Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Fast fashion. Problemi giuridici (di Maria Francesca Tommasini, Professoressa ordinaria di Diritto privato – Università degli Studi di Messina)


La “fast fashion” (“moda veloce”) indica un particolare settore della moda caratterizzato dalla velocità di progettazione dei capi di abbigliamento e dalla varietà ed economicità della loro produzione. Le performance di sostenibilità ambientale e sociale delle imprese del tessile sono indicate nelle etichette e nelle certificazioni green accessibili in via immediata dal consumatore-acquirente. Ove questi aderisca all’offerta ed acquisti il capo-moda occorre verificare cosa accada qualora le informazioni riportate siano non veritiere o non corrette.

Fast fashion. Legal problems

Fast fashion” is a particular sector of fashion characterised by the speed of design and the low cost of production. Green labels and certifications indicate the environmental and social sustainability performance of companies and are available to the consumer. The aim of the work is to verify what happens if the information reported on the labels is not true or incorrect.

SOMMARIO:

1. Fast fashion. Dagli Accordi multifibre all’International accord for health and safety in the textile and garment industry - 2. Il sistema europeo per la sostenibilità delle filiere produttive. Il Corporate sustainability due diligence - 3. La responsabilizzazione socio-ambientale delle imprese in Italia. Le reti-contratto della moda - 4. La riforma costituzionale e il ruolo proattivo svolto dalle imprese del fashion. I beni “confrontabili” e gli obblighi informativi gravanti sui produttori - 5. Etichette ingannevoli e tutela a doppio livello. I ricorsi collettivi dei consumatori ed i provvedimenti dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato - 6. La tutela individuale degli interessi lesi dalla non veridicità delle informazioni. L’evoluzione del modello contrattuale e il rimedio della nullità - 7. Prospettive future per una nuova sostenibilità - NOTE


1. Fast fashion. Dagli Accordi multifibre all’International accord for health and safety in the textile and garment industry

Il termine inglese “fast fashion” (letteralmente “moda veloce”) indica un particolare settore della moda caratterizzato dalla velocità di progettazione dei capi di abbigliamento e dalla varietà ed economicità della loro produzione [1]. Questo modello di produzione, e quello ancor più distorto dell’ultra fast fashion [2], contraddistinto dalla drastica riduzione del lead time [3] che ha reso la moda democratica e accessibile tutti [4] hanno, però, un enorme impatto sull’ambiente poiché richiede una grande quantità di risorse naturali [5] e genera una spasmodica produzione di rifiuti tessili [6]. Oltre alle conseguenze negative sull’ambiente, questi fenomeni impattano anche sui diritti sociali perché le pressioni esercitate sui lavoratori al fine di minimizzare i costi di produzione e soddisfare una domanda rivolta al minor prezzo hanno come conseguenza lo sfruttamento della manodopera, le basse retribuzioni, la precarietà delle condizioni lavorative [7] e l’impiego di lavoro minorile [8]. Sulla base di queste evidenze risulta chiaro che il fast fashion non è né sostenibile né etico [9]. Sin dai primi anni ’70 del secolo scorso, per arginare l’espandersi del fenomeno, sono stati stipulati tra i paesi in via di sviluppo, la Comunità Europea e gli Stati Uniti i primi Accordi multifibre (MFA) allo scopo di limitare il tasso di crescita delle esportazioni dei prodotti tessili dai paesi sottosviluppati verso quelli più industrializzati. Più volte ridefiniti per evitare il crollo della produzione dell’industria tessile [10], a partire dal 1° gennaio 1995, gli Accordi Multifibre sono stati sostituiti dall’Agreement on Textiles and Clothing (ATC) [11], un accordo di transizione che rispondeva all’obiettivo di agevolare entro un decennio (dal 1995 al 2005) il passaggio da un complesso sistema di restrizioni quantitative dell’importazione ad una piena liberalizzazione del settore [12]. L’accordo lasciava ai paesi importatori la libertà di decidere i prodotti da liberalizzare in ciascuna fase, con la conseguenza che i prodotti meno sensibili, non soggetti a forte concorrenza, sono stati liberalizzati per primi, mentre nell’ultima fase, si è realizzata la liberalizzazione degli articoli più concorrenziali.

La mancanza di ogni controllo ha, però, reso il fenomeno sempre più pericoloso tanto da sfociare il 24 aprile 2013 nella tragedia del Rana Plaz in Bangladesh [13]. Un edificio commerciale di otto piani occupato da fabbriche di abbigliamento è crollato improvvisamente causando la morte di circa 1.134 lavoratori del tessile che stavano producendo capi per famosi brand di moda usa e getta [14]. A seguito della tragedia, alcuni marchi globali si sono riuniti per firmare l’accordo “Fire and building safety in Bangladesh” (Bangladesh Accord) atto a garantire ai lavoratori un ambiente di lavoro più sicuro e ad assicurare loro maggiori tutele [15]. L’accordo sottoscritto nella sua prima stesura il 15 maggio 2013 da trentuno brand della moda, è stato rinnovato nel 2018 con l’adesione di centonovanta griffe internazionali. Il 1° settembre 2021 è entrato in vigore l’International accord for health and safety in the textile and garment industry [16] che, sostituendo il Bangladesh Accord, ha esteso gli obblighi di sicurezza a qualsiasi luogo di lavoro e si è impegnato a coinvolgere nel programma anche altri Paesi [17].


2. Il sistema europeo per la sostenibilità delle filiere produttive. Il Corporate sustainability due diligence

Di là dalle iniziative di sostegno per lo sviluppo di pratiche di produzione sostenibile adottate nei paesi d’oltreoceano [18] e in quelli del vecchio continente [19], facendo seguito all’UN Alliance for Sustainable Fashion [20], il Parlamento Europeo, il 24 aprile 2024, ha approvato la Proposta di Direttiva 2024/1760/UE (Corporate sustainability due diligence directive – CSDDD) [21] per regolamentare le diverse forme di responsabilità delle imprese in relazione al loro impatto ambientale, sociale e di governance (ESG), con particolare attenzione alle catene di fornitura (supply chains). Con la CSDDD che si inserisce, al fianco della CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive[22] e del Regolamento sulle catene di fornitura a deforestazione zero [23], tra le misure del Green Deal (Patto verde europeo) [24], l’UE ha suggerito agli Stati di “attuare processi globali di attenuazione degli impatti negativi sui diritti umani e degli impatti ambientali negativi nelle catene del valore, integrare la sostenibilità nei sistemi di governo societario e di gestione e inquadrare le decisioni aziendali in termini di diritti umani, impatto climatico e ambientale, oltre che in termini di resilienza della società a più lungo termine” [25]. In questa direzione l’UE ha imposto alle società europee ed extraeuropee partecipanti alle supply chains globali (filiere globali) [26] di adottare procedure di due diligence (dovuta diligenza) all’interno delle rispettive policies aziendali; identificare gli avversi impatti effettivi o potenziali; prevenire e mitigare gli impatti negativi e portare a termine ovvero minimizzare gli stessi; adottare e mantenere procedure di segnalazione; monitorare l’efficacia delle loro policies di due diligence e delle azioni intraprese; rendere pubbliche le iniziative di due diligence adottate (art. 5 della Proposta).

A questa diligenza “dovuta” [27] si aggiunge per le società a più alto rischio (come quelle del comparto tessile, agricolo, edile e estrattivo) con almeno mille dipendenti e un fatturato pari o superiore a 450 milioni di euro [28], l’obbligo di adottare un piano che renda compatibile il modello di business e di strategia aziendale con la transizione verso un’economia sostenibile e con i limiti al riscaldamento globale posti dall’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici [29]. La responsabilizzazione delle grandi società non è limitata all’attività da esse esercitata in via diretta ma copre anche quella dei partners commerciali legati direttamente alle loro operazioni, ai loro prodotti e/o servizi (art. 6 della Proposta di Direttiva) [30]. In particolare la Proposta prevede che le società predispongano e attuino, previa consultazione con i portatori di interesse, un piano operativo di prevenzione con scadenze ragionevoli e precise per gli interventi e con indicatori qualitativi e quantitativi per misurare i progressi; chiedano a ciascun partner commerciale con il quale intrattengono rapporti d’affari il rispetto del codice di condotta della società e, se necessario, l’adozione di un piano operativo di prevenzione; offrano sostegno mirato e proporzionato alla PMI (Piccole Medie Imprese) con le quali abbiano un rapporto d’affari consolidato qualora il rispetto del codice di condotta o del piano operativo di prevenzione ne metta a repentaglio la sostenibilità economica; collaborino con altri soggetti, se del caso anche per aumentare la propria capacità di arrestare l’impatto negativo, in particolare se nessun altro intervento risulta idoneo o efficace (art. 7). Ove le società, in sede di reclamo [31], non riescano a dimostrare di aver adottato la dovuta diligenza, esse sono responsabili per i danni derivanti da un impatto negativo “che avrebbe dovuto essere individuato, prevenuto, attutito, arrestato o minimizzato nell’entità” ottemperando adeguatamente agli obblighi previsti (art. 22). L’individuazione delle sanzioni irrogabili (nel rispetto dei consueti principi di effettività, proporzionalità e deterrenza), seppur rimessa alla discrezionalità degli Stati (art. 20, par. 1), deve essere calcolata in rapporto al fatturato delle società e la decisione con cui viene esercitata la potestà sanzionatoria deve essere resa pubblica (art. 20, par. 4) [32].

La responsabilità civile delle società non esclude il fatto che esse, comunque, possano essere chiamate a rispondere penalmente per il reato di “ecocidio” [33] e per la commissione di “crimini contro l’umanità” [34]. Il problema è che manca ad oggi, sia a livello europeo [35] che internazionale [36], un organo giurisdizionale, simile alla Corte africana di giustizia e dei diritti umani [37], competente a pronunciarsi sui reati d’impresa commessi dalle multinazionali. La Corte Penale Internazionale (ICC), nota per avere condannato i responsabili del land grabbing in Cambogia [38], è competente, infatti, solo per i reati commessi da persone fisiche [39].


3. La responsabilizzazione socio-ambientale delle imprese in Italia. Le reti-contratto della moda

In Italia i problemi legati alla sostenibilità sociale e ambientale delle imprese sono stati oggetto di numerosi interventi normativi [40]. Tra tutti, però, avuto riguardo al comparto moda, risulta di particolare rilevanza la legge n. 33 del 9 aprile 2009 [41] che ha previsto la possibilità per le imprese, anche distanti geograficamente tra loro, di costituirsi in reti-contratto [42] per rendere sostenibile la produzione, per svolgere funzioni che individualmente non sarebbero state capaci di realizzare a causa di motivi tecnici o economici [43] e per evitare le gravose modalità di riparazione del danno ambientale previste nel Codice dell’ambiente [44]. Requisito imprescindibile per la costituzione della rete è che le imprese abbiano lo stesso gruppo di clienti o realizzino prodotti complementari e interdipendenti (abiti, calzature e accessori moda) [45]. A ciò deve aggiungersi la circostanza che le attività della rete devono rientrare nell’oggetto sociale delle imprese aderenti (ad esempio produzione e commercializzazione di articoli d’abbigliamento in genere) con la conseguenza che il contratto non può essere sottoscritto da quelle imprese il cui oggetto non ha pertinenza alcuna con le attività e gli obiettivi della rete [46]. Le imprese che aderiscono alle reti del fashion [47], in particolare, si prefiggono la promozione di migliori condizioni di lavoro e pratiche di lavoro etiche; l’efficientamento energetico dei processi produttivi alla luce, principalmente, delle nuove tecnologie e della valorizzazione di fonti alternative; l’ecosostenibilità dei capi prodotti e la realizzazione di attività di riciclo e/o riuso dei capi dismessi o invenduti [48]. Per la realizzazione degli obiettivi suddetti, le imprese aderenti, previo accesso a specifiche procedure [49], possono usufruire di finanziamenti agevolati e/o di contributi a fondo perduto [50].


4. La riforma costituzionale e il ruolo proattivo svolto dalle imprese del fashion. I beni “confrontabili” e gli obblighi informativi gravanti sui produttori

L’accresciuta sensibilità verso i temi della sostenibilità risulta fondamentale nella legge di riforma costituzionale n. 1/2022 [51] che, come accaduto in molti altri Paesi [52], ha posto le basi per una maggiore responsabilizzazione delle imprese e per l’integrazione delle tematiche ambientali nelle scelte di mercato. La legge, in particolare, nel riformare l’art. 9, ha introdotto la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi come principio fondamentale e valore costituzionalmente protetto [53] e ha individuato, quali destinatarie della tutela, le “generazioni presenti e future”. Se l’art. 9, in linea con quanto previsto nel Rapporto Brundtland del 1987 [54], investe della tutela dell’ambiente i pubblici poteri, l’art. 41, parimenti riformato, allarga la prospettiva al ruolo dei privati. In particolare, mentre il secondo comma prevede che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno, oltre che alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, altresì “alla salute” e “all’ambiente”, il terzo comma amplia – con l’espresso riferimento ai “fini ambientali” – il novero degli obiettivi cui l’attività economica deve essere indirizzata e coordinata dalla legge [55]. La riforma costituzionale, dunque, lungi dal volere semplicemente imporre ai privati una internalizzazione delle esigenze ambientali nel contesto della attività di impresa, tende, piuttosto, ad orientarne lo scopo che non è più solo la massimizzazione del profitto ma include la sostenibilità e/o la responsabilità sociale [56]. Con la conseguenza che la “sostenibilità ambientale e sociale” diventa elemento propulsivo per un nuovo tipo di sviluppo imprenditoriale basato sulla centralità integrata dell’uomo e della natura e sull’offerta di beni e/o servizi ecologicamente compatibili [57].

