Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Gratuità e comunione di scopo nell'amministrazione condivisa (di Antonio Fici, Professore associato di Diritto privato – Università di Roma “Tor Vergata”)


L'istituto dell’amministrazione condivisa è stato introdotto dal Codice del terzo settore ed ha da subito attratto l’attenzione di molti studiosi, operatori e amministrazioni locali, ponendosi al centro di un intenso dibattito che, orientato dalla Corte Costituzionale, ha coinvolto i giudici amministrativi in una serie di sentenze. Nel saggio si prospetta una particolare lettura civilistica dell’istituto, con specifico riferimento all’elemento della gratuità, che è possibile comprendere solo se lo si legge in combinazione con la causa di comunione di scopo che connota i rapporti dell’amministrazione condivisa. Questa lettura consente di risolvere diverse questioni che l’amministrazione condivisa pone ed anche di individuare modalità di prevenzione e repressione di fenomeni abusivi.

Gratuitousness and common purpose in shared administration

The institution of shared administration was introduced by the Third Sector Code and has immediately attracted the attention of many scholars, operators, and local administrations, becoming the focus of an intense debate that, guided by the Constitutional Court, involved administrative judges in a series of rulings. The essay presents a particular civil law interpretation of the institution, specifically referring to the element of gratuitousness, which can only be understood if read in conjunction with the common purpose that characterizes the relationships within shared administration. This interpretation allows for the resolution of various issues posed by shared administration and also helps to identify ways to prevent and combat abusive uses of it.

SOMMARIO:

1. Gratuità, corrispettiva, onerosità: alcune premesse teorico-concettuali - 2. Gratuità e rimborso spese nel Codice del terzo settore - 3. Il problema della gratuità nell’amministrazione condivisa - 4. La comunione di scopo nei rapporti dell’amministrazione condivisa e i suoi riflessi sul tema della gratuità - 5. Conclusioni - NOTE


1. Gratuità, corrispettiva, onerosità: alcune premesse teorico-concettuali

Nell’affrontare il tema della gratuità quale elemento essenziale e distintivo degli istituti dell’amministrazione condivisa di cui agli artt. 55-57 del Codice del terzo settore (“CTS”), è opportuno muovere da alcune premesse teorico-concettuali, utili ad impostare correttamente il problema della natura di questo elemento e darvi coerente soluzione.

Nel contesto della disciplina di diritto comune degli atti negoziali di cui al codice civile vigente, manca una definizione della categoria delle fattispecie negoziali “a titolo gratuito”, a differenza di quanto accadeva nel codice civile abrogato, che all’art. 1101 così qualificava il contratto con cui “uno dei contraenti intende procurare un vantaggio all’altro senza equivalente”. Proprio facendo leva su questa definizione, nella quale risalta la “direzione” unilaterale del vantaggio che viene attribuito contrattualmente (da una parte all’altra, senza equivalente), si giunge a sostenere in dottrina che il problema della onerosità o gratuità può correttamente porsi soltanto con riferimento ai negozi di attribuzione patrimoniale, quelli cioè in cui “un consociato procura ad un altro un vantaggio patrimoniale”, precisandosi altresì che la gratuità (o al contrario l’onerosità) dell’atto attiene al suo profilo causale e dunque alla funzione da quest’ultimo svolta [1].

In definitiva, secondo questa condivisibile ricostruzione, la distinzione tra negozio (a titolo) oneroso e negozio (a titolo) gratuito può applicarsi soltanto ai negozi mediante i quali “un soggetto determina un’attribuzione patrimoniale, cioè uno spostamento di diritti patrimoniali e, quindi, un accrescimento di valore … nel patrimonio di un altro soggetto …” [2]. Segnatamente, il negozio è oneroso allorché l’attribuzione abbia luogo “contro un corrispettivo”; è invece gratuito allorché alcun corrispettivo sia previsto, facendo pertanto difetto “l’incremento patrimoniale di chi procura ad altri l’arric­chimento” [3].

La gratuità, quale “attribuzione senza equivalente” ovvero “senza controprestazione”, comprende la “liberalità” ma non si esaurisce in essa, poiché mentre l’atto liberale è tipicamente gratuito, non ogni atto gratuito è allo stesso tempo liberale [4], anche perché diverse, e di varia natura (altruistiche così come egoistiche), possono essere le motivazioni che concretamente sorreggono un atto gratuito.

La gratuità, così intesa, si contrappone nettamente alla “corrispettività”, poiché un contratto gratuito non potrebbe mai essere a prestazioni corrispettive (o “di scambio”), mentre può convivere con l’onerosità (anche ex latere accipientis), dal momento che gli atti a titolo gratuito potrebbero rivelarsi onerosi per chi riceve l’attribuzione patrimoniale che ne costituisce l’oggetto (e non solo dunque per chi la effettua), come avviene nell’ipotesi paradigmatica della donazione modale.

Se dunque i contratti a prestazioni corrispettive sono sicuramente onerosi (per entrambi i contraenti), parimenti onerosi per entrambi i contraenti (pur non essendo a prestazioni corrispettive) potrebbero essere i contratti a titolo gratuito. In questo caso – si osserva – l’onerosità rappresenta per il beneficiario del contratto a titolo gratuito un sacrificio economico da sopportare per poter realizzare il proprio interesse [5]. Così, ad esempio, è solo adempiendo l’onere ad esso imposto dal donante ai sensi dell’art. 793, comma 1, cod. civ., che il donatario di una donazione modale può evitare di mettere a rischio l’attribuzione patrimoniale ricevuta gratuitamente [6]. D’altra parte, il contratto gratuito non diventa a prestazioni corrispettive per il solo fatto che il beneficiario della prestazione sopporta un sacrificio economico (come avviene al beneficiario di una donazione modale) [7].

In conclusione, da un lato, i contratti a titolo gratuito si contrappongono non già ai contratti a titolo oneroso bensì ai contratti a prestazioni corrispettive (ovvero “di scambio”), pur potendo essere onerosi (per entrambi i contraenti) come questi ultimi; dall’altro lato, in ragione della contrapposizione esistente tra “gratuità” e “corrispettività” e della possibile onerosità dei contratti gratuiti, la dimensione della gratuità di un contratto può essere apprezzata solo con riferimento alla sua dimensione opposta, che è quella della corrispettività. Rispetto all’alternativa tra gratuità e corrispettività, l’onerosità rappresenta invece un elemento eterogeneo, intrinseco alla corrispettività e solo eventuale nella gratuità (vista dal lato di chi riceve la prestazione contrattuale) e di quest’ultima inidoneo ad alterare la sostanza.

È sulla base di queste premesse che si giunge, in maniera più che condivisibile, a qualificare come oneroso il contratto (costitutivo) di società, nonostante esso non sia un contratto a prestazioni corrispettive. Le parti di tale contratto, al fine di realizzare i propri interessi (che non necessariamente devono essere di natura economica ed egoistica), sopportano un sacrificio economico (corrispondente al valore conferito in società) che non si pone però in rapporto di corrispettività col sacrificio economico sopportato dagli altri contraenti [8].

Il nostro discorso introduttivo può qui concludersi rammentando come il contratto di società, oneroso (per i contraenti) pur non essendo a prestazioni corrispettive, appartenga al genus dei contratti associativi, che a loro volta rappresentano la figura più emblematica di contratti con comunione di scopo [9], una categoria concettuale, quest’ultima, con la quale è necessario, come vedremo in seguito, confrontarsi allorché si debba analizzare criticamente il tema della gratuità dei rapporti tra pubblico e terzo settore nell’amministrazione condivisa.


2. Gratuità e rimborso spese nel Codice del terzo settore

La dimensione della gratuità è presente in varie disposizioni del Codice del terzo settore (CTS).

È innanzitutto da osservare che, ai sensi dell’art. 4, comma 1, CTS, l’attività di interesse generale che qualifica gli enti del terzo settore (ETS) può essere da questi esercitata “in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi”.

