Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

«Confidenze napoletane» e «fiducia» successoria: (antico) ritratto su (attuale) sfondo (di Mariano Robles)


Prendendo spunto da particolari clausole testamentarie tuttora adoperate e di controversa applicazione, il lavoro si propone di indagarne la matrice negoziale ‘fiduciaria’ attraverso l’attuale trattamento normativo, refrattario ad una sua piena tutela, rileggendola alla luce delle risalenti origini del fenomeno, nel tentativo di restituirne la perdurante vigenza all’interno della dimensione interpretativa costituzionale relativa a fattispecie codicistiche di recente introduzione.

“Neapolitan confidences” and succession “trust”: (ancient) portrait on (current) background

Inspired by particular testamentary clauses still used and of controversial application, this essay aims to investigate the fiduciary negotiation root through the current regulatory treatment, refractory to its full protection, rereading it in the light of the origins of the legal phenomenon, even with the aid of archival sources, in an attempt to restore its persistent vigor within the interpretive dimension of recently introduced civil code rules in the constitutional perspective.

Articoli Correlati: successioni testamentarie - fiducia

Mariano Robles - «Confidenze napoletane» e «fiducia» successoria: (antico) ritratto su (attuale) sfondo

SOMMARIO:

1. Autonomia negoziale e «gestione» di interessi: alle radici (successorie) della clausola «confidenziale». - 2. Interpretazione storica della clausola e sua (possibile) attualizzazione. - 2.1. Segue: tra «flussi» giuridici ed «esegesi» normativa. - 2.2. Segue: la sua portata effettuale. - 3. Clausola «confidenziale» e moderne declinazioni. - 3.1. Segue: il (tradizionale) paradigma del pactum de non alienando. - 3.2. Segue: l’(incompatibile) applicabilità al negozio testamentario. - 3.3. Segue: l’eterogeneità dell’interesse tutelato. - 3.4. Segue: la limitazione temporale. - 4. Il (nuovo) paradigma dell’«atto di destinazione». - 5. Prima ipotesi ricostruttiva «costituzionalmente orientata» dell’atto di destinazione mortis causa: «effettività» della tutela quale «proporzionalità» interpretativa. - 6. Violazione «destinatoria» e vizio funzionale da evizione. - 6.1. Segue: la tutela in prospettiva rimediale. - 6.2. Segue: forme testamentarie e (ultime) volontà «destinatorie». - 7. Seconda ipotesi ricostruttiva «costituzionalmente orientata» dell’atto di destinazione mortis causa: autonomia testamentaria quale (espressione di) «sussidiarietà» c.d. conformativa.


1. Autonomia negoziale e «gestione» di interessi: alle radici (successorie) della clausola «confidenziale».

Nel recente DDL Sen. n. 1151 del 19 marzo 2019, recante delega al Governo per la revisione del codice civile – le cui sorti sono state segnate dall’intervenuta emergenza pandemica ancorché, forse, non già (mutuando un’invalsa terminologia civilistica) in via ‘perentoria’, quanto (e prospetticamente) ‘manutentiva’ – si prevede, tra l’altro, la possibilità di «consentire la stipulazione di patti sulle successioni future», con una sensibile modifica dell’attuale (divieto sancito dall’)art. 458 c.c., secondo suggestioni di chiara matrice tedesca. Il profilo non ha mancato di destare l’interesse di quanti, sul presupposto del mutato modo di intendere «proprietà» e «famiglia» – pilastri fondativi dell’antico edificio successorio –, ha rimarcato il problema di una rilettura (finora alquanto marginale) anche del secondo libro del codice civile alla luce dei princìpî costituzionali. In particolare, nonostante l’abbondante letteratura formatasi sulla molteplicità degli strumenti a disposizione, quale valida alternativa «negoziale» al testamento nella trasmissione intergenerazionale del patrimonio, resterebbe tuttavia ancora largamente inesplorato l’ampio territorio di quei rapporti ove tale ordine di risvolti si salda con peculiari condizioni del potenziale beneficiario, implicanti una mediazione “programmatica” ulteriore, irrelata a talune contingenze e, quindi, non sempre valutabile al momento dell’atto (dispositivo) di ultima volontà. Si pensi al caso (non esattamente “di scuola”, in virtù dell’attuale pur breve termine per l’impugnativa ex art. 263 c.c., decorrente tuttavia dall’annotazione, salva l’operatività della disciplina transitoria di cui all’art. 104, c. 10, D.lgs. n. 154/2013) del «compiacente» riconoscimento, per finalità solidaristiche, di figlio «biologico» di amico intimo, incapiente e scopertosi malato terminale all’atto della relativa nascita, dalle cui ultime volontà emerga ex art. 256 c.c. l’intenzione ricognitiva (nel caso, corroborata da indicazione di materiale genetico per fini comparativi), insieme a cospicui lasciti frattanto pervenutigli, di cui è designato beneficiario a titolo di legato (rimesso ex art. [continua ..]