Non è un caso, infatti, che negli ultimi anni, sempre più imprese del fashion abbiano optato per la produzione e la vendita di abiti ecocompatibili, conseguendo vantaggi in termini di consapevolezza del marchio e rispondendo, così, alle aspettative ambientali e sociali dei consumatori [58]. Poiché, però, gli abiti ed i prodotti del fashion sono beni prevalentemente “confrontabili” [59], cioè portatori di qualità che possono essere accertate dai consumatori prima dell’acquisto, è necessario che i produttori ne rendano conoscibili le caratteristiche fornendo informazioni adeguate “alla tecnica di comunicazione impiegata ed espresse in modo chiaro e comprensibile, tenuto anche conto delle modalità di conclusione del contratto o delle caratteristiche del settore, tali da assicurare la consapevolezza del consumatore” (art. 5, comma 3, codice del consumo) [60]. In questo senso l’etichetta, divenendo un tutt’uno col bene, svolge una funzione informativa e consente al consumatore di compiere scelte consapevoli. In ottemperanza a quanto previsto dall’art. 5, comma 2, codice del consumo, quindi, le etichette informative applicate sui capi d’abbigliamento [61], oltre ai riferimenti del produttore (nome o marchio commerciale) [62], devono obbligatoriamente riportare l’indicazione della composizione del capo [63] (e l’eventuale presenza di materiali o sostanze che, ai sensi dell’art. 6, lett. d, codice del consumo, possono arrecare danno all’uomo, alle cose o all’ambiente), la provenienza del prodotto [64] e la conformità in materia di sicurezza [65]. Per le calzature l’etichetta recante le suddette informazioni, ai sensi del d.m. dell’11 aprile 1996 [66], deve essere apposta su almeno una delle due scarpe; gli estremi indicanti il produttore devono essere stampati sulla scatola e le informazioni sui componenti del prodotto devono essere contenute in un cartello esposto nel luogo di distribuzione e vendita. In caso di vendita on line, tutte le indicazioni suddette devono essere inserite nei cataloghi, nei prospetti, sugli imballaggi, sulle etichette e sui contrassegni.

Unitamente alle informazioni obbligatorie, il produttore può integrare l’etichetta con indicazioni facoltative relative alla manutenzione del prodotto [67] o con eventuali informazioni c.d. “qualificative” che attengono alle caratteristiche di qualità della materia prima e/o del processo produttivo [68]. Ove il controllo preventivo [69] operato dagli organi preposti (Camere di Commercio, polizia locale, Guardia di Finanza e polizia giudiziaria) non dia esito positivo, il fabbricante (o l’importatore) ma anche il distributore possono incorrere nelle sanzioni previste dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 190 del 15 novembre 2017 [70]. Un sistema di controlli preventivi capace di evitare il contatto tra il bene-moda che non abbia le qualità di sostenibilità ambientali e sociali attese e il consumatore, si giustifica principalmente a tutela dell’interesse della collettività per evitare che l’autonomia contrattuale travalichi i limiti entro i quali la protezione delle situazioni soggettive delle parti appare meritevole di tutela [71]. Ciò, ovviamente, non esclude il fatto che, in questo modo, venga tutelato anche l’interesse individuale (del consumatore) ma come aspetto riflesso della funzione primaria svolta dalle norme.


5. Etichette ingannevoli e tutela a doppio livello. I ricorsi collettivi dei consumatori ed i provvedimenti dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato

Poiché le informazioni contenute nelle etichette dei capi moda condizionano significativamente le scelte e gli acquisti dei consumatori [72] è necessario che esse siano rispondenti al vero, affidabili e scientificamente verificabili. A fronte, però, delle numerose etichette riportanti informazioni deontologicamente corrette e fondate su dati affidabili e comprovati, ve ne sono altre in cui la declamata sostenibilità non trova riscontro nelle caratteristiche dei beni-moda offerti dalle imprese. Dall’apprezzabile tentativo di tutelare l’ambiente e di creare e commercializzare produzioni sostenibili si è ben presto arrivati alla sua estremizzazione e degenerazione, sfociando in quel fenomeno, nato in America intorno alla prima metà degli anni ’80 del secolo scorso [73], e conosciuto come greenwashing [74]. Qualunque sia la modalità attraverso la quale esso si declini [75], nell’attesa di una definizione a livello europeo di un quadro normativo regolatorio armonizzato, il legislatore italiano non ha sviluppato specifiche disposizioni a disciplina degli oneri di veridicità e non ingannevolezza dei messaggi comunicazionali a tematica ambientale. In questo ambito la principale fonte applicabile in via interpretativa è il Codice del consumo [76]. In particolare il Titolo III, ridisegnato dal d.lgs. n. 146 del 2 agosto 2007 [77], individuando le pratiche commerciali tra professionisti e consumatori tra le quali si fa rientrare “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto” (art. 18), vieta le pratiche commerciali scorrette, cioè quelle che siano contrarie ai principi di diligenza professionale, correttezza e buona fede (art. 2, comma 2, lett. c-bis) che il consumatore medio può esigere dall’imprenditore [78] e che, in quanto tali, falsino o siano idonee a falsare, in maniera apprezzabile, “la libertà del consumatore o di un gruppo di consumatori di assumere una consapevole decisione di natura commerciale” [79]. Il legislatore, in particolare, vieta due tipologie di pratiche economiche scorrette [80]: quelle aggressive che “mediante molestie o coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento”, siano idonee a limitare la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio e lo inducano “ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso” (art. 24 del codice del consumo) [81] e quelle ingannevoli (art. 20, comma 4) che, invece, sono tali perché inducono in errore il consumatore circa la natura del prodotto, le sue caratteristiche principali, la sua composizione, il metodo di fabbricazione, i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto, la natura del processo di vendita (art. 21, comma 1, codice del consumo) [82]. Proprio tra le dichiarazioni ingannevoli possono farsi rientrare le etichette che ingenerino nel consumatore una “aspettativa ambientale” non veritiera [83]; quelle che omettano informazioni circa la sostenibilità ambientale di un bene o di un servizio (art. 22 del codice del consumo) [84]; quelle che esibiscano una certificazione [85] o un marchio di qualità ecologica [86] senza aver ottenuto la necessaria autorizzazione (art. 23 del codice di consumo); quelle che non ottemperino al rispetto degli impegni contenuti nei codici di condotta (art. 21, secondo 2, sub b, codice di consumo) [87].

Di fronte alle pratiche commerciali ingannevoli e, quindi, anche di fronte alle false informazioni fornite dai produttori attraverso le etichette apposte sui capi moda, la tutela dei consumatori si sviluppa su un doppio livello: collettivo e individuale. A difesa degli interessi di massa compete all’Autorità Garante della concorrenza e del mercato sanzionare questo tipo di pratiche (art. 27 del codice del consumo) [88]. In particolare il legislatore attribuisce all’Autorità Garante della concorrenza e del mercato (che può agire d’ufficio, sollecitata da singoli consumatori o dalle associazioni di consumatori) [89] il potere di inibire la prosecuzione delle pratiche commerciali scorrette (comma 2), di sospenderle provvisoriamente ove sussistano particolari motivi d’urgenza (comma 3) ovvero di ordinare, anche in via cautelare la rimozione di iniziative o attività destinate ai consumatori che integrano gli estremi di una pratica commerciale scorretta (comma 3-bis). In caso di inottemperanza senza giustificato motivo, l’Autorità Garante può applicare le sanzioni pecuniarie previste dal comma 4 [90].


6. La tutela individuale degli interessi lesi dalla non veridicità delle informazioni. L’evoluzione del modello contrattuale e il rimedio della nullità

La tutela del mercato che presuppone una protezione preventiva di carattere legislativo, amministrativo e di pubblici controlli esercitati dalle Autorità competenti, non esclude l’applicazione delle disposizioni normative in materia contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità ed efficacia del contratto (art. 19, comma 2, codice del consumo) [91].

Innanzitutto non può non prendersi atto del fatto che si è assistito ad una graduale riduzione delle vendite dei capi moda nei tradizionali negozi di abbigliamento ove imperava la contrattazione verbale, in favore della concentrazione degli scambi nei centri commerciali o nei grandi store in frachising, ove dominano i “gesti muti” [92] dell’apprensione del prodotto dagli scaffali e dagli stand seguita dal dovuto pagamento alla cassa. Si tratta dei cc.dd. “contratti senza accordo” [93] che, tuttavia, danno luogo, sia pure di fatto, a rapporti contrattuali stante il significato sociale dei comportamenti messi in opera dalle parti da intendere quale proposta e accettazione [94]. Nella specie le informazioni (obbligatorie e facoltative) veicolate attraverso l’etichetta assumono, il valore di contenuto della proposta contrattuale accessibile in via immediata al consumatore-acquirente [95]. Ove il consumatore aderisca alla proposta e acquisti il capo-moda, occorre verificare cosa accada qualora il contenuto dell’etichetta non sia veritiero. Sul punto, in considerazione del fatto che le informazioni fornite possano avere natura obbligatoria o facoltativa, parte della dottrina [96], ha distinto le due ipotesi. Se nelle etichette non vengano inserite le informazioni obbligatorie o queste non siano veritiere, il contratto, in virtù della formulazione specifica della elencazione dettata dal legislatore all’art. 5, comma 2, codice del consumo, è nullo (art. 1418 cod. civ.) per mancanza del requisito di determinatezza dell’oggetto (art. 1346 cod. civ.) [97]. Al contrario se l’etichetta riporti indicazioni facoltative false il contratto è annullabile per errore (art. 1428 cod. civ.) [98] o per dolo (art. 1439 cod. civ.) [99]. A fronte di una tale ipotesi ricostruttiva, criticamente può osservarsi, però, che, proprio in quanto l’intero contenuto dell’etichetta incida sul contenuto del contratto, non è possibile distinguere tra indicazioni obbligatorie e facoltative. Dal momento in cui il produttore, infatti, ha scelto liberamente di inserire nell’etichetta anche informazioni facoltative, esse devono considerarsi elementi essenziali e parte integrante del contratto con la conseguenza che, qualora le informazioni non rispettino i caratteri della non decettività, il contratto è nullo. Il problema è, semmai, capire quale tipo di nullità possa essere comminata al contratto concluso sulla base di informazioni mendaci. Il riferimento può essere, innanzitutto, alla nullità virtuale [100] e ciò in considerazione del fatto agli obblighi informativi contenuti nell’etichetta possa essere riconosciuto valore imperativo idoneo a far comminare, in caso di loro violazione, la sanzione della nullità [101]. Sul punto giurisprudenza ha, infatti, affermato che ai fini dell’applicazione dell’art. 1418 cod. civ., le norme contenenti un divieto “possono essere considerate imperative, anche in difetto di una espressa sanzione civilistica di invalidità, purché siano dirette alla tutela di un interesse pubblico generale, ravvisabile se il divieto ha carattere assoluto, senza possibilità di esenzione dalla sua osservanza per alcuni dei destinatari della norma” [102]. La circostanza che le informazioni relative alla sostenibilità socio-ambientale dei capi moda siano preordinate alla tutela di un interesse pubblico generale quale può essere la salute umana o la sicurezza e qualità dei prodotti (art. 2 del codice del consumo), fa certamente propendere per il carattere imperativo delle norme. L’imperatività delle regole, l’omissione delle informazioni obbligatorie o la mendacità sia di queste che di quelle volontarie (artt. 21, 22 e 23 del codice del consumo) consente di poter ritenere applicabile la nullità virtuale del contratto.

In questa prospettiva il contratto concluso sulla base di informazioni non veritiere, può considerarsi altresì nullo, ai sensi dell’art. 1325 cod. civ., per mancanza di uno dei requisiti essenziali del contratto e nella specie del consenso che, in questo caso, sarebbe privo della doverosa caratteristica della consapevolezza. L’acquirente-consumatore, infatti, ai sensi degli artt. 2, comma 2, lett. c, e 22 del codice del consumo, ha diritto ad un’adeguata informazione al fine di poter esprimere un “consenso consapevole” (artt. 5; 18, lett. e ed l; 22 e 23, lett. g). Nei rapporti tra professionista e consumatore, cioè, la validità dell’impegno e la conclusione del contratto non possono prescindere da un consenso qualificato frutto di una adeguata informazione. E, nella direzione di rileggere la disciplina del contratto alla luce delle istanze consumeristiche, si è mosso il giudice di legittimità affermando che “determina nullità del contratto per difetto di accordo, in forza del combinato disposto degli articoli 1418, comma 2, e 1325, comma 1, cod. civ. la mancanza di informazioni che riguardino la natura o l’oggetto del contratto” [103]. Tale conclusione appare, peraltro, coerente anche con la teoria dell’oggetto del contratto atteso che l’individuazione di esso dovrebbe avvenire concretamente attraverso un processo sul quale l’ordi­namento esprimerà la propria concreta valutazione [104]: in questo senso anche le indicazioni volontarie in quanto descrittive dell’oggetto hanno la funzione di concorrere alla determinazione di un consenso consapevole.