La gratuità ha qui a che fare con una particolare modalità di azione degli ETS, quella erogativa, che nella definizione di ETS viene distinta sia dall’azione volontaria che da quella produttiva, nonché dalla forma mutualistica di azione, nonostante quest’ultima, a ben vedere, delineandosi sulla base della natura dei destinatari dell’attività di interesse generale (che sono allo stesso tempo associati dell’ETS), sia in linea di principio compatibile con le precedenti. Gli ETS possono dunque scegliere come condurre le proprie attività di interesse generale, anche se vi sono tipologie particolari di ETS, come gli enti filantropici, che si caratterizzano invece proprio per lo svolgimento di attività in forma di erogazione gratuita [10].

La dicotomia tra azione volontaria e azione gratuita emerge anche dall’art. 6 CTS, là dove fa riferimento a risorse “volontarie e gratuite”, ma allorché l’art. 17, comma 2, definisce il volontario, lo individua come una persona che, tra le altre cose, agisce “in modo gratuito”.

Gratuita è la partecipazione al Consiglio Nazionale del Terzo Settore (art. 59, comma 3) e alla Cabina di regia (art. 97, comma 3), ed interessante è che la norma in entrambi i casi specifichi che pertanto tale partecipazione “non dà diritto alla corresponsione di alcun compenso, indennità, rimborso od emolumento comunque denominato”.

Significativo ai nostri fini è anche l’art. 79, comma 2, CTS, là dove, a fini fiscali, qualifica “di natura non commerciale” le attività di interesse generale svolte “a titolo gratuito” ovvero “dietro versamento di corrispettivi che non superano i costi effettivi”.

Parimenti, l’art. 82, comma 2, CTS, esclude da imposizione i trasferimenti “a titolo gratuito” in favore degli ETS (ad eccezione delle imprese sociali societarie).

Il “titolo gratuito” dell’atto si pone altresì a fondamento delle norme fiscali di cui agli artt. 84, comma 1, lett. a, e 85, comma 6, CTS.

La liberalità – che come chiarito in precedenza si colloca all’interno della gratuità ma non la esaurisce – compare, in taluni casi per qualificare il termine “erogazione”, negli artt. 8, comma 3, lett. d, 77, commi 5 e 10, 79, commi 5 e 5-bis, 81, commi 1 e 5, e 83 del Codice, nonché all’art. 89, commi 11-14, CTS.

V’è, poi, nel Codice del terzo settore, un’altra possibile modalità di condotta, di nostro diretto interesse ai fini dell’analisi in corso, che è l’agire a rimborso spese.

Se ne parla innanzitutto all’art. 17, comma 3, sulla disciplina dell’attività di volontariato, che è qualificata come un’attività per la quale non può essere prevista alcuna retribuzione, fatto salvo il rimborso delle “spese effettivamente sostenute e documentate per l’attività svolta”.

Si evince dalla disposizione sopra citata che il rimborso spese è una circostanza meramente eventuale che non qualifica l’attività di volontariato pur essendo con essa compatibile. Il volontariato, infatti, è un’attività svolta in modo personale, spontaneo e gratuito, senza alcun fine di lucro, neanche indiretto, ed esclusivamente per fini di solidarietà (art. 17, comma 1). È la dimensione della gratuità, pertanto, che connota l’attività di volontariato, e questa dimensione non è compromessa, stando all’art. 17, comma 3, dal fatto che il volontario sia compensato delle spese sostenute per poterla svolgere. Per il legislatore del Codice tale compensazione non ha natura retributiva, ciò che escluderebbe la natura di volontariato dell’attività svolta, ma appunto compensativa dei costi sostenuti per poter svolgere l’attività, ovvero, detto in altri termini, della (sola) “perdita subita” o “danno emergente” [11], essendo proprio per questa ragione esplicitamente vietato dall’art. 17, comma 3, il rimborso forfetario, cioè svincolato dalla prova delle spese da rimborsarsi al volontario [12]. Né il legislatore si sofferma sulle spese per le quali il rimborso è ammissibile, ad esempio escludendone qualcuna ex ante, ma si limita da un lato a prescrivere che le spese debbano avere una connessione funzionale con l’attività di volontariato (“le spese … per l’attività prestata”), dall’altro ad affidare a ciascun ETS la previsione ex ante di limiti e condizioni per il rimborso delle spese ai propri volontari.

Di agire a rimborso spese si parla altresì nell’art. 33, comma 3, sulle organizzazioni di volontariato (“ODV”). Le ODV possono ricevere, per l’attività di interesse generale prestata, “soltanto il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate” [13].

La formula ricorre anche nell’art. 56, comma 2, CTS, che è norma per noi fondamentale essendo diretta a regolare convenzioni tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore, più precisamente organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale (“APS”), che rientrano tra i modelli dell’amministrazione condivisa e sono perciò escluse dall’ambito di applicazione del d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, recante il Codice dei contratti pubblici (“CCP”), ai sensi di quanto disposto dall’art. 6 del medesimo Codice.

Ebbene, le convenzioni dell’art. 56 possono prevedere in favore delle ODV e APS affidatarie dell’attività di interesse generale (o meglio, partner dell’amministrazione) esclusivamente il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate per lo svolgimento dell’attività (comma 2), “con esclusione di qualsiasi attribuzione a titolo di maggiorazione, accantonamento, ricarico o simili, e con la limitazione del rimborso dei costi indiretti alla quota parte imputabile direttamente all’attività oggetto della convenzione” (comma 4).

Proprio sulla base di quanto disposto dal Codice in materia di attività di volontariato e dell’esclu­sione esplicita degli istituti di cui agli artt. 55-57 dall’ambito di applicazione del CCP (art. 6, d.lgs. n. 36/2023), è possibile concludere nel senso che l’agire a rimborso spese sia qualificabile come agire gratuito nonostante il rimborso delle spese rappresenti un sacrificio economico a carico di chi (pubblica amministrazione o ente privato) sia tenuto ad effettuarlo. Ciò, naturalmente, a condizione che le spese rimborsate siano effettive e documentate e nulla in più sia attribuito a chi (volontario o ente) le abbia sostenute, fermo restando che tra le spese rimborsabili possono anche includersi i costi indiretti imputabili all’attività per cui il rimborso spese è previsto.

Quanto precede sembra confermare l’ipotesi della compatibilità tra la natura gratuita dell’atto (o più specificamente del contratto o della convenzione) e l’eventuale onerosità del medesimo per il beneficiario della prestazione gratuita: l’attribuzione a titolo gratuito può essere onerosa per chi ne beneficia, dove l’onerosità, come nel caso di specie, corrisponde alle spese da rimborsarsi a chi (volontario o ente) effettua a titolo gratuito una certa prestazione di volontariato (nel caso dell’art. 17 CTS) o di interesse generale (nei casi di cui agli artt. 33 e 56 CTS).

In verità, in maniera ancora più radicale, esula dagli istituti dell’amministrazione condivisa una valutazione in termini di gratuità, poiché tale valutazione, come già in precedenza sottolineato, acquista significato solamente se riferita ad atti giuridici che abbiano ad oggetto un’attribuzione patrimoniale, mentre tali non sono gli atti che costituiscono manifestazione del fenomeno che va sotto il nome di amministrazione condivisa.


3. Il problema della gratuità nell’amministrazione condivisa

Gli istituti di cui agli artt. 55-57 CTS hanno avuto un effetto dirompente, per certi versi rivoluzionario, sul sistema e la teoria dei rapporti giuridici tra pubbliche amministrazioni ed enti privati. Da ciò può anche nascere l’esigenza di rivedere e riadattare alcune categorie concettuali, in qualche modo tradizionali, ad istituti nuovi che si fondano su logiche particolari e diverse. La gratuità è una di queste, ed il dibattito che si è sviluppato, ed è ancora in corso, sulla gratuità degli istituti dell’amministrazione condivisa mette bene in luce come l’errata sovrapposizione di categorie tradizionali ad istituti nuovi, la cui diversità rispetto ad istituti preesistenti non è ancora del tutto compresa, possa condurre ad esiti interpretativi controproducenti per gli istituti medesimi, compromettendone quella capacità innovativa sulla quale il legislatore ha puntato all’atto della loro introduzione nell’ordinamento giuridico.

