Prendendo spunto da una recente decisione delle Sezioni Unite (n. 5657/2023), il saggio sviluppa una critica all’approccio radicato in giurisprudenza che sovrappone il problema delle clausole monetarie a quello dei debiti di valore. Attraverso una rilettura della distinzione introdotta da Tullio Ascarelli, lo scritto ha l’obiettivo di dimostrare che i debiti con clausola monetaria, anche se illiquidi, non appartengono alla categoria dei debiti di valore, bensì dei debiti di valuta.
Moving from a recent decision of the Italian Corte di Cassazione (No. 5657/2023), the paper develops a critique of the case law approach to treat the monetary clauses as debts of value. Through a reinterpretation of the distinction originally introduced by Tullio Ascarelli, the paper aims to demonstrate that debts with a monetary clause, even if illiquid, do not belong to the category of debts of value, but rather to debts of currency.
1. Un percorso di rilettura de La moneta (1929) a partire dal problema delle clausole monetarie - 2. Tutti i debiti illiquidi sono debiti di valore? - 2.1. Il caso delle obbligazioni indicizzate (Sez. Un., 23 febbraio 2023, n. 5657) - 3. Le clausole monetarie e i “pericoli” della fuga dalla valuta statale - 3.1. I principi giuridici della moneta e il trionfo del Nominalwert - 3.2. La «forza di resistenza» del nominalismo di pagamento - 4. I debiti indicizzazioni sono debiti illiquidi di valuta - 5. Nuove monete o nuove misure del valore? - NOTE
Diverse sono le ragioni che inducono a rileggere un classico come La moneta di Tullio Ascarelli, a quasi un centenario dalla data di sua pubblicazione (1928). L’opera sviluppa una delle primissime teorie che mirano a sottrarre la moneta da connotazioni materiali e contingenti, per collocarla in una dimensione astratta e astorica [1]. La moneta rappresenta, invero, solo il primo momento di una lunga riflessione che Ascarelli conduce con coerenza [2], ma senza mai il timore di ritornare sul suo pensiero ogniqualvolta abbia ritenuto opportuno correggerlo o adattarlo al mutare dei tempi; dapprima, nella raccolta di saggi confluiti in Studi giuridici sulla moneta (1952) [3], in seguito con la pubblicazione, nel pieno della maturità, del trattato sulle norme dedicate all’obbligazione pecuniaria nel Commentario curato da Antonio Scialoja e Giuseppe Branca (1959) [4]. Già, tuttavia, la sua prima opera monografica restituisce una vastissima compagine di spunti e di problematiche di grande attualità [5]. Fra di esse, qualora si volesse stabilire un ideale primato fra le ragioni che collocano quest’opera fra i classici del diritto civile e commerciale [6], si avrebbe probabilmente buon gioco nel richiamare la costruzione dogmatica della distinzione fra debiti per i quali una somma di denaro costituisce l’oggetto dell’obbligazione (i cc.dd. debiti di valuta), da quelli in cui essa rappresenta invece il succedaneo nella corresponsione di un generico potere di acquisto perduto nel patrimonio del creditore e il mezzo di soluzione di un obbligazione che ha un diverso oggetto (debiti di valore) [7]. Tullio Ascarelli è fra i primi autori ad analizzare le diverse sfaccettature con le quali la moneta interagisce con l’obbligazione, potendone ora costituire l’oggetto (mensuratum), ora la misura del suo valore (mensura). Pur non trovando alcuna diretta corrispondenza all’interno del dettato codicistico, quella fra debiti di valuta e debiti di valore è una distinzione che ricorre con insistenza, da taluno sottoposta a critica [8], ma della quale mai si è realmente voluto o si è riusciti a fare a meno. La giurisprudenza, in primis, si è rivelata fin da subito persuasa da tale costruzione teorica, non sempre cogliendone fino in fondo l’impostazione dogmatica, ma facendone comunque salvo il risultato pratico [9]. Studi di [continua ..]