Indipendentemente dalla soluzione cui si voglia aderire, il mercato e, quale sua componente, il singolo rapporto contrattuale impongono una tutela incisiva ed assoluta. La nullità (testuale e/o virtuale) del contratto, in questo senso, diventa regola di chiusura del sistema protettivo.


7. Prospettive future per una nuova sostenibilità

Se, dunque, per un verso, le etichette e le certificazioni green rispondenti ai requisiti di affidabilità, comparabilità e verificabilità, misurano le performance di sostenibilità ambientale e sociale delle imprese del tessile [105] e riducono il rischio di un marketing ambientale fuorviante (greenwashing), in una visione più ampia di sistema, una corretta informazione ambientale, promuovendo e stimolando nel pubblico – prima a livello di attenzione e poi di rievocazione mnemonica [106] – “un’attesa, un’aspettativa e una propensione ripetitiva dei suoi atti d’acquisto” [107], permette di innescare un meccanismo virtuoso di tutela dell’ambiente anche nell’interesse delle generazioni future (art. 9 Cost.). In questo contesto si inserisce il recente Regolamento Ecodesign o Regolamento ESPR (Ecodesign for Sustainable Products Regulation[108] adottato il 27 maggio 2024 dal Consiglio Europeo che introduce sei obiettivi ambientali volti a promuovere una produzione più sostenibile. Nello specifico essi si sostanziano nella riduzione dell’uso di risorse naturali durante il processo di produzione; nella diminuzione delle emissioni di sostanze nocive e di CO2; nell’estensione del ciclo di vita dei prodotti; nell’utilizzo sostenibile dell’acqua e nella promozione dell’economia circolare. Il Regolamento sulla progettazione ecocompatibile, oltre che indicare le modalità di fabbricazione di prodotti ecocompatibili [109], suggerisce quali debbano essere le informazioni sulla sostenibilità ambientale che i produttori devono fornire. A seconda della tipologia di prodotto [110], infatti, le informazioni devono riguardare il consumo energetico, il contenuto riciclato, la presenza di sostanze tossiche, la durata, la riparabilità, la disponibilità di parti di ricambio, la riciclabilità. Secondo un piano di lavoro prestabilito [111] il Regolamento introduce, poi, l’uso di un passaporto digitale (Digital Product Passport, DPP) che deve raccogliere tutte queste informazioni per renderle accessibili al consumatore. Il passaporto digitale del prodotto obbligatorio per gli operatori economici che immettono sul mercato unico prodotti regolati dagli atti delegati ESPR, deve essere collegato alle banche dati e agli strumenti esistenti dell’Unione, come il Registro europeo dei prodotti per l’etichettatura energetica (EPREL) o la Banca dati per le informazioni sulle sostanze problematiche (SCIP).

In attesa che il Regolamento possa trovare attuazione, l’interprete non può non constatare che la forza trainante della globalizzazione procede lungo i binari di un modello economico puramente consumeristico, ancora lontano da quel mercato unico sostenibile [112] fondato su un auspicato equilibrio tra uomo, ambiente e mercato. La nostra è un’era geologica caratterizzata dalla distruzione degli ecosistemi naturali e sociali e dalla impossibilità di far fronte a una serie di conseguenze disfunzionali – ben documentate dai dati sull’inquinamento e sulle diseguaglianze – senza un apprendimento evolutivo che metta al centro gli aspetti imprevisti della modernizzazione. Un ruolo non certo di secondo piano potrà essere svolto, secondo la teoria dell’influenza sociale [113] dalla condivisione esplicita ma, anche e soprattutto, implicita di gesti, comportamenti, opinioni tra i gruppi di consumatori. È il proposito perseguito dal movimento della slow fashion (o moda lenta) che promuove l’adozione di una moda non compulsiva e più sostenibile, la riduzione del numero di collezioni annuali e la produzione artigianale o della responsible fashion (moda responsabile) che implica, invece, la riduzione del consumo di risorse attraverso la scelta di indumenti riciclati o usati. L’obiettivo comune è quello di rendere la moda veloce fuori moda, perché la fast fashion non è gratis e il consumatore deve sapere che essa produce un rilevante costo, determinato dalla incidenza su valori ineludibili e costituzionalmente protetti, che l’ambiente sta già pagando.


NOTE

[1] L’espressione è stata utilizzata per la prima volta nel 1989 in un articolo dedicato all’apertura di un negozio Zara a New York ove si elogiava la rapidità con cui un capo di abbigliamento passava dall’idea dello stilista alla vendita in negozio entro un termine massimo di quindici giorni (in www.nytimes.com).

[2] Con questa formula si fa riferimento alla moda ultra veloce del marchio di moda Shein. Secondo un recente Rapporto di Greenpeace Germania (Taking the shine off Shein: hazardous chemicals in SHEIN products break EU regulations, new report finds, in www.greenpeace.org) si tratta di un modello di business cinese basato sulla produzione e commercializzazione ogni giorno di migliaia di nuovi capi di design che vengono venduti a prezzi ultra economici. Il Rapporto sottolinea che i test eseguiti sui prodotti hanno rilevato che sette di essi (15%) contengono sostanze chimiche pericolose che infrangono i limiti normativi dell’UE (cinque di questi per oltre il 100%), mentre 15 prodotti (32%) hanno sostanze chimiche pericolose a livelli preoccupanti. I risultati includono livelli molto elevati di ftalati nelle scarpe e formaldeide nei vestiti per bambini.

[3] Il lead-time è il periodo necessario per la produzione di un prodotto a partire dal suo disegno fino ad arrivare al momento in cui il prodotto finito è disponibile in negozio e può essere acquistato dai consumatori. Se prima il lead-time per il settore dell’abbigliamento si aggirava intorno ai tre mesi ora si è ridotto fino ad arrivare ad un minimo di due settimane (E. Cline, The shockingly high cost of cheap fashion, London, 2012).

[4] Secondo il Rapporto “Global lifestyle Monitor 2024”, rispetto ai consumatori globali, gli italiani possiedono in media più capi d’abbigliamento e persino più tessili per la casa: 17,5 capi intimi (contro una media globale di 12), 15,5 t-shirt (vs 11), 6 paia di jeans (vs 5,4), 12 asciugamani da bagno (vs 5,8) e 6,3 lenzuola (vs 5).

[5] La fast fashion è responsabile del 10% delle emissioni serra sul pianeta. Anche lo sfruttamento delle acque è un altro grande problema spesso sottostimato, basti pensare che per produrre una singola maglietta sono necessari 2.700 litri d’acqua, un volume pari a quanto una persona dovrebbe bere in 2 anni e mezzo, mentre la produzione di un paio di jeans può richiedere fino a 10.000 litri. Per i processi di tintura di un capo sono necessari migliaia di litri di acqua senza considerare che i coloranti diffusi nell’ambiente contaminano ogni anno circa il 20% delle riserve idriche mondiali. A ciò deve aggiungersi il fatto che gli indumenti del fast fashion sono realizzati principalmente con poliestere e materiali sintetici, responsabili delle microplastiche rilasciate nell’ambiente. Il lavaggio di un singolo capo di abbigliamento può rilasciare fino a 700.000 microfibre che finiscono negli oceani e successivamente nella catena alimentare (sul punto è illuminante il Report 2020 Interwoven risks, untapped opportunities. The business case for tackling water pollution in apparel and textile value chains, in cdn.cdp.net). Ad oggi si stima che sui fondali marini siano presenti oltre 14 milioni di tonnellate di microplastiche che danneggiano la salute umana (L’impatto della produzione e dei rifiuti tessili sull’ambiente, in www.europarl.europa.eu).

[6] I cittadini europei consumano ogni anno pro capite quasi 26 kg di prodotti tessili e ne smaltiscono circa 11 kg. Gli indumenti usati vengono per lo più inceneriti o portati in discarica (87%). Circa 60.000 tonnellate di vestiti provenienti da Europa, Stati Uniti e Asia partono a bordo di navi container dirette verso il Cile. Tra la catena delle Ande e la Cordigliera della Costa, si estende per oltre 100.000 km2 il deserto di Atacama dove sorge una delle maggiori discariche di vestiti usati e invenduti del mondo (Dove finiscono i vestiti della fast fashion? La discarica nel deserto di Atacama in Cile, in www.geopop.it). Quello di Atacama non è un caso isolato, lo stesso accade sulle spiagge di Accra in Ghana dove ogni settimana giungono 15 milioni di abiti di seconda mano teoricamente destinati al mercato interno di rivendita di vestiti usati, ma di questi il 40% finisce di fatto nelle discariche (G. Ungherese, Fast fashion: ogni settimana 15 milioni di vestiti usati soffocano il Ghana (e c’entra anche l’Italia, in www.greenpeace.org).

[7] Il Workers’ conditions in the textile and clothing sector: just an Asian affair? pubblicato dal Parlamento Europeo (in www.europarl.europa.eu) mostra uno spaccato delle condizioni inumane e degradanti a cui i lavoratori sono sottoposti. Dal Rapporto si evince che in Stati quali Cina, Bangladesh, India, Pakistan, Vietnam, Cambogia e Indonesia, milioni di persone, per la maggior parte donne e ragazze, lavorano in condizioni di schiavitù più di dieci ore al giorno, a volte senza nemmeno un giorno di pausa e il loro salario medio si aggira intorno ai 136 euro al mese, nettamente inferiore al salario di sussistenza (M. Moretti, Fast fashion. Una minaccia per i diritti umani, in www.dirittoambientale.eu).

[8] Secondo il Report dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, in www.ilo.org, in tutto il mondo sono 160 milioni i bambini costretti a lavorare in campi, miniere e nelle fabbriche della fast-fashion; 79 milioni di questi vivono in condizioni malsane e pericolose.

[9] I due termini sono spesso sovrapponibili. La moda etica e sostenibile ha come quello di eliminare le conseguenze negative che impattano sull’ambiente mediante lo sviluppo di pratiche ecologiche. Vale la pena ricordare che il concetto di moda sostenibile è spesso accostato ad altre qualificazioni come “moda circolare”, “moda green”, “moda ecologica”, “moda a basso impatto ambientale” che fanno tutti intendere che gli articoli di moda sono acquistati o prodotti utilizzando attività che non sfruttano troppe risorse, non inquinano, non danneggiano o compromettono l’ambiente ma generano piuttosto benefici ambientali, sociali ed economici (K. Venturini, Moda etica e sostenibile. I primi passi verso la sostenibilità, Milano, 2023).

[10] Il primo Accordo Multifibre siglato nel 1973 riguardava la maggior parte dei prodotti presenti sul mercato e consentiva ai firmatari di negoziare accordi bilaterali e unilaterali con i paesi in via di sviluppo, attraverso l’applicazione di quote all’import o restrizioni volontarie all’export. L’Accordo, dopo essere stato rinnovato per tre volte (1977, 1981 e 1986) si è concluso nel dicembre 1994. Il definitivo smantellamento delle misure protezionistiche, in quanto contrastanti con i principi di libero scambio, è stato sancito dall’ottavo round negoziale (Uruguay Round) dell’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT).

[11] Agreement on textiles and clothing, in www.worldtradelaw.net.

[12] E. Mazzeo-C. Pascucci-C. Gioffrè, La liberalizzazione del tessile-abbigliamento: impatti e strategie, in www.ice.it.

[13] The Rana Plaza Accident and its aftermath, in https://www.ilo.org.

[14] Dei ventinove marchi identificati come aventi i prodotti provenienti dalle fabbriche del Rana Plaza, solo nove hanno partecipato alle riunioni tenutesi per concordare una proposta di risarcimento alle famiglie delle vittime. Molte aziende si sono rifiutate di firmare e tra queste Walmart, Carrefour, Mango, Auchan e Kik. L’accordo, piuttosto, è stato siglato da Primark, Loblaw, Bonmarche e El Corte Inglés. Nel marzo del 2014, solo sette aziende hanno contribuito a finanziare il fondo fiduciario dei donatori del Rana Plaza, sostenuto dalla Organizzazione internazionale del lavoro.

[15] L’accordo prevedeva che la sicurezza degli ambienti di lavoro nelle fabbriche tessili del Bangladesh dovesse essere perseguita attraverso regolari e imparziali forme di ispezioni in fabbrica, divulgazioni pubbliche dei resoconti e dei piani d’azione correttivi, formazione dei lavoratori con corsi sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (safety training) e possibilità per i lavori di presentare reclami concernenti luoghi da loro reputati poco sicuri, nonché aggiornamenti sui progressi dovuti all’accordo (W. Thomas-M. Hlavkova-F. El-Hosseny, Arbitrations commenced by workers’ unions under the 2013 Bangladesh Accord can proceed, in sustainability.freshfields.com). L’accordo originario della durata quinquennale è stato sottoscritto nuovamente il 1° luglio 2018 e, pur mantenendo i tratti distintivi del primo accordo, prevedeva un sistema bifasico per la risoluzione delle controversie. Inizialmente, cioè, le richieste devono essere ascoltate da un comitato composto da rappresentanti di “trade unions and brands” e presieduto da un rappresentante dell’International Labour Organization; successivamente, chiunque voglia impugnare le decisioni prese dal comitato, può agire davanti alla Permanent Court of Arbitration del L’Aja. Si tratta del primo caso nella storia della contrattazione collettiva internazionale in cui una procedura di arbitrato che segue le regole dell’UNCITRAL viene inclusa in un accordo globale tra sindacati e datori di lavoro.

