Prendendo spunto da particolari clausole testamentarie tuttora adoperate e di controversa applicazione, il lavoro si propone di indagarne la matrice negoziale ‘fiduciaria’ attraverso l’attuale trattamento normativo, refrattario ad una sua piena tutela, rileggendola alla luce delle risalenti origini del fenomeno, nel tentativo di restituirne la perdurante vigenza all’interno della dimensione interpretativa costituzionale relativa a fattispecie codicistiche di recente introduzione.
Inspired by particular testamentary clauses still used and of controversial application, this essay aims to investigate the fiduciary negotiation root through the current regulatory treatment, refractory to its full protection, rereading it in the light of the origins of the legal phenomenon, even with the aid of archival sources, in an attempt to restore its persistent vigor within the interpretive dimension of recently introduced civil code rules in the constitutional perspective.
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Mariano Robles - «Confidenze napoletane» e «fiducia» successoria: (antico) ritratto su (attuale) sfondo
1. Autonomia negoziale e «gestione» di interessi: alle radici (successorie) della clausola «confidenziale». - 2. Interpretazione storica della clausola e sua (possibile) attualizzazione. - 2.1. Segue: tra «flussi» giuridici ed «esegesi» normativa. - 2.2. Segue: la sua portata effettuale. - 3. Clausola «confidenziale» e moderne declinazioni. - 3.1. Segue: il (tradizionale) paradigma del pactum de non alienando. - 3.2. Segue: l’(incompatibile) applicabilità al negozio testamentario. - 3.3. Segue: l’eterogeneità dell’interesse tutelato. - 3.4. Segue: la limitazione temporale. - 4. Il (nuovo) paradigma dell’«atto di destinazione». - 5. Prima ipotesi ricostruttiva «costituzionalmente orientata» dell’atto di destinazione mortis causa: «effettività» della tutela quale «proporzionalità» interpretativa. - 6. Violazione «destinatoria» e vizio funzionale da evizione. - 6.1. Segue: la tutela in prospettiva rimediale. - 6.2. Segue: forme testamentarie e (ultime) volontà «destinatorie». - 7. Seconda ipotesi ricostruttiva «costituzionalmente orientata» dell’atto di destinazione mortis causa: autonomia testamentaria quale (espressione di) «sussidiarietà» c.d. conformativa.
Nel recente DDL Sen. n. 1151 del 19 marzo 2019, recante delega al Governo per la revisione del codice civile – le cui sorti sono state segnate dall’intervenuta emergenza pandemica ancorché, forse, non già (mutuando un’invalsa terminologia civilistica) in via ‘perentoria’, quanto (e prospetticamente) ‘manutentiva’ – si prevede, tra l’altro, la possibilità di «consentire la stipulazione di patti sulle successioni future», con una sensibile modifica dell’attuale (divieto sancito dall’)art. 458 c.c., secondo suggestioni di chiara matrice tedesca. Il profilo non ha mancato di destare l’interesse di quanti, sul presupposto del mutato modo di intendere «proprietà» e «famiglia» – pilastri fondativi dell’antico edificio successorio –, ha rimarcato il problema di una rilettura (finora alquanto marginale) anche del secondo libro del codice civile alla luce dei princìpî costituzionali.
In particolare, nonostante l’abbondante letteratura formatasi sulla molteplicità degli strumenti a disposizione, quale valida alternativa «negoziale» al testamento nella trasmissione intergenerazionale del patrimonio, resterebbe tuttavia ancora largamente inesplorato l’ampio territorio di quei rapporti ove tale ordine di risvolti si salda con peculiari condizioni del potenziale beneficiario, implicanti una mediazione “programmatica” ulteriore, irrelata a talune contingenze e, quindi, non sempre valutabile al momento dell’atto (dispositivo) di ultima volontà. Si pensi al caso (non esattamente “di scuola”, in virtù dell’attuale pur breve termine per l’impugnativa ex art. 263 c.c., decorrente tuttavia dall’annotazione, salva l’operatività della disciplina transitoria di cui all’art. 104, c. 10, D.lgs. n. 154/2013) del «compiacente» riconoscimento, per finalità solidaristiche, di figlio «biologico» di amico intimo, incapiente e scopertosi malato terminale all’atto della relativa nascita, dalle cui ultime volontà emerga ex art. 256 c.c. l’intenzione ricognitiva (nel caso, corroborata da indicazione di materiale genetico per fini comparativi), insieme a cospicui lasciti frattanto pervenutigli, di cui è designato beneficiario a titolo di legato (rimesso ex art. 632 c.c. al «vero» onerato) lo stesso «falso» dichiarante, ‘previo’ (i.e., if and when) tempestivo ristabilimento della verità naturale; di là dalla funzione (in tutto o in parte) ‘remuneratoria’ (a salvaguardia) del contemplato lascito[1]. La risposta interpretativa non potrebbe che muovere dal tormentato travaglio di cui la dimensione «fiduciaria» dei fenomeni giuridici – ove chiamata ad operare fuori dal «letto di Procuste» della tipologia di obbligazioni espresse dall’art. 2034 c.c. – è stata, per certi versi, ‘vittima’ e con cui ha dovuto confrontarsi.
Non a caso, tra le più influenti conseguenze nel superamento dei c.d. vincoli di status, «specchio» della posizione gerarchica socialmente ricoperta dall’individuo durante l’Ancien Régime, alla stregua della prismatica «proiezione» dominicale a ciascuno corrispondente, vi è stata certamente l’ambita parificazione delle singole posizioni soggettive tramite l’(esaltazione dell’)autonomia contrattuale[2]. E ciò, con l’unica (ma significativa) eccezione delle prerogative che ne hanno delimitato tassativamente la libertà di azione riguardo a(l godimento de)i «beni», in quanto «misura» – sia in relazione a quelli attuali, che futuri – della capacità individuale di «impegnarsi contrattualmente» (arg. ex art. 2740 c.c.)[3].
Tali esiti, riassumibili nell’(apparente incontrovertibile) antitesi tra «relatività» negoziale (inter partes) e «realità» dominicale (erga omnes), denotano la ‘faglia concettuale’ forse più profonda (e risalente), dischiusa dal graduale processo di divaricazione tra diritto continentale ed anglosassone, mirabilmente indagato da Maurizio Lupoi, il quale ne propone una rinnovata disamina, partendo dai presupposti metodologici propri della linguistica comparata. Sembra, cioè, ragionevole muovere dalla considerazione che (tal)i caratteri distintivi tra (i due) sistemi risultino più agevolmente comprensibili qualora se ne focalizzi l’attenzione sulla fase in cui quest’ultimi erano (ancora) indistinguibili: una sorta di «indoeuropeo del diritto» quale chiave interpretativa in grado di superare la c.d. ‘miscomparazione’, sostituendola con un’autentica analisi giuridica[4].
Provando a sviluppare in premessa le implicazioni sottese a tali preziose suggestioni, il (principale) limite connaturato all’efficacia soggettiva del rapporto regolato dal «contratto», in quanto dato logico prim’ancora che giuridico (arg. ex artt. 1321 e 1372, c. 1, c.c.) – essendo ogni sfera individuale governabile dalla sola volontà del suo titolare –, ne segna parimenti il limite all’autonomia, di cui il contratto è espressione: il relativo potere, infatti, non potrà esercitarsi se non «limitatamente in direzione» di quei soggetti, verso i quali il contratto riceverà tutela da parte dell’ordinamento giuridico[5]. Ma poiché l’autoregolamento esprime ‘gestione’ inter partes, così da non poter essere, nel contempo, ‘posizione di norme’ erga omnes ossia estrinsecazione di «imperio», sottratto alle attribuzioni del soggetto di diritti[6], la (jheringhiana) «signoria della volontà» (Herrschaft) non avrebbe giammai potuto espandersi al punto da rilegittimare quell’assetto composito di statuti proprietari, caratteristico dell’Età intermedia, in cui l’Illuminismo aveva intravisto – come accennato – il fondamento (politico) e l’icona (giuridica) della «diseguaglianza» e, per ciò stesso, convintamente espunto dalla (pur ampia) libertà negoziale riconosciuta all’individuo[7].
Ne consegue, per quanto qui interessa, che la volontà di quest’ultimo non avrebbe (avuto) il potere né di predisporre contratti costitutivi di diritti reali atipici, in grado di restringere, oltre alla libertà del predisponente, anche quella di chi acquista un diritto sul «bene» oggetto (ex art. 810 c.c.) del diritto «atipico»; né di concepire contratti atipici ad effetti reali, parimenti in grado di imporre ai terzi «vincoli» da loro non assentiti, rispetto al bene oggetto di negoziazione[8]. Entrambe le descritte conseguenze, a loro volta espressione del c.d. principio di «tipicità» (o numerus clausus)[9] dei diritti reali, troverebbero (oggi) un ‘addentellato’ costituzionale alla luce della riserva di legge prevista dall’art. 42, cpv., Cost., (ch)e (rinvia al disposto) degli artt. 832 e 1322, c. 2, c.c., in ordine alle modalità di fruizione (i.e., godimento) dei beni[10].
Il c.d. «metodo dell’economia»[11], cui il codice civile del 1942 è notoriamente ispirato, aveva in sostanza confermato le linee di tendenza appena tracciate. E così, l’art. 1173 c.c. fa derivare il rapporto obbligatorio da ogni atto o fatto idoneo a produrlo, ma pur sempre «in conformità dell’ordinamento giuridico»; l’art. 1322 c.c. pone alla libertà di predisporre contratti «atipici» l’analogo limite, contrassegnato dalla necessità che questi siano idonei a realizzare interessi meritevoli di tutela «secondo l’ordinamento giuridico»; l’art. 1987 c.c. esclude che la promessa «unilaterale» sia fonte di obbligazioni «fuori dei casi» determinati dalla legge; l’art. 2004 c.c. limita ai casi stessi la libertà di emissione di titoli al portatore, recanti un’obbligazione pecuniaria.
Tali indici normativi suggerirebbero come il potere della «volontà» assuma carattere recessivo nelle sue manifestazioni efficaci, essendo in grado di sopravanzare la «legge» solo nella misura in cui quest’ultima (glie)lo permette. In base alla schematizzata «intelaiatura» codicistica, la volontà individuale dovrebbe, pertanto, ritenersi competente ad indicare gli effetti (propriamente) economici dell’atto di autonomia, non anche quelli giuridici[12], nonostante – sarà bene rimarcarlo da subito – la presenza, all’interno del suo impianto normativo, di discipline chiaramente propense a valorizzare, in particolare, differenziati «statuti di appartenenza» nell’accennata ottica gestionale: basti pensare all’impiego polivalente dell’usufrutto, tra i pochi (ancorché eloquenti) casi di contaminazione «rovesciata» tra diritto civile e commerciale, per come unificati nella (nuova) codificazione[13].
Il che, peraltro, non era stato sufficiente ad arginare la forte spinta dogmatica, di matrice germanica, a regolare i fenomeni sociali classificandoli in rigide categorie giuridiche, ove ogni elemento «funzionale» dovesse essere assorbito dalla «struttura» che l’atto di autonomia avrebbe dovuto rivestire, ai fini del suo valido ed efficace perfezionamento[14].
Un chiaro indice sintomatico dell’impostazione accolta è rappresentato dalla disciplina della simulazione (ex art. 1414 c.c.), ove l’attenzione del codificatore è tutta riposta nelle (sole) regole di opponibilità ai terzi aventi causa e al ceto creditorio, rispetto alle parti contraenti, per l’implicita disapprovazione verso l’accordo intercorso, rilevante unicamente ‘di riflesso’ (rectius, nei limiti derivanti) dalla tutela riservata ai primi[15]. Una tecnica regolativa addirittura «rincarata» in ambito successorio – per accostarsi, così, al tema della presente indagine – laddove la c.d. «fiducia» testamentaria, intesa quale «risvolto» mortis causa della fattispecie testé richiamata, viene espulsa ope legis dal (potenziale) thema probandum, in caso di controversia (arg. ex art. 627 c.c.)[16].
E tuttavia, non sono tanto sporadiche le ipotesi in cui, con particolare riferimento all’autonomia testamentaria, il ricorso a formule linguistiche mutuate dal lessico comune, non sempre traducibili in clausole «univocamente significanti» sub specie juris, sia pure con l’assistenza notarile, inducono ad una (kelseniana) Rechtsfindung (i.e., ricerca di senso) – ben oltre il principio (codificato ex art. 1367 c.c.) di «conservazione» degli atti negoziali –, frutto di prassi che l’attuale sistema delle fonti sembra aver accantonato (quando non del tutto disperso) nelle trame astratte della Pandettistica ottocentesca. Per cui, se è vero che la «micro» comparazione si rivela il metodo migliore per l’analitica comprensione di fenomeni all’apparenza opacizzati[17], verificarne brevemente gli sviluppi, attraverso alcune vicende tipiche dei rapporti successori, costituirà la ‘cartina al tornasole’ di non sempre oculate ricostruzioni, sedimentate nel tempo, benché poco rispondenti alla concreta prospettiva storica che ne sono all’origine.
E’ il caso delle (fin troppo dimenticate) c.d. «confidenze napoletane»[18] che, contrariamente a quanto i repertori di giurisprudenza (teorica e pratica) possano mostrare, esplicano ancora il proprio potenziale ermeneutico nell’agevolare la definizione degli esatti contorni di talune situazioni controverse, riguardanti giudizi quasi sempre intrapresi per (lamentata) violazione nell’impiego dei cespiti all’uopo devoluti dal de cujus. Come anticipato, occorrerà attingere all’esperienza unitaria del diritto «comune» – che agli «affidamenti» patrimoniali tra privati ha offerto ben più che una tutela episodica o «equitativa» – per inquadrarne stabilmente la disciplina nel(l’attuale) sistema delle fonti, compiendone un consapevole (ed auspicabile) recupero all’attualità normativa.
(*) Il presente contributo rielabora, con opportuni aggiornamenti, il lavoro pubblicato con il titolo Pianificazione successoria e clausola «confidenziale»: sulle (antiche) tracce della (moderna) «fiducia» testamentaria, in M. Lupoi (cur.), Studi sul Trust – Quad. Trust e attività fiduciarie, n. 13, Milano, 2018, p. 81 ss., al quale sia consentito rinnovare i più sinceri ringraziamenti.
[1] Si valorizzano i preziosi spunti forniti dall’approfondito intervento di M. Lupoi, Per una rilettura degli artt. 631 e 632 c.c.: l’affidamento fiduciario di un programma, in Aa.Vv., Percorsi giuridici tra tradizione e innovazione, I, L’affidamento fiduciario successorio (Atti dell’omonimo Convegno fiorentino, 22 marzo 2019), inserito nella Bibl. Online Fond. It. Notar., 2019, 2, dal 09.03.2020.