2. Interpretazione storica della clausola e sua (possibile) attualizzazione.

Si è visto come i sostenitori della tradizionale dottrina della simulazione, nel rappresentarne il (sotteso) fenomeno «fiduciario» come anomalia (eccedenza) e/o come patologia (abuso), non soltanto hanno rinunciato ad approfondire i nessi che quest’ultimo può assumere nell’esperienza del diritto, ma ne hanno diffuso un’immagine pregiudizialmente negativa; o meglio, di implicita incompatibilità con l’ordine giuridico. La scarsa attenzione prestata ai dati emergenti dalla storia e dalla realtà negoziale è testimoniata, non a caso, dalla (pressoché totale) esclusione dell’autonomia testamentaria dall’orizzonte teorico del negozio «fiduciario», che appare caratterizzato da un indispensabile «bilateralismo»[1]. E tuttavia, sussiste «fiducia» anche nei negozi «unilaterali», in una duplice manifestazione: come «causa» della dichiarazione di ultima volontà (i.e., l’accordo fra testatore ed erede, sotteso alla clausola testamentaria, rivolto al conseguente passaggio devolutivo), nonché come intenzione «affidante» implicita[2]. Il fenomeno, concettualmente inspiegabile sulla base degli assunti dogmatici (in termini di bilateralità, piuttosto che simulazione ovvero interposizione) e valutativi (i.e., «eccedenza» del mezzo sullo scopo; «potestà» di abuso), diviene invece intelligibile se letto anch’esso in chiave di titolarità nell’interesse altrui: una formula che, assumendo la vicenda «proteiforme» della proprietà e dei suoi strumenti traslativi, coglie appieno la nozione di quella che viene comunemente indicata come «proprietà fiduciaria»[3], in cui la spettanza si risolve nella gestione. Un’elaborazione più aderente alla storia ed alla realtà avrebbe, quindi, dovuto individuare il contrassegno delle relazioni «fiduciarie» non già nella disomogeneità tra «scopo economico» e «mezzo giuridico», bensì nella connessione funzionale tra la «tipicità» del mezzo giuridico e l’«atipicità» del c.d. «intento empirico» (Absicht), vero marchio genetico della fiducia[4]. Già Emilio Betti aveva indicato nella prassi romanistica dei c.d. negozi dicis causa[5], ossia [continua ..]


2.1. Segue: tra «flussi» giuridici ed «esegesi» normativa.

Spazi alquanto ridotti la «fiducia» è notoriamente riuscita a ritagliarsi nei sistemi nazionali ‘a diritto legificato’, caratterizzati dall’«assolutismo» della norma statuale e dal «formalismo» dell’interpretazione, entrambi fattori inibitori del fenomeno fiduciario[1]. Peraltro, converrà precisare che l’espressione confidentia poco o nulla ha a che vedere con l’invalsa categoria del «negozio fiduciario» noto ai Pandettisti, i quali vi avevano dedicato, si è visto, studi alquanto circospetti. In ciò, coerenti epigoni del grande Baldo degli Ubaldi, il quale per primo aveva «codificato» quel che la tradizione giuridica anglosassone era riuscita in forma originale a rimuovere e che, per ciò stesso e nel contempo, ha costituito il principale motivo di «paralisi» per la confidentia nell’esperienza continentale: l’evidenziata contrapposizione dei profili «reali» (c.d. property rules) con quelli «obbligatori» (c.d. contract rules); sfociata, poi, nell’«ipostatizzata» inconciliabilità tra una fiducia c.d. «romanistica», caratterizzata dall’«assolutezza», ed una c.d. germanica, connotata dalla «limitatezza» del dominio acquisito dal fiduciario[2]. La singolarità dell’istituto è data, infatti, dalla sua ascendenza in area anglo-normanna, nelle cui fonti legali si rinviene il termine francese affiance[3], dal cui ceppo si sviluppò in tutto il continente europeo la figura del fedecommissum confidentiale o purum, che si differenziava dall’istituto romanistico sotto un duplice aspetto. In primo luogo, i beni oggetto della confidentia erano (nella «titolarità», e tuttavia) «sottratti» ad azioni esecutive da parte dei creditori del c.d. «confidenziario»: un elemento che permarrà a connotare la disciplina di altri «patrimoni di scopo», proliferati in seguito all’espansione della moderna economia capitalistica[4]. In secondo luogo – ed è, forse, questo il tratto peculiare e distintivo dell’istituto – la figura del «confidenziario» si distacca gradualmente dalla sua originaria (e connaturata) qualità di «erede» pleno jure, per trasformarsi in quello che il diritto [continua ..]