Ebbene, gli istituti dell’amministrazione condivisa presuppongono due elementi essenziali, che a loro volta li giustificano sotto il profilo costituzionale: il primo è la natura di ETS posseduta dalla parte privata, che garantisce l’efficacia dell’azione amministrativa alla luce della particolare affidabilità del partner privato (nonché della sua capacità di sintonizzarsi sui bisogni dei beneficiari fino addirittura a saperli incettare dall’origine) [14]; l’altro è quello della loro “gratuità”, che è capace di rendere questi rapporti (oltre che più efficaci nel soddisfare i bisogni, anche) tendenzialmente più vantaggiosi per la finanza pubblica di quelli instaurati ai sensi del CCP.

Di tale “gratuità”, quale fattore discriminante i rapporti di cui agli artt. 55-57 CTS, sono state sin qui date, tuttavia, due interpretazioni diverse, una più ampia, l’altra più restrittiva.

Nel giudicare compatibile con il diritto dell’Unione europea l’affidamento diretto del servizio di trasporto sanitario alle ODV (oggi esplicitamente previsto e regolato dall’art. 57 CTS), la Corte di giustizia dell’Unione europea, a partire dalle note sentenze Spezzino e Casta, ne individua una condizione di legittimità nella circostanza che le organizzazioni di volontariato affidatarie dei servizi “non traggano alcun profitto dalle loro prestazioni, a prescindere dal rimborso di costi variabili, fissi e durevoli nel tempo necessari per fornire le medesime, e che non procurino alcun profitto ai loro membri”. La Corte europea ammette peraltro che tali organizzazioni “si avvalgano di lavoratori, poiché, in caso contrario, … sarebbero pressoché private della possibilità effettiva di agire in vari ambiti in cui il principio di solidarietà può naturalmente essere attuato”, a condizione però che l’attività sia “svolta da lavoratori unicamente nei limiti necessari al loro regolare funzionamento” ovvero “nei limiti imposti dalla legislazione nazionale”, e che eventuali rimborsi spese ai volontari riguardino soltanto ed esclusivamente spese effettivamente sostenute entro limiti preventivamente stabiliti dall’organizzazione medesima [15].

Il carattere “gratuito” degli affidamenti, che ne giustifica e legittima il particolare regime giuridico, risiede dunque, secondo questa prima interpretazione, nella commisurazione del “corrispettivo” versato dalla pubblica amministrazione alle spese effettivamente sostenute dall’organizzazione privata per rendere il servizio. Il “corrispettivo”, pertanto, costituisce in realtà un rimborso spese (con funzione, come spiegato in precedenza, esclusivamente compensativa del “danno emergente”), non comportando alcun utile o profitto a beneficio dell’organizzazione affidataria. Possono però legittimamente essere rimborsate all’organizzazione affidataria anche le spese relative al costo del lavoro nonché le spese a loro volta sostenute dai volontari, purché le prime siano necessarie per il regolare funzionamento dell’organizzazione affidataria (ovvero non eccedano i limiti stabiliti dalla legislazione nazionale applicabile) e le seconde corrispondano a spese effettivamente sostenute dai volontari entro limiti prestabiliti ex ante dall’organizzazione medesima.

È evidente come questi principi risultino ripresi, quasi alla lettera, dal legislatore nazionale nella formulazione dell’art. 56 CTS (applicabile altresì, in virtù del rinvio espresso di cui al comma 2, agli affidamenti di cui all’art. 57, comma 1, CTS) [16], e come i requisiti essenziali della qualifica particolare di ODV di cui agli artt. 32 ss. CTS corroborino, sul piano sostanziale, il requisito della “gratuità” degli affidamenti come sopra inteso, se è vero che le ODV sono tenute ad avvalersi in modo prevalente dell’attività di volontariato dei propri associati o delle persone aderenti agli enti associati (art. 32, comma 1, CTS) – potendo ricorrere a lavoratori retribuiti “esclusivamente nei limiti necessari al loro regolare funzionamento oppure nei limiti occorrenti a qualificare o specializzare l’attività svolta”, fermo restando che “in ogni caso, il numero dei lavoratori impiegati nell’attività non può essere superiore al cinquanta per cento del numero dei volontari” (art. 33, comma 1, CTS) – e per l’attività di interesse generale prestata, come già abbiamo ricordato, possono ricevere soltanto il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate (art. 33, comma 3, CTS) [17].

Sul versante delle spese sostenute dai volontari soccorre poi una norma generale, anch’essa già menzionata, ovverosia l’art. 17, comma 3, CTS, secondo cui “al volontario possono essere rimborsate dall’ente del Terzo settore tramite il quale svolge l’attività soltanto le spese effettivamente sostenute e documentate per l’attività prestata, entro limiti massimi e alle condizioni preventivamente stabilite dall’ente medesimo”, essendo in ogni caso vietati i “rimborsi spese di tipo forfetario”.

L’interpretazione restrittiva del requisito di “gratuità” dei rapporti è stata invece (sorprendentemente) proposta dal Consiglio di Stato nel parere n. 2052 del 20 agosto 2018, reso in sede consultiva su richiesta dell’ANAC (in funzione dell’aggiornamento delle linee-guida contenute nella delibera n. 32/2016 di quest’ultima autorità) [18].

Il Consiglio di Stato include lo svolgimento del servizio “a titolo integralmente gratuito” tra le condizioni in presenza delle quali l’affidamento di servizi sociali (che avvenga anche ad esito di una procedura ex art. 55 CTS) non debba ritenersi soggetto alla regolazione di origine euro-unitaria, ovvero al CCP, poiché solo l’“assenza di corrispettivo non pone in radice problemi di distorsione della concorrenza”, risolvendosi in un “fenomeno non economico”, strutturalmente estraneo alle logiche di mercato.

Le procedure di affidamento di servizi sociali da rendersi in forma onerosa, cioè “in presenza anche di meri rimborsi spese forfettari e/o estesi a coprire in tutto od in parte il costo dei fattori di produzione”, sarebbero invece sottoposte al CCP, “al fine di tutelare la concorrenza anche fra enti del terzo settore”.

In definitiva, soltanto “il rimborso che escluda la remunerazione di tutti i fattori della produzione altrui (capitale e lavoro) e copra solamente le spese vive, nega l’onerosità della prestazione ed enuclea un contesto di servizio di interesse generale non economico, non interferente, in quanto tale, con la disciplina del codice dei contratti pubblici”.

Del resto, il CCP – come il Consiglio di Stato pone in evidenza – si applica a tutti gli appalti pubblici, ovverosia a tutti i “contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici, aventi per oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti e la prestazione di servizi” (art. 3, lett. ii, d.lgs. n. 50/2016, oggi art. 2, comma 1, lett. b, dell’allegato I.1. al d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36).

Negli anni immediatamente successivi, l’orientamento del Consiglio di Stato espresso nel parere n. 2052/2018 è stato pedissequamente seguito da alcuni giudici amministrativi (si vedano, ad esempio, TAR Toscana 1 giugno 2020, n. 266 [19] e Cons. Stato 7 settembre 2021, n. 6232 [20]), determinando timori ed incertezze in molte amministrazioni pubbliche, che su questa sola base hanno preferito seguire la via dell’appalto ai sensi delle disposizioni del CCP piuttosto che quella della convenzione ai sensi dell’art. 56 CTS [21].