[2] Sul(la formula) «movimento dallo status al contratto» – oltre al classico H.S. Maine, Ancient Law [1861], ed. it. cur. V. Ferrari, Milano, 1998, spec. p. 91 s. e p. 129 s. – restano imprescindibili P. Rescigno, L’autonomia dei privati, in Aa.Vv., Studi in onore di Gioacchino Scaduto, II, Diritto civile, Padova, 1970, spec. p. 546, ove si rilevava come dalla «mobilità» del contratto, per come concepito nella codificazione liberale, si torni alla «rigidità» degli status, «non già che la condizione sociale della persona ne domini tutta la vita ed il destino, ma il ritorno allo status viene inteso nel senso che per ogni settore di attività i contratti siano destinati a modellarsi secondo tipi e discipline che rispecchiano la posizione sociale delle parti (fino al punto di vedere nel contratto un mezzo tra i tanti in cui si esprime la politica economica dello Stato)»; ripreso da Id., Situazione e status nell’esperienza del diritto, in Riv. dir. civ., 1973, I, p. 209 s., spec. p. 221; nonché G. Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali, Roma-Bari, 1993, p. 205 ss. Più di recente, vi è tornato F. Prosperi, Rilevanza della persona e nozione di status, in Rass. dir. civ., 1997, p. 810 s.; utile sintesi in A. Trisciuoglio, Concetto di status nel pensiero giuridico, in Dir. e proc., 2017, p. 13 ss.
[3] Per approfondimenti, v. ora G. Sicchiero, La responsabilità patrimoniale, in Tr. dir. civ., dir. R. Sacco, Le obbligazioni, t. 2, Torino, 2011, p. 75 s.
[4] Per tale approccio, v. l’importantissima ricostruzione sempre di M. Lupoi, Alle radici del mondo giuridico europeo. Saggio storico-comparativo, Roma, 1994, spec. p. 16 s., il quale sottolinea come l’unità giuridica europea sarebbe stata una realtà “pre-irneriana”, concretatasi gradualmente in epoca altomedievale e compiutasi soltanto al suo tramonto, per essere quindi disarticolata dalla Scuola Bolognese.
[5] La questione è stata affrontata soprattutto nella ricerca del fondamento «collettivo» del contratto di lavoro subordinato, nell’attuale sistema sindacale c.d. «di fatto», in mancanza della fonte «legale» a tal fine richiesta dall’art. 39, c. 4, Cost. Per una puntuale disamina, cfr. L. Castelvetri, Il profilo storico: dagli antichi concordati di tariffa alla contrattazione collettiva nazionale ed aziendale, in Arg. dir. lav., 2010, p. 847 s.
[6] Per una compiuta ricostruzione dei contributi in tema di «autonomia contrattuale», cfr. E. Navarretta, L’evoluzione dell’autonomia contrattuale fra ideologie e princìpi, in Aa.Vv., Autonomia. Unità e pluralità nel sapere giuridico fra Otto e Novecento, in Quad. Fior., n. 43, t. 1, Milano, 2014, p. 589 s.; F. Galgano, Trattato di diritto civile, II, 3a ed., Padova, 2014, p. 182 ss.; G. Alpa, Il contratto in generale, I, Fonti, teorie, metodi, in Tr. dir. civ. comm., dir. A. Cicu-F. Messineo-L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano, 2014, p. 385 ss. Un’attenta disamina giurisprudenziale del principio è condotta da C. Granelli, Autonomia privata e intervento del giudice, in Contratti, 2017, spec. p. 630 ss.
[7] Su tali complessi profili, cfr. M. Comporti, Diritti reali in generale, in Tr. dir. civ. comm., dir. A. Cicu-F. Messineo-L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, 2a ed., Milano, 2011, p. 6 s.; nonché O.T. Scozzafava, Beni e proprietà nella pandettistica, in Id., Studi sulla proprietà, Torino, 2014, spec. p. 127, testo e note.
[8] Vi si soffermano A. Natucci, La tipicità dei diritti reali, I, Padova, 1982, spec. p. 166; nonché G. Alpa, M. Bessone, A. Fusaro, Poteri dei privati e statuto della proprietà, II, 2a ed., Roma, 2001, p. 149 s. Più in generale, cfr. U. Morello, Tipicità e numerus clausus dei diritti reali, in Tr. dir. reali, dir. Id.-A. Gambaro, I, Proprietà e possesso, Milano, 2008, p. 67 s.
[9] Ne ricostruisce finemente la genesi, P. Grossi, ‘Un altro modo di possedere’. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica post-unitaria, Milano, 1977, spec. pp. 257-271. Sul distinguo tra «numero chiuso», relativo all’esclusività della fonte regolatrice (primaria), e «tipicità» relativa alla determinazione dei contenuti (selezionabili dal soggetto), v., con pari acume, M. Comporti, Contributo allo studio del diritto reale, ivi, s.d., spec. p. 293. In giurisprudenza, per l’affermazione che: «[…] il divieto di costituire diritti in re aliena diversi da quelli previsti dal codice limita la libertà contrattuale in relazione alla struttura del diritto reale, ma non al contenuto dello stesso», v. Cass., 4 gennaio 2013, n. 100, punto 3a in motiv., fonte @DeJure.
[10] Così, già U. Natoli, La proprietà. Appunti delle lezioni, Milano, 1976, p. 65. Sul necessario completamento del precetto costituzionale tramite specifiche disposizioni normative ad oggi mancanti, v. però V. Giuffrè, L’emersione dei ‘iura in re aliena’ e il dogma del numero chiuso, Napoli, 1992, p. 64, ed ivi anche nt. 2. Peraltro, la modernità della logica “pertinenziale” nella disciplina proprietaria – antecedente al prevalere della «destinazione» sulla mera «circolazione» – è ben rimarcata da A. Iannarelli, Proprietà e beni. Saggi di diritto privato, Torino, 2018, p. 37 ss.
[11] Su cui, v., per tutti, F. Santoro-Passarelli, L’impresa nel sistema del diritto civile [1942], ora in Aa.Vv., Le prolusioni dei civilisti (1940-1979), t. 3, Napoli, 2012, p. 2372 s.
[12] Significativo appare, in proposito, il dettato dell’art. 1424 c.c., che fa’ salva l’efficacia per la volontà «contrattuale» (c.d. «ipotetica») delle parti, in relazione agli assetti (in predicato, patrimoniali) desiderati (i.e., «avuto riguardo allo scopo perseguito»), purché quest’ultimi siano “convertibili” in uno schema di qualificazione, che ne approvi legalmente gli esiti.
[13] Cfr. R. Bencini, L’abuso dell’usufruttuario nel diritto commerciale, in Soc., 2016, p. 946 s.
[14] Ne tratta ampiamente, nella prospettiva «proprietaria» qui considerata, F. Scaglione, La tutela civile del mercato concorrenziale, in Id., A. Palazzo, A. Sassi, Permanenze dell’interpretazione civile, Perugia, 2008, p. 190 s.
[15] Illuminante l’approccio problematico seguito da R. Sacco, Il contratto simulato, in Id., G. De Nova, Il contratto, 4a ed., Torino, 2016, p. 631 s.
[16] Sulle cui problematiche, v. A. Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983, spec. p. 61 s.; ripreso ed ampliato in Id., Le successioni, t. 2, 2a ed., Milano, 2000, p. 46 s.; nonché M. Lupoi, I trust nel diritto civile, in Tr. dir. civ., dir. R. Sacco, Diritti reali, t. 2, Torino, 2004, pp. 195-206.
[17] Pregnanti le riflessioni, in argomento, ancora di M. Lupoi, Comunicazione e flussi giuridici, in F. Carpi (cur.), Due iceberg a confronto: le derive del common law e civil law, in Quad. Riv. trim. dir. proc. civ., n. 12, Milano, 2009, p. 89. Merita segnalarsi la recente significativa tematizzazione rispetto agli stessi ‘princìpi’ quali «flussi di senso deontologico» da parte di A.M. Garofalo, Princìpi, formanti e ricodificazione, in P. Sirena (a cura di), Dal ‘fitness check’ alla riforma del codice civile. Profili metodologici della ricodificazione, Napoli, 2019, p. 229 ss.
[18] Un’ampia ricognizione storica dell’istituto «confidenziale» trovasi in F. Treggiari, La fiducia testamentaria prima dei codici, in M.L. Biccari (cur.), Fiducia, trusts, affidamenti. Un percorso storico-comparatistico, in St. urb., monotematico, 66 (2015), p. 261 s.; nonché M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, 3a ed., Padova, 2016, p. 257 s.
Si è visto come i sostenitori della tradizionale dottrina della simulazione, nel rappresentarne il (sotteso) fenomeno «fiduciario» come anomalia (eccedenza) e/o come patologia (abuso), non soltanto hanno rinunciato ad approfondire i nessi che quest’ultimo può assumere nell’esperienza del diritto, ma ne hanno diffuso un’immagine pregiudizialmente negativa; o meglio, di implicita incompatibilità con l’ordine giuridico. La scarsa attenzione prestata ai dati emergenti dalla storia e dalla realtà negoziale è testimoniata, non a caso, dalla (pressoché totale) esclusione dell’autonomia testamentaria dall’orizzonte teorico del negozio «fiduciario», che appare caratterizzato da un indispensabile «bilateralismo»[1].
E tuttavia, sussiste «fiducia» anche nei negozi «unilaterali», in una duplice manifestazione: come «causa» della dichiarazione di ultima volontà (i.e., l’accordo fra testatore ed erede, sotteso alla clausola testamentaria, rivolto al conseguente passaggio devolutivo), nonché come intenzione «affidante» implicita[2]. Il fenomeno, concettualmente inspiegabile sulla base degli assunti dogmatici (in termini di bilateralità, piuttosto che simulazione ovvero interposizione) e valutativi (i.e., «eccedenza» del mezzo sullo scopo; «potestà» di abuso), diviene invece intelligibile se letto anch’esso in chiave di titolarità nell’interesse altrui: una formula che, assumendo la vicenda «proteiforme» della proprietà e dei suoi strumenti traslativi, coglie appieno la nozione di quella che viene comunemente indicata come «proprietà fiduciaria»[3], in cui la spettanza si risolve nella gestione.
Un’elaborazione più aderente alla storia ed alla realtà avrebbe, quindi, dovuto individuare il contrassegno delle relazioni «fiduciarie» non già nella disomogeneità tra «scopo economico» e «mezzo giuridico», bensì nella connessione funzionale tra la «tipicità» del mezzo giuridico e l’«atipicità» del c.d. «intento empirico» (Absicht), vero marchio genetico della fiducia[4]. Già Emilio Betti aveva indicato nella prassi romanistica dei c.d. negozi dicis causa[5], ossia nella finalizzazione «anomala» di negozi tipici, il «luogo di nascita» di due famiglie tra loro strettamente apparentate: quella dei negozi «simulati» e quella dei negozi «fiduciari»[6].
La vicenda consisteva nella «mimesi» di negozi, che le parti impiegavano rispettandone la «struttura» tipica ed esteriore, ma adattandoli a nuove «funzioni». Segretezza dell’«intento empirico» e «mezzo giuridico» della simulazione negoziale non implicavano necessariamente un’intenzione fraudolenta: un «disvalore» abitualmente associato alla fenomenologia dei negozi «indiretti», alla luce dell’art. 1344 c.c. Semplicemente l’autonomia privata, per ovviare all’esiguità di mezzi giuridici messi a disposizione dal diritto positivo, ovvero per rimuovere ostacoli al soddisfacimento di determinate aspettative, adoperava gli schemi offerti dall’ordinamento ‘piegandoli’ a finalità sino ad allora sconosciute, ma non per questo illecite (ancorché lo stesso sistema ispirasse la «negozialità» in frode alla legge e ai creditori).
L’interprete antico – come quello medievale – guardava piuttosto alle intenzioni sottese alle «finalità» perseguite dalle parti o dal singolo disponente, non già alla «tipicità» dello schema formale risultante dalla dichiarazione. Non rilevava, ad es., che la donazione tra coniugi fosse una causa «illecita» di trasferimento, se essa veniva contratta per uno scopo che ne travalicava la finalità tipica: donare il bene al marito, in vista della sua successiva restituzione al figlio, sotto forma di legato, non equivaleva ad arricchire il donatario (che, in realtà, era tale solo formalmente, ma di fatto era un nudus minister), poiché la donazione compiuta dalla moglie consisteva, in realtà, in una «fiducia» con causa «lecita», e quindi valida[7].
Nell’ottica che domina questi casi la simulazione non appare, dunque, affatto: «come un vizio del negozio, ma come una forma di linguaggio di gergo, nel quale ciò che deve avere valore sociale e giuridico fra le parti non è il segno adoperato, ma [...] l’allusione in essa contenuta»[8]. L’impiego «funzionale» di forme tipiche preesistenti, che la divergente determinazione causale dei privati ‘deviava’ verso risultati atipici, era quindi alla base dei negozi compiuti fiduciae causa.
«Sorto come strumento foggiato dall’iniziativa dei privati per adattare a talune nuove esigenze o ad interessi nuovi la consolidata struttura di schemi formali», il negozio fiduciario si colloca così «al limite tra l’ordinamento qual è in un certo momento storico e quale dovrebbe essere ovvero quale sarà in un momento successivo»[9]. Questa funzione della «fiducia» fra privati come fattore di evoluzione del diritto è valsa continuamente, nel corso della storia, ad opacizzare, sino alla (pressoché totale) scomparsa, istituti giuridici non più compatibili con la loro funzione socio-economica e a promuovere la nascita e l’avvicendamento di nuovi «tipi» negoziali, che hanno ottenuto dall’ordinamento riconoscimento ufficiale.
Se, di solito, l’area delle situazioni «fiduciarie» opera in parallelo (e spesso, in antagonismo) con l’ordinamento «dato», è da esso, tuttavia, che attinge costantemente i suoi schemi operativi. Lo testimonia, in modo eloquente, l’utilizzo che della fiducia ne fa ancora una volta il diritto successorio romano.
Nata, in particolare, come rimedio all’«iniquità» delle numerose incapacità soggettive dell’epoca antica, l’istituzione «fiduciaria» dell’erede – contrassegnata dalla «nudità» economica del titolo successorio e dalla destinazione della ricchezza a terzi beneficiari – soddisfaceva svariate necessità di pianificazione patrimoniale trans-morte. Socialmente tipico era, ad es., l’uso della successione ereditaria differita del minore d’età, rispetto al quale le fonti romane assimilano significativamente l’heres fiduciarius al tutor, appunto in considerazione dell’onere (i.e., la gestione in funzione conservativa dell’eredità, in vista della successiva devoluzione al fedecommissario) che «assorbe» il titolo proprietario, indirizzandone tutti i relativi commoda a vantaggio dell’effettivo beneficiario[10].
Questa «fiducia», che ha innervato l’esperienza giuridica romana – cui non destava alcuno “scalpore” (né, tanto meno, leggeva in chiave di «eccedenza del mezzo sullo scopo») il trasferimento pleno jure di un bene, per finalità che travalicavano l’interesse «diretto» dell’accipiens – ha avuto libertà di azione anche nel sistema del diritto comune europeo, che nel pactum inteso come «affidamento» (confidentia) meritevole di tutela giudiziale, nonché nel canone dell’interpretazione «soggettiva» della volontà testamentaria, dissolveva la rigida «tipicità» dei negozi traslativi dei diritti reali, declinando in chiave «fiduciaria» i concetti e gli istituti della tradizione successoria.
