Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Filiazione genetica e interesse del minore: la rotta perduta è perduta? (di Leonardo Lenti)


L'articolo discute del rapporto conflittuale tra la verità biologica e l'interesse del minore, dinanzi ai recenti orientamenti della giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte europea dei diritti dell'uomo – che sembrano oggi divergenti – sull'interesse del minore nelle azioni di disconoscimento e di impugnazione del riconoscimento: in particolare.

Genetic Filiation and the Best Interests of the Child: Is the Route Lost?

The article discusses the conflictual relationship between biological truth and the best interests of the child, according to the recent case law of the Court of cassation and of the European Court of human rights – which seem to be divergent – especially in cases of disclaimer of paternity and contestation of the recognition of the child.

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Leonardo Lenti - Filiazione genetica e interesse del minore: la rotta perduta è perduta?

SOMMARIO:

1. L'interesse del minore nella disciplina dello stato dei figli. - 2. La veritą biologica e i suoi limiti. - 3. La prioritą dell'interesse del minore e le azioni per rimuovere lo stato. - 4. Il disconoscimento, l'interesse del minore e il curatore speciale. - 5. L'impugnazione del riconoscimento. - 6. L'impugnazione del riconoscimento di compiacenza. - 7. Il rapporto conflittuale tra la veritą biologica e l'interesse del minore.


1. L'interesse del minore nella disciplina dello stato dei figli.

C'era una volta un diritto della filiazione: era rigido e un po' burocratico, oggetto di controversie più che altro concettualistiche. Regolava con stile ottocentesco la costituzione e la rimozione del rapporto in base a elementi del tutto oggettivi: non si curava degli sconvolgimenti esistenziali che poteva produrre alle persone coinvolte, né del loro sentire. Poi è progressivamente entrata la soggettività, si è fatto spazio alle scelte personali dell'individuo. Questa vicenda si è articolata in più tappe e ha portato a un cambiamento radicale del diritto della filiazione: è tuttora in corso e la sua direzione è tutt'altro che chiara. La prima tappa data dal 1975: la riforma generale del diritto della famiglia ha introdotto una valutazione individualizzata dell'interesse del minore in caso di riconoscimento tardivo. Tuttavia per una decina d'anni la Corte di cassazione non ha dato alcun peso effettivo a questa novità: ha semplicemente asserito, in modo acritico, che per un minore è meglio avere due genitori che averne uno solo. Solo nel 1986 l'ha presa in seria considerazione, sulla spinta dell'attenzione alle esigenze particolari di ciascun minore, che sempre più intensamente connotava la giurisprudenza dei tribunali per i minorenni, cui allora apparteneva la competenza sul provvedimento di cui all'art. 250 c. 4° c.c. Con la sentenza-trattato n. 6649 ha indicato i parametri di cui il giudice deve tener conto per decidere. È molto interessante rileggerla con l'occhio d'oggi, anche per la sua profonda assonanza con la recente C. cost. 127/2020. La svolta è stata però di breve durata: nel corso degli anni '90 la Corte è ritornata alla propria giurisprudenza precedente, ma aggiungendovi un'altra motivazione, diversa e destinata a un grande futuro: il diritto del genitore, rientrante nel novero dei diritti fondamentali della persona, di costituire il rapporto di filiazione, diritto che va assumendo un ruolo sempre più centrale nelle motivazioni. Di conseguenza, secondo l'orientamento oggi consolidato, il limite al riconoscimento tardivo, consistente nell'interesse del minore, opera soltanto in casi davvero fuori dall'ordinario. Nel frattempo, nel 1983, la l. 184 ha aggiunto tra i legittimati attivi all'azione di disconoscimento il curatore speciale, appositamente nominato dal giudice (art. 244. c. 4°, oggi 6°), su richiesta [continua ..]


2. La veritą biologica e i suoi limiti.

La verità biologica è un principio fondante della disciplina della filiazione. Ma che cosa si intende per verità biologica? Per il maschio il significato è univoco: la derivazione genetica, cioè dai suoi spermatozoi, sicché biologico e genetico si identificano. Per la femmina, invece, vi sono due diversi aspetti: la discendenza genetica, cioè dal suo ovocita, e la gestazione e il parto. Da quando è divenuta tecnicamente possibile la fecondazione in vitro, i due aspetti possono essere scissi: quindi la verità di gestazione e parto e la verità genetica non si possono più identificare. È una costante storica che il principio di verità stia alla base del sistema della filiazione: più precisamente, della verità genetica per l'uomo[1] e della verità biologica consistente nella gestazione e nel parto per la donna. Il formante legislativo (art. 269 c. 3° c.c.) continua a ignorare la verità genetica femminile[2]: è rimasto immutato anche con la riforma del 2013, sicché il compito di regolare la questione spetta alla giurisprudenza. Il principio di verità è connotato da una grande elasticità[3]: può essere compresso in nome di altri principi, cui la società di volta in volta attribuisce un'importanza molto elevata; ma non è mai accantonato. Così per secoli – in Italia fino al 1975 – la verità è stata limitata da tre principi. Due sono sempre ricordati: uno è la difesa della famiglia legittima, ragione giustificatrice della plurisecolare discriminazione verso i figli non matrimoniali e fondamento del pregresso divieto di riconoscere i figli adulterini; l'altro è il favore per la legittimità del figlio, fondamento dei limiti posti al disconoscimento, dell'assolutezza della presunzione di concepimento nel matrimonio e della lunghezza del suo termine, 300 giorni, eccessiva rispetto alla realtà biologica della gestazione[4]. Il terzo di tali principi è invece raramente ricordato, ma non è meno importante: la garanzia molto ampia, seppur non completa, dell'irresponsabilità maschile in caso di procreazione fuori dal matrimonio, che nel XIX secolo si è molto accentuata rispetto ai secoli precedenti e che costituisce il fondamento dei tradizionali limiti all'accertamento della [continua ..]