2.2. Segue: la sua portata effettuale.

Il Rinascimento aveva, dunque, prodotto un sentimento di comunanza culturale, che rese più agevoli i «flussi» giuridici. I giureconsulti anglosassoni ne erano pienamente partecipi e consapevoli, e su questa circolazione di modelli legali furono elaborate le teorie e le regole «amorfe» attualmente raccolte sotto l’unitaria denominazione di trust. Ci fu, peraltro, un’epoca antecedente, all’apogeo di quell’esperienza unitaria segnalata in apertura, ove l’Europa, non soltanto continentale e mediterranea, fu anche politicamente «omogenea», in virtù dell’influsso esercitato dalle dinastie regnanti di stirpe normanna, i cui sovrani, soprattutto tra XI e XIV secolo, dominavano dall’Inghilterra angioina al Meridione d’Italia, passando attraverso la Francia e la rotta slavo-balcanica del Principato russo di Kiev, sino ai Regni di Polonia ed Ungheria[1]. Il che comportò l’inevitabile «osmosi» di regole giuridiche di ascendenza anglo-normanna, quale appunto l’affiance, all’interno dei territori assoggettati, tra cui il Regno di Napoli. Proprio in tale ultimo ambito, la documentazione archivistica disponibile restituisce un interessante diploma, risalente al 1497 (meno di quarant’anni dalla sentenza del giudice Fortescue), con cui Ludovico Sforza, detto il Moro, disponeva in ordine al governo del Regno, di cui aveva ottenuto l’investitura jure feudi dall’angioino Ferrante II in favore del suo secondogenito Francesco, dopo la morte ed in caso di minorità di quest’ultimo: ove – è detto – «apparo confidenza di tempi pacifici», dichiarandosene cioè (con terminologia corrente) «usufruttuario»[2]. Un’analoga espressione si ritrova utilizzata anche in ambito amministrativo, stavolta nell’accezione di «comprensorio di bonifica», in relazione al quale i Tesorieri delle circoscrizioni del Regno erano preposti alla raccolta dei relativi tributi (letteralmente: «iscrivere a registro»), ritratte da terre che, per secoli, l’apparato statale aveva affidato al risanamento (indirettamente, anche ambientale) ad opera dei privati latifondisti, indotti dall’aumento proporzionale della rendita in «plusvalenza fondiaria», commisurata al(l’obbligatorio) gettito fiscale, quale contropartita dell’avvenuta [continua ..]