Proprio la salvaguardia per le (ultime) volontà di chi non potrà, in re ipsa, curarne di persona l’attuazione (anche coattiva) testimoniano di un fenomeno, per sua natura, strettamente radicato nelle risalenti origini etico-religiose del momento del trapasso e delle relative conseguenze patrimoniali, e che si è da sempre mostrato insofferente alle rigide classificazioni dogmatiche invalse[11]. Di guisa che, non sembra superfluo soffermarsi, sia pure brevemente, sul retroterra «gius-culturale» da cui il fenomeno ha preso forma e consistenza, non senza avvertire che, qualora punti di contatto fossero ravvisabili rispetto ad istituti tipici della moderna codificazione, ciò imporrà evidentemente di riflettere sulla corretta operatività di quest’ultimi; in particolare, se la loro portata «effettuale» non debba essere piuttosto esplorata alla luce degli elementi valorizzabili da quel retroterra stratificatosi nel tempo.
[1] Non a caso, il pandettista che meglio ne definì il concetto accenna sempre e soltanto alle «parti» del negozio fiduciario: cfr. F. Regelsberger, Pandekten, I, Leipzig, 1893, p. 518.
[2] F. Treggiari, «Fiducialitas». Tecniche e tutele della fiducia nel diritto intermedio, in M. Lupoi (cur.), Le situazioni affidanti, Torino, 2006, p. 70 s. Sulla dimensione «implicita» del fenomeno esaminato si tornerà infra, § 5.
[3] Cfr. A. Palazzo, Apparenza e pubblicità degli acquisti mortis causa e trans mortem, in Familia, 2005, p. 79 s.; A. Gambaro, I trusts e l’evoluzione del diritto di proprietà, in I. Beneventi (cur.), I trusts in Italia oggi, Milano, 1996, pp. 57-66; M. Graziadei, Proprietà fiduciaria e proprietà del mandatario, in Quadrim., 1990, p. 1 s.
[4] Alle radici di tale concetto, sorto non a caso in ambiti di «gratuità negoziale», v. approfonditamente S. Tolone Azzariti, Auslegungsfragen. Linee interpretative de’ La proprietà temporanea e del suo paradigma, in Aa.Vv., Problemi attuali di diritto privato. Studi in memoria di Nicola Di Prisco, t. 1, Torino, 2015, spec. p. 1084 s., testo e note; ripreso da A.M. Garofalo, Le regole costitutive del contratto. Contributo allo studio dell’autonomia privata, Napoli, 2018, p. 96 ss. Un’impostazione comune alle «servitù prediali», quale diritto reale tipico a contenuto atipico, nelle pagine classiche di F. Romano, Diritto e obbligo nella teoria del diritto reale (1967), Napoli, rist. 2014, spec. p. 115 ss.; nonché di P. Vitucci, Utilità e interesse nelle servitù prediali, Milano, 1974, p. 46; più di recente, C. Granelli, Diritti reali tra innovazione e continuità, in @juscivile.it, f. 10/2014, spec. p. 311 s. Non a caso, è stato osservato come il nuovo art. 2645-ter c.c. consenta ora di costituire delle vere servitù irregolari «opponibili» ai terzi, mediante la prevista trascrivibilità dei vincoli di asservimento a favore della «persona», piuttosto che del «fondo»: così, R. Calvo, Vincoli di destinazione, Torino, 2012, p. 158 s. V. anche infra, nt. 109.
[5] Su cui, v. F. Terranova, Sul valore delle espressioni ‘dicis gratia’ e ‘dicis causa’ nel linguaggio dei giuristi, in SDHI, 81 (2015), pp. 263-303; nonché A. Salomone, Venditio donationis causa, 2a ed., Torino, 2016, spec. p. 9, testo e note.
[6] E. Betti, Diritto romano, I, Parte generale, Padova, 1935, p. 279 s.
[7] Cfr. F. Treggiari, Minister ultimae voluntatis. Esegesi e sistema nella disciplina del testamento fiduciario, I, Le premesse romane e l’età del diritto comune, Napoli, 2002, p. 87 e p. 129 s.; nonché A. Palazzo, La causalità della donazione tra ricerca storica e pregiudizio dogmatico, in Riv. crit. dir. priv., 2002, p. 253 s., ed ivi anche nt. 33.
[8] E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico (1955), Napoli, rist. 2002, p. 395.
[9] N. Lipari, Il negozio fiduciario, Milano, 1964, pp. 9-11.
[10] V. ancora F. Treggiari, Minister ultimae voluntatis, cit., p. 105 s.
[11] L’idea per cui il testamento non ritrova nella propria peculiare disciplina le motivazioni del relativo inquadramento dogmatico, e che a fortiori quest’ultimo non vada collegato alla «struttura» dell’atto nella sua funzione tipica, ma al modo di porsi della «sfera effettuale» e, quindi, ai «risultati concreti» connessi, emerge chiaramente sempre da N. Lipari, Autonomia privata e testamento, Milano, 1970, spec. p. 240 s.
Spazi alquanto ridotti la «fiducia» è notoriamente riuscita a ritagliarsi nei sistemi nazionali ‘a diritto legificato’, caratterizzati dall’«assolutismo» della norma statuale e dal «formalismo» dell’interpretazione, entrambi fattori inibitori del fenomeno fiduciario[1]. Peraltro, converrà precisare che l’espressione confidentia poco o nulla ha a che vedere con l’invalsa categoria del «negozio fiduciario» noto ai Pandettisti, i quali vi avevano dedicato, si è visto, studi alquanto circospetti. In ciò, coerenti epigoni del grande Baldo degli Ubaldi, il quale per primo aveva «codificato» quel che la tradizione giuridica anglosassone era riuscita in forma originale a rimuovere e che, per ciò stesso e nel contempo, ha costituito il principale motivo di «paralisi» per la confidentia nell’esperienza continentale: l’evidenziata contrapposizione dei profili «reali» (c.d. property rules) con quelli «obbligatori» (c.d. contract rules); sfociata, poi, nell’«ipostatizzata» inconciliabilità tra una fiducia c.d. «romanistica», caratterizzata dall’«assolutezza», ed una c.d. germanica, connotata dalla «limitatezza» del dominio acquisito dal fiduciario[2].
La singolarità dell’istituto è data, infatti, dalla sua ascendenza in area anglo-normanna, nelle cui fonti legali si rinviene il termine francese affiance[3], dal cui ceppo si sviluppò in tutto il continente europeo la figura del fedecommissum confidentiale o purum, che si differenziava dall’istituto romanistico sotto un duplice aspetto. In primo luogo, i beni oggetto della confidentia erano (nella «titolarità», e tuttavia) «sottratti» ad azioni esecutive da parte dei creditori del c.d. «confidenziario»: un elemento che permarrà a connotare la disciplina di altri «patrimoni di scopo», proliferati in seguito all’espansione della moderna economia capitalistica[4].
In secondo luogo – ed è, forse, questo il tratto peculiare e distintivo dell’istituto – la figura del «confidenziario» si distacca gradualmente dalla sua originaria (e connaturata) qualità di «erede» pleno jure, per trasformarsi in quello che il diritto continentale avrebbe qualificato in termini di esecutore testamentario. Volendo, anzi, meglio delineare l’effettivo ruolo svolto da tale figura, significativo appare un passo dello stesso Baldo degli Ubaldi, secondo cui: «Non credo quod iste Pollidius possit retinere quartam. Nam licet nomen et ius haeredis habeat, tamen tamquam minister ad opus pietatis videtur»[5].
Il brano se, da un lato, sottolinea il fondamento etico-religioso (ad opus pietatis) della fattispecie in esame, d’altro lato, testimonia della segnalata difficoltà concettuale già presente nell’illustre Commentatore, al pari dei giuristi continentali suoi posteri, di discernere il momento dell’«appartenenza» (inscindibilmente correlata al jus haeredis) da quello della «gestione» (minister) dei lasciti, per le cui finalità, coerenti «all’evidenza» (videtur) con quel (diverso ed ulteriore) fondamento (i.e., «causa»), l’istituito ne era divenuto beneficiario. Conseguenza di tale «commistione» era l’impossibilità per il «confidenziario» di esigerne, alla stessa stregua dell’ordinario fideicommissum, la quota-parte, sotto forma di «legato per il quarto» (Non credo […] possit retinere quartam) a suo vantaggio[6].
Oltrepassando le «assonanze» puramente linguistiche, una tappa fondamentale è rappresentata da una sentenza del 1452 – la cui riconduzione nel contesto esaminato è merito indiscusso delle raffinatissime ricerche dovute nuovamente a Maurizio Lupoi[7] – emessa dal noto giureconsulto (di epoca Tudor) John Fortescue, in un caso di trasferimento di un immobile a favore di quattro persone, benché a «beneficio vitalizio» di una sola tra queste, alla cui morte l’erede del trasferente ne rivendica(va) la restituzione. La domanda giudiziale era chiaramente diretta a far valere un «accordo fiduciario» contrastante con le regole della real property, in conformità alle quali la (controversa) cessione immobiliare era stata perfezionata.
La profonda cultura civilistica del Primo Giudice della Real Camera Fortescue, alla luce delle difese svolte (nonché delle ammissioni rese) dai convenuti in giudizio, lo indusse ad inquadrare (e qualificare correttamente)[8] la fattispecie nell’ambito delle prerogative del «confidenziario», il quale non sentit commodum, ossia «non può trattenere alcun bene»[9]. L’evidente parallelismo che si viene, così, ad instaurare tra la figura dell’«erede fiduciario» e quella dell’«esecutore testamentario» era così scaturita in common law nell’individuazione di un c.d. «ufficio fiduciario di necessità»[10], stante appunto la (fisio)logica impossibilità per il defunto di curare personalmente l’attuazione anche coercitiva delle proprie ultime volontà, e che, se proprio un’«analogia» volesse suggerire in civil law, dovrebbe piuttosto rivolgerla alla (moderna e ben diversa, come si vedrà) fattispecie (di fonte legale) della negotiorum gestio.
[1] Sul cui pernicioso processo di «dogmatizzazione» si diffonde, giustamente, sempre F. Treggiari, Negozio fiduciario, fiducia, disposizione transmorte, in S. Mazzarese, A. Sassi (cur.), Studi in onore di Antonio Palazzo, t. 2, Persona, famiglia e successioni, Torino, 2009, spec. p. 891 s.
[2] Distinzione elaborata, proprio in materia testamentaria, da A. Schultze, Die langobardische Treuhand und ihre Umbildung zur Testamentvollstreckung [Breslau, 1895], rist. anast., Aalen, 1973, p. 95 s. (§ 13: «Die germanische fiducia im Gegensatz zur römischen fiducia»); nonché Id., Treuhänder im geltenden bürgerlichen Recht, in Jherings Jahrbücher für die Dogmatik des bürgerlichen Rechts, 43 (1901), p. 6 s. (§ 2: «Unterschied zwischen römischer und germanischer Treuhänderschaft»).
[3] Sulle origini della nozione, v. sempre acutamente M. Lupoi, Trust and Confidence, in 125 (2009) L. Quart. Rev., spec. pp. 254-255.
[4] Per una panoramica, v. utilmente A. Fusaro, Patrimoni di scopo, trust e fiducia nell’esperienza giuridica italiana (Relazione al Master in Diritto privato europeo, presso la Sapienza romana), al relativo @sito dal maggio 2012.
[5] Baldo degli Ubaldi, Commentaria in secundam Digesti Veteris partem, ad lib. XXIII Digesti, § Cum Pollidius, n. 2. Per un recente riesame delle fonti in materia, v. ora M. Giuliano, Contributo allo studio dei trust “interni” con finalità parasuccessorie, Torino, 2016, p. 100, testo e note.
[6] Secondo quanto riportato già in F. Foramiti, voce Quarta, in Enc. Leg. (ovvero Lessico ragionato di gius naturale, civile, canonico, mercantile-cambiario-marittimo, feudale, penale, pubblico-interno, e delle genti), IV, Venezia, 1839, p. 280. La medesima regola «preclusiva» che si rinviene nella Glossa accursiana (Commentaria, ad C. 6.42.32.), in relazione alle prerogative dell’«esecutore testamentario»; eloquente è la spiegazione che ne dava il Moreau, segnalando che: «se si lega non al creditore ma ad un altro sotto la condizione però di restituire il legato al creditore, la falcidia non deve aver luogo, perché senza riguardarsi la persona interposta, si considera solo quella che deve raccogliere il legato» (J.-L. Moreau de Montalin, Analisi delle Pandette di Pothier, ed. it. cur. A. Lanzellotti, Napoli, 1829, p. 221) (c.vo aggiunto). Se ne desume l’evoluzione, impossibile da sviluppare in questa sede [v. amplius G. Falcone, A proposito di Paul. 29 ad ed. – D. 13.6.17.3 (officium, beneficium, commodare), in Ann. Sem. Giur. Univ. Palermo, LIX (2016), p. 241 s.] dal beneficium, implicante la «compartecipazione» di posizioni «ibride» (accostabile al moderno «onere») nell’unica fattispecie (successoria), all’officium che ne segna il definitivo superamento sul piano causale (e delle conseguenze patrimoniali).
[7] Cfr. ancora M. Lupoi, Trust and Confidence, cit., spec. pp. 264-265; nonché Id., Comunicazione, cit., pp. 87-88.
[8] Testualmente: «jeo ne veier diversite enter feffement & devise quant a cel entent, pur que il ne voile le dedire, s. que il fuit de confidence, il est reason que vous relessent al heire, quod omnes justices concesserunt»; (1452) 30 Trin. Hen 6: Fitzherbert, La Graunde Abridgement (1514), “Devise”, 22.
[9] C.A. De Luca, De confidentiali haeredis institutione [1697], Ch. CII, n. 2.
[10] Testualmente: «car ce trust est de necessite, quar un mort home ne poit performer son volounte demesne»; (1522) Y.B. Mich. 14 Hen 8 pl. 5 (Gervys v. Cooke, Yearbooks of Henry VIII (J.H. Baker ed., 2002, SS 119) 108 at 115).
Il Rinascimento aveva, dunque, prodotto un sentimento di comunanza culturale, che rese più agevoli i «flussi» giuridici. I giureconsulti anglosassoni ne erano pienamente partecipi e consapevoli, e su questa circolazione di modelli legali furono elaborate le teorie e le regole «amorfe» attualmente raccolte sotto l’unitaria denominazione di trust.