3. La prioritą dell'interesse del minore e le azioni per rimuovere lo stato.

L'irruzione del principio di priorità dell'interesse del minore costituisce una novità particolarmente eversiva dei principi consolidati – come accennato sopra – quando fa il suo ingresso nel campo delle azioni in giudizio volte a rimuovere lo stato, il disconoscimento e l'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, poiché rende lo stato soggetto a valutazioni palesemente discrezionali. Per lungo tempo è stato categoricamente escluso che l'interesse del minore potesse paralizzare tali azioni, da chiunque fossero state promosse. Poi il principio che lo vuole oggetto di una considerazione prioritaria fa fatto la sua comparsa. In un primo tempo la Corte costituzionale aveva escluso che il principio di verità si ponesse «in conflitto con il favor minoris, poiché anzi la verità biologica della procreazione costituisce una componente essenziale dell'interesse del medesimo minore, che si traduce nella esigenza di garantire ad esso il diritto alla propria identità e, segnatamente, all'affermazione di un rapporto di filiazione veridico»[1]. A questo modo l'interesse del minore era, sì, preso in considerazione, ma non ne derivavano conseguenze dirompenti: era identificato con la verità biologica, sicché rimuovere lo stato che non le corrispondeva era dichiarato come di per sé conforme al suo interesse. Nell'ultimo quinquennio le cose sono profondamente cambiate: l'identificazione dell'interesse del minore con la verità biologica è caduta e ciò ha aperto nuovi scenari, che esporrò nei due paragrafi successivi[2]. Occorre preliminarmente ricordare la differenza della legittimazione attiva alle due azioni di rimozione dello stato: al disconoscimento sono legittimati attivi il padre legale, la madre e il figlio maggiorenne, cui va aggiunto il curatore speciale; all'impugnazione del riconoscimento è legittimato attivo chiunque vi abbia un interesse di natura familiare, quindi anche il supposto padre biologico. La netta discriminazione tra figli matrimoniali ed extramatrimoniali, che ne deriva, mina fortemente il principio di eguaglianza, tanto declamato dalla riforma del 2012-13, ed è oggetto di molte critiche in dottrina, sulle quali non è questa la sede per soffermarsi. Per il disconoscimento l'attenzione dev'essere puntata sul caso in cui l'azione è esercitata dal curatore [continua ..]


4. Il disconoscimento, l'interesse del minore e il curatore speciale.

La questione dell'interesse del minore può incidere sul disconoscimento e sul suo esito in due diverse fasi: quella della nomina del curatore speciale, affinché eserciti l'azione; quella della decisione sull'azione di stato, una volta accertato che non vi è discendenza genetica. Il curatore speciale è nominato dal tribunale ordinario con decreto, assunte sommarie informazioni, su richiesta del minore stesso, se ha compiuto i 14 anni; altrimenti del pubblico ministero o dell’altro genitore. Le decisioni dell'autorità giudiziaria – tanto del pubblico ministero nel richiedere, quanto del tribunale nel nominare – sono governate dal principio di priorità dell’interesse del minore: come già detto, la richiesta e la nomina sono fatte soltanto se l'esercizio dell'azione vi corrisponde[1]. La valutazione non dev'essere condotta in via astratta e generale, ma deve scendere nella specificità del caso, per cogliere il concreto atteggiarsi dell'interesse di quel determinato minore. L'interesse del minore non è invece oggetto di alcun vaglio giudiziale se la richiesta di nominare il curatore proviene dal minore che ha compiuto i 14 anni, visto che è l'età a partire dalla quale la legge gli attribuisce in queste materie una serie di poteri decisionali autonomi[2]. La regola che nella nomina impone di tenere prioritariamente conto dell'interesse del figlio minore ha una forte incidenza, in linea di principio, anzitutto sulla posizione del padre biologico: dovrebbe consentir di evitare che, se i genitori decidono di non agire per il disconoscimento, questi possa aggirare la sua mancanza di legittimazione attiva sollecitando il pubblico ministero a chiedere la nomina del curatore, e il tribunale a nominarlo[3], con il rischio di scompaginare, a tutto danno del minore (qui considerato in quanto tale, più che in quanto figlio), l’accordo raggiunto dalla coppia di restare unita e di allevarlo come figlio comune di entrambi, senza curarsi se ciò corrisponda o meno a verità biologica[4]. Scorrendo la giurisprudenza, emerge che sono molti i casi nei quali la sollecitazione al pubblico ministero proviene invece dal giudice presso il quale è pendente un procedimento giudiziario, come quello per i provvedimenti di cui all'art. 333 e per quelli di cui all'art. 337-ter sgg., nel corso dei quali sorge il forte sospetto che lo stato del minore non [continua ..]