3. Clausola «confidenziale» e moderne declinazioni.

Una volta delineato il ‘ritratto’ storico del congegno negoziale, converrà a questo punto inquadrarne l’attuale ‘sfondo’ operativo, situabile in particolare nell’ambito dell’autonomia testamentaria, cercando di declinarlo – come anticipato – alla stregua di istituti, presenti nella vigente codificazione, che ne condividano (e/o sottendano) l’evidenziata funzione «destinatoria». In ottica sistematica, stante l’assenza di una specifica disciplina, occorrerà pertanto non solo cogliere il ‘senso’ dell’istituto – ossia, l’interesse da esso perseguito – ma verificare altresì attraverso quali strumenti tecnici tale risultato possa essere oggi concretamente conseguibile, e quale sia l’eventuale ‘resistenza’ di siffatti strumenti rispetto ad interessi contrapposti[1]. A tal fine, sembra plausibile affermare che l’ordinamento giuridico guarda senz’altro con favore ad istituti che, nel rispetto dell’autonomia decisionale dell’autore dell’atto mortis causa e dei diritti riservati ai legittimari, consentano l’attuazione di progettualità per il tempo in cui la persona abbia cessato di vivere. A valutare con attenzione e rigore l’ipotesi in parola, si è di fronte alla sostanziale investitura di un c.d. ‘ufficio’ di diritto privato, recante la funzione di compiere il programma al quale i beni sono destinati, con l’obbligo di trasferirli, all’esito, ai soggetti che ne risultino beneficiari. Anzi, sarebbe possibile meglio osservare che si è alla presenza di una vera e propria disposizione testamentaria ‘di organizzazione’: non a caso, è alla flessibilità di strumenti alternativi, a cominciare dal c.d. trust «interno», che sempre più frequentemente si fa ricorso per ovviare alle (invero, di per sé, deboli) rigidità ‘interposte’ dal codice civile (arg. ex art. 627 c.c.). Avendo, dunque, come proposito di selezionare un (possibile) repertorio di disposizioni testamentarie in grado di assolvere – pur nei limiti che saranno segnalati – alla funzione «destinatoria» propria della «confidenza», verrebbero anzitutto in rilievo clausole sotto condizione risolutiva (v. artt. 633 ss. c.c.); ovvero, in alternativa, clausole cui può [continua ..]


3.1. Segue: il (tradizionale) paradigma del pactum de non alienando.

Il divieto di alienazione – sia «contrattuale», che «testamentario» – ha conosciuto un’ostilità tanto accesa, quanto immotivata. Una volta ammessa, infatti, l’autonomia logica e concettuale della facoltà di «disposizione», rispetto a quella di «alienazione», ne segue che – di fronte ad un vincolo di inalienabilità – l’alienante abbia comunque il libero esercizio della facoltà di disporre, dato che, in caso contrario, non vi sarebbe stata «valida» alienazione[1]. In altri termini, le clausole di inalienabilità non vincolano la facoltà di disporre, ma danno vita soltanto ad un’obbligazione personale di natura autonoma, cui corrisponde la possibilità, per la parte pregiudicata, di chiedere unicamente il risarcimento del danno in caso di inadempimento: il pactum de non alienando dà luogo, quindi, ad un’«obbligazione negativa»[2] ex art. 1222 c.c. La constatazione che tali patti non rappresentino un limite alla «facoltà di disporre», né un divieto in senso tecnico, hanno portato la discussione, per un verso, ad affrontare il tema della portata generale del principio contenuto nell’art. 1379 c.c., una volta raffrontato con le numerose fattispecie implicanti limitazioni alle vicende circolatorie; d’altro lato, la stessa appartenenza all’«ordine pubblico economico» del principio di libera circolazione dei beni. Sotto il primo profilo, secondo opinione meno recente, infatti, le clausole di inalienabilità costituirebbero pattuizioni «in danno» dei terzi, in quanto con i divieti contrattuali di alienare si inciderebbero diritti «altrui»[3]. Più precisamente, con tali pattuizioni si verrebbe non tanto a «disporre» dei diritti dei terzi, quanto a farne derivare effetti pregiudizievoli a loro carico, piuttosto che «propagandone» ad essi gli effetti «diretti»[4]. Questa opinione tuttavia, anche a prescindere dal disposto dell’art. 1379 c.c., contrasterebbe con la prerogativa, sottratta – come visto – all’autonomia contrattuale, di «manipolare» la sfera giuridica altrui rendendo oggettivamente «inalienabile» il bene, ciò equivalendo all’aggiunta per contratto di un «nuovo» (rectius, [continua ..]