Dopo questa partenza “in salita”, alcune vicende sopravvenute hanno contribuito a rendere in parte il “clima” più favorevole agli istituti dell’amministrazione condivisa, anche grazie all’impatto della fondamentale sentenza n. 131/2020 della Corte costituzionale [22] e delle modifiche nel frattempo subite dal CCP (allora vigente) al fine di tenere conto degli artt. 55-57 CTS [23], contribuendo ad una revisione, quanto meno parziale, della nozione di gratuità, nonostante la tesi sostenuta nel parere n. 2052/2018 continui tutt’ora (pericolosamente) a circolare, rendendo ancora possibili interpretazioni ed applicazioni errate (anche perché spesso acritiche) di questo principio, e perciò capaci di mettere a rischio rapporti particolari, come quelli dell’amministrazione condivisa, che ad una valutazione di gratuità dovrebbero peraltro, in ragione della loro natura giuridica, ritenersi sottratti.

Tra le vicende successive favorevoli ad una migliore comprensione degli istituti dell’ammi­nistrazione condivisa, anche per ciò che riguarda il profilo della gratuità, deve innanzitutto annoverarsi la pubblicazione del decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 72 del 31 marzo 2021, con cui sono state adottate linee guida sul rapporto tra PA ed ETS ai sensi degli artt. 55-57 CTS. In questo decreto, tra le altre cose, come avremo modo in seguito di osservare, da un lato si insiste sulla specificità di questi istituti e la loro natura non sinallagmatica, anche sulla base delle importanti statuizioni contenute in Corte cost. n. 131/2020, dall’altro lato si classificano espressamente come “contributi” ex art. 12, l. n. 241/1990, piuttosto che come corrispettivi, le risorse messe a disposizione della PA nel contesto ed in attuazione di questi rapporti.

Significative sono altresì state le nuove linee guida dell’ANAC (adottate con delibera n. 382 del 27 luglio 2022) sull’affidamento di servizi sociali, nelle quali, sulla base dell’art. 30, comma 8, CCP, in vigore in quel momento, si sostiene l’estraneità all’applicazione del codice medesimo delle forme di azione di cui agli artt. 55-57 CTS, anche se “realizzate a titolo oneroso”, ritenendosi queste ultime soggette, piuttosto, alle disposizioni della l. n. 241/1990 e realizzabili in concreto dalle PA attenendosi alle indicazioni contenute nel citato d.m. n. 72/2021.

Un passaggio fondamentale è stato l’espresso riconoscimento dell’amministrazione condivisa nell’art. 6 del nuovo CCP del 2023, quale modello di azione basato su modelli organizzativi “privi di rapporti sinallagmatici”, “fondati sulla condivisione della funzione amministrativa” con gli ETS, e perciò esclusi dall’ambito di applicazione del Codice medesimo.

Da ultimo, giova segnalare la posizione assunta dall’Agenzia delle entrate, che nella risposta all’interpello n. 904-785/2024, ha aderito alla tesi per cui le risorse economiche erogate da una PA ai fini di una co-progettazione ex art. 55 CTS sono da ricondurre ai contributi ex art. 12, l. n. 241/1990, poiché sono dirette a finanziare lo svolgimento di un’attività di interesse generale, a beneficio di soggetti meritevoli di attenzione sociale e non a vantaggio diretto ed esclusivo della PA erogante (come avviene nei contratti a prestazioni corrispettive o di scambio). Pertanto, tali erogazioni non costituiscono a fini IVA corrispettivi nell’ambito di contratti di scambio ma mere movimentazioni di denaro escluse dall’ambito di applicazione dell’imposta ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. a, del relativo testo unico. La qualificazione di queste somme come contributi fuori campo IVA non è peraltro compromessa – aggiunge l’Agenzia – dal fatto che gli atti o provvedimenti che ne disciplinano l’erogazione prevedano (come spesso accade) clausole risolutive e/o penali per il caso di mancata realizzazione da parte dell’ETS dei comportamenti dovuti.

Nonostante l’evoluzione non indifferente che ha interessato la normazione e il pensiero giuridico sull’amministrazione condivisa, la tesi restrittiva sulla gratuità dei rapporti dell’amministrazione condivisa è stata tuttavia riproposta in alcune sentenze successive, anche se – occorre sottolineare – dal loro esame emergono profili di presunta abusività nel ricorso agli istituti dell’amministrazione condivisa, che finiscono per condizionare, non poco, le conclusioni cui i giudici pervengono.

Nella sentenza n. 7020 del 7 agosto 2024, resa nel giudizio di appello instaurato dal comune soccombente in TAR Toscana, 1 giugno 2020, n. 266, il Consiglio di Stato aderisce alla ricostruzione offerta nel parere n. 2052/2018, ancorché a ciò indotto, almeno così pare, da una fattispecie concreta che ai suoi occhi lasciava trasparire elementi di abuso dell’istituto convenzionale di cui all’art. 56 CTS.

Poco convincente è l’allineamento proposto, in questa decisione, tra il parere n. 2052 del Consiglio di Stato e la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea n. 50/2016, poiché, come in precedenza spiegato, la Corte europea non esclude la rimborsabilità dei costi fissi, incluso il costo del lavoro, sebbene quest’ultimo sia da contenersi nei limiti di quanto necessario al regolare funzionamento dell’organizzazione, come del resto l’art. 33, comma 1, CTS impone alle ODV di diritto nazionale (aggiungendo, con specifico riferimento ai costi diretti, l’ipotesi alternativa dei limiti occorrenti a qualificare e specializzare l’attività svolta). Non appare corretto, dunque, concludere nel senso che “i limiti cui la Corte di Giustizia ha circoscritto l’ammissibilità del ricorso dell’affidamento di appalti di servizi solo ad associazioni di volontariato rendono evidente la correttezza del parere di questo Consiglio di Stato n. 2052/2018 …”.

Né è corretto ricollegare a questa interpretazione “rigida” del concetto di gratuità la capacità di prevenire abusi nel ricorso agli affidamenti agli ETS, perché diversi possono essere gli accorgimenti a tal fine utilizzabili, come ad esempio quello dei tetti al rimborso delle spese, che nella fattispecie de qua non erano stati infatti previsti dall’amministrazione procedente.

TAR Liguria n. 310/2024 del 3 maggio 2024, in tema di art. 55 CTS, muove dalla sentenza della Corte cost. n. 131/2020, menziona l’art. 6 del nuovo CCP, richiama il d.m. n. 72/2021 e la tesi della natura di contributi ex art. 12 dei mezzi somministrati dalla PA, ma ciononostante conclude per l’illegittimità per difetto di motivazione del ricorso all’istituto della co-progettazione, ovvero dello schema fondato sulla solidarietà, piuttosto che all’appalto, cioè dello schema fondato sulla concorrenza. Il tribunale regionale ritiene che “che sia tutt’oggi valida la regola secondo cui l’affidamento dei servizi sociali ricade nel perimetro applicativo delle norme in materia di appalti pubblici se l’amministrazione corrisponde al prestatore dell’attività di interesse generale un corrispettivo o, comunque, una qualsivoglia forma di remunerazione”. L’esclusione di queste procedure dall’ambito del CCP si realizza infatti, a suo avviso, solo “quando l’organismo del terzo settore svolga il servizio in forma gratuita, trattandosi, in tal caso, di un fenomeno non economico, ossia strutturalmente al di fuori delle logiche di mercato e, quindi, radicalmente estraneo alle regole competitive di matrice eurounitaria”.

Per il TAR ligure, “la prestazione si considera gratuita se viene effettuato il rimborso a piè di lista delle spese vive incontrate dall’ente, analiticamente rendicontate e documentate, mentre rimane esclusa la remunerazione dei fattori di produzione interni all’ente stesso, anche in forma indiretta o attraverso rimborsi spese forfettari: segnatamente, dev’essere acclarata l’assenza, a carico del soggetto pubblico affidante, di qualunque compenso per i membri e per il personale dell’ETS, dipendente o volontario, quale che ne sia la formale denominazione e qualunque sia il meccanismo economico o contabile; inoltre, non devono ricorrere forme di forfetizzazione dei rimborsi, né di finanziamento o contributo a compenso dell’attività espletata direttamente dall’ente”.