[16] L’Accordo è il risultato di una delle più significative conquiste in tema di sicurezza portate avanti dalla Clean Clothes Campaign (Campagna Abiti Puliti in https://cleanclothes.org/). L’organizzazione è nata nei Paesi Bassi nel 1989 ed è ora diffusa in 14 paesi europei: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Norvegia, Polonia, Regno Unito, Spagna, Svezia e Svizzera. La CCC lavora con una rete di partner di più di 250 organizzazioni in tutto il mondo.

[17] M. Guinebault, Bangladesh: i marchi prorogano di due anni l’Accordo sulle condizioni di lavoro, in Fashion Network, 2021.

[18] In California, nel 2010, ha visto la luce il “Transparency in supply chain Act” (in oag.ca.gov) che stabilisce standard minimi non negoziabili per i fornitori nei settori della salute e sicurezza, degli standard lavorativi, dell’integrità aziendale e dell’ambiente; controlla i fornitori che, sulla base di un’analisi del volume degli affari e del rischio di abusi nel paese in cui si trovano, presentano un alto rischio di violazioni delle condizioni di lavoro. Con questo provvedimento lo stato si impegna, inoltre, a far rispettare misure di lotta contro la schiavitù e il traffico di esseri umani e ad educare il consumatore a scelte più responsabili ed etiche.

[19] Il 26 marzo 2015 nel Regno Unito viene varato il Modern slavery act (in www.legislation.gov.uk) che, riunendo in un unico documento l’Human Trafficking and Exploitation Act (Scozia) e la Legge sulla tratta di esseri umani e lo sfruttamento (Irlanda del Nord), stabilisce linee guida fondamentali per garantire pratiche etiche all’interno delle supply chain. Tra le novità introdotte dal Modern Slavery Act vi è la costituzione di un Commissario anti-schiavitù; la creazione di una nuova difesa legale così che le vittime della schiavitù costrette a commettere crimini non siano condannate per quei crimini; il sequestro dei beni dei trafficanti e un aumento nel risarcimento per le vittime; l’espansione del programma di tutela dei minori, per proteggere i sopravvissuti e i bambini vulnerabili alla tratta; l’individuazione di requisiti minimi per le aziende per contribuire a porre fine alla schiavitù moderna; la predisposizione di una dichiarazione per ogni anno finanziario. Nel 2017 in Francia viene introdotta la legge n. 399 “Sur le devoir de vigilance des sociétés mères et des entreprises donneuses d’ordre” (in www.legifrance.gouv.fr) che contiene misure ragionevolmente idonee ad identificare i rischi e prevenire le violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali, della salute e sicurezza delle persone, nonché dell’ambiente che possono derivare dalle attività della capogruppo, dalle società da essa controllate e dai loro fornitori e subappaltatori situati in Francia e all’estero. La legge, che si riferisce in particolare alle imprese che occupano più di 5.000 dipendenti in Francia e 10.000 dipendenti in tutto il mondo, impone l’obbligo di diligenza su tutte le operazioni delle società controllanti e controllate. Nel 2019 in Olanda viene varato il Circular Economy Implementation Programme 2019-2023 (in hollandcircularhotspot.nl) che attribuisce ai produttori la responsabilità (EPR) del riciclo e del riutilizzo dei tessuti che producono, della creazione di un adeguato sistema di raccolta, riciclaggio e riutilizzo di indumenti e tessili per la casa e del finanziamento dell’intero sistema (A. Totaro, I Paesi Bassi introducono l’EPR nel settore tessile, in retex.green). In Germania nel 2023 è stata varata la legge LkSG (Lieferkettensorgfaltspflichengesetz, meglio nota come Supply chain due diligence act, in www.dbschenker.com) che impone alle imprese tedesche sopra i tremila dipendenti di gestire le questioni sociali e ambientali delle filiere di fornitura e di risponderne, con multe fino al 2% del fatturato globale nel caso di violazioni. Le imprese straniere che lavorano direttamente con partner tedeschi ogni anno devono predisporre un report per documentare che non inquinano, non usano lavoro minorile, non discriminano e pagano salari equi.

[20] L’UN Alliance for Sustainable Fashion (in https://unfashionalliance.org) nata durante il Summit delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile tenutosi a New York nel 2015, è un’iniziativa delle agenzie delle Nazioni Unite e delle organizzazioni alleate per contribuire agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile attraverso un’azione coordinata nel settore della moda. Gli obiettivi dell’Alleanza perfettamente allineati agli SDGs dell’Agenda 2030 sono la promozione della riduzione dei gas serra nel settore della moda, la minimizzazione dell’uso di risorse naturali, la riduzione dei rifiuti e dell’inquinamento, la promozione dell’equità e dell’inclusione, il contributo alla crescita economica sostenibile.

[21] La Direttiva 2024/1760/UE (in G.U.U.E. serie L del 5 luglio 2024) che dovrà essere recepita dagli stati membri entro il 26 luglio 2026 emenda sia la Direttiva 2019/1937/UE del 23 ottobre 2019 in tema di protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione (Whistleblowing Directive) che il Regolamento (UE) 2023/2859 del 13 dicembre 2023, afferente a un unico punto di accesso alle informazioni per il pubblico relative ai servizi finanziari, mercati dei capitali e sostenibilità.

[22] La CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) entrata in vigore il 5 gennaio 2023 (in G.U.U.E. serie L 322/15 del 16 dicembre 2022), impone alle imprese di divulgare, con differenti tempistiche, informazioni relative ai rischi, opportunità, obiettivi e impatti legati alle questioni ambientali, sociali e di governance.

[23] Il Regolamento UE 2023/1115 sulle catene di fornitura a deforestazione zero (in eur-lex.europa.eu) interessa il commercio di bovini, cacao, caffè, palma da olio, gomma, soia, legname e prodotti derivati. Esso stabilisce che, a partire dal 30 dicembre 2025 i prodotti suddetti, accompagnati da una dichiarazione di dovuta diligenza, potranno essere immessi sul mercato solo se non concorrono alla deforestazione e se sono stati prodotti in conformità con la legislazione pertinente del Paese di produzione. Gli operatori commerciali interessati dal provvedimento dovranno inoltre raccogliere, conservare e, su richiesta, mettere a disposizione delle autorità competenti le seguenti informazioni e documenti: la descrizione, compresa la denominazione commerciale e il tipo di prodotto; l’elenco dei prodotti di base o dei prodotti in questione che il prodotto contiene o che sono utilizzati per la sua fabbricazione; la quantità dei prodotti in questione espressa in chilogrammi o in volume; il Paese di produzione e le eventuali parti del Paese; la geolocalizzazione degli appezzamenti da cui provengono i prodotti di base; la data o il periodo di produzione; i nomi e gli indirizzi di tutte le aziende a cui sono stati forniti i prodotti in questione; le informazioni sufficientemente conclusive e verificabili che attestino che i prodotti in questione non concorrono alla deforestazione.

[24] Il Green Deal europeo (in https://www.consilium.europa.eu/it), proposto dalla Commissione nel dicembre 2019, è stato approvato dal Consiglio il 12-13 dicembre dello stesso anno. Il Patto verde è un insieme di iniziative proposte dalla Commissione europea con l’obiettivo generale di raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050.

[25] Così la Relazione alla Proposta di Direttiva del 23 febbraio 2022, in eur-lex.europa.eu.

[26] La Proposta è indirizzata alle imprese quotate e non quotate di maggiori dimensioni anche non finanziarie il cui fatturato sia generato da attività svolte nei settori ad alto impatto, cioè quelli destinati alla fabbricazione di prodotti tessili, pelle e prodotti correlati, il commercio all’ingrosso di tessuti, abbigliamento e calzature, agricoltura, silvicoltura, pesca, la produzione e il commercio all’ingrosso di alimenti, materie prime agricole, animali vivi, legno, cibo e bevande, l’estrazione mineraria, indipendentemente dai luoghi di estrazione, e il loro commercio all’ingrosso, incluso petrolio, gas, carbone etc. (art. 2, par. 1, lett. b), della Proposta).

[27] Avuto riguardo alla natura ed efficacia del dovere di diligenza si confronti M. Tommasini, Imprese e tutela dei diritti umani. La promozione di attività sostenibili, in OIDU, 2023, 1 e ss.

[28] Il testo prevede un approccio graduale tale per cui le aziende con 5.000 dipendenti e un fatturato annuo di 1.500 milioni di euro saranno chiamate ad allinearsi a partire dal 2027; le altre, più piccole per dipendenti e fatturato, nei due anni successivi.

[29] L’Accordo di Parigi è un Trattato internazionale sui cambiamenti climatici stipulato il 12 dicembre 2015 (e riguardante il periodo a decorrere dal 2020) tra gli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite (UNFCCC). Sul punto si vedano: M. Montini, Riflessioni critiche sull’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, in Riv. dir. int., 2017, 719; D. Bodansky, The Paris climate change agreement: a new hope?, in American Journal of International Law, 2016, 288; M. Gervasi, Rilievi critici sull’accordo di Parigi: le sue potenzialità e il suo ruolo nell’evoluzione dell’azione internazionale di contrasto al cambiamento climatico, in Comunità internazionale, 2016, 21; S. Nespor, La lunga marcia per un accordo globale sul clima: dal Protocollo di Kyoto all’accordo di Parigi, in Riv. trim. dir. pubb., 2016, 81; L. Rajamani, The 2015 Paris agreement: interplay between hard, soft and non-obligations, in Journal of environmental law, 2016, 337; Id., Ambition and differentiation in the 2015 Paris agreement: interpretative possibilities and underlying politics, in International and comparative law quarterly, 2016, 493; C. Streck-P. Keenlyside, The Paris agreement a new beginning, in Journal for european environmental and planning law 2016, 3; H. Van Asselt, International climate change law in a bottom-up world, in Questions of international law, 2016, 5; M. Montini, Reshaping the climate governance for post-2012, in European journal of legal studies, 2011, 7.

[30] Sul punto: M. Murgo, La proposta di Direttiva sulla corporate sustainability due diligence tra ambizioni e rinunce, in Diritto delle relazioni industriali, 2022, 943; F. Denozza, Incertezza, azione collettiva, esternalità problemi distributivi: come si forma lo short-termism e come se ne può uscire con l’aiuto degli stakeholders, in Rivista delle società, 2021, 308.

[31] Secondo quanto stabilito nella Direttiva Whistleblowing (Direttiva UE 2019/1937) recepita in Italia con Decreto legislativo n. 24 del 10 marzo 2023 (in G.U. n. 63 del 15 marzo 2023), il reclamo deve essere presentato alla società stessa dando conto degli impatti negativi, attuali o potenziali, sui diritti umani o sull’ambiente, derivanti dalle attività svolte (articolo 9).

[32] M. Ventoruzzo, Note minime sulla responsabilità civile nel progetto di direttiva Due diligence, in Rivista delle società, 2021, 383.

[33] Su proposta della Commissione europea del 2021, il reato è stato introdotto il 27 febbraio 2024 dal Parlamento europeo nella Direttiva sul “Ripristino della Natura” (in www.europarl.europa.eu). La Direttiva, che ha segnato un momento decisivo nel diritto penale europeo ai fini della protezione ambientale, oltre ad obbligare i Paesi Ue a riportare in buone condizioni il 20% delle aree terrestri e marine degradate entro il 2030 e per tutti gli ecosistemi entro il 2050, ha introdotto il reato di “ecocidio”. Nell’elenco aggiornato dei reati ambientali ci sono le principali azioni criminali nell’era della globalizzazione, che possono provocare il decesso o gravi danni alla salute delle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, del suolo o delle acque, alla biodiversità, agli ecosistemici, alla fauna o alla flora. Essi sono: gli incendi boschivi su larga scala; la raccolta, il trasporto, il recupero o lo smaltimento dei rifiuti pericolosi e dei medicinali, tra cui i materiali radioattivi; il riciclaggio delle navi e i loro scarichi di sostanze inquinanti; l’installazione, l’esercizio o lo smantellamento di un impianto in cui è svolta un’attività pericolosa o in cui sono immagazzinate o utilizzate sostanze, preparati o inquinanti pericolosi; l’estrazione e la contaminazione di acque superficiali o sotterranee; l’uccisione, la distruzione, il prelievo, il possesso, la commercializzazione di uno o più esemplari delle specie animali; l’immissione o la messa a disposizione sul mercato dell’Unione di legname o prodotti provenienti dalla deforestazione illegale; qualsiasi azione che provochi il deterioramento di un habitat all’interno di un sito protetto; la produzione, l’immissione sul mercato, l’importazione, l’esportazione, l’uso, l’emissione o il rilascio di sostanze che riducono lo strato di ozono, e di gas fluorurati a effetto serra; l’estrazione, lo sfruttamento, l’esplorazione, l’uso, la trasformazione, il trasporto, il commercio o lo stoccaggio di risorse minerarie. I trasgressori, i rappresentanti e i membri del consiglio di amministrazione delle aziende incriminate, possono essere condannati a pene detentive fino a dieci anni, a seconda della gravità del reato. Affinché le sanzioni siano efficaci, i colpevoli sono tenuti a ripristinare l’ambiente che hanno distrutto e a risarcire i danni. Le aziende possono, inoltre, subire ammende fino al 5% del loro fatturato mondiale o fino a 40 milioni di euro. Gli Stati membri devono adottare le azioni necessarie per ordinare la cessazione immediata di condotte illecite, senza aspettare i tempi di un processo penale.