3.2. Segue: l’(incompatibile) applicabilità al negozio testamentario.

E’ principio acquisito che il testatore possa imporre ai successibili una pluralità di limitazioni alla circolazione dei diritti soggettivi a contenuto patrimoniale. Ne sono esempio, soprattutto sotto forma di «legato», il divieto di concorrenza, nonché quello di licenziare un determinato dipendente[1]. Per contro, alcuni divieti testamentari devono considerarsi «illeciti», sia per espressa disposizione di legge (es., art. 636 c.c. in merito al divieto di contrarre nozze), sia in base a princìpi di ordine pubblico (es., divieto di impugnare il testamento)[2]. Ricorre, altresì, l’affermazione per cui i divieti testamentari non operino diversamente da quelli contrattuali, per ritenuta identità della rispettiva sfera d’incidenza. Segnatamente, si sottolinea la mancanza di una norma attributiva per il testatore del potere di stabilire il divieto di alienazione; di contro – una volta abrogato il c. 4 dell’art. 692 c.c. – non sussisterebbero motivazioni per escludere, purché entro i limiti dianzi individuati dall’art. 1379 c.c., siffatto potere in capo al testatore[3]. Presupposto (neppure tanto implicito) della riferita ricostruzione sarebbe la perfetta applicabilità all’atto mortis causa delle norme generali che regolano il contratto, nonostante il tenore dell’art. 1324 c.c., che allude testualmente agli «atti unilaterali tra vivi», suggerisca la soluzione negativa[4]. Oltretutto, la storia che accompagna la vicenda giuridica del testamento, nonché la diversità delle esigenze cui corrisponde, rispetto al contratto, conferma l’opinione – che sarà in seguito argomentata – per cui l’atto mortis causa debba essere sottratto all’operatività della relativa disciplina generale[5]. Rispetto all’autonomia «contrattuale», quella «testamentaria» assume un significato proprio, svincolato dalla valutazione prevista dall’art. 1322 c.c.: il negozio testamentario è, di per sé, «tipo» normativo che ha già scontato il giudizio di «meritevolezza» e, pertanto, incontra il solo (ed esclusivo) limite nella liceità dei motivi[6]. Orbene, prima della novella del diritto di famiglia, a metà degli anni Settanta, vasti settori della dottrina ritenevano che l’invalidità del divieto [continua ..]


3.3. Segue: l’eterogeneità dell’interesse tutelato.

Ricondurre, tuttavia, la (sostanziale) giustificazione della (in)validità del divieto in parola al principio di «ordine pubblico economico», inteso quale regola generale dettata per i limiti all’autonomia contrattuale, cui pertanto ascrivere (rectius, assoggettare) lo stesso negozio «testamentario», non si mostra particolarmente perspicuo, avendo perso – come visto – la libera circolazione dei beni ogni riferibilità ai confini di tale principio[1]. Si è già accennato, inoltre, ai seri dubbi circa la sua operatività per il testamento, in forza del rinvio di cui all’art. 1324 c.c.[2]. Nondimeno, la questione viene superata non tanto attraverso il ricorso alla «compatibilità», ai sensi di quest’ultima disposizione, quanto piuttosto alla sua applicazione analogica, ai sensi dell’art. 12 disp. prel. c.c.[3] Scelta la strada dell’«analogia» per colmare una «lacuna» dell’ordinamento, non potrebbe, però, trascurarsi – come anticipato – di verificare se effettivamente questa abbia come termine di riferimento la stessa soglia minima tracciata dal legislatore all’art. 1379 c.c., in ambito «contrattuale», ovvero se debbano privilegiarsi altre norme, specificamente dettate in materia di negozi mortis causa. Rispetto all’autonomia «contrattuale», si è già visto come quella «testamentaria» assuma un significato proprio. In particolare, si è notato come – in materia testamentaria – sia irrilevante l’«apprezzabilità in concreto» dell’interesse, requisito richiesto soltanto per i contratti «atipici». Affinché il divieto «testamentario» di alienazione sia validamente posto, si può, dunque, prescindere dai limiti (per come) previsti dall’art. 1379 c.c.: tale norma sottoporrebbe l’«apprezzabilità»  dell’interesse alla verifica giudiziale, mentre sembra condivisibile l’opinione per la quale solo l’«illiceità» dell’interesse contingente, che anima il divieto di fonte testamentaria, possa «contaminarne» la clausola di recepimento[4]. Analogamente, i «convenienti limiti temporali» non possono che essere valutati, in tale ambito, in funzione dell’interesse [continua ..]