Ci fu, peraltro, un’epoca antecedente, all’apogeo di quell’esperienza unitaria segnalata in apertura, ove l’Europa, non soltanto continentale e mediterranea, fu anche politicamente «omogenea», in virtù dell’influsso esercitato dalle dinastie regnanti di stirpe normanna, i cui sovrani, soprattutto tra XI e XIV secolo, dominavano dall’Inghilterra angioina al Meridione d’Italia, passando attraverso la Francia e la rotta slavo-balcanica del Principato russo di Kiev, sino ai Regni di Polonia ed Ungheria[1]. Il che comportò l’inevitabile «osmosi» di regole giuridiche di ascendenza anglo-normanna, quale appunto l’affiance, all’interno dei territori assoggettati, tra cui il Regno di Napoli.
Proprio in tale ultimo ambito, la documentazione archivistica disponibile restituisce un interessante diploma, risalente al 1497 (meno di quarant’anni dalla sentenza del giudice Fortescue), con cui Ludovico Sforza, detto il Moro, disponeva in ordine al governo del Regno, di cui aveva ottenuto l’investitura jure feudi dall’angioino Ferrante II in favore del suo secondogenito Francesco, dopo la morte ed in caso di minorità di quest’ultimo: ove – è detto – «apparo confidenza di tempi pacifici», dichiarandosene cioè (con terminologia corrente) «usufruttuario»[2].
Un’analoga espressione si ritrova utilizzata anche in ambito amministrativo, stavolta nell’accezione di «comprensorio di bonifica», in relazione al quale i Tesorieri delle circoscrizioni del Regno erano preposti alla raccolta dei relativi tributi (letteralmente: «iscrivere a registro»), ritratte da terre che, per secoli, l’apparato statale aveva affidato al risanamento (indirettamente, anche ambientale) ad opera dei privati latifondisti, indotti dall’aumento proporzionale della rendita in «plusvalenza fondiaria», commisurata al(l’obbligatorio) gettito fiscale, quale contropartita dell’avvenuta assegnazione in c.d. «proprietà manutentiva»[3]. Un impiego dell’istituto, dunque, dall’ampio e variegato spettro operativo, ma pur sempre connotato dalla «destinazione» ad uno scopo «ulteriore», rispetto alle tradizionali prerogative dominicali[4].
Un «assestamento» di significato sembra attestato da un documento d’archivio[5], ove si precisa che con «confidenza» si intendevano le donazioni o lasciti (anche sotto forma di «legati») in favore dei Banchi, con cui questi provvedevano nel «destinarle»: a dotare le fanciulle povere per consentire loro il matrimonio o la monacazione; a riscatti per liberare cittadini catturati dai pirati barbareschi, nel corso delle frequenti scorrerie sulle spiagge del Golfo o durante la navigazione; per adempimenti vari (es., celebrazione di messe e/o di altre cerimonie sacre in suffragio).
La perdurante pratica di siffatte «costumanze», ancora alla fine del (sarà bene rammentarlo, «positivistico») sec. XIX, è testimoniata da una sentenza della Corte di Cassazione romana, che ne segnalava la vigenza e la piena operatività nei rapporti successori[6]. Una pronuncia tanto più significativa, se si considera che, non molto tempo dopo, una corte di merito (oltretutto siciliana e quindi, per quanto visto, doppiamente rilevante in fatto di milieu culturale) statuiva, con il plauso dell’annotatore (e relativo estensore), la sancita inammissibilità dell’istituto fiduciario non solo in ambito testamentario, ma addirittura – si legge in motivazione – «dal nostro diritto»[7].
[1] Di particolare interesse le considerazioni storiche di R. Delort, F. Walter, Storia dell’ambiente europeo, pref. J. Le Goff, Bari, 2002, spec. p. 218. Evidenzia la sostanziale «koinè» culturale tra diritto inglese e “d’oltre Manica” in quell’epoca, proprio in riferimento alla liberta testamentaria, penetrata nella Magna Charta Libertatum del 1215 per via delle influenze romanistiche continentali, D. Freda, La Magna Carta e lo jus commune: il difficile “dialogo” tra common law e diritto continentale, in Sc.&Pol., XVIII (2016) 55, spec. p. 122.
[2] Cui è, oltretutto, intitolato il capitolo del testo, che ne riporta il contenuto: G. Beltrani, Storia della successione degli Sforzeschi negli Stati di Puglia e Calabria, e documenti. Per Ludovico Pepe, Bari, 1900, p. 27 s.
[3] Per un’efficace analisi storica, cfr. P. Bevilacqua, Acque e bonifiche nel Mezzogiorno nella prima metà dell’Ottocento, in A. Massafra (cur.), Il Mezzogiorno preunitario. Economia, società e istituzioni, Bari, 1988, spec. p. 358, testo e note.; ripreso da Id., Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Roma, 1996, spec. p. 156, ed ivi anche nt. 11.
[4] Lo sottolineava già R. Trifone, Le funzioni dei consorzi di bonifica e di miglioramento fondiario nel loro svolgimento storico (Atti del Primo Congresso nazionale di diritto agrario), Firenze, 1935, spec. p. 462.
[5] Si legge in L’Archivio Storico del Banco di Napoli, 3a ed., Napoli, 2005, p. 14. Vi si riporta, altresì, un affine documento litografato del Sacro Monte e Banco della Pietà, con didascalia: «polizza di 40 ducati emessa in Napoli H 18 settembre 1742. Un riscatto di schiavo con i fondi della confidenza del defunto reggente Carrilic, giureconsulto benefattore del Monte». Ne approfondisce la valenza socio-economica, V. Ferrandino, La clientela dei banchi pubblici napoletani al tempo di Carlo di Borbone (1734-1759), in Riv. st. fin., 2009, spec. p. 88, ed ivi anche nt. 176.
[6] Cfr. Cass. Roma, 5 maggio 1897, riedita in Trust e attività fiduciarie, 2007, p. 456, che costituisce, peraltro, il punto di partenza per le importanti indagini di M. Graziadei, La fiducia nella tarda età moderna. Le “confidenze” tra vincolo di coscienza e disciplina politica dei soggetti e dei beni, in P. Prodi (cur.), La fiducia secondo i linguaggi del potere, Bologna, 2007, p. 235 s.; nonché Id., Trust, confidenza, fiducia. Una sentenza di fine diciannovesimo secolo della Corte di Cassazione e il suo retroterra, in R.H. Helmholz, V. Piergiovanni (cur.), Relations between the Jus Commune and English Law, Roma, 2009, p. 223 s., incentrate sull’analisi del fenomeno delle c.d. confidentiae, «fondazioni non riconosciute» che non necessitano del «riconoscimento», poiché si “appoggiano” su un ente già esistente, cui spetta la «proprietà» dei beni: un fenomeno contemplato dall’attuale art. 32 c.c., in tema di «devoluzione dei beni con destinazione particolare». L’A. sottolinea, altresì, come le correlazioni tra la confidentia italiana, i charitable uses dell’Inghilterra del sec. XVII, nonché la nozione di «fiducia» sono state trascurate dagli storici inglesi, giungendo a dimostrare inequivocabili comunanze tra confidentia e charitable trust (v. anche infra, nt. 127).
[7] Così, Trib. Girgenti (attuale Agrigento), 11 luglio 1911, Est. Brancato, in Foro it., 1912, I, c. 715, con osserv. (scil., «adesive» sempre) di F. Brancato, ove anche ulteriori indicazioni bibliografiche conformi, circa il consenso diffuso suscitato dalla pronuncia.
Una volta delineato il ‘ritratto’ storico del congegno negoziale, converrà a questo punto inquadrarne l’attuale ‘sfondo’ operativo, situabile in particolare nell’ambito dell’autonomia testamentaria, cercando di declinarlo – come anticipato – alla stregua di istituti, presenti nella vigente codificazione, che ne condividano (e/o sottendano) l’evidenziata funzione «destinatoria». In ottica sistematica, stante l’assenza di una specifica disciplina, occorrerà pertanto non solo cogliere il ‘senso’ dell’istituto – ossia, l’interesse da esso perseguito – ma verificare altresì attraverso quali strumenti tecnici tale risultato possa essere oggi concretamente conseguibile, e quale sia l’eventuale ‘resistenza’ di siffatti strumenti rispetto ad interessi contrapposti[1].
A tal fine, sembra plausibile affermare che l’ordinamento giuridico guarda senz’altro con favore ad istituti che, nel rispetto dell’autonomia decisionale dell’autore dell’atto mortis causa e dei diritti riservati ai legittimari, consentano l’attuazione di progettualità per il tempo in cui la persona abbia cessato di vivere. A valutare con attenzione e rigore l’ipotesi in parola, si è di fronte alla sostanziale investitura di un c.d. ‘ufficio’ di diritto privato, recante la funzione di compiere il programma al quale i beni sono destinati, con l’obbligo di trasferirli, all’esito, ai soggetti che ne risultino beneficiari. Anzi, sarebbe possibile meglio osservare che si è alla presenza di una vera e propria disposizione testamentaria ‘di organizzazione’: non a caso, è alla flessibilità di strumenti alternativi, a cominciare dal c.d. trust «interno», che sempre più frequentemente si fa ricorso per ovviare alle (invero, di per sé, deboli) rigidità ‘interposte’ dal codice civile (arg. ex art. 627 c.c.).
Avendo, dunque, come proposito di selezionare un (possibile) repertorio di disposizioni testamentarie in grado di assolvere – pur nei limiti che saranno segnalati – alla funzione «destinatoria» propria della «confidenza», verrebbero anzitutto in rilievo clausole sotto condizione risolutiva (v. artt. 633 ss. c.c.); ovvero, in alternativa, clausole cui può essere apposto un «onere» o modus (v. artt. 647 e 648 c.c.). La differenza tra le due disposizioni accessorie consiste, pacificamente, nella circostanza che, mentre nella disposizione sottoposta a condizione l’avvenimento futuro ed incerto, al cui verificarsi è subordinata l’efficacia o la risoluzione del contratto, non forma oggetto di obbligazione, e comunque scatterebbe un «automatismo»[2] nella risoluzione dell’attribuzione patrimoniale; nella disposizione c.d. «modale» l’onere imposto al beneficiario costituisce vera e propria «obbligazione», immediatamente efficace, con la conseguenza che la sua mancata esecuzione, quando sia determinata da inadempimento a lui imputabile, può determinare la risoluzione giudiziale (non, quindi, ipso jure) dell’attribuzione testamentaria, e soltanto se tale risoluzione sia stata prevista dal testatore[3].
Stabilire quando si sia in presenza di «condizione» ovvero di «onere», è quaestio facti, da risolvere sulla base delle ordinarie regole di interpretazione del testamento[4]. Nello specifico, tuttavia, ove si addivenisse all’accertamento di una clausola implicante, al pari della «confidenza», un vincolo di destinazione sulla base del mero tenore letterale della disposizione testamentaria, che ne orienti la volontà in termini di c.d. «condizione devolutiva», senza cenno ad impugnative e/o altre azioni giudiziali, la funzione della stessa sembra deporre piuttosto per l’«automatismo» della vicenda risolutiva, a seguito di alienazione e/o mutamento di destinazione dell’immobile; e, quindi, per la qualificazione della disposizione in termini di condizione risolutiva.
Ai fini dell’analisi in corso, la questione riveste notevole rilevanza, essendo diverse le conseguenze dell’(eventuale contestazione di) invalidità della disposizione medesima, in caso di contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico. Sia per la «condizione risolutiva» (arg. ex comb. disp. artt. 626 e 634 c.c.), sia per l’«onere» (v. art. 647, c. 3, c.c.), la legge prevede che la disposizione accessoria si consideri come non apposta, a meno che essa abbia costituito il solo motivo «determinante» dell’attribuzione testamentaria. Relativamente alla condizione, però, l’art. 626 c.c. prevede che l’«illiceità» del motivo determini l’invalidità dell’intero testamento soltanto se esso risulti da quest’ultimo.
Alla qualificazione della disposizione in esame come «condizione risolutiva» consegue, quindi, che l’(eventuale contestazione di) invalidità della condizione medesima per contrarietà a norme imperative o all’ordine pubblico non pregiudica la validità dell’intero testamento (vitiatur sed non vitiat), qualora il carattere determinante del «motivo» non emerga dall’atto. In altri termini, l’art. 634 c.c. pone una «presunzione di scindibilità» della condizione (in predicato) «illecita» dall’attribuzione testamentaria, destinata a caducarsi solo allorché si provi, in base alle risultanze del testamento stesso, che non sussistano altri «interessi» meritevoli di tutela (i.e., secondo l’art. 626 c.c., altri «motivi»), alla cui realizzazione il testamento è diretto[5]; in assenza di tale prova (in negativo), l’istituzione di erede o il legato rimangono validi.
Si è, quindi, raggiunto un primo importante approdo: ove dall’indagine empirica emergesse l’(eventuale) invalidità della «condizione risolutiva» apposta al testamento, l’attribuzione patrimoniale al beneficiario rimarrebbe valida ed efficace, salva la prova dell’insussistenza di altri validi motivi che ne sorreggano gli intenti. Tuttavia, la c.d. clausola «confidenziale», per la stessa funzione perseguita, mira proprio ad esaurire l’orizzonte delle possibilità di salvezza del testamento che, ove disatteso anche per motivi diversi dall’«illiceità», ne provocherebbe l’immediata ed automatica caducazione delle relative disposizioni (simul stabunt, simul cadent).
La questione, ove così posta, si limiterebbe però a spostare il piano problematico verso l’individuazione degli indici sintomatici, da cui desumere la sussistenza di una tale clausola con le delineate caratteristiche. Un tentativo di soluzione consisterebbe nell’indagare l’altro «versante» della funzione c.d. «destinatoria», che accomuna gli strumenti testé richiamati: ossia, l’evento cui è subordinato l’effetto risolutivo della condizione, vale a dire l’alienazione e/o il mutamento di destinazione dell’immobile attribuito per testamento, quindi – in sostanza – il vincolo di indisponibilità che ne costituisce il contenuto precettivo «vietato».
[1] Per puntuali considerazioni di ordine sistematico, v., con il consueto acume, P. Rescigno, Notazioni a chiusura di un seminario sul «trust», in Eur. dir. priv., 1998, p. 453 s. Sull’indubbia funzione «succedanea» di vicende «destinatorie» a carattere «reale» (i.e., «traslativo») perlomeno nel più ristretto ambito dei legati c.d. «con funzione programmatica di destinazione», alla luce dell’art. 697 c.c., richiama giustamente l’attenzione P. Mazzamuto, Note in tema di legati ad efficacia obbligatoria, in Riv. dir. econ. trasp. amb., 2016, spec. p. 288 s. In termini di analisi linguistica, importa cogliere negli istituti giuridici quel che si definirebbe «contenuto concettuale» (begrifflicher Inhalt), ossia la rilevanza logica alla cui stregua ricercarne l’«uguaglianza di contenuto» e, quindi, di trattamento disciplinare: v. amplius J. Benoist, Frege e il concetto di contenuto concettuale, in G. Di Salvatore (cur.), Archeologia del non concettuale, in Fogli di Filosofia, monotematico, 1 (2010), spec. pp. 264-265.
[2] Sull’«automatismo» del congegno condizionale, quale elemento caratterizzante l'istituto, cfr. G. Petrelli, La condizione "elemento essenziale" del negozio giuridico, Milano, 2000, p. 292 s.
