Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Destinazione allo scopo ex art. 2645-ter cod. Civ. E trust «interno». Qualche interrogativo a valle di un recente arresto (di Marco Martino, Professore associato di Diritto privato – Università degli Studi di Bologna)


Sulla base di una recente giurisprudenza della S.C., l’asserita analogia tra l’atto di destinazione di beni allo scopo, regolato all’art. 2645-ter c.c., e il trust interno, renderebbe possibile desumere dalla generale ammissibilità del primo, in quanto meritevole di tutela senza necessità di ulteriori valutazioni, anche la piena operatività del secondo. L’Autore, verificata la correttezza del primo assunto, mette in discussione anche la conclusione, che riposa su una criticabile connotazione attribuita alla meritevolezza dell’interesse che, così come espressamente previsto nella disposizione, dovrebbe caratterizzare la fattispecie tipizzata dal legislatore italiano.

Asset-destination for a purpose (art. 2345-ter of the italian civil code) and the so called “internal trust”: some issues arising from a recent ruling

According to recent decisions of the Corte di Cassazione, the alleged analogy between the act of allocating assets for a purpose, as regulated by art 2645-ter of the Italian Civil Code, and the trust «interno» (somehow a domestic trust), would make it possible to infer from the general admissibility of the former, as deserving of protection without the need for further evaluations, the full operability of the latter as well. The Author, after addressing the first assumption, also criticizes the conclusion, which rests on a questionable characterization attributed to the nature of the interest (deserving juridical protection) that, as explicitly provided in the provision, should characterize the typical form defined by the Italian legislator.

SOMMARIO:

1. Vecchie questioni e un arresto: l’art. 2645-ter cod. civ. tipizza il trust interno? - 2. L’atto di destinazione ex art. 2645-ter cod. civ. […] - 3. e il trust: assimilazione? - 4. In coda: la meritevolezza dell’interesse: “trasmigrazioni” dal 2645-ter al trust? - NOTE


1. Vecchie questioni e un arresto: l’art. 2645-ter cod. civ. tipizza il trust interno?

È ormai risalente, e forse stanca, la discussione circa l’ammissibilità nel nostro ordinamento del trust c.d. «interno» [1]. Tale è quel trust in cui gli elementi essenziali – disponente, trustee, beneficiari, beni in trust – sono legati all’ordinamento italiano, mentre la legge applicabile è quella straniera, scelta dalle parti, e anche di uno Stato non contraente, a patto che questa conosca il trust. Nel tempo si sono avvicendate voci estremamente favorevoli, opinioni totalmente scettiche e approcci più sorvegliatamente protesi a valutare, con rigore e senza concedersi a facili entusiasmi, l’impatto di una possibile «breccia» creatasi nel nostro sistema di organizzazione dei diritti patrimoniali [2]. Il tema, in estrema sintesi, è se esistano elementi sufficienti al fine di ritenere superabili alcuni limiti di carattere inderogabile dell’ordinamento positivo italiano, ostativi proprio rispetto ai due soli obblighi che la Convenzione si ritiene imponga ai sistemi “non trust” degli stati contraenti (riconoscere la separazione del trust fund e consentire la trascrizione della qualifica di trustee [3]). Chi manifesta dubbi fa presente che effetti segregativi ricondotti a siffatta figura non potrebbero, in ragione della sola portata precettiva propria della Convenzione, realizzarsi in virtù di un atto di autonomia, stante la formulazione della riserva di legge dell’art. 2740, comma 2, cod. civ.; inoltre, che da essa sola non potrebbe utilmente conseguire l’opponibilità dei predetti effetti mediante trascrizione, stante la rigorosa tipicità che governa gli istituti pubblicitari [4]. La questione è stata rinverdita da una non risalente pronuncia [5], in cui la S.C. ha ritenuto che in virtù dell’art. 2645-ter cod. civ. – disposizione che, come è noto, ha introdotto nell’ordinamento italiano una peculiare ipotesi di destinazione di beni a uno scopo, trascrivibile al sussistere dei presupposti ivi indicati e con effetti del pari delimitati dal legislatore – sia senz’altro possibile «offrire copertura normativa al trust interno, il cui unico limite è che con lo stesso si miri a realizzare interessi leciti, in quanto non vietati da norme imperative di diritto nazionale»; e ciò in quanto «l’atto di [continua ..]


2. L’atto di destinazione ex art. 2645-ter cod. civ. […]

Il complesso iter [10] che ha portato all’introduzione dell’art. 2645-ter cod. civ. prendeva in effetti le mosse dalla volontà legislativa, esplicita, di approntare una sorta di alternativa tipizzata al trust, sgombrando il campo dalle incertezze che ne minavano il successo e dando la stura alla conclusione di atti finalizzati ad assicurare interessi di sicura rilevanza anche sociale (la sistemazione anche transgenerazionale di assetti patrimoniali familiari a beneficio di soggetti deboli, ovvero la cura attuale e futura di soggetti personalmente e/o economicamente vulnerabili). La percezione ancora diffusa dell’incompatibilità del trust con il sistema giuridico italiano o, quantomeno, i dubbi non ancora definitivamente sciolti in merito alla sua utilizzabilità senza il rischio di vedere minata la tenuta degli assetti patrimoniali ad esso consegnati, veniva così risolta elaborando un istituto sì “nuovo”, ma al contempo in grado di fare appello a una categoria, quella della destinazione allo scopo, già dotata di punti di emersione nel tessuto dell’ordinamento positivo. Giova ricordare come l’espressione destinazione allo scopo vada tradotta, per assumere significato pregnante, sul piano degli effetti giuridici e coinvolga almeno tre aspetti: le regole di amministrazione, il potere di disposizione, la responsabilità patrimoniale [11]. Lo scopo impresso opera quale criterio di specializzazione della responsabilità patrimoniale e quale selettore di classi creditorie. In tal senso si discorre di patrimoni separati (in seno al medesimo titolare). Tuttavia, è noto che la questione condivide i predetti profili teorici anche nel caso in cui si abbiano patrimoni autonomi [12] (o, giusta più antica dizione, “collettivi”, in cui la destinazione allo scopo implica una autonoma considerazione di plurime componenti patrimoniali, che risultano assegnate – conferite – a una soggettività giuridica diversa da quella dei singoli titolari: è il modello del fondo comune associativo), o nel caso in cui le vicende prima evocate siano risolte attraverso il modello (linguistico, in primo luogo) di sintesi della persona giuridica (in cui la specializzazione patrimoniale opera in maniera perfettamente conseguente alla distinzione soggettiva assoluta tra conferente ed ente conferitario [13]). Orbene, è [continua ..]