Tornando a riflettere sulla distinzione che più aveva caratterizzato il successo de La moneta, è lo stesso Autore a notare come, tanto in letteratura quanto nella giurisprudenza, la categoria dei debiti di valore spesso finisce per dar spazio a «due orientamenti diversi […] l’uno dei quali solamente può propriamente riportarsi all’identificazione di una categoria di debiti di valore, mentre l’altro a volte si riporta proprio alla negazione della problematica dei debiti di valore, a volte accomuna questa con altre limitandosi, senza distinzioni, a far capo all’inapplicabilità del principio del valore nominale della moneta nazionale» [13]. L’Autore riconduce l’equivoco alla mancanza di «una chiara consapevolezza del problema dei criteri di misurazione per la determinazione quantitativa della prestazione nell’obbligazione generica» [14], che sta alla base dell’erronea sovrapposizione tra la problematica che attiene ai predetti criteri con quella che investe la determinazione dell’oggetto della prestazione. L’esito di questo ragionamento è l’indiscriminata riconduzione sotto la categoria dell’«obbligazione di valore» di un’ampia congerie di figure eterogenee, che hanno come unico comune ed apparente denominatore il fatto di essere sottratte all’applicazione del principio del nominalismo di pagamento [15]. La commistione opera con particolare riguardo al rapporto fra debiti illiquidi [16], debiti di valore e debiti determinati per relationem a un parametro esterno – come nel caso delle clausole monetarie o quelle di arbitraggio [17]. Avendo ad oggetto una prestazione la cui entità va commisurata a un potere d’acquisto attuale, il debito di valore comporta giocoforza che, al momento del suo sorgere, l’esatta entità dell’obbligazione non possa essere identificata nel suo preciso ammontare: la prestazione dovrà prima essere oggetto di valutazione (aestimatio), per poi venir successivamente liquidata a un valore che corrisponda a quello del potere d’acquisto della valuta al momento del pagamento (taxatio) [18]. Allo stesso modo, la parametrazione a elementi esterni al rapporto non permette l’esatta identificazione dell’ammontare del debito al momento della sua nascita (t0), ma solo al ricorrere delle [continua ..]
La tendenza – segnalata da Tullio Ascarelli – a un indebito avvicinamento di problematiche distinte trova riscontro in una serie di autorevoli pronunce, segno che il travisamento del pensiero dell’Autore sembra ormai aver fatto breccia nel comune sentire della giurisprudenza [24]. Nel febbraio del 2023, le Sezioni Unite si sono pronunciate in merito alla validità di una clausola di parametrazione al cambio fra due valute – fra una valuta (l’euro) e una moneta (il franco svizzero), direbbe Ascarelli – contenuta all’interno di un contratto di leasing su un’unita immobiliare [25]; la sentenza è particolarmente nota, ma lo è per profili diversi rispetto a quello esaminato in questa sede [26]. Senza addentrarsi nei particolari del caso, il regolamento contrattuale impugnato prevede un meccanismo di “doppia indicizzazione” del canone dovuto dall’utilizzatore, la cui concreta determinazione dipende dall’andamento nel tempo di due variabili (indici) fra loro indipendenti [27]. La prima sfrutta l’indice di mercato LIBOR (London Interbank Offered Rate) CHF a 3 mesi, principale indice di riferimento per misurare la media del tasso interbancario a termine negoziato da un panel di istituti di credito sulla borsa londinese, relativamente a prestiti in franchi svizzeri. La seconda variabile non è legata a un benchmark di mercato, ma è costruita sotto forma di equazione di apporzionamento del rischio che ciascun contraente assume negli scenari di aumento o diminuzione del rapporto di cambio fra la valuta nazionale e quella straniera. Nella sostanza, questo meccanismo di calcolo consente al cliente di sfruttare le opportunità offerte da tassi su mercati valutari più favorevoli di quelli in euro, addossando però su quest’ultimo i rischi che l’operazione possa poi rivelarsi più onerosa di una interamente espressa in valuta “domestica”: ciò avviene in ipotesi di ribaltamento delle posizioni di forza fra le due monete nel corso di esecuzione del contratto [28]. In sintesi, l’utilizzatore sopporta per l’intero il rischio relativo all’apprezzamento della valuta elvetica sull’euro. L’impianto argomentativo della sentenza è talmente ricco di spunti da lasciare in secondo piano un passaggio che torna qui utile richiamare per esteso, poiché [continua ..]
