Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Riflessioni in tema di suicidio assistito ed autodeterminazione terapeutica: nota a Corte cost. n. 135/2024 (di Antonio Di Biase, Professore associato di Istituzioni di Diritto privato – Università degli Studi di Foggia)


Il contributo prende spunto da una recente sentenza della Corte Costituzionale del 18 luglio 2024, n. 135 per svolgere alcune riflessioni in tema di suicidio assistito ed autodeterminazione terapeutica, con particolare riferimento alla nozione di ‘trattamento di sostegno vitale’ ed alla sua rilevanza ai fini della punibilità o meno di condotte di aiuto al suicidio.

Reflections on assisted suicide and therapeutic self-determination: note to Constitutional Court n. 135/2024

The contribution takes inspiration from a recent ruling of the Constitutional Court of 18 July 2024, n. 135 to carry out some reflections on the subject of assisted suicide and therapeutic self-determination, with particular reference to the notion of ‘life-sustaining treatment’and its relevance for the purposes of whether or not assisted suicide conduct is punishable.

SOMMARIO:

1. La questione di legittimità costituzionale: la dipendenza del paziente da meccanismi di sostegno vitale. - 2. I precedenti costituzionali degli anni 2018, 2019 e 2022: suicidio assistito ed eutanasia attiva - 3. Il nuovo ed ultimo intervento della Corte costituzionale e la ritenuta perdurante legittimità del sistema - 4. Considerazioni a margine di un intervento non risolutivo - NOTE


1. La questione di legittimità costituzionale: la dipendenza del paziente da meccanismi di sostegno vitale.

Ancora un rilevante intervento della Corte costituzionale sul dibattuto tema della legittimità – o meglio, dei confini di legittimità – del c.d. suicidio assistito [1]. Questa la fattispecie, drammaticamente simile a tante: ad un soggetto viene diagnosticata una grave forma di sclerosi multipla, con patologia del sistema nervoso centrale e progressiva invalidità. I sintomi, dapprima lievi, si vanno nel tempo aggravando, con un peggioramento significativo delle sue condizioni di vita: il paziente manifesta dapprima difficoltà di deambulazione, poi necessita di una sedia a rotelle, successivamente non può più muoversi dal letto, con immobilizzazione degli arti inferiori e di quelli superiori, rimanendogli soltanto una residua capacità di utilizzazione del braccio destro. Il tutto, però, senza che il soggetto fosse sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, né che lo stadio di avanzamento della sua patologia richiedesse il ricorso a tali trattamenti. A questo punto il malato inizia a maturare il proposito di porre fine alla propria vita e tale convinzione diventa, col tempo, sempre più ferma e salda, tanto da determinare il soggetto a prendere contatto con un’associazione privata e con il suo rappresentante legale, il quale lo pone in rapporto con una clinica svizzera, abilitata, secondo la legislazione elvetica, a far assumere al malato un farmaco letale. L’associazione, a questo punto, si fa carico di alcuni costi, tra cui le spese di trasporto in Svizzera, con il noleggio di un furgone; questo viene guidato da due persone, anch’esse, probabilmente, facenti parte della predetta associazione. Nel paese elvetico il paziente – dopo essere stato visitato ed ascoltato da alcuni medici, anche per accertare la sussistenza dei presupposti giuridici per l’avvio della procedura di suicidio assistito, ed essersi confrontato con i propri familiari – decide e conferma la propria volontà di porre fine alla vita: così assume un farmaco letale e, dopo pochi minuti, muore. Il rappresentante legale dell’associazione e le due persone che hanno guidato il furgone al rientro in Italia si autodenunciano, com’è in uso tra i membri dell’associazione stessa. Il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Firenze – competente ratione loci – trovandosi di fronte ad una richiesta di archiviazione [continua ..]


2. I precedenti costituzionali degli anni 2018, 2019 e 2022: suicidio assistito ed eutanasia attiva

Come ampiamente noto, l’antecedente logico che ha costituito il substrato materiale per la pronuncia in commento è rappresentato dalla celeberrima sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 22 novembre 2019 [5], preceduta da una ordinanza di analogo contenuto [6], a mezzo della quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) [7] – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti – agevoli l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputi intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. Quattro dunque, a giudizio del Giudice delle leggi, le condizioni in presenza delle quali l’attività di aiuto al suicidio descritta dalla norma penale viene considerata lecita, ossia che: – la persona che ha inteso porre fine alla propria vita sia affetta da una patologia irreversibile, ossia incurabile; – la patologia sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, ritenute dal paziente intollerabili; – il soggetto sia tenuto in via a mezzo di trattamenti di sostegno vitale; – ciononostante resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli (da qui, sembra di capire, l’espressa esclusione del suicidio assistito dei malati psichiatrici). Tale decisione, dunque, pronunciandosi in un caso che aveva avuto notevole eco mediatico [8], circoscrive l’area della non punibilità dell’aiuto al suicidio alla sussistenza concorrente e simultanea dei quattro requisiti sopra indicati, in presenza dei quali, in estrema sintesi, il diritto alla vita “cede” rispetto alla libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese [continua ..]