[34] L’espressione “crimine contro l’umanità” è stata usata per la prima volta con un’accezione prettamente giuridica nell’Accordo di Londra del 1945 per indicare i reati contestati ai criminali nazisti. Il reato, ripreso nella Carta di Tokyo del 19 gennaio 1946, è stato inserito con l’approvazione dello Statuto di Roma del 1998 nell’elenco di quelli perseguiti dalla Corte penale internazionale, insieme ai crimini di guerra ed al crimine di aggressione. Nella sua formulazione originaria l’espressione definiva le azioni criminali riguardanti “violenze ed abusi contro popoli o parte di popoli, o che comunque siano percepite, per la loro capacità di suscitare generale riprovazione, come perpetrate in danno dell’intera umanità”. La dottrina più recente ritiene la locuzione estensibile anche ai crimini ambientali (K. Ambos, International economic criminal law, in Criminal law forum, 2018, 499; F. Jessberger, On the origins of individual criminal responsibility under international law for business activity: IG Farben on Trial, in Journal of international criminal justice, 2010, 783; T. Weigend, International trends towards establishing some form of punishment for corporations, in Journal of international criminal justice, 2008, 947).

[35] Nel 2020 ha iniziato la sua attività l’European public prosecutor office relativamente ai reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione che, però, radica il suo potere punitivo nell’ambito degli Stati. Pertanto, il coinvolgimento delle imprese in gravi violazioni dei diritti umani è sostanzialmente giudicato a livello interno, e il contrasto ai reati delle multinazionali si basa sugli ordinamenti nazionali (A. Venegoni-M. Minì, I nodi irrisolti della nuova Procura Europea, in Giur. pen., 2017, 4; L. Salazar, Habemus EPPO! La lunga marcia della Procura Europea, in Arch. pen., 2017, 9).

[36] Per i casi di serious violations of human, il diritto internazionale contempla solo meccanismi non giudiziali, quali Commissioni di inchiesta, riparazione e conciliazione, e organismi incaricati dall’Onu.

[37] La Corte è stata istituita con il Protocollo di Malabo del 27 giugno 2014. L’articolo 46 del Protocollo prevede che “la Corte ha giurisdizione sulle persone giuridiche, con l’eccezione degli Stati. L’intenzione dell’ente di realizzare l’offesa può essere ricavata dalla prova che l’atto costitutivo dell’offesa rientrava nella politica societaria. Una politica può essere imputata alla società se si fornisce la prova della ragionevolezza della condotta di tale società. La consapevolezza in capo all’ente della commissione dell’offesa può essere ricavata dalla prova del possesso effettivo o potenziale delle informazioni in capo all’ente. L’elemento soggettivo dell’ente può essere dimostrato anche se l’informazione rilevante è divisa tra i membri della società. La responsabilità delle persone giuridiche non esclude la responsabilità penale delle persone fisiche autrici o complici dei medesimi reati” (C. Di Stefano, La questione della giustiziabilità del diritto ad un ambiente sano: dall’esperienza africana due casi a confronto, in Riv. giur. dell’ambiente, 2014, 395; I. Ingravallo, Recenti sviluppi in tema di repressione dei crimini internazionali in Africa, in Annali del Dipartimento Jonico, 2019, 239).

[38] Il land grabbing o accaparramento delle terre è un fenomeno piuttosto diffuso soprattutto in Asia e Africa. In effetti non è di per sé il land grabbing che diventa un crimine, bensì le deportazioni forzate di massa che sono l’effetto dell’accaparramento delle terre, dello sfruttamento illegale e sconsiderato delle risorse naturali (ad esempio nel settore dell’estrazione mineraria), della deforestazione selvaggia o della costruzione di mega dighe. Questi reati legati ai cambiamenti climatici hanno dato vita al fenomeno dei cc.dd. rifugiati climatici.

[39] Lo Statuto della Corte penale internazionale, adottato al termine della Conferenza Diplomatica di Roma il 17 luglio 1998, è entrato in vigore il 1 luglio 2002. Nel corso dei lavori preparatori la delegazione francese aveva presentato una proposta per includere la responsabilità delle corporations per i reati contro i diritti umani. La proposta, però, non ha avuto seguito (A. Mattarella, Responsabilità degli enti e compliance globale. L’armonizzazione degli ordinamenti nel contrasto al crimine d’impresa, in Diritto di famiglia e delle persone, 2023, 386).

[40] Il riferimento è innanzitutto alla Legge n. 180 dell’ 11 novembre 2011 (Norme per la tutela della libertà d’impresa. Statuto delle imprese) che indica tra le proprie finalità “la promozione dell’inclusione delle problematiche sociali e delle tematiche ambientali nello svolgimento delle attività delle imprese e nei loro rapporti con le parti sociali”; alla legge n. 208 del 28 dicembre 2015 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato) che configura come società benefit quelle che abbiano “una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse” (D. Stanzione, Profili ricostruttivi della gestione di società benefit, in Riv. dir. comm., 2018, 487; A. Frignani-P. Virano, Le società benefit davvero cambieranno l’economia?, in Contratto e impresa, 2017, 503; al d.lgs. n. 175 del 19 agosto 2016 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica) che stabilisce che nelle società a controllo pubblico gli strumenti di governo societario possano essere integrati prevedendo “codici di condotta propri, o adesione a codici di condotta collettivi aventi a oggetto la disciplina dei comportamenti imprenditoriali nei confronti di consumatori, utenti, dipendenti e collaboratori, nonché altri portatori di legittimi interessi coinvolti nell’attività della società” e “programmi di responsabilità sociale d’impresa, in conformità alle raccomandazioni della Commissione dell’Unione europea”. In questo solco si pone anche il Codice dei contratti pubblici, emanato con d.lgs. n. 36 del 31 marzo 2023, il quale statuisce che «le stazioni appaltanti e gli enti concedenti contribuiscono al conseguimento degli obiettivi ambientali previsti dal Piano d’azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione attraverso l’inserimento, nella documentazione progettuale e di gara, almeno delle specifiche tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei criteri ambientali minimi, definiti per specifiche categorie di appalti e concessioni», e che, ancora, le stazioni appaltanti «valorizzano economicamente le procedure di affidamento di appalti e concessioni conformi ai criteri ambientali minimi».

[41] Legge n. 33 del 9 aprile 2009 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, recante misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi), in G.U. n. 85 dell’11 aprile 2009. Il testo originario della legge è stato modificato prima ad opera della legge n. 134 del 7 agosto 2012 (Misure urgenti per la crescita del Paese) e, successivamente, dal d.l. n. 179 del 18 ottobre 2012 e dalla relativa legge di conversione n. 221 del 17 dicembre 2012 (Conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, recante ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese). Da ultimo ulteriori modifiche sono state apportate dalla legge n. 154 del 28 luglio 2016 (Deleghe al Governo e ulteriori disposizioni in materia di semplificazione, razionalizzazione e competitività dei settori agricolo e agroalimentare, nonché sanzioni in materia di pesca illegale).

[42] La “rete-contratto” è uno strumento puramente contrattuale, volto a formalizzare una strutturata modalità di aggregazione tra imprese, che si caratterizza per via dell’originaria assenza di soggettività giuridica. Nella rete-contratto, infatti, è solo opzionale la costituzione di un fondo patrimoniale comune e di un organo decisionale comune, senza i quali la rete costituita non può avere personalità giuridica. La “rete-contratto” si differenzia dalla “rete-soggetto” in cui le imprese partecipanti decidono di creare un autonomo soggetto giuridico, quale centro di imputazione di interessi e rapporti giuridici. Il nuovo ente, ai fini della pubblicità e così anche dell’efficacia del contratto verso terzi, potrà essere iscritto nel Registro delle imprese. Per l’effetto, il rappresentante dell’organo comune sarà legittimato ad operare in rappresentanza della rete. La rete-soggetto potrà altresì dotarsi di propria partita IVA, acquisendo perciò anche una propria soggettività tributaria, con conseguenti obblighi di tenuta delle scritture contabili (Quale modello contrattuale: rete-contratto o rete-soggetto?, in www.carra-gaini.it).

[43] O. Casale-A. La Valle, Le reti d’impresa per l’economia circolare, in Qualità, 2020, 40; C. Feliziani, Industria e ambiente. Il principio di integrazione dalla Rivoluzione Industriale all’economia circolare, in Diritto amministrativo, 2020, 843; F. De Leonardis, Economia circolare: saggio sui suoi tre diversi aspetti giuridici. verso uno stato circolare?, in Diritto amministrativo, 2017, 163; V. Cavanna, Economia verde, efficienza delle risorse ed economia circolare: il rapporto “Signals 2014” dell’Agenzia europea dell’Ambiente, in Riv. giur. dell’ambiente, 2014, 821.

[44] Il d.lgs. n. 152 del 3 aprile 2006, in G.U. n. 88 del 14 aprile 2006, già noto come Codice dell’ambiente, ha recepito nel sistema interno il principio “chi inquina paga” introdotto dalla Direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale (in eur-lex.europa.eu). Il Codice dell’ambiente, modificato prima ad opera del d.lgs. n. 4 del 16 gennaio 2008 e successivamente del d.l. n. 135 del 25 settembre 2009, convertito in legge n. 97 del 6 agosto 2013 che ha dato attuazione alla Direttiva (CE) n. 35 del 21 aprile 2004, prevede che il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare può agire per il risarcimento del danno ambientale (articolo 311, comma 1). Salvo i casi previsti dall’articolo 303 (ad esempio danni ambientali cagionati da atti di conflitto armato, sabotaggi, atti di ostilità, guerra civile, insurrezione, ovvero da fenomeni naturale di carattere eccezionale, incontrovertibile ed incontrollabili etc.), chiunque cagioni un danno ambientale con dolo o colpa è obbligato all’adozione di misure “di riparazione” (c.d. risarcimento in forma specifica). Nell’ipotesi in cui dette misure di riparazione fossero in tutto o in parte omesse, o realizzate in modo incompleto o non corretto, al responsabile può essere richiesto il pagamento di una somma pari ai costi delle attività necessarie per la loro corretta attuazione (art. 311, comma 2). Se il danno ambientale è causato nell’esercizio di una delle attività previste nell’allegato 5 del Codice (gestione dei rifiuti, trattamento di sostanze pericolose, trasporto per strada, ferrovia, navigazione interna etc.) l’obbligo del suo risarcimento grava su chi lo ha determinato anche in assenza di dolo o colpa (c.d. responsabilità oggettiva). In ipotesi di concorso tra più soggetti nella causazione del danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale (art. 311, comma 3). Il Ministero, in alternativa all’azione giudiziale per il risarcimento del danno ambientale, può, emettere un’ordinanza immediatamente esecutiva ed ingiungere ai responsabili del fatto il ripristino ambientale (risarcimento in forma specifica). Nell’ipotesi di inottemperanza, il Ministero, con successiva ordinanza, può ingiungere il pagamento, entro sessanta giorni, di una somma pari ai costi delle attività necessarie per il completo ripristino ambientale. Solo a titolo esemplificativo, tra i più recenti contributi si vedano: D. Barbierato, La nuova tutela risarcitoria del danno ambientale, in Resp. civ. prev., 2016, 2039; C. Scognamiglio, Danno ambientale e funzioni della responsabilità civile, in  Resp. civ. prev., 2013, 1063; L. Villani, Il danno ambientale e le recenti modifiche del codice dell’ambiente (d.lgs. n. 152 del 3 aprile 2006) nel sistema della responsabilità civile, in Resp. civ. prev., 2008, 2173; M. Alberton, Dalla definizione di danno ambientale alla costruzione di un sistema di responsabilità: riflessioni sui recenti sviluppi del diritto europeo, in Riv. giur. dell’ambiente, 2006, 605; L. Delfino, Ambiente e strumenti di tutela: la responsabilità per danno ambientale, in Resp. civ. prev., 2002, 866.

[45] G. Spoto, I contratti di rete tra imprese, Torino, 2017, 22; AA.VV., Contratto di rete di imprese a cura di Cuffaro, Milano, 2016, 65; M. Esposito, Contratto di rete, in Altalex, 2013, 1; P. Zanelli, Reti e contratti di rete, Padova, 2012, 34; E. Briganti, La nuova legge sui contratti di rete tra le imprese: osservazioni e spunti, in Notariato, 2010, 23; G.D. Mosco, Frammenti ricostruttivi sul contratto di rete, in Giur. comm., 2010, 839; C. Camardi, Dalle reti di imprese al contratto di rete nella recente prospettiva legislativa, in I contratti, 2009, 10.

[46] D. Scarpa, Contratto di rete tra imprese e trasformazione societaria, in Giust. civ., 2012, 4.

[47] Secondo l’ultimo Report (La Filiera della Moda in Rete, in www.retimpresa.it) la filiera della Moda conta 1.175 imprese in rete, che partecipano a 399 contratti di rete. I comparti individuati all’interno della filiera Moda sono: il commercio-moda che è il primo per numero di imprese con il 44%, seguito dai comparti tessile (29%), pelletteria (12%) e calzature (8%). Con percentuali più basse si individuano oreficeria-argenteria-gioielleria (3%), design (2%), concia (1,2%) e, infine, occhialeria (0,4%) e pellicceria (0,4%).