Lo studio del fenomeno delle clausole monetarie rappresenta invero lo spunto alla base della riflessione di Ascarelli sulla distinzione fra debiti di valuta e di valore. Non è un caso che non solo i suoi primi lavori [36], ma anche molti di quelli successivi a La Moneta siano stati dedicati all’analisi di queste figure [37]. Nonostante la consapevolezza di aver di fronte a sé un fenomeno che presenta una chiara matrice comune, l’espressione «clausola monetaria» compare solo di rado nei lavori dell’Autore, che anche nelle sue ultime opere dimostra una netta preferenza nel separare l’esame delle problematiche cui le singole figure possono dar corso: d’altronde, l’esistenza di una serie di legislazioni valutarie speciali giustificava l’adozione di un approccio orientato al sindacato sulla validità o efficacia di specifiche tipologie di convenzioni, piuttosto che alla conduzione di un discorso di più ampio respiro [38]. La reazione dei privati all’instabilità della moneta statale assume i connotati di un fenomeno endemico già a partire dalla prima parte dello scorso secolo. Agli albori del Novecento, le clausole di parametrazione all’oro hanno vissuto il periodo di massima diffusione nelle prassi del commercio internazionale, per via dell’utilizzo di questo metallo come riferimento standard nella misurazione del valore reale della moneta e per il sistema dei cambi (gold parity standard rule) [39]. Anche sul piano interno, la vigenza di ordinamenti valutari a base aurea con carta moneta a corso legale convertibile rendeva l’oro l’unità più stabile del valore, in un periodo storico caratterizzato da picchi di iperinflazione nell’intermezzo fra i due conflitti mondiali [40]. Tuttavia, anche prima dell’abbandono degli Accordi di Bretton-Woods e la conseguente perdita di centralità dell’oro nel sistema del commercio internazionale [41], era già invalso l’uso di ulteriori tipologie di clausole, volte alla ricerca di un progressivo disancoraggio del valore della moneta dal prezzo di singole commodities, a favore di parametri che riflettessero l’andamento del potere d’acquisto del denaro in maniera sempre più astratta: dapprima mediante il riferimento a un paniere di beni o merci (basket), in seguito attraverso la sintesi di più [continua ..]
Il fermento suscitato da un periodo storico di forte instabilità spiega altresì il rinnovato interesse, durante la ricostituzione dei poteri sovrani assoluti in Europa a seguito della Rivoluzione, attorno agli aspetti filosofici, economici e giuridici del denaro [44], in un dialogo fra sistemi favorito dal ricorrere di problematiche in larga misura affini [45]. L’originalità dell’intuizione di Tullio Ascarelli, allineata con l’impostazione del dibattito dell’epoca, è quella di sviluppare l’analisi del nominalismo di pagamento nella disciplina dell’obbligazione pecuniaria a partire dai principi generali sulla moneta. L’impronta storicistica della sua indagine, caratteristica costante del metodo di Ascarelli [46], permette all’Autore di fare emergere come l’evoluzione del concetto di moneta sia contrassegnata da un progressivo distacco dal suo substrato fisico e dall’affermarsi delle due tradizionali funzioni di strumento di scambio e misura del valore [47]. Tale sdoppiamento permette di separare un concetto “economico” di moneta – ciò che risponde a una determinata funzione – da quello “giuridico” – ciò che necessita di un’apposita qualificazione da parte di una norma [48]. La separazione fra questi due piani non va rigidamente intesa, poiché l’esperienza dimostra che nella gran parte delle Zahlungsgemeinschaften vi sia una precisa corrispondenza fra i due: assai di rado la norma qualifica come denaro un qualcosa che non sia considerato come tale anche dalla comunità di riferimento. Il concetto di denaro acquisito dal diritto positivo è dunque quello di un bene destinato essenzialmente e generalmente allo scambio in seno a una comunità giuridica, considerato nella sua utilità circolatoria [49]. La misura del valore al quale va computato uno scambio avente a oggetto una prestazione pecuniaria ha rappresentato così il terreno fertile di un confronto fra diverse teorie classiche: quella che la parametrava al valore di un metallo prezioso (teoria dell’intrinseco), di altra moneta, all’effettivo potere d’acquisto [50], o al valore nominale. La storia moderna dimostra come, a partire dal XIX sec., pressoché ovunque il nominalismo – o «Numeralism», come suggerisce di chiamarlo Arthur [continua ..]