Di particolare interesse, in quest’ultima decisione, è il punto relativo alla possibilità per l’ETS affidatario di avvalersi di imprese for profit fornitrici di beni o servizi. Secondo il tribunale ligure ciò è possibile, ma poiché questi fornitori sono pagati con fondi pubblici, è necessario che “gli stessi siano scelti secondo le regole del codice dei contratti, perlomeno qualora le loro prestazioni risultino preponderanti rispetto alle attività svolte dall’organismo del terzo settore: infatti, se il servizio finisce per essere prestato, in tutto o in larga parte, da imprese con scopo di lucro, viene meno la ratio solidaristica del modello alternativo al mercato, onde, ai fini della normativa pro-concorrenziale di origine comunitaria, l’ETS deve ritenersi equiparato alle amministrazioni committenti, alla luce del concetto sostanziale di appalto pubblico, costituente il portato di effettività del diritto dell’Unione (si veda anche l’art. 93, comma 1, lett. e, d.lgs. n. 117/2017, ai sensi del quale l’ente del terzo settore ha l’obbligo di impiegare correttamente le risorse pubbliche finanziarie e strumentali ad esso attribuite)”.

V’è poi un altro gruppo di sentenze in cui, nonostante il richiamo al parere n. 2052 del Consiglio di Stato, in realtà non si manifesta alcuna adesione alla tesi centrale in esso proposta, ovverosia la limitazione dei rimborsi spese alle sole “spese vive”, con esclusione della rimborsabilità dei costi di capitale e lavoro, ma soltanto alla tesi, invero indiscutibile alla luce di quanto disposto dall’art. 56, comma 2, CTS, della illegittimità dei rimborsi spese forfetari.

Ad esempio, in TAR Lazio n. 281 del 28 marzo 2022, l’illegittimità della co-progettazione viene fatta discendere non già dalla negazione dell’argomento per cui le spese della PA sarebbero classificabili come “contributi” (ché anzi i giudici dimostrano di conoscere ed accogliere la ricostruzione svolta dal Ministero competente nel d.m. n. 72/2021) e dall’accoglimento della tesi del Consiglio di Stato secondo la quale sarebbero rimborsabili dall’amministrazione soltanto le “spese vive”, bensì dal fatto che i costi indiretti fossero di fatto rimborsali in via forfetaria, “senza alcun collegamento con una effettiva spesa sostenuta, documentata e rendicontata”, ciò che rende la prestazione della PA onerosa, escludendo la gratuità del rapporto.

Sulla base del medesimo argomento, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5217 del 26 maggio 2023, resa in sede di appello avverso la decisione del TAR Lazio testé menzionata, rigetta il ricorso facendo proprie le conclusioni della decisione appellata. Anche qui, sebbene apparentemente si manifesti adesione al parere del 2018, è tuttavia la previsione del rimborso forfetario a determinare l’illegittimità della co-progettazione per violazione dell’art. 56, comma 2, CTS, e non già la previsione in sé del rimborso dei costi indiretti, la cui rimborsabilità da parte dell’amministrazione procedente, qualora siano effettivi e documentati, non è espressamente negata.

Allo stesso modo deve valutarsi la decisione del TAR Campania n. 2621 del 2 maggio 2023, nella quale, nonostante il richiamo al parere n. 2052, non v’è adesione alle tesi in esso riportate, poiché in questo caso i giudici non hanno negato la natura di contributo ex art. 12, l. n. 241/1990, delle risorse pubbliche messe a disposizione (in questa fattispecie ai sensi dell’art. 57 CTS), ma si sono nuovamente soffermati sulla illegittimità dei rimborsi forfetari, che peraltro nel giudizio de quo non sussistevano poiché l’amministrazione procedente si era limitata a fissare tetti massimi di rimborsabilità delle spese, una pratica particolarmente apprezzata dai giudici amministrativi.

Secondo il tribunale campano, infatti, “la previsione del limite massimo dei costi rimborsabili all’organizzazione aggiudicataria non si è tradotta nell’illegittima previsione, come sostenuto dalla tesi ricorsuale, di un rimborso forfettario mensile fisso in misura massima, in evidente violazione delle innovative disposizioni del d.lgs. n. 117/2017, applicabili alla procedura de qua, che viceversa impongono, come specificamente previsto dall’avviso impugnato, in via esclusiva il rimborso sulla base delle spese effettivamente sostenute dagli enti no profit. Per contro, l’azienda sanitaria si è limitata alla doverosa e corretta predeterminazione dei mezzi finanziari messi a disposizione dell’aggiudicatario quale contributo pubblico per lo svolgimento del servizio. In tal modo operando, conclusivamente, l’amministrazione si è attenuta alla regola stabilita dall’art. 12, legge n. 241/1990, che integra un principio generale dell’ordinamento giuridico, quale corollario e precipitato logico dei superiori princìpi costituzionali di imparzialità e di buon andamento”.

Fatte queste necessarie precisazioni in merito all’effettiva portata della giurisprudenza richiamata, è evidente come le due nozioni di “gratuità” che si contendono il campo non solo conducano a risultati completamente opposti sul fronte dell’applicabilità o meno alle procedure di cui agli artt. 55-57 CTS della disciplina generale dei contratti pubblici di cui al relativo Codice, ma ancora prima, e in maniera più rilevante, sottintendano due interpretazioni affatto diverse di questo requisito.

Tuttavia, il problema della gratuità, quale elemento discriminante i rapporti dell’amministrazione condivisa rispetto a quelli soggetti all’applicazione del CCP, per poter essere definitivamente risolto, richiede di essere meglio inquadrato nella cornice contrattuale nella quale si colloca e verificato alla luce dei profili causali che la connotano. Se diversa fosse la causa, nel senso di funzione economico-sociale, dei rapporti di cui agli artt. 55-57 CTS rispetto ai rapporti oggetto del CCP, il tema della gratuità perderebbe di rilevanza, poiché emergerebbe una diversa, e più sostanziale, ragione per la quale il CCP ad essi non si applica. Se fosse la peculiare funzione economico-sociale degli istituti dell’amministrazione condivisa a giustificare il loro particolare regime giuridico, e non già la gratuità in sé, il dibattito relativo alla gratuità perderebbe rilevanza autonoma, finendo per essere assorbito in quello della causa contrattuale. Non si potrebbe più dire che sia la gratuità, comunque intesa, a qualificare l’amministrazione condivisa, bensì la loro specifica causa, di cui la gratuità può tutt’al più costituire un corollario strutturale.

L’approfondimento di questo aspetto deve prendere le mosse dalla sentenza n. 131/2020 della Corte costituzionale, che non a caso non discute di “gratuità”, ma focalizza la sua attenzione su un elemento causale ritenuto determinante al fine di attribuire specificità ai rapporti di cui all’art. 55 CTS, rendendoli così modelli organizzativi ispirati non già al principio di concorrenza bensì a quello di solidarietà.


4. La comunione di scopo nei rapporti dell’amministrazione condivisa e i suoi riflessi sul tema della gratuità

L’art. 55 CTS – esordisce la Corte nella sentenza n. 131/2020 – rappresenta “una delle più significative attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale valorizzato dall’art. 118, quarto comma, Cost.”, che ha a sua volta “esplicitato nel testo costituzionale le implicazioni di sistema derivanti dal riconoscimento della ‘profonda socialità’ che connota la persona umana (sentenza n. 228 del 2004) e della sua possibilità di realizzare una ‘azione positiva e responsabile’ (sentenza n. 75 del 1992)”. Più in particolare, l’art. 55 CTS, in attuazione dell’ultimo comma dell’art. 118 Cost., “realizza per la prima volta in termini generali una vera e propria procedimentalizzazione dell’azione sussidiaria”, ponendo in capo ai soggetti pubblici il compito di assicurare il coinvolgimento attivo degli enti del terzo settore.