3. e il trust: assimilazione?

Occorre ora rivolgersi al trust: esso non è punto riducibile alla sfera di operatività dei vincoli di destinazione, per il fatto che, come lucidamente evidenziato, «i vincoli di destinazione appartengono al campo giuridico (…) dei diritti sulle cose e più specificamente sulle cose che circolano con l’assi­stenza di regole di pubblicità», mentre «indiscutibile è che i trust appartengano al campo giuridico dei diritti di obbligazione» (con ulteriore differenza quanto al possibile oggetto, che soltanto nel caso del trust sono beni anche fungibili) [33]. Sono dunque indebiti i tentativi di reductio a categorie e concetti estranei alla tradizione giuridica in cui il trust (interno) deve comunque essere ricondotto, per l’ineli­minabile riferimento alla legge straniera che lo deve caratterizzare. In definitiva: nel trust si è di fronte a un fascio di rapporti obbligatori, di connotazione fiduciaria, che la tradizione giuridica e il contesto giurisdizionale in cui è fiorito (l’Equity) ha dotato di una tutela prevalentemente rimediale, flessibile e reipersecutoria (in quanto modellata sulla real property, per ragioni prevalentemente di tipo storico), senza che quest’ultima caratteristica precludesse – realizzando una metamorfosi della stessa real property – il riconoscimento ai beneficiari di una tutela sul valore rappresentato dal trust fund, dando la stura ai meccanismi surrogatori e di tracing in cui emerge in maniera eminente la sua efficacia [34]. I due istituti qui analizzati, in questa prospettiva, sembrerebbero allora effettivamente avvicinarsi, qualora la destinazione allo scopo di cui all’art. 2645-ter cod. civ. fosse mantenuta nell’alveo della natura obbligatoria del vincolo. Tuttavia, come anticipato, non ritengo che dalla disposizione di legge (l’art. 2645-ter), che rende opponibili rapporti obbligatori nei termini sopra tratteggiati, possa trarsi fondamento normativo per attribuire il crisma dell’opponibilità ai meccanismi di attuazione delle relazioni fiduciarie (come visto, del pari costituite da rapporti obbligatori) propri e caratterizzanti del trust. Il carattere differenziale che rimane decisivo è proprio quello che concerne la posizione dei beneficiari e, più in genere, la plasticità ed efficacia che il trust offre sotto il profilo dei rimedi (plasmati [continua ..]


4. In coda: la meritevolezza dell’interesse: “trasmigrazioni” dal 2645-ter al trust?

In chiusura tengo a precisare che la tesi giusta la quale, con riferimento all’atto di destinazione dei beni allo scopo, meritevolezza e liceità debbano essere equiparate, seppur autorevolmente sostenuta, non mi convince. La puntualizzazione, beninteso, è doverosa ma non sposta comunque l’asse della valutazione appena compiuta: non ritengo infatti che una meritevolezza rafforzata possa mutare la considerazione circa la «copertura normativa» del trust assicurato con il procedimento logico di cui sopra e che, come detto, ritengo fallace. La portata dell’art. 2645-ter cod. civ. non si misura in termini di innovazione radicale del sistema – in cui già la destinazione era emersa quale costante rinvenibile in una pluralità di specifiche ipotesi [35] – sotto il profilo effettuale (segnatamente con riferimento alla specializzazione patrimoniale). Quel che qui conta mettere in luce è piuttosto che, con la novella, si attribuisce un riconoscimento generalizzato della validità ed efficacia di un atto di autonomia privata che, pur per il tramite di quei meccanismi, stentoreamente descritti in termini di opponibilità ai terzi della destinazione medesima, appare contenutisticamente vuoto: una mera struttura, quale è a ben vedere lo stesso «contratto» di cui, dunque, non pare che la figura nuova (quale che sia la sua struttura, stante la norma di raccordo rappresentata dall’art. 1324 cod. civ.) possa costituire, sul piano disciplinare, un mero doppione [36]. Se l’atto in questione non può dunque dar la stura a forme di surrettizia elusione di disposizioni previste per altri negozi tipici di destinazione (si pensi al fondo patrimoniale), dovendo di contro essere individuato un suo proprio àmbito di operatività autonomo – e, forse, angusto – in cui siffatti vincoli obbligatori possano operare, con piena opponibilità ai terzi dei medesimi e con la separazione patrimoniale divisata dalla norma, ma senza che – sul piano circolatorio – all’autonomia privata sia consentito creare diritti reali diversi da quelli tipici [37]. Ne deriva come detta formula sia dotata di una pregnanza che non può essere tautologicamente ricondotta alla mera liceità, se si vuol far sì che essa spieghi una funzione selettiva reale. Selezione ulteriore rispetto, in primo luogo, al dato [continua ..]


NOTE