[3] V., per tutte, Cass., 30 marzo 1985, n. 2237, in Arch. civ., 1985, p. 1086.
[4] Per Cass., 17 novembre 1999, n. 12769, in Notar., 2000, p. 413, con nota di P. Calabritto, «nel contratto di donazione è ravvisabile una condizione risolutiva, e non un semplice onere, nella clausola appostavi che costituisca l’unico intento del donante, e non un elemento negoziale accessorio». Sempre per Id., 18 gennaio 1951 n. 133, in Giur. it., 1951, I, c. 97, nei casi dubbi la disposizione dovrebbe essere intesa come «onere», ove prevalga l’intenzione del disponente di arricchire il beneficiario; come «condizione», ove invece l’evento cui si subordina la risoluzione sia la causa unica e determinante della disposizione. Sulla questione, cfr. M.C. Tatarano, Il testamento, in Tr. dir. civ. CNN, VIII, t. 4, Napoli, 2004, p. 340, con ampia bibliografia.
[5] Cfr. A. D’Antonio, La regola sabiniana e la pretesa inscindibilità della volontà condizionata, ora in Aa.Vv., Studi in onore di Francesco Santoro Passarelli, II, Diritto e processo civile, Napoli, 1972, p. 18 s.; nonché G. Petrelli, La condizione, cit., p. 165 s.
Il divieto di alienazione – sia «contrattuale», che «testamentario» – ha conosciuto un’ostilità tanto accesa, quanto immotivata. Una volta ammessa, infatti, l’autonomia logica e concettuale della facoltà di «disposizione», rispetto a quella di «alienazione», ne segue che – di fronte ad un vincolo di inalienabilità – l’alienante abbia comunque il libero esercizio della facoltà di disporre, dato che, in caso contrario, non vi sarebbe stata «valida» alienazione[1]. In altri termini, le clausole di inalienabilità non vincolano la facoltà di disporre, ma danno vita soltanto ad un’obbligazione personale di natura autonoma, cui corrisponde la possibilità, per la parte pregiudicata, di chiedere unicamente il risarcimento del danno in caso di inadempimento: il pactum de non alienando dà luogo, quindi, ad un’«obbligazione negativa»[2] ex art. 1222 c.c.
La constatazione che tali patti non rappresentino un limite alla «facoltà di disporre», né un divieto in senso tecnico, hanno portato la discussione, per un verso, ad affrontare il tema della portata generale del principio contenuto nell’art. 1379 c.c., una volta raffrontato con le numerose fattispecie implicanti limitazioni alle vicende circolatorie; d’altro lato, la stessa appartenenza all’«ordine pubblico economico» del principio di libera circolazione dei beni.
Sotto il primo profilo, secondo opinione meno recente, infatti, le clausole di inalienabilità costituirebbero pattuizioni «in danno» dei terzi, in quanto con i divieti contrattuali di alienare si inciderebbero diritti «altrui»[3]. Più precisamente, con tali pattuizioni si verrebbe non tanto a «disporre» dei diritti dei terzi, quanto a farne derivare effetti pregiudizievoli a loro carico, piuttosto che «propagandone» ad essi gli effetti «diretti»[4].
Questa opinione tuttavia, anche a prescindere dal disposto dell’art. 1379 c.c., contrasterebbe con la prerogativa, sottratta – come visto – all’autonomia contrattuale, di «manipolare» la sfera giuridica altrui rendendo oggettivamente «inalienabile» il bene, ciò equivalendo all’aggiunta per contratto di un «nuovo» (rectius, «atipico») diritto reale al «catalogo» codificato[5]. Semmai, si porrebbe la questione – su cui si dovrà tornare – della trascrivibilità del «divieto» su base volontaria, quale che ne sia la fonte («contrattuale» ovvero, per quanto qui interessa, «testamentaria»), alla luce del nuovo art. 2645-ter c.c.
Quanto al secondo profilo, il convincimento che le clausole di inalienabilità limitino la «libera circolazione» dei beni, in violazione del principio dell’«ordine pubblico economico», è ancora attuale, sebbene meno diffusa che in passato[6]; sta di fatto che tale principio, quale che ne sia l’estensione, in nessun caso potrebbe essere “vulnerato” da una clausola di inalienabilità «temporanea»[7]. Da questo punto di vista, si mostra indifferente rimettere al legislatore, ovvero al(l’apprezzamento del) giudice, la valutazione circa la sua durata massima; rilevante, invece, sarebbe stabilire se occorra sempre giustificare il vincolo, sussistendovi un interesse privato, con cui si dovrebbe conciliare l’interesse sociale[8].
In materia contrattuale, è noto che il disposto dell’art. 1379 c.c. componga – escludendone il sacrificio – il contrasto tra i due opposti princìpi: quello dell’incondizionata libertà di circolazione dei beni; e quello di una piena autonomia negoziale scevra da limiti e tale, quindi, da poter spaziare al punto da sottrarre quei beni alla circolazione[9].
In altri termini, negando in ogni caso validità ai divieti di alienare, si finiva per mortificare – senza adeguata contropartita – il principio, sicuramente ascrivibile all’ordine pubblico, dell’«autonomia contrattuale», tanto più osservando come limitati periodi di «sosta», di fonte pattizia, nelle vicende circolatorie potessero rivelarsi di non trascurabile giovamento[10]. Pertanto, la legge ammette la validità del divieto negoziale di alienazione, allorquando un’«utilità», valutata dal punto di vista oggettivo, sorregga il divieto medesimo: il rischio che la collettività possa subire un pregiudizio è bilanciato dall’«utilità» che un contraente ritragga dall’imposizione del vincolo.
Può, dunque, ritenersi raggiunto un secondo importante approdo: il divieto «contrattuale» di alienazione (e/o mutamento di destinazione)[11], in cui trovi espressione la clausola «confidenziale», è ammissibile non già perché così dispone l’art. 1379 c.c., ma in quanto l’imposizione del «vincolo» (che la sottende) sia contenuto nei limiti ivi indicati. Ciò implica che la disposizione non «fonda» il divieto, bensì disciplina l’«estensione» (del principio) dell’«autonomia contrattuale» nell’esercizio della (connessa) funzione «circolatoria» espressa dal c.d. «consenso traslativo», di cui quel divieto è esplicazione. In termini sistematici, la legge quale fonte di produzione di norme, riconosce operatività all’«autonomia contrattuale» nelle sue plurime manifestazioni; laddove quest’ultima, in quanto a sua volta fonte di produzione di fattispecie negoziali (i.e., «qualificazioni di condotte volontarie») anche «vincolistiche», ne regola ampiezza (nel tempo) ed intensità (dell’interesse)[12].
Tali conclusioni devono, peraltro, essere verificate al cospetto di analogo divieto, ma di fonte testamentaria, in grado di modularne diversamente i segnalati confini di validità e, quindi, della (correlata) clausola «confidenziale».
[1] Si giustifica, così, l’efficacia obbligatoria del divieto: cfr. S. Pugliatti, L’atto di disposizione e il trasferimento dei diritti, in Ann. R. Univ. St. Messina, I, 1927, p. 165 s., ora in Id., Scritti giuridici, V, Milano, 2011, p. 74; recentemente, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, v. A. Natale, I vincoli alla facoltà di disporre, in Aa.Vv., I contratti in generale, VIII, in Il diritto privato nella giurisprudenza, cur. P. Cendon, Torino, 2000, p. 567 s.
[2] Sul contenuto dell’obbligazione «negativa», con particolare riferimento al comportamento dedotto nell’«onere», cfr. L. Coviello jr., L’obbligazione negativa, I, Napoli, 1931, p. 47 s. Di fronte ad un’obbligazione «positiva» si contrappone quella «negativa», o di «non fare»: l’una e l’altra espressione sono adoperate dal legislatore. Si è talora ingiustificatamente dubitato se il «non fare» possa costituire contenuto di una prestazione, dovendosi infatti intendere il «non fare» un comportamento «attivo», al pari del «fare»: cfr. M. Giorgianni, Obbligazione (dir. priv.), in Nss. dig. it., XI, Torino, 1965, p. 601.
[3] R. Scognamiglio, Contratti in generale, in Tr. dir. civ., dir. G. Grosso-F. Santoro-Passarelli, IV, t. 2, 3a ed., Milano, 1977, p. 199.
[4] F. Messineo, Il contratto in genere, in Tr. dir. civ. e comm., dir. Id.-A. Cicu, XXI, t. 1, Milano, 1968, p. 197.
[5] Lo evidenzia V. Lojacono, voce Inalienabilità (clausole di), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, p. 896.
[6] Del resto, la scienza economica considera le clausole di «intrasferibilità» alla stregua di ogni altro ostacolo alla libera circolazione dei beni (scil., «scambiabili», in disparte la «destinazione d’uso»), ritenendole soltanto «fattori di attrito» che provocano ritardo nell’adattamento dell’offerta alla domanda. Così configurata, la libera circolazione dei beni appare, dunque, un’esigenza economica di interesse generale e l’esistenza stessa di una previsione legale in materia, da un lato, esclude che i limiti ivi contenuti possano far parte dell’«ordine pubblico economico»; d’altro lato, conferma che i pregiudizi conseguenti alle «remore» contrattuali alla trasferibilità dei beni non siano tali da mettere in forse l’economia nazionale: cfr. G.B. Ferri, L’ordine pubblico economico (a proposito di una recente pubblicazione), in Riv. dir. comm., 1963, I, p. 471.
[7] V. già L. Coviello jr., Il divieto negoziale di alienazione e l’art. 288 capo v. del progetto del III libro del codice civile, in Riv. dir. civ., 1937, p. 392.
[8] A. Fusaro, Il divieto contrattuale di alienazione, in G. Alpa, M. Bessone (cur.), I contratti in generale, IV, t. 1, in Giur. sist. dir. civ. comm., fond. W. Bigiavi, Torino, 1991, p. 60.
[9] Questa soluzione «mediana» non poteva non incontrare, nel volgere del tempo, un crescente favore, prima dottrinale e giurisprudenziale, poi legislativo. Le pesanti critiche mosse al divieto di alienazione, basate sui timori per un suo uso generalizzato, in grado di ridare vigore a situazioni di c.d. «manomorta» (o agevolare risultati similari a quelli ottenibili con il «fedecommesso»), si è dimostrata, con l’esperienza, una minaccia più di facciata, che concreta. Sul punto, cfr. G. Bonilini, La prelazione volontaria, Milano, 1984, spec. p. 68; in più ampia prospettiva, S.T. Masucci, L’indisponibilità negoziale. Vincoli al potere di disposizione del titolare. Una ricerca in fieri, in V. Cuffaro, G. Di Rosa (cur.), Studi in onore di Nicolò Lipari, t. 2, Milano, 2008, spec. p. 1794 s.
[10] F. Ferrara sr., Teoria del negozio illecito nel diritto civile italiano, Milano, 1914, p. 253.
[11] Su tale «equivalenza funzionale», v., per tutti, M. Franzoni, Degli effetti del contratto, II, Integrazione del contratto. Suoi effetti reali e obbligatori (Artt. 1374-1381), in Comm. c.c. Schlesinger, dir. F. D. Busnelli, 2a ed., Milano, 2013, p. 467 s. In giurisprudenza, analogamente Cass., 12 novembre 1973, n. 2981, in Rass. Avv. St., 1974, I, p. 409; nonché Id., 11 aprile 1990, n. 3082, in Riv. dir. comm., 1992, II, p. 485, con nota di P. Colombo, ritiene l’art. 1379 c.c.: «espressione di un principio di portata generale che deve trovare applicazione anche in relazione a pattuizioni che, pur non corrispondendo interamente al modello del divieto di alienazione, tuttavia comportino limitazioni altrettanto incisive del diritto di proprietà ed abbiano quindi il medesimo risultato dal punto di vista pratico» (c.vo aggiunto).
[12] Aspetti solitamente esplorati in riferimento all’attività negoziale che la P.A. compie in regime di diritto privato: su cui, cfr. S. Valaguzza, La frammentazione della fattispecie nel diritto amministrativo a conformazione europea, Milano, 2008, spec. p. 281 s. La valenza puramente «ricognitiva» dell’istituto tornerà utile per quanto si osserverà infra, § 7.
E’ principio acquisito che il testatore possa imporre ai successibili una pluralità di limitazioni alla circolazione dei diritti soggettivi a contenuto patrimoniale. Ne sono esempio, soprattutto sotto forma di «legato», il divieto di concorrenza, nonché quello di licenziare un determinato dipendente[1]. Per contro, alcuni divieti testamentari devono considerarsi «illeciti», sia per espressa disposizione di legge (es., art. 636 c.c. in merito al divieto di contrarre nozze), sia in base a princìpi di ordine pubblico (es., divieto di impugnare il testamento)[2].
Ricorre, altresì, l’affermazione per cui i divieti testamentari non operino diversamente da quelli contrattuali, per ritenuta identità della rispettiva sfera d’incidenza. Segnatamente, si sottolinea la mancanza di una norma attributiva per il testatore del potere di stabilire il divieto di alienazione; di contro – una volta abrogato il c. 4 dell’art. 692 c.c. – non sussisterebbero motivazioni per escludere, purché entro i limiti dianzi individuati dall’art. 1379 c.c., siffatto potere in capo al testatore[3].
Presupposto (neppure tanto implicito) della riferita ricostruzione sarebbe la perfetta applicabilità all’atto mortis causa delle norme generali che regolano il contratto, nonostante il tenore dell’art. 1324 c.c., che allude testualmente agli «atti unilaterali tra vivi», suggerisca la soluzione negativa[4]. Oltretutto, la storia che accompagna la vicenda giuridica del testamento, nonché la diversità delle esigenze cui corrisponde, rispetto al contratto, conferma l’opinione – che sarà in seguito argomentata – per cui l’atto mortis causa debba essere sottratto all’operatività della relativa disciplina generale[5]. Rispetto all’autonomia «contrattuale», quella «testamentaria» assume un significato proprio, svincolato dalla valutazione prevista dall’art. 1322 c.c.: il negozio testamentario è, di per sé, «tipo» normativo che ha già scontato il giudizio di «meritevolezza» e, pertanto, incontra il solo (ed esclusivo) limite nella liceità dei motivi[6].
Orbene, prima della novella del diritto di famiglia, a metà degli anni Settanta, vasti settori della dottrina ritenevano che l’invalidità del divieto «testamentario» di alienazione derivasse – come anticipato – dall’art. 692, c. 4, c.c., che sanzionava la nullità di ogni clausola testamentaria diretta a «vietare» all’erede di disporre dei beni ereditari «per atto tra vivi» o «per atto di ultima volontà». La formale soppressione della norma ha posto all’interprete due questioni: da un lato, stabilire se l’abrogazione avesse comportato l’automatica «legalizzazione» dei divieti «testamentari» di alienazione; d’altro lato, in caso affermativo, rinvenire nel sistema una norma per stabilirne i (necessari) limiti di «liceità», analogamente a quanto accade(va) in ambito contrattuale.