3.4. Segue: la limitazione temporale.

L’esigenza di «temporaneità» è una caratteristica comune a tutti i rapporti obbligatori, e, dunque, anche a quelli testamentari; è stata in precedenza sottolineata la presenza di un atteggiamento sfavorevole della legge per il sorgere di obbligazioni, siano esse «positive» o «negative» (come, appunto, il divieto in parola), destinate a vincolare il debitore in perpetuo, o comunque per un arco temporale spropositato[1]. Anche in epoca antecedente all’attuale codice civile, si dava ampio risalto alla necessità che il divieto fosse temporaneo, in quanto solo così si poteva assicurare che l’inalienabilità non vanificasse il diritto del proprietario, mutilandolo di una delle manifestazioni più rilevanti – la «facoltà di disposizione» –, ovvero comprimendo in modo perdurante tale facoltà: «al di là della ricerca se l’art. 1379 c.c. riporti la temporaneità del divieto al terreno del favor debitoris, è certo che, specialmente alle obbligazioni di non fare, è connaturale un limite di tempo, in coerenza con i princìpi propri di un’economia di mercato che si affida alla libera competizione»[2]. La Relazione del Guardasigilli, riconoscendo la necessità di un limite temporale al divieto negoziale, ha evidenziato la difficoltà di prefissare un termine, giustificando così il ricorso ai «convenienti» limiti di tempo. La congruità della durata del divieto contrattuale deve essere, quindi, valutata (eccezionalmente) secondo criteri variabili, dipendenti dalle peculiarità del caso concreto, non valendo il riferimento ai parametri stabiliti per alcune fattispecie tipiche, quale il termine ventennale di cui all’art. 965, c. 3, c.c. (in tema di «enfiteusi»), ovvero quello quinquennale previsto nel capoverso degli artt. 2557 (in tema di «azienda») e 2596 c.c. (in tema di «patto di non concorrenza»). La temporaneità del divieto andrebbe, quindi, intesa nel senso che non è questione di discettare, in astratto, sulla maggiore o minore congruenza di un termine, rispetto ad un altro; il divieto contrattuale potrà durare per tutto il tempo per il quale sussiste il «bisogno» al quale risponde. In altri termini, la durata del divieto contrattuale di alienazione [continua ..]


4. Il (nuovo) paradigma dell’«atto di destinazione».

Com’è noto, il panorama della moderna «contrattualità successoria»[1] e delle disposizioni «pertinenti», con diretta ripercussione sui connotati tipici dell’art. 1379 c.c., hanno subìto una svolta radicale a seguito dell’introduzione dal 2005 dell’evocato art. 2645-ter c.c., il cui nuovo «paradigma» si rivela indubbiamente un efficace «trasformatore giuridico» anche per la (reviviscenza della) clausola «confidenziale» in esame. Invero, l’applicabilità dell’art. 2645-ter c.c. al divieto «contrattuale» di alienazione ha posto un tema di graduazione dell’indisponibilità, in funzione della ratio delle finalità perseguite con le singole figure «vincolistiche». In estrema sintesi, si ritiene che rientri nel «normale esercizio dell’autonomia privata, in ragione della peculiare destinazione e delle finalità che attraverso l’atto si vogliono realizzare, inserire una clausola di inalienabilità dei beni destinati»[2]. Per meglio dire, in determinate ipotesi il vincolo di destinazione ben potrebbe ricomprendere un divieto di alienazione e, dunque, la trascrizione del primo comporterebbe l’opponibilità ai terzi (anche) del secondo. E così, è agevole trasferire (le conclusioni raggiunte circa) il rapporto fra tale vincolo ed il divieto in parola all’indagine in materia testamentaria: la ricostruzione di un negozio «atipico» di destinazione ad ampio spettro – di cui l’art. 2645-ter c.c. costituisce soltanto un «modello» tipizzato per caratteristiche ed elementi strutturali – permette senz’altro di considerare a tutt’oggi ammissibile un «negozio testamentario di destinazione» con i requisiti (di meritevolezza e temporaneità) come dianzi ripercorsi, (un tempo) definito «confidenza»[3]. E ciò, con l’ausilio della disciplina «intertemporale», a conferma oltretutto della valenza puramente «ricognitiva» (piuttosto che «fondativa») dell’effetto «vincolistico», già in precedenza sottolineata in relazione all’art. 1379 c.c., in quanto oggi possibile contenuto – come visto – della nuova disciplina c.d. «destinatoria». In proposito, mette conto evidenziare [continua ..]


5. Prima ipotesi ricostruttiva «costituzionalmente orientata» dell’atto di destinazione mortis causa: «effettività» della tutela quale «proporzionalità» interpretativa.