Con gli ETS – soprattutto in ragione delle loro caratteristiche funzionali (perseguire senza scopo di lucro il bene comune mediante lo svolgimento di attività di interesse generale) – gli enti pubblici instaurerebbero “un nuovo rapporto collaborativo”, diretto a realizzare “insieme” l’interesse generale.

Ancora – spiega la Corte – “si instaura … tra i soggetti pubblici e gli ETS, in forza dell’art. 55, un canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del profitto e del mercato: la ‘co-programmazione’, la ‘co-progettazione’ e il ‘partenariato’ (che può condurre anche a forme di ‘accreditamento’) si configurano come fasi di un procedimento complesso espressione di un diverso rapporto tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico. Il modello configurato dall’art. 55 CTS, infatti, non si basa sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico” [24].

Le parole chiave del messaggio della Corte sono dunque collaborazione, condivisione, convergenza di obiettivi, aggregazione di risorse ed assenza di sinallagmaticità. Sono tutti elementi che contraddistinguono i rapporti di cui all’art. 55 CTS e ne determinano la specificità, rendendone giustificabile il relativo regime giuridico anche alla luce del diritto euro-unionale degli appalti pubblici.

Allo studioso del diritto civile una fattispecie negoziale con queste caratteristiche evoca immediatamente la categoria dei contratti con “comunione di scopo”, che è alternativa a quella dei contratti “di scambio” ovvero “a prestazioni corrispettive”.

Seppur in prevalenza dogmatica, in quanto destinataria di una scarna (se non addirittura inesistente) disciplina [25], la categoria dei contratti con comunione di scopo è stata elaborata per contrapposizione a quella dei contratti a prestazioni corrispettive (ovvero sinallagmatici o di scambio): in questi ultimi la prestazione di una parte è scambiata con la prestazione dell’altra, sicché ciascuna prestazione trova causa e giustificazione nell’altra, con la quale si trova in rapporto di reciprocità ed interdipendenza [26]; nei primi, invece, la prestazione di una parte non è effettuata per ottenere in cambio quella dell’altra, ma tutte le prestazioni lo sono per conseguire, attraverso lo svolgimento di una successiva attività di varia natura, uno scopo comune alle parti [27].

Nei contratti con comunione di scopo obiettivo condiviso dalle parti è dunque quello di realizzare insieme, grazie agli apporti di ciascuna, un risultato che soddisfi gli interessi di entrambe. In questo senso può dirsi che tra le parti di un contratto con comunione di scopo si realizza una vera e propria collaborazione, una collaborazione in senso stretto, tecnico-giuridico, che assume rilevanza causale e non ha quella valenza meramente descrittiva che può genericamente riscontrarsi in qualsiasi contratto.

Nei contratti con comunione di scopo le parti cooperano apportando risorse (tali contratti sono dunque, come si è già in precedenza sottolineato, tendenzialmente onerosi per tutte le parti), ma queste risorse sono aggregate in vista dell’obiettivo comune e non costituiscono oggetto di scambio tra le parti, sicché la prestazione di una parte di per sé non soddisfa l’interesse dell’altra e finisce per rivolgersi anche a vantaggio di chi la effettua [28].

L’obiettivo dei contratti con comunione di scopo, inoltre, può essere comune a più di due parti, ciò che spiega perché tali contratti possano essere plurilaterali, cioè avere più di due parti. Del resto, là dove non c’è scambio, ma aggregazione di risorse per uno scopo condiviso, sicuramente non si pone un problema di compatibilità tra struttura e funzione, potendo convivere apporti provenienti da più di due parti con la realizzazione della causa contrattuale, ed essendo anzi quasi naturale che ciò si verifichi (non a caso il codice civile finisce riduttivamente per identificare i contratti con comunione di scopo con i contratti plurilaterali) [29].

I rapporti di cui all’art. 55 CTS – possedendo le caratteristiche che la Corte costituzionale mette bene in evidenza nella sentenza n. 131/2020 – si prestano ad un inquadramento giuridico in questi termini, cioè come rapporti con comunione di scopo piuttosto che sinallagmatici.

Tale qualifica è di per sé idonea a giustificarne la soggezione esclusiva ad un regime giuridico particolare (quello di cui al CTS e alla legge n. 241/1990 cui il medesimo Codice fa rinvio all’art. 55, comma 1) rispetto a quello generale di cui al CCP (che si occupa di contratti essenzialmente sinallagmatici con cui l’amministrazione pubblica “acquisisce” un’utilità sotto forma di bene, servizio, ecc.), allo stesso modo e per le medesime ragioni per cui sono destinatari di una disciplina speciale (cioè il d.lgs. n. 175/2016) i contratti associativi della pubblica amministrazione, che pure, come già ricordavamo, appartengono alla categoria dei contratti con comunione di scopo, di cui anzi rappresentano il prototipo.

La definitiva consacrazione di questo argomento, da noi suggerito in un precedente intervento di poco successivo alla pubblicazione della sentenza n. 131/2020 [30], e poi condiviso da altra dottrina [31], si è avuta con l’introduzione dell’art. 6 (rubricato “Principi di solidarietà e di sussidiarietà orizzontale. Rapporti con gli enti del Terzo settore”) nel nuovo CCP di cui al d.lgs. n. 36/2023, che espressamente qualifica i modelli organizzativi dell’amministrazione condivisa “non sinallagmatici” e “fondati sulla condivisione della funzione amministrativa” con gli ETS, stabilendo di conseguenza che gli istituti di cui agli artt. 55-57 CTS “non rientrano nel campo di applicazione del presente codice”, a prescindere dalla verifica se essi (pur non essendo a prestazioni corrispettive) possano essere onerosi per l’ammi­nistrazione procedente.

Rispetto al tema della gratuità, le conseguenze di questa particolare qualificazione degli istituti dell’amministrazione condivisa, nel segno della comunione di scopo piuttosto che della corrispettività, appaiono evidenti.

Tornando infatti alle premesse teorico-concettuali esposte nella prima parte di questo scritto, la gratuità trova nella corrispettività (e non già nella onerosità) il suo opposto e la valutazione in termini di gratuità o corrispettività di un contratto può farsi soltanto con riferimento ai contratti che hanno ad oggetto una attribuzione patrimoniale. L’onerosità, invece, si pone su un piano diverso rispetto all’alter­nativa tra gratuità e corrispettività. Essa è sempre presente nei contratti a prestazioni corrispettive ma è anche compatibile con i contratti a titolo gratuito, poiché anche questi ultimi possono essere onerosi (per entrambe le parti), come accade qualora un sacrificio, ovvero una prestazione (non corrispettiva) sia richiesta al beneficiario per poter soddisfare il proprio interesse all’altrui prestazione. Come si diceva, la donazione modale è, a tal riguardo, la fattispecie più emblematica di contratto a titolo gratuito (o più precisamente liberale) che è anche oneroso per il beneficiario cui è imposto l’onere.

Di conseguenza, sfuggono alla valutazione in termini di gratuità-corrispettività i contratti diversi da quelli di attribuzione patrimoniale, quali i contratti con comunione di scopo e tra essi i contratti (o, se si preferisce, le “convenzioni”) che istituiscono rapporti di amministrazione condivisa ai sensi degli artt. 55-57 CTS.

Questi contratti non possono che essere onerosi per entrambe le parti (PA ed ETS) se la loro causa è la collaborazione tra le parti per il perseguimento di uno scopo comune, perché la collaborazione non può attuarsi senza il contributo di ciascuna delle parti.

Il problema degli istituti dell’amministrazione condivisa, pertanto, non risiede nella loro onerosità o meno per l’amministrazione, bensì nella sussistenza dell’elemento causale della comunione di scopo, che sarebbe compromesso qualora nessun sacrificio fosse imposto (non solo alla PA procedente ma anche) all’ETS o agli ETS coinvolti.