Quanto al primo aspetto, è sostanzialmente pacifica in dottrina l’affermazione che l’eliminazione dell’ult. co. dall’originaria formulazione dell’art. 692 c.c. è soltanto frutto di una scarsa ponderazione del nuovo testo legislativo, non risultando dai lavori preparatori alcuna volontà di consentire indiscriminatamente divieti di alienazione di fonte «testamentaria»[7]. Peraltro, nell’interpretazione prevalente, anche se non pacifica, della (previgente) disposizione, qualunque divieto «testamentario» di alienazione – sia pure con efficacia (meramente) «obbligatoria» e «temporalmente delimitato» – cadeva ‘sotto la scure’ della nullità ex art. 692, c. 5, c.c.[8]
Nello specifico, l’opinione negativa trae(va) argomento testuale da quest’ultimo inciso, a tenore del quale «in ogni altro caso la sostituzione è nulla»: vale a dire, la «clausola di inalienabilità» esemplificherebbe soltanto uno dei casi di sostituzione fedecommissaria «vietata»[9]. Seguendo questa interpretazione, nonostante l’abrogazione della norma «specifica», al testatore non sarebbe comunque consentito (a tutt’oggi) imporre «divieti di alienazione», trattandosi di principio (di ordine pubblico) rimasto operante, in forza dell’ultimo inciso riportato ed ancora vigente[10].
A ben riflettere, non appare, però, del tutto convincente che il divieto testamentario di alienazione comporti sempre un’ipotesi di sostituzione fedecommissaria, in quanto difetta l’elemento saliente di quest’ultimo istituto: vale a dire, l’obbligo di «restituire» (essendo presente solo quello di «conservare»). Per giunta, l’abrogata disciplina dell’art. 692 c.c. si esponeva ad una contraddizione logica, non suffragata da ragioni pertinenti o funzioni pratiche, in relazione al (mutevole) trattamento del vincolo, a seconda (della diversità) della fonte (i.e., ammesso per via contrattuale, ma vietato per via testamentaria).
Può semmai osservarsi che la scomparsa della (comminatoria di) nullità, riferita al divieto di cui al c. 4 dell’art. 692 c.c., nel testo anteriore alla L. Rif. dir. fam. del 1975, andrebbe piuttosto valutata con favore, giacché quella disposizione mal si conciliava con la possibilità del divieto «contrattuale» di alienazione, e, soprattutto, con la sproporzione di poteri (preclusivi) un tempo assegnati all’autonomia del testatore. La disciplina vigente risulta effettivamente diversa, poiché farebbe residuare – venendo così ai limiti di «liceità» – un margine per la valutazione del divieto di alienazione secondo la regola generale espressa dall’art. 1379 c.c.
Si concorda, infatti, nella giurisprudenza (teorica e pratica), che – a partire dal 20 settembre 1975, data di entrata in vigore della nuova disciplina, in disparte per adesso la questione relativa alla sua «retroattività» – il divieto «testamentario» di alienazione sia invalido soltanto qualora non contenuto entro «convenienti limiti di tempo» e non rispondente ad un «apprezzabile interesse» del testatore; ferma restando, in ogni caso, l’efficacia meramente «obbligatoria» (e non «reale») del divieto stesso[11]. Né alcuna rilevanza potrebbe avere l’inclusione del «divieto» nella nota di trascrizione dell’acquisto per causa di morte: è, infatti, altrettanto pacifico che l’onere pubblicitario non può, in nessun caso, attribuire «efficacia reale» laddove questa già non sussista, e che la trascrizione eseguita al di fuori dei casi previsti dalla legge, in quanto «pubblicità superflua», è priva di qualsivoglia effetto[12].
A tali conclusioni si perviene, d’altronde, ritenendo che l’art. 1379 c.c., benché relativo al divieto «contrattuale» di alienazione, sia tuttavia espressione di un principio generale dell’ordinamento, così formulabile: il diritto di proprietà non tollera compressioni e/o limitazioni, sia nella facoltà di «godimento» che in quella di «disposizione», diverse da quelle espressamente previste dalla legge. Proprio in ragione di questa (tendenziale) «pienezza» del diritto di proprietà, la prevalente giurisprudenza (teorica e pratica) reputa vigente – come visto in apertura – il principio di «tipicità» (o del c.d. numerus clausus) dei diritti reali: un divieto di alienazione avente, in ipotesi, efficacia «reale» comporterebbe un’inammissibile «dissociazione» della facoltà di disposizione dal contenuto del diritto di proprietà, incompatibile con l’essenza stessa dell’istituto[13].
Quanto, poi, alla durata «temporalmente limitata» del divieto, è pacifico il principio dell’inammissibilità di obbligazioni (sia «positive» che «negative») perpetue[14]. Principio costantemente sostenuto in giurisprudenza, a partire da una fondamentale sentenza di legittimità, che costituisce una sorta leading case, ove si chiarisce come contrasti: «con la concezione del nostro sistema positivo un vincolo obbligatorio destinato a durare in eterno, senza che sia consentito al debitore, o ai suoi successori, la possibilità di liberarsene (omissis) [N.d.A. ad evitare] la disintegrazione all’infinito del contenuto economico del diritto di proprietà»[15].
[1] Per ulteriori «divieti» di fonte testamentaria (c.d. «legati di non facere»), si rinvia ad A.D. Candian, La funzione sanzionatoria nel testamento, Milano, 1988, p. 164 s.; G. Bonilini, Autonomia testamentaria e legato. I legati così detti atipici, ivi, 1990, p. 101 s. e p. 157 s.; L.F. Nazzaro, S. Romeo, I legati ed i legati innominati atipici, Padova, 2007, p. 17 s.; L. Di Lorenzo, I legati a contenuto atipico e tipico nella prassi notarile, in Quad. Fondaz. Notar., n. 34/2015, p. 75 s.
[2] Questo divieto, espresso quale «condizione risolutiva», sembra frequente nella prassi: cfr. U. Morello, La condizione di non impugnazione del testamento, in Riv. not., 1965, p. 981; vi è tornato, di recente, N. Di Mauro, La condizione di non impugnare le disposizioni testamentarie, in Fam. pers. succ., 2007, p. 1028 s. Per Cass., 2 gennaio 1997, n. 1, in Giust. civ., 1997, I, p. 1321 s., è bensì valida la clausola di non impugnare il testamento, ma con riguardo alla sola quota disponibile.
[3] Osserva G. Bonilini, La prelazione testamentaria, in Riv. dir. civ., 1984, I, p. 237, che se il divieto di alienazione può essere disposto dalle parti contraenti, non si vede perché non debba esserlo dal testatore; sicuramente non si può invocare, per escluderlo, la diversità strutturale fra «contratto» e «testamento». Contra, v. però P. Vitucci, Clausole testamentarie sul potere di disposizione dell’istituito, in Dir. fam. pers., 1983, p. 665.
[4] M. Bin, La diseredazione. Contributo allo studio del contenuto del testamento [1966], Napoli, rist. 2011, p. 177 s., spec. p. 184.
[5] L’individuazione dei segni caratteristici ed univoci, che contraddistinguono il «testamento» rispetto al «contratto», sono autorevolmente illustrati da A. Trabucchi, L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, in Riv. dir. civ., 1970, I, p. 39 s.
[6] Nel senso che le singole disposizioni testamentarie: «non assumono la veste di autonomi tipi dotabili di causa propria», v. ancora G. Bonilini, La prelazione testamentaria, cit., p. 247. In tema, si rinvia a P. Rescigno, Interpretazione del testamento [1952], Napoli, rist. 1978, p. 23 s.; nonché L. Bigliazzi Geri, Delle successioni testamentarie (Artt. 587-600), in Comm. c.c. Scialoja-Branca, dir. F. Galgano, Bologna-Roma, 1993, p. 52, ove il rilievo che l’ordinamento riconosce al disponente, pur segnandone precisi limiti, una forza creatrice di autonomia.
[7] G. Rocca, Il divieto testamentario di alienazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, p. 416, per il quale la fattispecie potrebbe al più configurarsi come oggetto di un’obbligazione «modale».
[8] Per una disamina della dottrina anteriore alla novella del 1975, che ha sancito la scomparsa della comminatoria di nullità del divieto, v. M. Talamanca, Della revocazione delle disposizioni testamentarie. Delle sostituzioni. Degli esecutori testamentari (Artt. 679-712), in Comm. c.c., dir. A. Scialoja-G. Branca, Bologna-Roma, 1965, p. 324 s.
[9] La possibilità per il testatore di vietare siffatte alienazioni integrerebbe, cioè, pur sempre una «sostituzione fedecommissaria», sebbene limitata alla sola conservazione dei beni: così, C. Giannattasio, Delle successioni, t. 2, Successioni testamentarie (Artt. 587-712), in Comm. c.c. Utet, 2a ed., Torino, 1980, p. 370 s.; F. Amato, G. Marinaro, La nuova sostituzione fedecommissaria, Napoli, 1979, p. 39; G. Benedetti, Delle sostituzioni, in Comm. dir. it. fam., dir. G. Cian-G. Oppo-A. Trabucchi, V, Padova, 1992, p. 221. In termini, sia pure incidentalmente, Cass., 10 luglio 1979, n. 3969, in Riv. not., 1979, II, p. 1235, per la quale la disposizione con cui il testatore abbia stabilito l’inalienabilità del suo patrimonio e ne abbia affidato l’amministrazione ad alcuni esecutori, attribuendo nel contempo l’usufrutto dei beni che lo compongono ai discendenti in ordine successivo di una determinata linea della sua famiglia, non dà vita ad una «fondazione» avente personalità giuridica, facendo difetto uno scopo che funga da elemento unificante dei detti beni, bensì ad un «ente di mero fatto», il quale anche se sia stato validamente costituito sotto il vigore di leggi antecedenti, deve ritenersi incompatibile con l’attuale ordinamento giuridico, in quanto, oltre a perseguire finalità analoghe a quella della sostituzione fedecommissaria, si pone, altresì, in contrasto con divieti sanciti da norme di ordine pubblico (v. artt. 462, 698, 699, 796, 979, 1379 c.c.) che fissano limiti all’autonomia privata.
[10] In questo senso, sembra orientato C.M. Bianca, Diritto civile, 2.2, Le successioni, 5ª ed., Milano, 2015, p. 359 s., secondo il quale l’abrogazione formale della norma è dovuta certamente ad una svista, e non comporta la (sopravvenuta) «liceità» dei divieti testamentari di alienazione. In senso conforme, sia pure incidentalmente, v. Cass., 12 novembre 1981, n. 6005, in Rep. Foro it., 1981, voce Successione ereditaria, n. 91: «la nullità della clausola testamentaria, con la quale si imponga all’erede il divieto di alienare i beni ricevuti, a pena di risoluzione della relativa istituzione, ai sensi e nel vigore dell’art. 849 c.c. del 1865, ed in correlazione al divieto assoluto di sostituzione fedecommissaria sancito da tale codice, va affermata, all’infuori delle ipotesi di ammissibilità del fedecommesso, anche nel vigore dell’attuale codice civile, tanto prima della riforma introdotta dalla l. 19 maggio 1975, n. 151 sul diritto di famiglia, in considerazione dell’espresso disposto dell’ultimo comma dell’art. 692 (vecchio testo) c.c., quanto dopo la riforma, tenuto conto che questa ha soppresso il citato ultimo comma dell’art. 692 c.c. per l’inutilità di una ripetizione della sanzione di nullità in questione, a fronte di una riduzione della validità del fedecommesso al solo caso di tutela degli incapaci; pertanto, in applicazione dell’art. 137 delle disposizioni transitorie del codice civile vigente, la domanda rivolta all’accertamento della suddetta validità, con riguardo a successione apertasi prima della data di entrata in vigore, del codice stesso, può essere promossa o proseguita anche dopo tale data, ed anche dopo l’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia di cui alla l. n. 151 del 1975» (c.vo aggiunto).
[11] Per tale impostazione, a seguito della riforma familiare del 1975, cfr. F. Bocchini, Limitazioni convenzionali al potere di disporre, Napoli, 1977, p. 104; N. Di Mauro, Condizioni illecite e testamento, ivi, 1995, p. 134 s.; G. Rocca, Il divieto testamentario di alienazione, cit., p. 441 s., con ulteriori riferimenti. In giurisprudenza, v. Trib. Cagliari, 21 settembre 1998, in Riv. giur. sarda, 2000, p. 161, con nota di A. Chelo.
[12] V. autorevolmente S. Pugliatti, La trascrizione, in Tr. dir. civ. comm., dir. A. Cicu-F. Messineo, XIV, t. 1, La pubblicità in generale, Milano, 1957, p. 465; nonché, più di recente, G. Baralis, Eccezionalità e specialità nella pubblicità immobiliare, in Tr. trascr., dir. E. Gabrielli-F. Gazzoni, III, Formalità e procedimento, Torino, 2014, p. 342 s. In giurisprudenza, sulla preclusione a trascrivere il divieto «contrattuale» di alienazione, inopponibile al terzo avente causa dal contravventore anche ove se ne provi la conoscenza al tempo dell’acquisto, in quanto inammissibile la trascrizione di atti non previsti dalla legge, v. Cass., 14 ottobre 2008, n. 25132, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 425, con nota di I. L. Nocera il quale ne sottolinea giustamente l’inammissibilità anche qualora intesa a garantire il (conseguente) «credito risarcitorio», realizzandosi un sorta di “ircocervo” fra «trascrizione» ed «ipoteca», con elusione del regime fiscale relativo a quest’ultima (ivi, p. 432).
[13] Si è visto, infatti, come il problema del divieto di alienazione (anche «testamentario») debba essere confrontato con la «facoltà di disporre», che caratterizza il diritto di proprietà, traducendone sul piano dell’«autonomia contrattuale» il principio del «consenso traslativo» ex art. 1376 c.c.: cfr. R. Sacco, voce Circolazione giuridica, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 4.
[14] V., per tutti, B. Toti, Condizione testamentaria e libertà personale, Milano, 2004, spec. p. 420, la quale approfondisce il problema della possibile fissazione giudiziale ex art. 1183 c.c. di un termine anche nei casi di previsione di un divieto «in perpetuo», giungendo alla conclusione che non dovrebbe ammettersi l’intervento del giudice, poiché le norme che lo abilitano a sostituirsi alle parti per la fissazione di un termine sono di carattere «eccezionale» e, quindi, non applicabili in via «analogica».
[15] Cass., 20 aprile 1950, n. 1056, in Foro it., 1950, I, c. 529; conf. Id., 30 luglio 1984, n. 4530, in Giust. civ., 1985, I, p. 2014.