[48] A oggi in Italia sono sei i principali consorzi attivi per la realizzazione di attività di riciclo e/o riuso nel settore tessile. La loro missione principale è promuovere una gestione efficiente dei rifiuti del mondo moda. Ogni consorzio supporta i membri nella gestione delle pratiche amministrative e degli adempimenti normativi, migliorando la raccolta differenziata e promuovendo le pratiche di economia circolare e di prevenzione dei rifiuti. L’Italia si è distinta anticipando di tre anni la scadenza prevista dalla normativa europea (Direttiva 94/62/CE e la 2008/98/CE come modificata dalla Direttiva 2018/851/UE) rendendo obbligatoria la raccolta differenziata dei rifiuti tessili. Il d.lgs. n. 116 del 3 settembre 2020 (in G.U. n. 226 dell’11 settembre 2020) e il successivo Decreto ministeriale n. 342 del 19 settembre 2022 (in www.reteambiente.it), infatti, prevedono un regime di responsabilità estesa del produttore di prodotti tessili (Extended Producer Responsibility o EPR) che deve farsi carico “del finanziamento e della organizzazione della raccolta, dell’avvio a preparazione per il riutilizzo, riciclaggio e recupero dei rifiuti derivanti dai prodotti tessili”. Lo stesso produttore, inoltre, deve assicurare idonei mezzi finanziari e organizzativi per realizzare una “capillare rete di raccolta dei rifiuti tessili sul tutto il territorio nazionale”, attraverso i sistemi di gestione e in accordo con gli Enti d’ambito, così come “lo sviluppo di sistemi di raccolta selettivi per incrementare la qualità delle frazioni tessili”. Sulla base della Proposta formulata dalla Commissione europea il 5 luglio 2023 il produttore di moda fast fashion potrebbe, in futuro, essere gravato di tariffe più elevate rispetto alle altre aziende.

[49] Due sono le procedure ammissibili, quella c.d. a sportello utilizzata per programmi di importo compreso tra 3 e 10 milioni di euro, con un massimo di tre imprese partecipanti, e quella c.d. negoziale riservata a programmi di importo superiore a 10 fino a 40 milioni di euro, con un massimo di cinque imprese partecipanti.

[50] Gli investimenti per l’industrializzazione sono ammessi esclusivamente per le PMI (Piccole Medie Imprese) e devono avere un elevato contenuto di innovazione e sostenibilità ed essere volti a diversificare la produzione di uno stabilimento attraverso prodotti nuovi aggiuntivi ovvero a trasformare radicalmente il processo produttivo complessivo di uno stabilimento esistente. I progetti, inoltre, devono essere tassativamente realizzati nell’ambito di una o più unità locali ubicate nel territorio nazionale; prevedere spese e costi ammissibili non inferiori a 3 milioni e non superiori a 40 milioni di euro; avere una durata non inferiore a 12 mesi e non superiore a 36 mesi; essere avviati successivamente alla presentazione della domanda di agevolazioni.

[51] Legge cost. n. 1 dell’11 febbraio 2022 (Modifiche agli artt. 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente), in G.U. n. 44 del 22 febbraio 2022.

[52] Il diritto della persona umana a vivere in un ambiente salubre e il diritto allo sviluppo sostenibile come migliore qualità della vita è stato consacrato in molte recenti Costituzioni. La Costituzione di Mali (1992) afferma che “ogni persona ha il diritto ad un ambiente salubre. La protezione e la difesa dell’ambiente insieme alla promozione della qualità della vita e dello sviluppo sostenibile rappresentano un dovere per tutti i cittadini e per lo Stato”. La Costituzione del Congo del 1992, dichiara che “ogni cittadino ha il diritto ad un ambiente sostenibile ed ha il dovere di difenderlo”. Anche la Costituzione dell’India proclama che è dovere dello Stato proteggere e migliorare l’ambiente, salvaguardare le foreste e la vita selvaggia del paese. Ogni cittadino ha il dovere di proteggere l’ambiente naturale, come le foreste, laghi, fiumi, vita selvatica o, comunque, altre creature viventi (V. Pepe, Lo sviluppo sostenibile tra diritto internazionale e diritto interno, in Riv. giur. dell’ambiente, 2002, p. 209). In tutte le recenti Costituzioni dell’America latina sono state inserite norme ambientali e molte altre sono state appositamente modificate come è successo a Panama, in Cile e in Perù. E proprio in Perù nell’attuale Costituzione del 1993 è stato richiamato il principio della sostenibilità e biodiversità (A. Lucarelli, Modelli istituzionali nella nuova Costituzione peruviana, in Lampi sul Perù a cura di F. Lucarelli, Napoli, 1996, 49).

[53] La triade ambiente-biodiversità-ecosistemi, così come proposta dal novellato art. 9 Cost., pur esprimendo valori molto vicini, necessita di una differenziazione terminologica. Mentre il termine “ambiente” fa riferimento all’habitat degli esseri umani, l’accezione “ecosistema” riguarda “la conservazione della natura come valore in sé” (Corte cost., sentenza n. 12 del 23 gennaio 2009, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2009, p. 3). Infine con il concetto di “biodiversità” deve intendersi “la variabilità di tutti gli organismi viventi all’interno degli ecosistemi acquatici, terrestri e marini e nei complessi ecologici di cui essi sono parte” (R. Montaldo, La tutela costituzionale dell’ambiente nella modifica degli artt. 9 e 41 Cost.: una riforma opportuna e necessaria?, 4 maggio 2022, www.federalismi.it; G. Amendola, L’inserimento del diritto all’ambiente nella Costituzione all’esame del Senato, in Diritto e giurisprudenza agraria alimentare e dell’ambiente, 2019, 1; M. Carducci, Natura (diritti della), in Dig. disc. pubbl., Torino, 2017, 486; M. Marinoni, L’anima del mondo, l’ecologia profonda e la cura della casa comune, in Fogli Campostrini, 2016, 11; E. Falchetti, La scienza sistemica interpreta l’ambiente: dall’ecosistema al paesaggio, in Rivista italiana di studi sistemici, 2010, 40).

[54] Il Rapporto Brundtland (conosciuto anche come Our Common Future, in www.google.com) è un documento pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED) in cui vengono formulate linee guida, ancora oggi valide, per lo sviluppo sostenibile (sustainable development) e che impone di perseguire uno sviluppo che assicuri il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri.

[55] G. Capo, Libertà d’iniziativa economica, responsabilità sociale e sostenibilità dell’impresa: appunti a margine della riforma dell’art. 41 della Costituzione, in Giust. civ., 2023, 81; M. Cecchetti, Virtù e limiti della modifica degli articoli 9 e 41 della Costituzione, in cortisupemeesalute.it 2022, 147; M. Del Frate, La tutela dell’ambiente nel riformato art. 41, secondo comma, Cost.: qualcosa di nuovo nell’aria?, in Diritto delle relazioni industriali, 2022, 907; A. Moliterni, La transizione alla green economy e il ruolo dei pubblici poteri, in AA.VV., L’ambiente per lo sviluppo. Profili giuridici ed economici a cura di Rossi-Monteduro, Torino, 2020, 51.

[56] Allena M., Cosa cambia con l’ambiente tutelato dalla Costituzione, in www.lavoce.info.

[57] Sul punto G. Rossi, La “materializzazione” dell’interesse all’ambiente, in AA.VV., Diritto dell’ambiente, Torino 2015, 10; G. Pennasilico, Economia circolare e diritto: ripensare la “sostenibilità”, in Persona e mercato, 2021, 711 ss.; Id., L’insegnamento del diritto privato tra modello tradizionale e problematiche attuali (Manifesto per un diritto privato ecosostenibile), in Rass. dir. civ., 2019, 656.

[58] Sul punto M. Libertini, Impresa e finalità sociali. Riflessioni sulla teoria della responsabilità sociale dell’impresa, in Riv. soc., 2009, 1.

[59] La categorizzazione è di E. Gerelli, Reputazione ambientale e competitività non di prezzo, in Rivista di diritto finanziario, 2002, 797, che distingue i beni “confrontabili” (search goods) da quelli “sperimentabili” (experience goods) e da quelli “garantibili” (credence goods).

[60] D.lgs. n. 206 del 6 settembre 2005, in G.U. n. 235 del 8 ottobre 2005.

[61] Le etichette devono essere applicate direttamente sui capi in modo tale da renderne difficile la rimozione, devono essere cucite, graffate o allacciate ad un cordoncino fissato ai capi.

[62] Al produttore è assimilato il fabbricante del prodotto finito stabilito nella Unione Europea o di qualsiasi altra persona che si presenti come tale apponendo sul prodotto il proprio nome, marchio o altro segno distintivo. Se il produttore non è localizzato nella Unione europea, i riferimenti devono intendersi al primo operatore commerciale localizzato sul territorio comunitario.

[63] Se il capo è ottenuto unicamente da una fibra tessile, l’etichetta di composizione deve riportare il nome della fibra, preceduta dall’indicazione “100%” o “Puro” o “Tutto”. Se il prodotto è ottenuto da più fibre tessili, delle quali almeno una pari all’85%, l’etichetta di composizione può riportare, in via alternativa o l’indicazione della sola fibra presente in quantità maggiore all’85%, seguita dalla relativa percentuale; o l’indicazione della sola fibra presente in quantità maggiore all’85%, seguita dall’indicazione “minimo 85%”; ovvero la composizione completa del prodotto. Se il prodotto è ottenuto da più fibre tessili, delle quali nessuna pari ad almeno l’85%, l’etichetta di composizione deve riportare l’indicazione di almeno due delle principali fibre presenti, seguite dalla relativa percentuale in peso; le rimanenti fibre devono essere indicate successivamente, con l’indicazione percentuale relativa alla loro presenza in peso. Tutte le fibre presenti in quantità non superiore al 10% in peso del prodotto finito possono essere menzionate con l’indicazione “Altre fibre” seguita dalla percentuale globale; se invece tali fibre vengono menzionate, le denominazioni devono essere accompagnate dalla relativa percentuale.

[64] Le imprese produttrici devono indicare obbligatoriamente lo Stato di provenienza del prodotto (etichetta di origine Made in …) e il nome del Paese deve corrispondere a quello in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale atta a dare le caratteristiche di prodotto nuovo.

[65] Se il capo moda è destinato ai mercati dell’Unione europea, l’etichetta deve contenere la marcatura CE (introdotta dal Regolamento (CE) n. 765/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 luglio 2008, in eur-lex.europa.eu).

[66] D.m. dell’11 aprile 1996 (Recepimento della direttiva 94/11/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 marzo 1994 sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’etichettatura dei materiali usati nelle principali componenti delle calzature destinate alla vendita al consumatore), in G.U. n. 97 del 26 aprile 1996.

[67] Nell’etichetta per la manutenzione dei prodotti vengono utilizzati dei pittogrammi comprensibili in tutti i Paesi indipendentemente dalla lingua parlata. Essi vengono integrati con simboli e/o numeri complementari relativi alle modalità operative da adottare in ciascuna attività di manutenzione. Sulle etichette di manutenzione è, inoltre, consentito aggiungere, indicazioni addizionali che chiariscono ed integrano le istruzioni di manutenzione (es. “lavare separatamente”, “stirare al rovescio”, ecc.). L’etichetta di manutenzione deve essere applicata direttamente sull’articolo in modo tale da risultare difficilmente rimovibile; deve essere realizzata in materiali resistenti ai lavaggi ed a tutti i trattamenti di manutenzione indicati; i pittogrammi, infine, devono essere riportati in grandezza tale da poter essere facilmente leggibili dal consumatore.

[68] Così ad esempio, sono da considerarsi informazioni “qualificative” le seguenti indicazioni: “vergine” ammessa solo con riferimento alla lana che non è stata incorporata in un prodotto finito e/o non ha subito altre operazioni o trattamenti che ne abbiano danneggiato la composizione, se non quelli previsti per la realizzazione del capo; “lana di tosa” utilizzata in caso di utilizzo di lana in mischia assieme ad altre fibre; “misto lino” ammessa solo in riferimento ai prodotti tessili realizzati con ordito in puro cotone e trama in puro lino e nei quali il lino è presente in quantità non inferiore al 40% del peso totale del tessuto; “fibre varie” o “composizione tessile non determinata” ammessa in pochi e ristrettissimi casi, e solo per quei prodotti la cui composizione sia difficile da determinare al momento della fabbricazione. Nei prodotti che sono composti da due o più tessuti ciascuno dei quali con una diversa composizione fibrosa l’etichetta di composizione deve riportare la composizione fibrosa di ciascuno dei tessuti presenti, menzionando la componente o parte alla quale è riferita. Due prodotti tessili che sono un insieme inseparabile, poiché venduti obbligatoriamente assieme, e che presentano la stessa composizione fibrosa possono riportare una etichetta di composizione globale riferita ad entrambi pezzi.

[69] Il controllo preventivo può essere di tre tipi: visivo per verificare che sugli articoli sottoposti ad esame presso le imprese vi sia la presenza dell’etichetta (o del contrassegno) e che essa sia compilata correttamente; documentale per ricostruire la filiera di distribuzione, verificare il rispetto degli obblighi di legge in materia di etichettatura e individuare correttamente i soggetti responsabili delle violazioni accertate; di laboratorio per definire, attraverso l’esecuzione di analisi di laboratorio, la reale composizione del prodotto e la corrispondenza con quanto riportato nell’etichetta o nel contrassegno.