Il discorso deve essere dunque rovesciato. Gli istituti dell’amministrazione condivisa sono tali soltanto se entrambe le parti subiscono un sacrificio, compresa la parte privata, quindi, e non solo la PA. Qualora si ravvisi che l’ETS non subisca alcun sacrificio o “danno emergente”, allora l’istituto è impiegato impropriamente, perché non realizza alcuna causa di collaborazione tra pubblico e privato per finalità sociali.

Quanto precede, tuttavia, non implica affatto adesione alla tesi restrittiva (avanzata per la prima volta nel parere del Consiglio di Stato n. 2052/2018) per cui i costi generali e i costi del lavoro non sarebbero rimborsabili (nemmeno per una quota) dall’amministrazione procedente ai propri partner ETS, perché questa prospettiva, come spiegato, sarebbe sbagliata. La compensazione di queste spese da parte della PA non tramuterebbe, infatti, il “rimborso spese” in “corrispettivo contrattuale”, determinando la riqualificazione del contratto (o “convenzione”) ex artt. 55-57 CTS come contratto di scambio (soggetto al CCP).

Quanto precede significa soltanto che anche l’ETS partner dell’amministrazione deve sopportare un sacrificio, che potrebbe anche consistere nei costi figurativi dei volontari impiegati nell’attività (ed occorre a tal riguardo ricordare che avvalersi in prevalenza di volontari costituisce un obbligo per le ODV e le APS, sicché quando queste ultime siano partner dell’amministrazione il loro contributo alla causa comune è in re ipsa, fatti salvi evidentemente i controlli dell’amministrazione procedente sull’impiego effettivo di volontari). Se questa condizione è rispettata, allora l’amministrazione condivisa conserva la propria caratteristica distintiva della comunione di scopo.

A ben vedere, le conclusioni cui siamo giunti spiegano anche il riferimento contenuto nell’art. 56, comma 1, CTS, alle “condizioni più favorevoli rispetto al ricorso al mercato”, perché se un certo servizio di interesse generale è reso da un ETS non già verso un corrispettivo ovvero per equivalente (come avviene nei contratti di scambio) bensì in collaborazione con la PA nel quadro di un contratto con comunione di scopo, allora le “condizioni più favorevoli” presuppongono che anche l’ETS fornisca un apporto economicamente valutabile (di mezzi, persone, ecc.) alla comune intrapresa, rendendo quest’ultima pertanto più conveniente (anche dal punto di vista economico) per l’altro partner, ovvero la PA, di quanto avverrebbe se essa attribuisse un incarico ad una controparte attraverso un appalto pubblico.


5. Conclusioni

I rapporti instaurati nel segno dell’amministrazione condivisa ai sensi degli artt. 55-57 CTS sono, per espressa previsione legislativa, sottratti all’ambito di applicazione del CCP, essendo soggetti a regole proprie nonché ai principi di cui alla legge n. 241/1990.

Le ragioni di questa disciplina particolare risiedono nella loro natura giuridica. I rapporti dell’amministrazione condivisa sono infatti caratterizzati, come si evince già dalla loro denominazione e come adesso lo stesso legislatore riconosce (cfr. art. 6 CCP), da comunione di scopo e sono perciò diversi dai contratti a prestazioni corrispettive o di scambio.

Da qui la natura di contributo e non già di corrispettivo dell’apporto (sotto forma di rimborso spese) che la PA procedente riconosce all’ETS per lo svolgimento dell’attività di interesse generale, volendo la prima in tal modo non già ottenere un vantaggio diretto dal secondo bensì sostenere le sue attività di interesse generale a vantaggio dei beneficiari di queste ultime. La natura di contributo acquisisce altresì rilevanza fiscale, escludendo, come riconosciuto dall’Agenzia delle entrate, la sua soggezione ad IVA.

In questa prospettiva non si spiegano i ragionamenti legati alla gratuità dell’amministrazione condivisa, soprattutto allorché essi conducano a limitare alle sole “spese vive” le spese rimborsabili dall’amministrazione.

Il rapporto di amministrazione condivisa, essendo a comunione di scopo, non potrebbe realizzarsi a titolo gratuito, dovendo essere oneroso per entrambi i partner del rapporto. Solo quando alcun costo sia sopportato dal partner ETS, neanche sotto forma di costo figurativo, l’amministrazione condivisa smarrisce l’elemento della comunione di scopo che per legge dovrebbe contraddistinguerla, dovendo perciò essere sottoposta al CCP come fosse un contratto di scambio, anche perché essa non potrebbe nemmeno per ipotesi garantire alla PA “condizioni più favorevoli rispetto al ricorso al mercato”, come richiesto dall’art. 56, comma 1, CTS.

Per gli stessi motivi, il rimborso spese, cui è commisurato il contributo della PA al progetto comune, non potrebbe mai essere determinato in maniera forfetaria, ma deve sempre essere corrisposto a fronte di spese effettivamente sostenute e documentate, come del resto previsto esplicitamente dalla legge. Ciò ovviamente non impedisce alla PA (ed è anzi una buona prassi) di fissare un tetto alle spese rimborsabili all’ETS partner, purché all’interno di questo limite si rispetti il principio dell’effettività delle spese rimborsate. Con riguardo, infine, all’evenienza in cui l’ETS partner acquisisca da terzi soggetti, in particolar modo non appartenenti al terzo settore, beni o servizi necessari allo svolgimento dell’attività oggetto di amministrazione condivisa, è opportuno che tali relazioni si instaurino nel rispetto dei medesimi principi di pubblicità, trasparenza, comparazione e parità di trattamento che governano l’instaurazione dei rapporti di amministrazione condivisa ai sensi dell’art. 56, comma 3, CTS, al fine di evitare che il ricorso all’amministrazione condivisa possa rivelarsi un mero escamotage per sottrarsi alle regole del CCP (e dunque alle regole della concorrenza), in particolar modo allorché l’apporto dei terzi fornitori sia prevalente rispetto a quello dell’ETS (e di eventuali altri partner ETS di quest’ultimo).


NOTE

[1] Cfr., anche per ulteriori riferimenti alla dottrina, F. Gigliotti, Contratto a titolo gratuito, in Enc. dir., I tematici (Contratto), a cura di G. D’Amico, Milano, 2021, 164.

[2] Così F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, I, VIII ed., I, Milano, 1952, 460.

[3] In questi termini ancora F. Messineo, op. cit., 461.

[4] In questi termini, cfr. F. Gigliotti, op. cit., 165.

[5] Cfr. ancora, anche per riferimenti, F. Gigliotti, op. cit., 167 s.

[6] Cfr. art. 793, comma 4, cod. civ.

[7] Cfr. S. Nardi, Commento sub art. 793 c.c., in E. del Prato (a cura di), Donazioni, in Commentario del Codice Civile e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, a cura di G. De Nova, Bologna, 2019, 304 ss.

[8] Cfr. G. Marasà, Le società in generale, II ed., in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2000, 9 ss.

[9] Ibidem.

[10] Invero, l’art. 37, comma 1, nel definire gli enti filantropici, si limita ad enunciare il verbo “erogare” senza ulteriormente qualificarlo, ma che l’attività erogativa degli enti filantropici sia gratuita emerge dalla complessiva disciplina loro applicabile: cfr. A. Fici, Gli enti filantropici: caratteristiche e funzioni di una nuova tipologia di ETS, in A due passi dalla meta. Verso il completamento della riforma. 4° Rapporto sullo stato e le prospettive del diritto del terzo settore in Italia, a cura della Fondazione Terzjus ETS, Napoli, 2025, 283 ss.