Ricondurre, tuttavia, la (sostanziale) giustificazione della (in)validità del divieto in parola al principio di «ordine pubblico economico», inteso quale regola generale dettata per i limiti all’autonomia contrattuale, cui pertanto ascrivere (rectius, assoggettare) lo stesso negozio «testamentario», non si mostra particolarmente perspicuo, avendo perso – come visto – la libera circolazione dei beni ogni riferibilità ai confini di tale principio[1]. Si è già accennato, inoltre, ai seri dubbi circa la sua operatività per il testamento, in forza del rinvio di cui all’art. 1324 c.c.[2]. Nondimeno, la questione viene superata non tanto attraverso il ricorso alla «compatibilità», ai sensi di quest’ultima disposizione, quanto piuttosto alla sua applicazione analogica, ai sensi dell’art. 12 disp. prel. c.c.[3]
Scelta la strada dell’«analogia» per colmare una «lacuna» dell’ordinamento, non potrebbe, però, trascurarsi – come anticipato – di verificare se effettivamente questa abbia come termine di riferimento la stessa soglia minima tracciata dal legislatore all’art. 1379 c.c., in ambito «contrattuale», ovvero se debbano privilegiarsi altre norme, specificamente dettate in materia di negozi mortis causa. Rispetto all’autonomia «contrattuale», si è già visto come quella «testamentaria» assuma un significato proprio.
In particolare, si è notato come – in materia testamentaria – sia irrilevante l’«apprezzabilità in concreto» dell’interesse, requisito richiesto soltanto per i contratti «atipici». Affinché il divieto «testamentario» di alienazione sia validamente posto, si può, dunque, prescindere dai limiti (per come) previsti dall’art. 1379 c.c.: tale norma sottoporrebbe l’«apprezzabilità» dell’interesse alla verifica giudiziale, mentre sembra condivisibile l’opinione per la quale solo l’«illiceità» dell’interesse contingente, che anima il divieto di fonte testamentaria, possa «contaminarne» la clausola di recepimento[4].
Analogamente, i «convenienti limiti temporali» non possono che essere valutati, in tale ambito, in funzione dell’interesse «apprezzabile» di una sola delle parti. Il giudizio di congruità, infatti, è confacente piuttosto allo scambio «contrattuale» (es., v. artt. 1454, 1563 e 1616 c.c.), non già all’atto «unilaterale» (di ultima volontà).
Una volta esclusa ogni considerazione per l’«interesse», diviene altresì superfluo ogni parallelo con l’interesse semplicemente «rilevante». In proposito, si evidenzia come l’art. 1379 c.c., attesa la natura obbligatoria del divieto «contrattuale» di alienazione, sia stato confrontato con l’art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione dedotta nell’obbligazione deve corrispondere ad un «interesse», anche non patrimoniale, del creditore.
La disciplina dettata dalle due disposizioni appare, già a prima vista, diversa sia per quanto concerne i soggetti ai quali l’«interesse» si ricollega (che per l’art. 1174 c.c. è il solo «creditore», mentre per l’art. 1379 c.c. è «una delle parti»), sia per quanto concerne la sua «natura» (che l’art. 1174 c.c. prevede possa essere anche «non patrimoniale», mentre l’art. 1379 c.c. tace sul punto, richiedendo che sia «apprezzabile»)[5]. L’«interesse» di cui all’art. 1379 c.c. sembra, inoltre, doversi relazionare con il dettato dell’art. 1322 c.c., che sottopone l’«autonomia contrattuale» alla necessità di realizzare interessi «meritevoli» di tutela secondo l’ordinamento giuridico: interesse «meritevole di protezione», ovvero, altrimenti, socialmente «apprezzabile» non è qualsiasi interesse individuale.
Un interesse strettamente «soggettivo» (i.e., meramente «arbitrario» ex art. 1359 c.c.) comporterebbe la conseguenza di considerare tamquam non esset il divieto di alienazione stabilito per contratto. L’«interesse» richiesto dall’art. 1379 c.c. è, quindi, qualitativamente differente da quello postulato dall’art. 1174 c.c. e, al tempo stesso, non coincide con quello («rilevante») dello stipulante, del resto, semplicemente supposto[6].
Per contro, l’irrilevanza dell’interesse del disponente non può non incidere sul regime delle invalidità del divieto: all’applicazione dell’art. 1379 c.c. anche al divieto di fonte testamentaria seguirebbe che, in mancanza di un interesse «apprezzabile», lo stesso dovrebbe considerarsi «nullo». Viceversa, escludendo che vi possa essere una verifica «in concreto» delle ragioni che hanno indotto il testatore a fissare il divieto, sarà giocoforza riconoscere all’autonomia testamentaria uno spazio (scil., più ampio) delimitato unicamente dalla liceità dei motivi[7]. Soltanto il divieto testamentario retto da un motivo illecito porterà alla nullità della (sola) disposizione, a meno che, trattandosi di motivo «determinante» ed «emergente» dal testamento, sia applicabile l’art. 626 c.c.
Può, dunque, ritenersi raggiunto un terzo importante approdo: i limiti di validità della clausola «testamentaria» di inalienabilità, correlata alla clausola «confidenziale», non sono sovrapponibili (quindi, non si identificano) con quelli previsti in materia di «contratto» (perlomeno) sotto il profilo della portata degli «interessi» in considerazione che, esaurendo peraltro le ragioni dell’atto di ultima volontà, ove disattesi anche per motivi diversi dall’«illiceità», ne comporterebbero la caducazione.
[1] Per vagliare la validità dei limiti al divieto di alienazione, quale che ne sia la fonte, non soccorre il principio della libera circolazione dei beni, quanto piuttosto il c.d. «contenuto minimo» del diritto di proprietà, cui risulta coessenziale la «facoltà di disporre» ex art. 832 c.c.: v. F. Negro, voce Indisponibilità giuridica, in Nss. dig. it., VIII, Torino, 1962, p. 605.
[2] G. Bonilini, La prelazione testamentaria, cit., spec. p. 245.
[3] R. Scognamiglio, Contratti in generale, cit., p. 52; V. Pietrobon, L’errore nella dottrina del negozio giuridico, Padova, 1963, p. 462; da ultimo, v. M. Terzi, Sostituzione semplice e sostituzione fedecommissaria, in Tr. breve succ. e don., dir. P. Rescigno, I, 2a ed., ivi, 2010, p. 1234, per il quale il divieto assoluto di alienazione è nullo in quanto attua una vera «sostituzione fedecommissaria», mentre quello «temporaneo» e corrispondente ad un «interesse apprezzabile» del testatore è valido in applicazione «analogica» dell’art. 1379 c.c.
[4] In concreto – osserva G. Bonilini, La prelazione testamentaria, cit., p. 249 – l’istituito non può convincere il giudice che a quella clausola egli non deve prestare rispetto perché priva di una «giustificazione apprezzabile»: il giudicante potrà dichiarare nulla la disposizione soltanto se si fondi su un motivo illecito.
[5] Cfr. F. Bocchini, Limitazioni convenzionali, cit., p. 58.
[6] Contrariamente a quanto potrebbe far pensare la Relazione al Re (n. 93) all’art. 1379, laddove è detto soltanto che «in ogni caso l’interesse deve apparire suscettibile di tutela», cioè giuridicamente rilevante e lecito, è da ritenere che, per conferire validità al divieto in parola non siano sufficienti la «rilevanza» giuridica e la «liceità» dell’interesse. Occorra che quest’ultimo, quand’anche di natura morale, sia di tale portata, individuale e/o comunitaria, da prevalere sul principio generale per cui i privati non possono interdirsi in anticipo l’esercizio di un diritto o di un potere normalmente a quest’ultimo collegato; a tal fine, non basterebbe quindi dimostrare che a muovere una o entrambe le parti non sia il capriccio, né il dispetto: così, V. Lojacono, Inalienabilità, cit., p. 898.
[7] L’individuazione dei segni caratteristici ed univoci, che contraddistinguono il «testamento» rispetto al «contratto», sono autorevolmente illustrati da A. Trabucchi, L’autonomia testamentaria, cit., p. 39; G. Bonilini, La prelazione testamentaria, cit., p. 247; A. Natale, L’inapplicabilità dell’art. 1379 c.c. al divieto testamentario di alienazione, in Fam. pers. succ., 2007, spec. p. 1019.
L’esigenza di «temporaneità» è una caratteristica comune a tutti i rapporti obbligatori, e, dunque, anche a quelli testamentari; è stata in precedenza sottolineata la presenza di un atteggiamento sfavorevole della legge per il sorgere di obbligazioni, siano esse «positive» o «negative» (come, appunto, il divieto in parola), destinate a vincolare il debitore in perpetuo, o comunque per un arco temporale spropositato[1].
Anche in epoca antecedente all’attuale codice civile, si dava ampio risalto alla necessità che il divieto fosse temporaneo, in quanto solo così si poteva assicurare che l’inalienabilità non vanificasse il diritto del proprietario, mutilandolo di una delle manifestazioni più rilevanti – la «facoltà di disposizione» –, ovvero comprimendo in modo perdurante tale facoltà: «al di là della ricerca se l’art. 1379 c.c. riporti la temporaneità del divieto al terreno del favor debitoris, è certo che, specialmente alle obbligazioni di non fare, è connaturale un limite di tempo, in coerenza con i princìpi propri di un’economia di mercato che si affida alla libera competizione»[2].
La Relazione del Guardasigilli, riconoscendo la necessità di un limite temporale al divieto negoziale, ha evidenziato la difficoltà di prefissare un termine, giustificando così il ricorso ai «convenienti» limiti di tempo. La congruità della durata del divieto contrattuale deve essere, quindi, valutata (eccezionalmente) secondo criteri variabili, dipendenti dalle peculiarità del caso concreto, non valendo il riferimento ai parametri stabiliti per alcune fattispecie tipiche, quale il termine ventennale di cui all’art. 965, c. 3, c.c. (in tema di «enfiteusi»), ovvero quello quinquennale previsto nel capoverso degli artt. 2557 (in tema di «azienda») e 2596 c.c. (in tema di «patto di non concorrenza»).
La temporaneità del divieto andrebbe, quindi, intesa nel senso che non è questione di discettare, in astratto, sulla maggiore o minore congruenza di un termine, rispetto ad un altro; il divieto contrattuale potrà durare per tutto il tempo per il quale sussiste il «bisogno» al quale risponde. In altri termini, la durata del divieto contrattuale di alienazione sarà correlata all’«interesse apprezzabile» della parte[3].
L’affermazione di carattere generale, per cui il divieto debba essere contenuto in convenienti limiti di tempo, esprime il proprio significante valore in una duplice prospettiva: dell’«obbligazione», da un lato, e dell’«atto di autonomia», dall’altro. E’ evidente, infatti, che la fissazione dei «limiti di tempo» attiene alla (durata dell’) obbligazione (di non alienare) e si risolve, pertanto, nella determinazione del contenuto stesso della prestazione di non alienare (c.d. obbligazione «di durata»). Viceversa, la valutazione circa la «convenienza» dei limiti di tempo fissati postula l’analisi del «contesto negoziale», nel quale l’obbligazione di non alienare risulta inserita: anche da questo punto di vista, dunque, la durata del divieto appare strettamente connessa all’«interesse» del contraente[4].
Questi stessi princìpi sono stati tradotti in ambito di divieto testamentario: la valutazione della congruità dei limiti di tempo è stata condotta attraverso un criterio variabile, incentrato su di una valutazione comparativa dei concreti interessi perseguiti dal disponente e dell’interesse dell’istituito, gravato dal vincolo di inalienabilità. Qualora quest’ultimo venga sacrificato senza che la considerazione dei primi lo giustifichino, o quando appaia sproporzionata la considerazione dell’interesse che ha dominato l’intento del testatore rispetto a quello del proprietario del bene, la violazione dell’attributo sostanziale della proprietà importa l’«illiceità» della clausola de non alienando[5].
Queste considerazioni non sembrano, peraltro, esaustive.
Anzitutto, una volta ammesso che il divieto sia valido a prescindere da un «apprezzabile interesse» sottostante, sarebbe contraddittorio che fosse proprio quest’interesse a costituire l’indice per la valutazione della «congruità» della durata (se così fosse, ad un interesse «lecito», ma «eccentrico», del disponente dovrebbe corrispondere una durata del divieto «pari a zero»). Inoltre, dovrebbe fortemente limitarsi la discrezionalità del giudice, specie in assenza di una norma che a questo lo autorizzi, nell’individuare quando un termine di inalienabilità espresso dal testatore sia «congruo». Infine, il ricorso all’equità ai fini dell’«integrazione» ex art. 1374 c.c. dell’atto di ultima volontà non sembra ammissibile, giusta la regola dell’inapplicabilità desumibile dall’art. 1324 c.c.
Anche sotto questo profilo, occorre quindi individuare, nel silenzio del legislatore, una norma (diversa dall’art. 1379 c.c.) applicabile in via analogica[6].
A tal proposito, si è giustamente osservato come vi sia un elemento comune tra il divieto in parola e l’obbligo di permanenza in comunione, di cui all’art. 713, c. 3, c.c.[7]: in entrambe le fattispecie, il testatore limita – con efficacia obbligatoria – la libertà di disporre dell’erede. Non v’è dubbio, infatti, che «dividere» ed «alienare» siano due modalità per «trasferire» un diritto; anche la ratio delle due discipline non è distante, soprattutto ove la sospensione della divisione sia circoscritta ad alcuni cespiti, nell’immediato ed esclusivo interesse del testatore[8].
Il «termine non eccedente il quinquennio», previsto in materia di durata della sospensione della divisione, dunque, sembra poter essere esteso per analogia al divieto testamentario di alienare, ferme le notevoli differenze fra i due istituti coinvolti. Il che sarà particolarmente utile, laddove il divieto non risponda ad un «apprezzabile interesse» del disponente (ma ciononostante sia «valido» in quanto «lecito»), dunque non sia possibile valutare il termine in funzione del «bisogno»: la discrezionalità del disponente subirà, in ogni caso, la limitazione infraquinquennale[9].
Se, in assenza dei limiti di tempo, il patto di inalienabilità sarà nullo per mancanza di uno dei requisiti essenziali, analoga conseguenza deriverà qualora si accerti che lo stesso si sia protratto per un arco temporale «superiore» ai limiti di validità[10]. In queste ipotesi, sorge questione se sia possibile rimediare attraverso la riduzione del termine, ovvero la relativa fissazione da parte dell’autorità giudiziaria[11].
Ben si è detto come, non già la «diffidenza» verso i poteri del giudice, quanto piuttosto il favor testamenti, inteso quale espressione di un generale favore per l’autonomia testamentaria, nonché il principio di conservazione dell’«attività negoziale» lato sensu, debbano trovare applicazione nel caso di specie: non sono sembrati esservi ostacoli, in queste ipotesi, alla funzione «suppletiva» (o «correttiva») dell’intervento giudiziale. La riprova sarebbe fornita dal disposto dell’art. 645 c.c., che conferisce agli interessati – nel caso di condizione «sospensiva» sine die – la facoltà di far stabilire al giudice il termine entro cui la condizione dovrà verificarsi: sarebbe incongruo che l’impiego della fissazione giudiziale del termine mancante sia consentito quando l’inalienabilità derivi da una «clausola condizionale», e precluso quando la stessa sia imposta come «risultato» di un comportamento obbligatorio[12]; a fortiori, al giudice dovrà essere riconosciuta la facoltà di ridurre la durata del divieto «testamentario» di alienazione.