[70] D.lgs. n. 190 del 15 novembre 2017 (Disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni di cui alla direttiva 94/11/CE, concernente l’etichettatura dei materiali usati nei principali componenti delle calzature destinate alla vendita al consumatore ed al regolamento (UE) n. 1007/2011 del Parlamento europeo e del consiglio, del 27 settembre 2011, relativo alle denominazioni delle fibre tessili e all’etichettatura e al contrassegno della composizione fibrosa dei prodotti tessili), in G.U. n. 296 del 20 dicembre 2017.

[71] G. Alpa, Introduzione al diritto dei consumatori, Bari, 2008, 30 e più diffusamente Id., Libertà contrattuale e tutela costituzionale, in Reveu critique de droit international privè, 1995, 35.

[72] A. Falchi, Più della metà degli italiani è disposta a spendere di più per prodotti sostenibili. La ricerca di SAP, in edge9.hwupgrade.it. È un dato ormai assodato che il consumatore medio italiano preferisca un prodotto green rispetto ad un altro concorrente che non abbia tale caratteristica. Per quanto riguarda gli acquisti di abiti e accessori le percentuali non sono molto differenti: la sostenibilità è considerata “importante” dal 47% del campione. Nel settore fashion, l’83% dei consumatori italiani sostiene che la scelta di materiali, imballaggio e i processi produttivi giochino un ruolo chiave sull’impatto ambientale del prodotto e il 79% afferma di controllare “spesso” o “qualche volta” anche l’origine delle materie prime utilizzare per la produzione. Questo in parte si riflette anche sulle scelte d’acquisto che nel 39% dei casi sono influenzate dall’impatto ambientale della produzione. Più della metà (54%) dichiara la propensione ad acquistare prodotti basati su materie prime riciclabili, quali la frutta o le fibre vegetali.

[73] Il primo caso di greenwashing è da attribuire alla compagnia petrolifera Chevron, che nella campagna pubblicitaria, chiamata “People Do” sponsorizzava un attivo impegno dei propri dipendenti nella tutela di farfalle, tartarughe, orsi ed altre specie protette. La compagnia se, per un verso, ostentava tale sensibilità ecologica, contemporaneamente si rendeva responsabile di reiterate violazioni del “Clean Air Act” e del “Clean Water Act”, normative federali regolanti lo sversamento di petrolio e di altre sostanze inquinanti in aree protette, a scapito della fauna selvatica americana (Chevron Commercial Ad 1985, in www.youtube.com).

[74] Il termine, nato dalla fusione di green (“verde” nel senso di ecologico) e whitewashing (“dare la calce”, metaforicamente inteso come “nascondere” o “ripulire”) fu coniato nel 1986 da Jay Westerveld, un giornalista che, durante un viaggio, visitò un noto resort che, da un lato, distribuiva biglietti per esortare i propri clienti a riutilizzare gli asciugamani al fine di ridurre sprechi e inquinamento, e dall’altro si stava espandendo in maniera tale da impattare fortemente sull’ecosistema locale (K. Motavalli, A history of greenwashing. How dirty towels impacted the green movement, in Daily Finance, 2011).

[75] Le pratiche di greenwashing possono declinarsi o promuovendo la sostenibilità di un prodotto in maniera vaga e poco trasparente (ad esempio con l’utilizzo di espressioni generiche quali “ecologico” o “sostenibile” senza specificare se si riferiscano ai materiali impiegati, al ciclo produttivo o all’impatto ambientale) o, di contro, in modo così scientifico da non essere facilmente comprese dal consumatore medio. La comunicazione, può, altresì, essere reticente o omissiva laddove l’azienda si proclama green soltanto in relazione ad una fase marginale di lavorazione del prodotto, tacendo l’impatto ambientale che altre fasi della catena di produzione possono generare, ovvero esagerando le qualità del bene con messaggi promozionali che qualifichino lo stesso come “il più ecologico” o “il migliore per l’ambiente”. Tra le altre tecniche di greenwashing si riscontrano, poi, l’abuso negli slogan di colori verdi e di ambientazioni agresti; la promozione di iniziative di rimboschimento o “riforestazione compensativa”, celando che l’abbattimento di piante ed alberi è direttamente legato all’attività produttiva; la pubblicizzazione di riduzioni di sostanze inquinanti o biodegradabili a fronte dell’uso di packaging e buste inquinanti o di un volantinaggio massivo; la declamazione di un prodotto come sostenibile quando esso è, invece, fortemente inquinante (M. Tommasini, Green claim e sostenibilità ambientale. Le tutele ed i rimedi apprestati dall’ordinamento contro le pratiche di grenwashing, in Il dir. di famiglia e delle persone, 2023, 2, 858).

[76] D.lgs. n. 206 del 6 settembre 2005, in G.U. n. 235 dell’8 ottobre 2005.

[77] D.lgs. n. 146 del 2 agosto 2007, in G.U. n. 207 del 6 settembre 2007.

[78] M. Libertini, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Contratto e impresa 2009, 73, secondo cui la definizione di pratiche commerciali scorrette ruota proprio attorno a queste clausole generali. Così anche F. Scaglione, Il mercato e le regole della correttezza, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia diretto da Galgano, Milano, 2010, 111, il quale afferma che “il giudizio di liceità o meno della condotta dell’imprenditore presuppone, quindi, la individuazione dei principi di correttezza professionale, che costituiscono il parametro di qualificazione della slealtà dell’attività concorrenziale”.

[79] Così A. Barba, Capacità del consumatore e funzionamento del mercato, Torino, 2021, 11; ma già prima Gentili A., Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, in Riv. dir. priv., 2010, 47.

[80] L. Guffanti Pesenti, Pratiche commerciali scorrette e rimedi nuovi. La difficile trasposizione dell’art. 3, co. 1, N. 5), dir. 2019/2161/UE, in Europa dir. priv., 2021, 4, 635; C. Dalia, Sanzioni e rimedi individuali “effettivi” per il consumatore in caso di pratiche commerciali scorrette: le novità introdotte dalla Direttiva 2161/2019/UE, in Riv. dir. industriale, 2020, 6, 331; M. Cappai, La repressione delle pratiche commerciali scorrette nei mercati regolati: cosa aspettarsi dalla Corte di giustizia?, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2017, 879; G. Barozzi Reggiani, Pratiche commerciali scorrette, regolazione e affidamento delle imprese, in Dir. amm., 2016, 683; P. Fabbio, L’efficacia dei provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato nel processo civile, con particolare riguardo alle materie delle pratiche commerciali scorrette e della pubblicità ingannevole e comparativa, in Concorrenza e mercato, 2013, 193; D. Lamanna Di Salvo, La tutela del consumatore nell’ordinamento italiano tra strumenti privatistici e pubblicistici, in Giur. merito, 2013, 12, 2658; V. Di Cataldo, Pratiche commerciali scorrette e sistemi di enforcement, in Giur. comm., 2011, 6, 803; F. Piraino, Diligenza, buona fede e ragionevolezza nelle pratiche commerciali scorrette. Ipotesi sulla ragionevolezza nel diritto privato, in Europa e dir. priv., 2010, 1117; M. Fusi, Pratiche commerciali aggressive e pubblicità manipolatoria, in Riv. dir. ind., 2009, 5; S. Ciccarelli, La tutela del consumatore nei confronti della pubblicità ingannevole e delle pratiche commerciali scorrette ex d.lg. n. 146 del 2007, in Giur. merito, 2008, 1820; A.M. Gambini, Pratiche commerciali scorrette, in Concorrenza e mercato, 2008,1, 193; A. Genovese, La normativa sulle pratiche commerciali scorrette, in Giur. comm., 2008, 4, 762.

[81] Sul punto in dottrina, a solo titolo esemplificativo, si vedano: L. Guffanti Pesenti, Pratiche commerciali scorrette e rimedi nuovi. La difficile trasposizione dell’art. 3, co. 1, N. 5), dir. 2019/2161/UE, in Europa dir. priv., 2021, 4, 635; Dalia C., Sanzioni e rimedi individuali “effettivi” per il consumatore in caso di pratiche commerciali scorrette: le novità introdotte dalla Direttiva 2161/2019/UE, in Riv. dir. industriale, 2020, 6, 331; M. Cappai, La repressione delle pratiche commerciali scorrette nei mercati regolati: cosa aspettarsi dalla Corte di giustizia?, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario 2017, 879; G. Barozzi Reggiani, Pratiche commerciali scorrette, regolazione e affidamento delle imprese, in Dir. amm., 2016, 683; P. Fabbio, L’efficacia dei provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato nel processo civile, con particolare riguardo alle materie delle pratiche commerciali scorrette e della pubblicità ingannevole e comparativa, in Concorrenza e mercato, 2013, 193; D. Lamanna Di Salvo, La tutela del consumatore nell’ordinamento italiano tra strumenti privatistici e pubblicistici, in Giur. merito, 2013, 12, 2658; V. Di Cataldo, Pratiche commerciali scorrette e sistemi di enforcement, in Giur. comm., 2011, 6, 803; F. Piraino, Diligenza, buona fede e ragionevolezza nelle pratiche commerciali scorrette. Ipotesi sulla ragionevolezza nel diritto privato, in Europa e dir. priv., 2010, 1117; M. Fusi, Pratiche commerciali aggressive e pubblicità manipolatoria, in Riv. dir. ind., 2009, 5; S. Ciccarelli, La tutela del consumatore nei confronti della pubblicità ingannevole e delle pratiche commerciali scorrette ex d.lg. n. 146 del 2007, in Giur. merito, 2008, 1820; G. De Cristofaro, Le pratiche commerciali scorrette tra professionisti e consumatori, in Nuove leggi civ. comm., 2008, 1086; A.M. Gambini, Pratiche commerciali scorrette, in Concorrenza e mercato, 2008,1, 193; A. Genovese, La normativa sulle pratiche commerciali scorrette, in Giur. comm., 2008, 4, 762.

[82] R. Pennisi, Considerazioni in merito alle pratiche commerciali ingannevoli, in  Giur. comm., 2012, 653; G. Grisi, Rapporto di consumo e pratiche commerciali, in Europa e dir. priv., 2013, 1; C. Paschi, La tutela concorrenziale per le informazioni “non qualificate”, in Riv. dir. ind., 2012, 95; A.M. Gambino, Pubblicità ingannevole e comparativa, in Concorrenza e mercato, 2008,1, 233; C. Piazza, Dalla pubblicità ingannevole alle pratiche commerciali sleali. Tutela amministrativa e giurisdizionale, in Dir. informatica, 2008, 1.

[83] R. Gaiba, Difetti nei tessuti per l’abbigliamento, in https://trama-e ordito.blogspot.com/2009/10/tessuti-cosa-si-intende-e-metodi-di.html.

[84] È il caso di quelle aziende di moda che affermano che un capo è sostenibile perché realizzato in cotone riciclato o in cotone organico, ma senza indicare dove il cotone è stato coltivato, a quali condizioni e con quali controlli; oppure che dichiarano che il capo contiene una piccola percentuale di plastica recuperata dai mari, anche quando la maggior parte del prodotto contiene plastica vergine (M. Pasquetti, Ambiente e politiche di marketing: innovazione sostenibile e rischio greenwashing, in AA.VV., Economia, ambiente e sviluppo sostenibile, Milano, 2014, 160; M. Tavella, Comunicazione, marketing e sostenibilità ambientale, Torino, 2012, 26 ss.; R. Luciani-M. D’amico-L. Andriola, La comunicazione ambientale e sociale d’impresa: stato dell’arte e nuovi orientamenti, in Ambiente, 2005, 757).

[85] Le certificazioni di sostenibilità adottate nel settore moda sono moltissime. Il Global Organic Textile Standard (GOTS) non si limita a garantire l’origine biologica delle fibre tessili, ma valuta ogni singolo aspetto della produzione (dalla coltivazione della materia prima alla commercializzazione del prodotto finito) assicurando il rispetto dei diritti fondamentali dettati dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), tra cui quello a retribuzioni eque, orari di lavoro standard, contratti di assunzione, assistenza sanitaria e parità di genere. Particolare attenzione è rivolta alla prevenzione del lavoro minorile, del lavoro forzato e delle varie forme di discriminazione (genere, razza, ecc.). L’Organic Content Standard (OCS) è un modello di certificazione è applicabile esclusivamente a tessuti naturali di origine vegetale o animale, con particolare riferimento al cotone biologico, la fibra di origine biologica più diffusa nel settore tessile. Il modello di certificazione OCS prevede due diversi standard per l’etichettatura dei tessuti biologici: l’Organic Content Blended quando il tessuto contiene almeno il 5% di fibra biologica; e l’Organic Content 100 quando il tessuto contiene almeno il 95% di fibra biologica. Il Global Recycle Standard (GRS) e Recycled Claim Standard (RCS) sono, invece, i più importanti standard internazionali volontari per i tessuti riciclati e sono predisposti da Textile Exchange. Questi hanno l’obiettivo di garantire che i materiali del prodotto finito siano effettivamente riciclati e lavorati in modo sostenibile, oltre che di guidare l’innovazione nell’affrontare il problema “qualità” dei materiali riciclati. Tra le più importanti certificazioni per il benessere animale vi sono il Responsible Down Standard (RDS) e il Responsible Wool Standard (RWS) i quali garantiscono che i prodotti tessili provengano da allevamenti che praticano il rispetto olistico per il benessere animale. Mentre RWS è specifico per i prodotti in lana, RDS riguarda l’utilizzo di piume o piumini di uccelli acquatici o terrestri. Sono diverse le aziende che certificano, invece, la sostenibilità sociale, facendo particolare attenzione alla condizione dei lavoratori: gli standard internazionali SA 8000 (Social Accountability) e Fairtrade garantiscono, ad esempio, che i prodotti siano stati lavorati rispettando i diritti dei lavoratori e promuovendo trattamenti etici ed equi tra i lavoratori. Infine, certificazioni come Standard 100 by OEKO-TEX® e Bluesign garantiscono che i prodotti certificati rispettino rigorosi valori limite per quanto riguarda le sostanze nocive per la salute dell’uomo. La lista delle sostanze tossiche ne comprende oltre 1000 tra cui metalli pesanti, coloranti tossici, sostanze utilizzate nelle colture, sostanze cancerogene come formaldeide e ftalati, altre sostanze come benzene e glifosato etc.