L’affermarsi del principio nominalistico lascia irrisolto il dubbio sorto in ordine al rilievo delle oscillazioni monetarie sui rapporti obbligatori ma, ancor prima, alla possibilità per i privati di far riferimento a misure del valore diverse da quelle fissate nell’importo nominale del debito. Il rigore manifestato dalle prime interpretazioni del nominalismo di pagamento si spiega dietro una pluralità di ragioni. Di là dalla già menzionata volontà di proteggere la sovranità sul proprio ordinamento monetario, il tradizionale sfavore manifestato dai legislatori nazionali e dalle autorità giurisdizionali di common [55] e civil law [56] verso la fuga dalla valuta statale si alimenta nel timore che il diffondersi di una moneta privata potesse dar luogo a incontrollabili spirali pro-inflattive [57]. A ciò fa inoltre eco un approccio culturalmente orientato al rifiuto di un qualsivoglia principio che avesse l’effetto di allocare sul creditore i rischi delle variazioni di valore del denaro, in quanto profondamente contrario alla matrice liberale dello Stato fra Otto e Novecento [58]. A lungo, dunque, al nominalismo di pagamento è stata riconosciuta una funzione essenzialmente dirigistica [59], per via della sua appartenenza a quell’intelaiatura di principi che definiscono l’ordine pubblico dello Stato. L’ordinamento francese ha rappresentato, sotto questo aspetto, l’esempio più nitido di un’applicazione del principio nominalistico ritenuta incompatibile con ogni possibilità di deroga da parte dei privati. La codificazione napoleonica ha profondamente risentito del pensiero di Pothier [60], il padre dei principi in materia di obbligazione pecuniaria confluiti all’interno del Code civil. Secondo Pothier, la moneta non possiede un valore intrinseco, poiché il suo unico valore è quello nominale che reca impresso nel conio e che esprime la volontà del principe. La conclusione che ne trae è che nel caso in cui si verifichino variazioni monetarie si dovrà tenere esclusivamente conto del valore nominale della moneta al tempo del sorgere del rapporto obbligatorio [61]. Il passaggio da un tasso di inflazione graduale – del tutto fisiologico nelle economie di stampo capitalistico – alle impennate iperinflazionistiche dovute ai costi dell’uscita dal primo [continua ..]