Sta di fatto che l’attività gestoria relativa a beni «destinati» deve essere, all’evidenza, conforme agli assetti programmati dal disponente nel proprio atto di ultima volontà: ne discende, dunque, che tale attività «gestoria», in cui – come visto in premessa – affonda le sue radici più autentiche la stessa «autonomia contrattuale», non può in tali ipotesi ritenersi «libera», essendo di per sé «direzionata» negli scopi, i cui «vincoli dispositivi», espressi o impliciti, emergano dal tenore dell’atto negoziale. Per caratteristiche strutturali (e tecniche redazionali), una clausola «confidenziale» di fonte testamentaria rappresenta, il più delle volte, il miglior esempio di tali limiti «impliciti»: come nell’ipotesi in cui detta clausola preveda che un determinato immobile debba essere «fruito» da un certo beneficiario per tutta la durata della destinazione, per poi essergli «trasferito» alla scadenza: il piano degli interessi emergenti da una siffatta clausola denota infatti, sia pure implicitamente, che a costui è vietato «alienare» (e/o «mutare la destinazione» del)l’immobile in questione. Sorgono, a questo punto, due problemi di non poco momento: l’uno, relativo alla riconoscibilità «interpretativa» di tale clausola, o meglio, il grado (più o meno intenso) di «inespressione» all’uopo giuridicamente rilevante, al cospetto di scheda testamentaria redatta anche in epoca anteriore alla (formale) «ricezione normativa» dell’atto di destinazione; l’altro, concernente la sorte degli atti compiuti in violazione della «destinazione» (sia pure «implicitamente» riconosciuta) impressa ai beni. Sotto il primo profilo, riaffiora l’utilità del percorso storico-esegetico in precedenza seguito, da cui è emerso come nell’elaborazione di common law la confidentia è stata intesa quale «ufficio fiduciario di necessità» ragguagliabile, si è visto, più che alla figura dell’«esecutore testamentario» scaturito dallo sviluppo romanistico del fideicommissum, a quell’altra (anch’essa continentale, ancorché dalla diversa «genealogia» [continua ..]


6. Violazione «destinatoria» e vizio funzionale da evizione.

Ulteriore problema che si pone, nel silenzio serbato sul punto dall’art. 2645-ter c.c., attiene – come si diceva – alle sorti del negozio, con cui il «gestore» del bene vincolato ne disponga, in violazione della «destinazione» impressa. Secondo un diffuso orientamento[1], il silenzio normativo dovrebbe interpretarsi nel senso che il legislatore non ha inteso configurare il negozio ex art. 2645-ter c.c. quale destinazione di tipo «statico», vale a dire postulante un’indisponibilità (o una disponibilità soggetta a limitazioni) del bene vincolato. In tale ottica, eventuali divieti e/o limitazioni alla facoltà di alienare il bene, che fossero inseriti nel negozio dal disponente per meglio realizzarne le finalità, essendo il mero frutto di una scelta dell’autonomia privata, ricadrebbero nella previsione dell’art. 1379 c.c., ossia avrebbero rilievo meramente «obbligatorio». Da tale impostazione si fa discendere pertanto che, ove il gestore disponga «abusivamente» del bene vincolato, il beneficiario sarà tutelato dal fatto che il bene circola (e, dunque, viene acquistato dall’avente causa dal gestore e dai successivi subacquirenti) gravato dal vincolo (in base al noto principio res transit cum onere suo), senza che tale acquisto possa ritenersi né invalido, né inefficace. Com’è stato osservato[2], appare evidente come la tesi in esame concepisca il vincolo ex art. 2645-ter c.c. come una sorta di «peso» inerente al bene e, come tale, destinato a seguirlo nelle sue vicende circolatorie[3]. La tesi dianzi esposta, pur nella condivisibile attitudine «euristica», merita talune precisazioni. In primo luogo, a ben vedere, l’art. 2645-ter c.c. afferma che: «i beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione». Pertanto, non può escludersi che, mediante tale espressione, il legislatore abbia inteso distinguere tra attività dispositiva del gestore in conformità al fine di «destinazione» (e, come tale, legittimante l’avente causa dal gestore ad acquistare il bene libero dal «vincolo») ed attività costituente, invece, violazione di detto fine (e, come tale, all’origine di un negozio inidoneo a produrre effetti in danno dei beneficiari del vincolo, [continua ..]