[86] Tra i marchi internazionali che danno la priorità a pratiche etiche, materiali eco-friendly e condizioni di lavoro eque vi sono Patagonia, Stella McCartney, Sumissura, Eileen Fisher, Allbirds, Veja, Reformation, Pact, Amour Vert, Outerknown, Nudie Jeans, Mara Hoffman, People Tree, Thought, Alternative Apparel, Kotn, Nisolo, Girlfriend Collective, Able, Amendi, Nagnata, Indigenous e Tentree. In Italia i marchi etici in grado di coniugare attenzione ai processi produttivi e riduzione degli sprechi sono: Rifò, Progetto Quid, Eticlò, Ortika, Antonia Erre e Darling Grace.

[87] I codici di condotta, infatti, possono ricomprendere disposizioni cui il professionista si impegna in maniera “ferma e verificabile” alla sostenibilità sociale ed ambientale nello svolgimento dell’attività esercitata. E’ da considerarsi impegno fermo e verificabile quello assunto dall’impresa a seguito della pubblicazione del codice di condotta sul sito web o nelle bacheche dei locali della stessa (E. Battelli, Codice del consumo, codice civile e codici di settore: un rapporto non meramente di specialità, in Europa dir. priv., 2016, 425; F. Ghezzi, Codici di condotta, autodisciplina, pratiche commerciali scorrette. Un rapporto difficile, in Riv. soc., 2011, 680).

[88] L’art. 27, commi 2 e 14, del Codice del consumo statuisce che per la tutela in via amministrativa o giurisdizionale degli interessi di massa posti in pericolo o lesi da pratiche ingannevoli possono agire oltre che i singoli anche le associazioni dei consumatori.

[89] A.P. Seminara, La tutela civilistica del consumatore di fronte a pratiche commerciali scorrette, in https://iris.unito.it.

[90] Ai sensi del comma 4 dell’art. 27 del Codice del Consumo, l’Autorità Garante può applicare una sanzione amministrativa pecuniaria da 2.000,00 euro a 20.000,00 euro. Qualora le informazioni o la documentazione fornite non siano veritiere, l’Autorità applica una sanzione amministrativa pecuniaria da 4.000,00 euro a 40.000,00 euro.

[91] L’art. 19, comma 2, lett. a, Codice del consumo ha recepito l’art. 3, § 2, Direttiva 29/2005. Il legislatore comunitario, però, per mitigare la portata della norma, ha inserito l’articolo 11 bis (ad opera della Direttiva n. 2161/UE del 27 novembre 2019, in G.U.U.E. 238 L del 18 dicembre 2019) in forza del quale “i consumatori lesi da pratiche sleali devono avere accesso a rimedi proporzionati ed effettivi, compresi il risarcimento del danno subito dal consumatore e, se pertinente, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto. Gli Stati membri possono stabilire le condizioni per l’applicazione e gli effetti di tali rimedi” … che in ogni caso, “non pregiudicano l’applicazione degli altri rimedi a disposizioni dei consumatori a norma del diritto dell’Unione o del diritto nazionale” (comma 2).

[92] L’espressione è di G. Biscontini, Regolamento n. 1169 del 2011: Tutele civilistiche per violazione del dovere di informazione nel settore alimentare, in Persona e mercato, 2012, 3.

[93] Si confrontino in argomento N. Irti, Scambi senza accordi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, 347 (e successivamente in Id., Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari, 2001, 103) secondo il quale “gli scambi di massa si svolgono senza accordi”, assumendo rilievo il contatto con le cose, nel senso che “le parti dirigono le loro decisioni sulla merce, e nella merce s’incontrano e ritrovano”. Criticamente G. Oppo, Disumanizzazione del contratto, in Riv. dir. civ., 1998, I, 525, a cui Irti ha risposto con «È vero, ma ... » (Replica a Giorgio Oppo), in Riv. dir. autore, 1999, I, 273.

[94] C. Angelici, Rapporti contrattuali di fatto, in Enc. giur. Treccani, XXV, Roma, 1991, 8; E. Betti, Dei cosiddetti rapporti contrattuali di fatto, in Nuova riv. dir. comm., 1956, I, 238.

[95] Avuto riguardo allo stretto collegamento tra fase precontrattuale e dovere di informazione si confrontino: A.C. Nazzaro, Obblighi di informazione e procedimenti contrattuali, Napoli, 2000,30; M.A. Livi, L’integrazione del contratto, in Diritto privato europeo a cura di Lipari, II, Padova, 1997, 659; G. De Nova, Informazione e controllo: il regolamento contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, 708; G. Grisi, L’obbligo precontrattuale di informazione, Napoli, 1990, 34.

[96] G. Boscontini, Regolamento n. 1169 del 2011, cit.

[97] R. Tommasini, voce Nullità (in generale), in Enc. dir., 1978, 866 ss.

[98] Il contratto viziato da errore è annullabile a condizione che l’errore sia essenziale e riconoscibile (art. 1428 cod. civ.). Mentre il primo requisito attiene alla consistenza oggettiva dell’errore nel quale è incorso il contraente, con il secondo, invece, il legislatore accorda tutela all’errante soltanto quando ciò non contrasti con la necessità di proteggere la buona fede di controparte (art. 1431 cod. civ.).

[99] L’annullabilità dell’atto per dolo può invocarsi ove le anomalie informative poste in essere da controparte assurgano ad “artifici” o “raggiri” ma può trattarsi anche di “semplici menzogne che abbiano avuto comunque un’efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte e, quindi, sul consenso di quest’ultima” (Cass., sentenza n. 20231 del 23 giugno 2022, in Diritto & Giustizia, 2022). Se i raggiri non sono stati determinanti del consenso o il carattere decisivo dell’inganno fosse difficile da dimostrare, il compratore ben può dimostrare il dolo incidentale (art. 1440 cod. civ.) dal momento che se non fosse stato indotto in errore avrebbe stipulato il negozio a condizioni diverse. In questo caso, però, il contratto non è annullabile ma l’acquirente ha diritto ad ottenere dall’autore del dolo un risarcimento del danno che deve essere commisurato al “minor vantaggio” ovvero al “maggior aggravio economico” prodotto dallo stesso (Cass., sentenza n. 5965 del 16 aprile 2012, in Giust. civ. Mass., 2012, 4, 503) salvo che sia dimostrata “l’esistenza di danni ulteriori, collegati a detto comportamento da un nesso di consequenzialità diretta” (Cass., sentenza n. 5273 del 7 marzo 2007, in Diritto e Giustizia online, 2007).

[100] La nullità “virtuale” è contrapposta a quella “testuale” perché la legge non descrive un tipo o una fattispecie negoziale disapprovati: il giudizio di nullità dello specifico contratto sottoposto a valutazione dipende dalla compatibilità del medesimo con una norma imperativa che fissa un limite “esterno” all’autonomia dei privati. In tema di nullità virtuale si vedano tra gli altri: A. Albanese, L’asimmetria informativa nel trading on line, tra nullità di protezione e teoria generale del contratto, in Giur. comm., 2024, 393; G. Sicchiero, Nullità civilistica e nullità “disciplinare”, in Riv. notariato, 2024, 4, 897; F. Fimmanò, La questione del rapporto tra regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, in Riv. notariato, 2019, 63; A. Pisani Massamormile, Nullità di protezione e nullità virtuali, in Banca borsa e tit. di credito, 2017, 31; R. Alessi, Nullità di protezione e poteri del giudice tra Corte di Giustizia e Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Europa e dir. priv., 2014, 1141; M. Astone, Rimedi e contratti del consumatore nella prospettiva del diritto privato europeo, in Europa e dir. priv., 2014, 1.

[101] In effetti non tutte le violazioni di norme imperative importano la nullità del contratto. Le norme imperative c.d. di comportamento ingenerano, infatti, solo responsabilità in capo a colui che le viola (così Cass., sentenza n. 26725 del 19 dicembre 2007, in Giust. civ., 2008, 12, 2775, e ancor prima dello stesso tenore Cass., sentenza n. 5610 del 18 ottobre 1980, in Arch. civ., 1981, 133).

[102] Cass., sentenza n. 6601 del 4 dicembre 1982, in Giust. civ., 1983, I, 1178. La sentenza resa in tema di informazione in ordine a prodotti alimentari, affermava che «non può ritenersi imperativo agli effetti dell’art. 1418 citato l’art. 4 comma 2 della l. 13 maggio 1966 n. 356, che vieta alle imprese produttrici di uova da cova di “incubare”, commerciare o porre altrimenti in circolazione uova da cova, prodotte in Italia, che non rechino stampigliate la parola “cova”, seguita dalla parola “Italia” e dal numero di immatricolazione assegnato al centro o stabilimento di produzione, poiché tale disposizione, dettata dall’esigenza di carattere pubblico del razionale e controllato svolgimento della produzione e del commercio delle uova da cova, non è preordinata alla tutela mediata (attraverso la prevenzione della diffusione della pollurosi e di altre malattie trasmissibili dal pollame) dell’interesse di carattere generale della salute pubblica, atteso l’esonero dall’osservanza delle norme dell’indicata legge disposto dall’art. 9 della stessa per le piccole imprese».

[103] Cass., sentenza n. 19024 del 29 settembre 2005, in Obbligazioni e contratti, 2006, 26.

[104] E. Gabrielli, L’oggetto del contratto, in AA.VV., Commentario al codice civile a cura di Schlesinger, Milano, 2001, 29.

[105] Il complesso delle strategie commerciali green può comprendere anche la sponsorizzazione di eventi culturali, meeting e attività benefiche; la perorazione di cause che coinvolgono la sostenibilità; la elargizione di donazioni ad associazioni ambientaliste e no profit.

[106] Nel processo decisionale che porta ad un atto di acquisto o all’utilizzazione di un servizio si riconoscono cinque passaggi: riconoscimento del problema, ricerca di informazioni, valutazione di alternative, acquisto e valutazione post-acquisto (W. Pride-O.C. Ferrell, Marketing, Chegg Learning, London, 2016, 18). Sul punto si veda anche F.L.M. Craik-R.S. Lockhart, Levels of processing a framework for memory research, in Journal of V. L. and V. B., 1972, 11, 671.

[107] S. Sandri, Introduzione alla rivoluzione copernicana della proprietà intellettuale nella click-community, in Riv. dir. industriale, 2019, 1, 5.

[108] Regolamento UE 2024/1781 del 27 maggio 2024 (Ecodesign for Sustainable Products Regulation), in eur-lex.europa.eu. Il Regolamento è stato approvato dal Parlamento europeo il 23 aprile 2024 con risoluzione COM/2022/0142.

[109] V. Iaia, Gli eco-brevetti tra neutralità tecnologica e (sensibilità) climatica, in Riv. dir. industriale, 2023, 2, 88.

[110] Ai sensi dell’art. 18, comma 5, tra i gruppi di prodotti prioritari in ordine ai quali specifici atti delegati dettaglieranno i requisiti ecocompatibili rientrano i prodotti tessili (abbigliamento e calzature); ferro e acciaio; alluminio; mobilio (inclusi materassi); pneumatici; detergenti, vernici e lubrificanti; sostanze chimiche; prodotti elettronici e ICT; prodotti connessi all’energia. Non rientrano, invece, espressamente nell’oggetto del regolamento ESPR gli alimenti, i mangimi, i medicinali, le piante, gli animali e i prodotti di origine umana.

[111] La Commissione europea si è impegnata a comunicare entro l’aprile 2025 il primo piano di lavoro ESPR che dovrà avere una durata di almeno 3 anni.

[112] Il principio è contenuto nella Risoluzione Ue del 25 novembre 2020 sul tema “Verso un mercato unico più sostenibile per le imprese e i consumatori”, in https://www.europarl.europa.eu. La Risoluzione prevede espressamente che il cammino verso la “costruzione di un mercato unico sostenibile” deve peraltro garantire ai consumatori “un elevato livello di protezione” (articolo 153 del Trattato istitutivo CE e poi trasfuso nell’articolo 169 TFUE) e deve salvaguardare l’ambiente, la salute umana e le risorse naturali (articoli 191 TFUE).

[113] E.L. Bernays, Propaganda. L’arte di manipolare l’opinione pubblica (traduzione italiana a cura di A. Roveda), Bologna, 2018. Secondo l’autore l’influenza sociale informativa si concretizza quando un individuo, trovandosi in situazioni ambigue, confuse, incerte, assume il comportamento degli altri come fonte di informazioni e si adegua a tale comportamento al fine di venire accettato e apprezzato.