5. L'impugnazione del riconoscimento.

La legittimazione attiva a impugnare il riconoscimento è attribuita a chiunque vi abbia un interesse di natura familiare: quindi anche al preteso padre genetico. Questi può dunque agire direttamente e personalmente, a differenza del disconoscimento. Qui dunque manca il filtro dell'interesse del minore, che in caso di disconoscimento opera al momento della decisione sulla nomina del curatore. Anche qui, come per la legittimazione attiva alle due azioni di rimozione dello stato, emerge un evidente fondo di favore per la famiglia matrimoniale, nonostante le parole tante volte declamate: la sua intimità è infatti protetta contro le intrusioni provenienti da un terzo molto meglio di quanto sia protetta l'intimità della famiglia non matrimoniale. Ciò è incoerente non solo con il principio dell'unicità dello stato di figlio, ma anche con l'operazione – di valore più che altro psico-lessicale – di cancellare le qualifiche di legittima e di naturale che comparivano nei testi normativi come attributi della parola famiglia, compiuta dal d.lgs. 154. Pur in mancanza di un filtro espressamente previsto dalla legge, a fine anni '80 si è formato un orientamento – derivante, almeno inizialmente, da un mero concettualismo processualistico – che finiva con il raggiungere un risultato simile a quello descritto nel paragrafo precedente per il disconoscimento: era asserita la necessità di provare l'assoluta impossibilità della discendenza genetica, dunque una prova particolarmente rigorosa[1]. Ne conseguiva che il rifiuto del minore di sottoporsi alla prova dei marcatori del DNA, spalleggiato dalla madre, non aveva il medesimo peso decisivo a sfavore delle sue pretese che aveva nelle altre azioni di stato, in particolare nel disconoscimento e nella dichiarazione giudiziale di paternità. Questo orientamento è stato abbandonato di recente: è stato giustamente definito «anomalo ed eccentrico rispetto all'altra giurisprudenza sulle azioni di stato»[2] e incompatibile sul piano logico con i principi che sottostanno al nuovo art. 263. Dovrebbe conseguirne che anche in caso di impugnazione del riconoscimento il rifiuto ha valore di prova, per lo più decisiva, contro chi lo oppone, salvo motivi gravissimi (art. 116 c. 2° c.p.c.). I primi sviluppi di questo nuovo orientamento non sembra però abbiano effettivamente [continua ..]


6. L'impugnazione del riconoscimento di compiacenza.

In questo quadro legislativo e giurisprudenziale ha fatto irruzione la recentissima C. cost. 127/2020, che riguarda un caso particolare, che continua a ricorrere con una qualche frequenza, benché molto minore che in passato: quello del riconoscimento scientemente falso, tradizionalmente detto riconoscimento di compiacenza. In forza del principio codicistico secondo il quale il riconoscimento deve corrispondere a verità, le norme di legge non distinguono tra il caso in cui l'autore del riconoscimento non è consapevole della sua falsità e il caso in cui ne è consapevole, ma ciononostante lo effettua[1]: la sua impugnazione è pertanto ammessa comunque, con la conseguenza patrimoniale che la legge, permettendo all’uomo di liberarsi del rapporto di filiazione[2], gli permette di liberarsi anche dall'impegno di mantenere il figlio. La Corte costituzionale, con la sentenza 127/2020, in assonanza con i principi indicati nella precedente sentenza 272/2017[3] afferma che la falsità del riconoscimento, almeno nel caso in cui sia certamente consapevole, non impone l'accoglimento dell'impugnazione: «il bilanciamento tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il favore per la verità del rapporto di filiazione – afferma – non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata e non può implicare ex se il sacrificio dell’uno in nome dell’altro. L’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti, impone al giudice di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, sotteso alla domanda di rimozione dello status» (§ 4.3 della sentenza, corsivi miei), fra le quali vi sono «sia il legame del soggetto riconosciuto con l’altro genitore, sia la possibilità di instaurare tale legame con il genitore biologico, sia la durata del rapporto di filiazione e del consolidamento della condizione identitaria acquisita per effetto del falso riconoscimento […], sia, infine, l’idoneità dell’autore del riconoscimento allo svolgimento del ruolo di genitore». L'identità personale del figlio, dunque, è fondata non solo sul dato biologico, ma anche sui legami affettivi e personali sviluppati nella famiglia[4]. Anche qui dunque, come per il disconoscimento (vd. § 13®), l'accertata [continua ..]


7. Il rapporto conflittuale tra la veritą biologica e l'interesse del minore.