Solo in questo più ristretto ambito il principio nominalistico si pone, per Ascarelli, come fondamentale e inderogabile: quello cioè dei debiti pecuniari di valuta [72]. L’applicazione del criterio di riparto del rischio sancita dal principio nominalistico presuppone, di conseguenza che i) l’obbligazione abbia ad oggetto una prestazione generica – come Ascarelli ritiene essere quella di una somma di denaro – e che ii) essa sia riferita a una unità di misura legale del valore [73]. Insegna Ascarelli, che quando la valuta è unicamente considerata non come oggetto dell’obbligazione, ma come misuratore di valori, il principio nominalistico – per riprendere il gioco di parole – “perde di valore”. L’applicazione del principio nominalistico tradirebbe, in tal caso, la funzione per la quale è utilizzata la valuta, finendo così per trasformarla da misura a oggetto dell’obbligazione. Tale distinzione conduce allora al cuore del problema e alla proposta di sciogliere il fraintendimento in cui sembra incorrere l’indirizzo qui sottoposto a revisione critica. L’inapplicabilità del principio nominalistico avvicina il debito con clausola monetaria a quello di valore; i presupposti e le conseguenze di questa inapplicabilità, all’opposto, li allontanano. Entrambi si discostano difatti dall’elemento sub ii), poiché tanto nel debito con clausola monetaria, quanto in quello di valore l’unità di misura per la determinazione del contenuto dell’obbligazione è diversa da quella legale. L’una, tuttavia, poiché il parametro alternativo viene identificato in via convenzionale dalle parti; l’accordo fra debitore e creditore affida la determinazione del contenuto dell’obbligazione a un elemento esterno al rapporto, ritenuto il più idoneo a rappresentare le variazioni di valore di un determinato mercato e, così facendo, a distribuire il rischio di sue oscillazioni in modo ottimale. L’altra, invece, poiché la prestazione dovuta dal creditore consiste nell’integrare il suo patrimonio di un potere d’acquisto non ancora ottenuto o reintegrarlo di uno perduto, attraverso la corresponsione di una somma di denaro o di altra cosa. Da ciò si può inoltre intuire che, tendenzialmente, le obbligazioni di valore avranno fonte legale, [continua ..]
La riflessione contenuta nelle opere di Tullio Ascarelli attorno ai problemi della misura del valore disvela la sua piena attualità in un contesto nel quale lo stesso concetto di «moneta» sembra oramai assumere contorni sempre più sfumati. Il denaro ha storicamente rappresentato uno dei principali crocevia nell’interazione tra il diritto pubblico e quello privato [82], poiché è attraverso la moneta che si reifica la sovranità dello Stato negli scambi fra privati [83]. Per via autoritativa, lo Stato riconosce il corso legale a una moneta, attribuendole così la qualità di liberare il debitore dal vincolo obbligatorio mediante il pagamento. Tale caratteristica, come suggerisce Paolo Grossi, impone di trattare la moneta come una situazione collocata sì nella disponibilità delle parti contraenti, ma relativa comunque a un oggetto di rilevanza pubblica [84]. Mediante la scelta dell’unità di misura, le parti di un rapporto obbligatorio sono così in grado di sostituirsi al potere del sovrano sulla moneta, ovvero di sostituirlo con quello esercitato dall’elaboratore del parametro [85]. Tale rilevanza pubblicista nella determinazione dell’unità di misura del valore del rapporto obbligatorio è alla base, d’altronde, di tutti quei tentativi dell’autorità statale di limitare l’autonomia privata in ambito monetario, su cui ci siamo diffusamente intrattenuti. Eppure, la tendenza al moltiplicarsi di monete e di unità di misura del valore, di denaro “governabile” e di denaro “privato”, sembra, sotto certi aspetti, avvicinare l’attuale sistema monetario più a quello conosciuto dal giurista medioevale che al sistema del monopolio statale sull’ordinamento valutario, che ha caratterizzato per larghi tratti il XX e il XXI sec. Il potere di governare la valuta è oggi distribuito su di un’architettura multilivello, è condiviso nell’ordinamento euro-unitario per garantire la stabilità dei valori e l’allocazione della ricchezza. Alla Banca Centrale Europea è demandato il compito di garantire la stabilità dei prezzi e il controllo sull’inflazione [86], che han carattere prioritario rispetto agli altri obiettivi fissati all’interno dei Trattati [87]. Questo potere, al contempo, si trova a [continua ..]