3. Il nuovo ed ultimo intervento della Corte costituzionale e la ritenuta perdurante legittimità del sistema

A questo punto, esclusa la possibilità, de iure condido, di mettere in dubbio la rilevanza penale dell’eutanasia, cioè di condotte attive del personale sanitario volte a provocare direttamente la morte del paziente, il problema concreto affrontato dalla pronuncia in commento riguarda tutte le situazioni in cui il soggetto che chiede – in maniera consapevole, libera ed autonoma – l’aiuto a morire sia sì affetto da un patologia irreversibile fonte di gravi sofferenze psico-fisiche ritenute come tali intollerabili, ma non sia tenuto in vita da un meccanismo di sostegno vitale in senso stretto: è il caso ad esempio che ha dato luogo alla pronuncia in commento, in cui il paziente era stato colpito da una gravissima forma di sclerosi multipla, che lo aveva reso totalmente non autosufficiente e nell’impossibilità di muoversi dal letto ma non “dipendente” da una macchina. Ci si chiede dunque, e se lo è chiesto il Giudice che ha sollevato la questione di legittimità della norma, se sia costituzionalmente legittimo in questi casi negare un diritto a morire sulla base della sola circostanza – tutto sommato estrinseca rispetto agli obiettivi di tutela realizzati – della non necessità, per continuare a vivere, di alcun “supporto meccanico”, quale ventilazione, nutrizione, idratazione artificiale o altro: insomma, per farla breve, secondo questa impostazione non vi sarebbe valida ragione giustificativa per ammettere o negare il diritto a morire ad un soggetto affetto da grave ed irreversibile patologia, fonte di sofferenze insopportabili, sulla base del solo dato che questo soggetto, per continuare la propria vita (che egli rifiuta!), necessiti o meno di un macchinario per lo svolgimento delle funzioni vitali. Subordinare la liceità della condotta alla dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale creerebbe così una irragionevole disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri malati che versino, essi pure, in situazioni di sofferenza soggettivamente vissute come intollerabili, per effetto di patologie parimenti gravi ed irreversibili. La circostanza che la specifica patologia da cui il paziente è affetto pregiudichi, o no, le sue funzioni vitali, tanto da richiedere l’attivazione di specifici trattamenti di sostegno a tali funzioni, non sarebbe pertanto indicativa di una sua maggiore o minore [continua ..]


4. Considerazioni a margine di un intervento non risolutivo

In definitiva, la sentenza in commento, letta congiuntamente ai precedenti degli anni 2018 e 2019: – non riconosce tout court un diritto al suicidio, e men che meno un generale diritto di terminare la propria vita in ogni caso di sofferenza intollerabile, fisica e psicologica, determinata da una patologia irreversibile e non controllabile attraverso appropriate terapie palliative, bensì soltanto ritiene irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito a pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219/2017 in conformità all’art. 32, comma 2, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza; – afferma che la situazione del malato affetto sì da patologia irreversibile e da sofferenze intollerabili, ma non sottoposto ad un trattamento di sostegno vitale, non è corrispondente a quella del malato che versa nelle medesime situazioni ma è sottoposto al trattamento: solo quest’ultimo, e non il primo, può accedere al suicidio assistito. Ora, a prima battuta, e soprattutto se ci si sofferma alla lettura del dispositivo, viene spontaneo concludere che, con la pronuncia in commento, il Giudice delle leggi abbia integralmente confermato i propri precedenti orientamenti e rifiutato di estendere l’area della liceità delle condotte di aiuto al suicidio ai casi in cui il soggetto non sia mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Comprensibile, in tal senso, è la delusione di quanti, associazioni e singoli cittadini, speravano in un ampliamento del riconoscimento del diritto di morire, o addirittura in una espressa abrogazione delle relative fattispecie incriminatrici. A ben vedere, però, dietro questa apparente conferma si nasconde uno spunto di grande interesse: sebbene il requisito del trattamento di sostegno vitale rimanga formalmente come condizione per una richiesta di suicidio medicalmente assistito, la Corte, pur dichiarando espressamente di non voler estendere l’area di non punibilità dell’aiuto al suicidio oltre i limiti previsti dai suoi precedenti del 2018 e del 2019, in realtà però ottiene proprio questo risultato, attraverso una estensione – o, se si preferisce, una interpretazione autentica [continua ..]


NOTE