6.1. Segue: la tutela in prospettiva rimediale.

Orbene, all’interno di quest’ultima impostazione, mette conto segnalare quell’indirizzo di pensiero[1] che, rifacendosi all’iniziale inquadramento del «vincolo di indisponibilità» discusso in apertura, reputa applicabili i seguenti principi: a) l’atto compiuto in violazione sarebbe valido ed «efficace» inter partes (ossia, nei rapporti tra gestore e suo avente causa), ma «inopponibile» al patrimonio destinato (ossia, ai beneficiari), purché sia data prova della mala fede dell’avente causa dal gestore; nonché b) nell’ipotesi in cui il destinante vi abbia conferito espressa valenza di «condizione risolutiva» della stessa attribuzione patrimoniale al gestore, l’atto compiuto da quest’ultimo sarebbe invece (stante l’avveramento di tale condizione) inefficace. Più precisamente, premessa la dubbia validità per il passato di una siffatta condizione, il cui congegno ex art. 1357 c.c. (ad efficacia «reale») avrebbe “eluso”, rendendo opponibile a terzi, il divieto (meramente «obbligatorio») previsto dall’art. 1379 c.c.[2], conclude affermando che l’art. 2645-ter c.c. consente, invece, di effettuare un trasferimento, a fini di destinazione, e prevedere che l’eventuale successiva alienazione del bene stesso, da parte del gestore, in contrasto con tale finalità, costituisca condizione risolutiva del trasferimento. E tuttavia, se – come visto – alla proprietà «destinata» creata dal negozio ex art. 2645-ter c.c. risulta inapplicabile l’art. 1379 c.c. (in quanto i limiti alla disponibilità del bene sono in sé dotati di rilevanza «reale» e non meramente «obbligatoria»); e se, pertanto, l’atto dispositivo del gestore, il quale viola la destinazione, è già di per sé affetto da un vizio «strutturale», con possibilità di accedere ad una tutela lato sensu «reale» impugnando l’atto medesimo, il ricorso al congegno della condizione «risolutiva» (proficuo, ove lo si ammetta, in un contesto proprietario in cui vige l’art. 1379 c.c.) appare superfluo[3]. Peraltro, la sanzione derivante dall’avveramento di tale condizione (i.e., l’inefficacia) non potrebbe consentire la tutela degli aventi causa in buona fede dal [continua ..]


6.2. Segue: forme testamentarie e (ultime) volontà «destinatorie».

Ove, dunque, il «vincolo di indisponibilità» sia di fonte testamentaria e, nello specifico, recato da clausola «confidenziale», il problema residuale, benché non di poco momento, da cui far dipendere la plausibilità dell’analisi finora condotta, sarebbe circoscritto alla forma[1]. Infatti, quanto alla realizzazione di interessi «meritevoli», varranno le medesime osservazioni enucleate in riferimento al divieto «contrattuale» di alienazione: per l’opponibilità ai terzi sarà necessario non soltanto che l’atto sia «lecito», ma sia anche diretto a realizzare un interesse «apprezzabile» ex art. 1322 c.c., espressamente richiamato nel contesto precettivo della (nuova) norma; ad ulteriore riprova che in tanto sarà concepibile una deroga alla facoltà di disporre ed alla (connessa) «responsabilità patrimoniale» con efficacia erga omnes, soltanto al cospetto di «interessi» che in diritto anglosassone qualificherebbero il trust come charitable[2] e di cui, per ciò stesso, ben possono essere «beneficiari» intere categorie di soggetti non rigidamente predefiniti nella relativa platea. In mancanza, tale vincolo c.d. «di scopo», seppur «alido inter partes, non potrà però produrre effetti «segregativi» e di opponibilità, secondo il modello ex art. 2645-ter c.c. Quanto poi alla «durata», se il «vincolo di indisponibilità» fosse effettivamente «funzionale» ad un interesse (non soltanto «lecito», bensì) «apprezzabile», dovrà ammettersene la piena validità nei limiti necessari al suo compimento, e comunque non oltre novant’anni, come espressamente stabilito da quest’ultimo. Tornando alla «forma», nei rapporti successori si è reputato non potersi prescindere dal testamento redatto in forma pubblica: è il ministero notarile a conferire quel ‘filtro di legalità’ che la norma prescrive. Considerando che il riferimento normativo ad «atti in forma pubblica» ha la finalità di garantire un preventivo controllo del pubblico ufficiale sulla «meritevolezza» degli interessi perseguiti, attraverso la costituzione del «vincolo», si è osservato come [continua ..]


7. Seconda ipotesi ricostruttiva «costituzionalmente orientata» dell’atto di destinazione mortis causa: autonomia testamentaria quale (espressione di) «sussidiarietà» c.d. conformativa.