genetica preimpianto (sent. n. 96 del 2015) che consente alla donna di decidere di non sottoporsi al trattamento sanitario  alla stregua di un’interruzione volontaria di gravidanza in via cautelare, precedente alla stessa gravidanza, volta alla tutela anticipata del suo diritto alla salute. In quest’ultimo caso gli embrioni affetti da grave malattia genetica appaiono, di fatto, ineluttabilmente “predestinati” alla crioconservazione sine die, essendo incompatibile la prosecuzione dell’applicazione delle tecniche quanto meno con le stesse ragioni per le quali la coppia ha inizialmente deciso di sottoporsi al trattamento. Ecco che, pertanto, è possibile che giacciano nel limbo della crioconservazione, in [continua ..]


7. Il divieto di sperimentazione tra tutela della dignità umana e libertà di ricerca scientifica. La composizione del conflitto.

“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”, così recita l’art. 9 Cost. che qualifica la libertà di ricerca scientifica, il c.d. diritto alla scienza, tra i beni di sicura rilevanza costituzionale[1]. L’art. 13 della legge n. 40 del 2004, come osservato, è invece perentorio nel dichiarare il divieto assoluto di qualsiasi ricerca clinica o sperimentale sull’embrione che non risulti finalizzata alla tutela dello stesso, ponendo così un limite stringente alla libertà di ricerca scientifica e, precisamente, alle esigenze individuali e collettive sottese alla medesima, ad esempio, con riferimento ai benefici per la tutela della salute che potrebbero derivarne. Nella disposizione da ultimo menzionata si pongono in tensione, pertanto, due valori di sicura rilevanza costituzionale: lo statuto dell’embrione (rectius la sua dignità) e la libertà di ricerca scientifica. La soluzione offerta dal legislatore ordinario è invero la secca ed assoluta prevalenza della tutela della dignità dell’embrione, posto che l’unica deroga al divieto assoluto di ricerca scientifica sugli embrioni sia quella sopra evidenziata della ricerca clinica e sperimentale finalizzata esclusivamente a produrre benefici diretti alla salute e allo sviluppo del medesimo embrione sottoposto al trattamento. L’assolutezza di un simile divieto, che non opera distinzioni di sorta tra le diverse “categorie” di embrioni, è stata messa in discussione sotto il profilo della legittimità costituzionale poiché tacciata di risolversi “nella completa negazione delle esigenze individuali e collettive sottese all’attività di ricerca scientifica” e, “in modo del tutto irrazionale, nella negazione di qualunque bilanciamento tra dette esigenze”[2]. Se da un lato, infatti, non sembra potersi dubitare della legittimità del divieto di costituire embrioni umani a fini di ricerca, trovando esso un solido ancoraggio normativo anche a livello sovranazionale nell’art. 18, par. 2, della Convenzione di Oviedo, dall’altro la rigidità del divieto di sperimentazione sugli embrioni è messa in discussione da una parte della dottrina e della giurisprudenza almeno con riferimento ad alcune categorie di embrioni già formati nell’ambito di un iniziale progetto [continua ..]


8. L’adozione per la nascita.

In disparte la questione dell’ammissibilità della destinazione alla ricerca scientifica degli embrioni soprannumerari, occorre senz’altro rilevare che in effetti la legge nulla dispone in positivo circa la sorte da riservare ad essi e per i quali – stante il divieto di soppressione degli embrioni – non sembra esservi altra via che quella della crioconservazione fino alla naturale estinzione, peraltro di difficile determinazione allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, e quindi sine die. Di qui l’urgenza di un’integrazione della legge n. 40 del 2004, avvertita invero già a un anno dalla sua entrata in vigore dal Comitato Nazione per la Bioetica, che attraverso uno specifico documento ha indagato la possibilità etica e giuridica della c.d. “adozione per la nascita”[1], quale pratica che consente di offrire agli embrioni soprannumerari la possibilità di nascere posto che “il diritto alla nascita non può che prevalere su ogni considerazione etica e giuridica in senso contrario, che pur metta in corretta evidenza i non piccoli problemi che scaturiscono da questa soluzione”[2]. Premesso infatti che all’embrione umano, quale appartenente alla specie umana che ha in sé il principio di vita, debba essere riconosciuto uno statuto comprensivo della tutela della dignità umana e del diritto alla vita riconducibile all’art. 2 Cost., l’ordinamento giuridico non può che proteggerne e salvaguardarne il pieno sviluppo con la finalità primaria dell’ottenimento della nascita e con l’esclusione nei suoi confronti di qualsivoglia comportamento che sarebbe avvertito come discriminatorio se riferito a individui umani (art. 3 Cost.)[3]. L’espressione “adozione per la nascita” rievoca, sia pure con riferimento agli embrioni soprannumerari, la disciplina dell’adozione di minori di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184, ora per la mera nomenclatura ora per le evidenti ragioni di solidarietà che muovono chi decida di accogliere un embrione abbandonato, portandolo a nascita ed offrendogli una (nuova) famiglia in cui crescere. Tuttavia si riscontrano anche taluni profili di differenziazione che pare opportuno mettere in evidenza. La disciplina dell’adozione di minori che prevede una rigorosa procedura volta a verificare l’idoneità degli adottandi, per i quali sono previsti [continua ..]


9. Dignità del vivente e destinazione post mortem alla ricerca scientifica.