[11] Qualora il rimborso abbia, anche sulla base di una previsione legislativa, lo scopo di ristorare il volontario del “mancato guadagno” o “lucro cessante” derivante dallo svolgimento dell’attività di volontariato, allora tale rimborso assume rilevanza reddituale ai fini delle imposte sui redditi: cfr. in questo senso la risposta n. 191/2023 dell’Agenzia delle entrate, con riferimento al rimborso per “mancato guadagno giornaliero” erogato ai sensi dell’art. 39, comma 5, d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1, c.d. Codice della protezione civile. L’Agenzia ritiene che, in base all’art. 6, comma 2, TUIR, “sono imponibili le somme corrisposte al contribuente in sostituzione di mancati guadagni (c.d. “lucro cessante”) purché riconducibili ad una delle categorie reddituali previste dal TUIR, mentre non assumono rilevanza reddituale le indennità risarcitorie erogata a fronte della perdita economica subita dal percipiente e che si concretizza in una diminuzione del suo patrimonio (c.d. “danno emergente”). Pertanto, il rimborso ex art. 39, comma 5, al volontario a fronte del “mancato guadano giornaliero” costituisce per espressa previsione normativa “lucro cessante” ed è soggetto ad imposizione.

[12] Non a caso, per Cass., 23 novembre 2015, n. 23890, i rimborsi forfetari, così come quelli che eccedano i limiti di rimborsabilità fissati dall’ente tramite il quale il volontario agisce, sono in realtà compensi soggetti ad imposizione fiscale.

[13] Tale limite non si applica alle attività “diverse” delle ODV svolte ai sensi dell’art. 6 CTS, e ciò anche nel caso in cui queste attività “diverse”, ovvero svolte a tale titolo dall’ODV, siano in realtà attività di interesse generale, come lo stesso art. 33, comma 3, CTS, si preoccupa di precisare.

[14] Ma sulla possibilità che l’art. 55 si applichi alle ONLUS, ciò che non smentisce quanto affermato nel testo, essendo le ONLUS per legge parificate agli ETS finché non scompariranno definitivamente dalla scena, cfr. TAR Lombardia, 1 ottobre 2023, n. 2533.

[15] Cfr. CGEU, 11 dicembre 2014, causa C-113/13, e CGUE, 28 gennaio 2016, causa C-50/14.

[16] Cfr. A. Albanese, I servizi sociali nel Codice del terzo settore e nel Codice dei contratti pubblici: dal conflitto alla complementarietà, in Munus, n. 1/2019, 157 ss., la quale peraltro giustamente ricorda come anche le linee-guida dell’ANAC sull’affidamento di servizi ad enti del terzo settore e cooperative sociali, adottate con delibera n. 32/2016, seguendo la medesima linea argomentativa della Corte europea, abbiano contribuito a determinare questo risultato.

[17] La disciplina delle associazioni di promozione sociale è meno rigorosa rispetto a questi requisiti, ma rimane il fatto che anche le APS devono avvalersi in modo prevalente dell’attività di volontariato dei propri associati (art. 35, comma 1, CTS).

[18] La sorpresa deriva dal fatto che il Consiglio di Stato, interpellato dal legislatore in sede di riforma del terzo settore, non aveva mosso analoghi rilievi nell’esercizio della funzione consultiva pronunciandosi prima sullo schema di decreto legislativo recante il Codice (parere n. 1405/2017) e successivamente su quello del decreto legislativo “correttivo” al medesimo Codice (parere n. 1432/2018).

[19] Secondo cui, la convenzione di cui all’art. 56 CTS non può “dar luogo a qualunque forma diretta o indiretta di remunerazione a carico del soggetto pubblico affidante, quale che ne sia la formale denominazione, al personale volontario o dipendente e direttivo dell’ente affidatario. Nel caso di specie tale condizione non può dirsi rispettata. Dalla istruttoria espletata è infatti emerso che la quota ampiamente maggioritaria dei docenti impegnati nei corsi di lingua offerti dalla controinteressata ha percepito e percepisce una remunerazione posta a carico del comune di Massa sotto forma di rimborso delle spese vive. Non sussiste, pertanto, quella totale assenza di economicità che pone in modo chiaro ed inequivocabile l’affidamento al di fuori della logica di mercato così come chiarito nel citato parere che il Collegio condivide”.

[20] Secondo cui, in ragione del principio di gratuità dell’affidamento ad esito di co-progettazione ex art. 55 CTS, “deve escludersi qualsiasi forma di remunerazione, anche indiretta, dei fattori produttivi (lavoro, capitale), potendo ammettersi unicamente il rimborso delle spese …”.

[21] Ne dà atto anche F. Giglioni, Lezioni per il diritto amministrativo dalla riforma del terzo settore, A. Fici-L. Gallo-F. Giglioni (a cura di), I rapporti tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 131 del 2020, Napoli, 2020, 86.

[22] Su cui si v. A. Fici-L. Gallo-F. Giglioni (a cura di), op. cit., passim.

[23] Si tratta delle modifiche agli artt. 30, comma 8, 59, comma 1 e 140, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, su cui cfr. A. Fici-L. Gallo-F. Giglioni, Postfazione: due importanti novità, in Idd. (a cura di), op. cit., 221 ss.

[24] Corsivi aggiunti.

[25] Al punto che, secondo parte della dottrina, tale categoria non esiste, è inutile o finisce col coincidere con quella dei contratti plurilaterali cui fanno infatti riferimento gli artt. 1420, 1446, 1459 e 1466 cod. civ.: cfr. A. Belvedere, Contratto plurilaterale, in Digesto civ., IV, Torino, 1989, 276. Per una diversa ricostruzione cfr. invece E. Minervini, Contratto plurilaterale, in Enc. dir., I tematici (Contratto), cit., 435, secondo cui, pur essendo tutti i contratti plurilaterali caratterizzati dalla comunione di scopo, tuttavia non tutti i contratti con comunione di scopo sono plurilaterali; tali non sono quelli con soltanto due parti. Invero, estesa è invece la disciplina dei contratti associativi (cioè costitutivi di un ente o persona giuridica), che dei contratti con comunione di scopo costituiscono una delle più importanti sottocategorie: cfr. G. Marasà, Le società, II ed., in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2000, 9 ss. Oggetto di disciplina specifica sono anche altri contratti ascrivibili alla categoria dei contratti con comunione di scopo, come i contratti di rete di cui all’art. 3, comma 4-ter, d.l. n. 5/2009.

[26] Cfr. V. Roppo, Il contratto, II ed., in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2011, 418.

[27] Cfr. V. Roppo, op. cit., 419.

[28] Cfr. A. Belvedere, op. cit., 274, secondo cui il fatto che la prestazione si rivolga a vantaggio anche del contraente che la compie non è un mero corollario della comunione di scopo, bensì criterio di individuazione di questi contratti, infatti: “mentre nei contratti di scambio la prestazione di ciascuna parte soddisfa l’interesse solo dell’altra, e costituisce solo un sacrificio per chi la compie, in altri tale prestazione finisce con il tornare a vantaggio anche di chi la compie, indirettamente o direttamente”; dove “indirettamente” presuppone lo svolgimento di un’attività ulteriore resa possibile anche dalla prestazione stessa (società, associazioni, consorzi), e “direttamente” indica che l’interesse di ciascuna parte è soddisfatto dal verificarsi di una situazione giuridica che richiede il sacrificio della parte stessa ovvero dalla sua stessa prestazione di fare o di non fare, come nei contratti con cui viene regolato il godimento di una cosa comune da parte dei comproprietari.

[29] Cfr. artt. 1420, 1446, 1459 e 1466 cod. civ.

[30] Cfr. A. Fici, I “presupposti negoziali” dell’“amministrazione condivisa”: profili di diritto privato, in A. Fici-L. Gallo-F. Giglioni (a cura di), op. cit., 55 ss.

[31] Cfr. E. Caruso, L’amministrazione pubblica condivisa: terzo settore, contratti e servizi, in Persona e amministrazione, XIV, n. 1, 2024.