E tuttavia, il ricorso «analogico» alla disciplina della condizione «sospensiva» non sembra molto convincente, sia perché nel caso di clausola di «inalienabilità» si tratterebbe, al più – come visto – di condizione «risolutiva»; sia perché si sollevano ampie riserve in merito alla validità di un divieto formulato attraverso una «condizione», in virtù della c.d. retroattività «reale» dei suoi effetti[13]. Preferibile, anche sotto questo profilo, è il ricorso all’art. 713, ult. cpv., c.c., che accorda all’autorità giudiziaria, in presenza di «gravi motivi», la facoltà di porre nel nulla, ovvero di ridurre, il termine del divieto di divisione imposto dal testatore.
Può, dunque, ritenersi raggiunto un quarto importante approdo: i limiti di validità della clausola «testamentaria» di inalienabilità, correlata alla clausola «confidenziale», non sono sovrapponibili (quindi, non si identificano) con quelli previsti in materia di «contratto» (neppure) sotto il profilo della «durata» che, in quanto indipendente dall’«apprezzabile interesse», in sé estraneo alla «liceità» dei motivi sufficiente a fondare il divieto, non potrebbe rappresentarne l’indice di «congruità» affidato, per ciò stesso, al sindacato giudiziale alla stregua di disposizioni «pertinenti», la cui (eventuale) applicabilità sarebbe ex art. 2697 c.c. a carico della parte interessata a farne valere gli effetti di «riduzione temporale» sul vincolo.
[1] In tema, v. M. Giorgianni, Obbligazione, cit., p. 608; ne discute i diversi fondamenti A. Fusaro, Il divieto contrattuale di alienazione, cit., p. 66.
[2] Così, esattamente ancora G. Bonilini, La prelazione testamentaria, cit., p. 244.
[3] G. Bonilini, op. ult. cit., p. 245.
[4] Cfr. F. Bocchini, Limitazioni convenzionali, cit., p. 66.
[5] G. Rocca, Il divieto testamentario di alienazione, cit., p. 450.
[6] Questo è, come noto, lo strumento messo a disposizione dell’interprete nelle ipotesi di mancanza di una specifica previsione normativa: la somiglianza tra le fattispecie è data dalla corrispondenza di quegli elementi sostanziali rilevanti per la «regola giuridica»: v., per tutti, N. Bobbio, voce Analogia, in Nss. dig. it., I, Torino, 1957, p. 602 s.
[7] In tal senso, A. Natale, L’inapplicabilità, cit., p. 1020. Per quanto qui interessa, è irrilevante che la clausola testamentaria di sospensione, per un certo tempo, della divisione – sicuro indice di «autonomia testamentaria» nella preservazione ad tempus dell’unità del patrimonio ereditario – si ritiene rientri nella più ampia previsione dell’art. 733, c. 1, c.c., con qualifica di modus: G. Bonilini,voce Divisione, in Dig. disc. priv., sez. civ., VI, Torino, 1990, p. 487.
[8] A favore della «divisione» quale «contratto traslativo», ma – per finzione legale – ad effetti «dichiarativi», sia pure criticamente, A. Mora, Il contratto di divisione, Milano, 1995, spec. p. 68 s., oltre alle opportune precisazioni di C. Miraglia, La divisione ereditaria, Padova, 2006, p. 38. La novità del passaggio dalla proprietà «condivisa» a quella «individuale», quale «nuovo diritto» rispetto al preesistente, a motivo della natura «traslativa» della divisione, è affermata da F. Santoro-Passarelli, La transazione, 2a ed., Napoli, 1986, p. 34; più di recente, E. Minervini, Divisione contrattuale ed atti equiparati, ivi, 1990, p. 59 s. Sia pure in ragione del ruolo «distributivo» fra condividenti, P. Forchielli, F. Angeloni, Della divisione (Artt. 713-768), in Comm. c.c. Scialoja-Branca, dir. F. Galgano, 2ª ed., Bologna-Roma, 2000, p. 65 e p. 85; A. Luminoso, La divisione, il sistema dei contratti e l’elaborazione dottrinale, in Aa.Vv., Contratto di divisione e autonomia privata, in Quad. Fondaz. Notar., n. 4/2008, spec. p. 16.
[9] Contra, v., però, G. Rocca, Il divieto testamentario di alienazione, cit., p. 451, secondo il quale – sebbene con specifico riferimento alla riducibilità del termine da parte del giudice – del tutto inattendibile si rileverebbe estendere per analogia il disposto relativo alla durata della sospensione testamentaria della divisione, al divieto testamentario di alienazione; in senso analogo, cfr. G. Branca, Della comunione. Del condominio negli edifici (Artt. 1100-1139), in Comm. c.c. Scialoja-Branca, 5ª ed., Bologna-Roma, 1972, p. 140 e p. 280, il quale evidenzia le differenze fra i due istituti, specie in riferimento all’efficacia per i successibili.
[10] Cfr. F. Bocchini, Limitazioni convenzionali, cit., p. 83.
[11] In proposito, una lontana decisione di merito lo escluse, osservando che i “giudici della convenienza” del termine sono soltanto le parti, le quali possono valutarla e determinarla (così, App. Genova, 4 maggio 1944, in Foro it., 1947, I, c. 51). Si era quindi osservato, contro la conservazione della clausola mediante riduzione del termine, che l’art. 1379 c.c. non ammette altra alternativa all’infuori dell’invalidità del divieto, qualora il termine di durata sia giudicato eccessivo.
[12] G. Rocca, Il divieto testamentario di alienazione, cit., pp. 453-454, argomentando – non senza difficoltà – sulla possibilità di sostituzione della clausola «nulla» (ex art. 1419, cpv., c.c.), ovvero sulla base degli artt. 1183 e 1187 c.c., o ancora sull’ampliamento della possibilità di recupero ex art. 1367 c.c. della clausola testamentaria. Il ricorso a quest’ultima norma non è apparso peraltro fondato, dal momento che il «principio di conservazione» ivi previsto opererebbe soltanto qualora, essendo stati utilizzati termini, espressioni o clausole non univoci, tecnicamente non pertinenti, erronei ovvero in contrasto con il testo o lo spirito dell’accordo, sia necessario e possibile individuare, in via preventiva, l’effettiva volontà delle parti: «nel nostro caso, invece, lungi dall’aversi un’imperfetta ed incerta manifestazione di volontà, le parti hanno chiaramente assegnato al divieto di alienare termini troppo lunghi di durata. Applicabile non è nemmeno l’art. 1374 c.c., perché nel nostro caso non si tratta di colmare, mediante integrazione legale o equitativa, lacune del contratto o di obbligare le parti all’accettazione di conseguenze da esse originariamente non previste. Né il giudice può intervenire a guisa di arbitratore, perché non sussiste la necessità di aggiungere o determinare un elemento del contratto o una modalità della sua esecuzione e d’altro canto il giudice può intervenire solo se le parti hanno previsto il suo intervento»: così, sempre V. Lojacono, Inalienabilità, cit., p. 900.
[13] Non manca chi reputa applicabile l’art. 645 c.c. alla condizione risolutiva «meramente potestativa»: cfr. A.C. Pelosi, La proprietà risolubile nella teoria del negozio condizionato, Milano, 1975, p. 303. La condizione risolutiva di non alienare risulterebbe «illecita», poiché consentirebbe di eludere il principio dell’«efficacia obbligatoria» del divieto di alienazione, sancito dall’art. 1379: v. N. Di Mauro, Condizioni illecite, cit., p. 134 s. Infatti, nel momento del suo verificarsi, per l’efficacia «retroattiva» che la connota (v. art. 646 c.c.), rendendo nullo l’atto di alienazione ex tunc, finirebbe col rendere il divieto «opponibile» ai terzi. V. però infra, § 6.1.
Com’è noto, il panorama della moderna «contrattualità successoria»[1] e delle disposizioni «pertinenti», con diretta ripercussione sui connotati tipici dell’art. 1379 c.c., hanno subìto una svolta radicale a seguito dell’introduzione dal 2005 dell’evocato art. 2645-ter c.c., il cui nuovo «paradigma» si rivela indubbiamente un efficace «trasformatore giuridico» anche per la (reviviscenza della) clausola «confidenziale» in esame.
Invero, l’applicabilità dell’art. 2645-ter c.c. al divieto «contrattuale» di alienazione ha posto un tema di graduazione dell’indisponibilità, in funzione della ratio delle finalità perseguite con le singole figure «vincolistiche». In estrema sintesi, si ritiene che rientri nel «normale esercizio dell’autonomia privata, in ragione della peculiare destinazione e delle finalità che attraverso l’atto si vogliono realizzare, inserire una clausola di inalienabilità dei beni destinati»[2].
Per meglio dire, in determinate ipotesi il vincolo di destinazione ben potrebbe ricomprendere un divieto di alienazione e, dunque, la trascrizione del primo comporterebbe l’opponibilità ai terzi (anche) del secondo. E così, è agevole trasferire (le conclusioni raggiunte circa) il rapporto fra tale vincolo ed il divieto in parola all’indagine in materia testamentaria: la ricostruzione di un negozio «atipico» di destinazione ad ampio spettro – di cui l’art. 2645-ter c.c. costituisce soltanto un «modello» tipizzato per caratteristiche ed elementi strutturali – permette senz’altro di considerare a tutt’oggi ammissibile un «negozio testamentario di destinazione» con i requisiti (di meritevolezza e temporaneità) come dianzi ripercorsi, (un tempo) definito «confidenza»[3].
E ciò, con l’ausilio della disciplina «intertemporale», a conferma oltretutto della valenza puramente «ricognitiva» (piuttosto che «fondativa») dell’effetto «vincolistico», già in precedenza sottolineata in relazione all’art. 1379 c.c., in quanto oggi possibile contenuto – come visto – della nuova disciplina c.d. «destinatoria».
In proposito, mette conto evidenziare l’esistenza di una specifica norma transitoria che regola la problematica in oggetto. L’art. 238, c. 1, L. 19 maggio 1975, n. 151, stabilisce che: «la disposizione dell’art. 692 del codice civile si applica anche alle successioni apertesi prima dell’entrata in vigore della presente legge a meno che la nullità della sostituzione non sia stata già pronunziata con sentenza passata in giudicato»; mentre il capoverso recita: «salvo quanto previsto dal comma precedente, le sostituzioni fedecommissarie anteriori all’entrata in vigore della presente legge sono regolate dalle disposizioni anteriori».
E’ quindi necessario distinguere l’ambito di applicazione del c. 1 (che fa riferimento, sic et simpliciter, all’art. 692 c.c., per dichiarare applicabile il nuovo testo anche alle successioni già apertesi), e quello del capoverso (avente ad oggetto specificamente le sostituzioni fedecommissarie anteriori, dichiarando applicabili le disposizioni previgenti). In sostanza, il c. 1 dell’art. 238 ha essenzialmente la funzione di impedire che fattispecie qualificabili come «nulle» alla stregua del vecchio art. 692 c.c. possano essere dichiarati tali, a fronte della nuova disciplina più favorevole[4].
E’ questo proprio il caso del «divieto testamentario di alienazione», la cui disciplina era più rigorosa in passato di quanto non lo sia oggi (in quanto era «nullo» anche il divieto contenuto entro «convenienti limiti di tempo», a prescindere dai parametri di concreta determinazione, e rispondente ad un «interesse apprezzabile (rectius, lecito)» del testatore). Può, quindi, ragionevolmente sostenersi che qualsiasi «divieto» di alienare e, più in generale, «vincolo di indisponibilità» di fonte «testamentaria» (leggasi clausola «confidenziale»), in qualunque momento si sia aperta la successione, è oramai regolato dalla nuova disciplina (più favorevole), come sopra ricostruita, in conformità alle indicazioni sistematiche desumibili dall’art. 2645-ter c.c.
[1] Secondo l’inquadramento prospettato da G. Amadio, Autonomia privata e successione familiare. Sulla nuova contrattualità successoria, in Id., Lezioni di diritto civile, Torino, 2016, spec. p. 395 s. Aggiungasi ora la stringente analisi di V. Barba, Affidamento fiduciario testamentario, in Aa.Vv., L’affidamento fiduciario successorio, cit.
[2] M. Bianca, L’atto di destinazione: problemi applicativi, in Riv. not., 2006, I, p. 1189.
[3] Per l’affermazione che, rispettando tutti i parametri della nuova norma, non è giustificabile l’esclusione della possibilità di destinare beni, con valenza «segregativa», anche tramite il negozio testamentario, v. A. Torroni, Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c.: un tentativo d’inquadramento sistematico con lo sguardo rivolto al codice civile, in Riv. not., 2013, p. 471 s.
[4] G. Gabrielli, Norme finali e transitorie, in Comm. dir. it. fam., cit., VI, t. 1, Padova, 1993, p. 282 s.; G. Azzariti, La sostituzione fedecommissaria, in Tr. dir. priv., dir. P. Rescigno, VI, 2a ed., Torino, 1997, p. 337, il quale evidenzia come il capoverso abbia l’unica funzione di mantenere efficaci le sostituzioni fedecommissarie validamente disposte in base alle norme del codice civile del 1942, ma non più valide ai sensi della legge di riforma (ciò significa che il capoverso non può, in alcun caso, applicarsi al «divieto testamentario di alienazione»); V. Carbone, voce Sostituzione ordinaria e fedecommissaria, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVIII, ivi, 1998, p. 634. V. anche P. Vitucci, La novella del 1975 e le clausole testamentarie sul potere di disposizione dell’istituito, in Aa.Vv., Diritto di famiglia. Scritti in onore di Rosario Nicolò, Milano, 1982, p. 613 s.
Sta di fatto che l’attività gestoria relativa a beni «destinati» deve essere, all’evidenza, conforme agli assetti programmati dal disponente nel proprio atto di ultima volontà: ne discende, dunque, che tale attività «gestoria», in cui – come visto in premessa – affonda le sue radici più autentiche la stessa «autonomia contrattuale», non può in tali ipotesi ritenersi «libera», essendo di per sé «direzionata» negli scopi, i cui «vincoli dispositivi», espressi o impliciti, emergano dal tenore dell’atto negoziale.
Per caratteristiche strutturali (e tecniche redazionali), una clausola «confidenziale» di fonte testamentaria rappresenta, il più delle volte, il miglior esempio di tali limiti «impliciti»: come nell’ipotesi in cui detta clausola preveda che un determinato immobile debba essere «fruito» da un certo beneficiario per tutta la durata della destinazione, per poi essergli «trasferito» alla scadenza: il piano degli interessi emergenti da una siffatta clausola denota infatti, sia pure implicitamente, che a costui è vietato «alienare» (e/o «mutare la destinazione» del)l’immobile in questione.
Sorgono, a questo punto, due problemi di non poco momento: l’uno, relativo alla riconoscibilità «interpretativa» di tale clausola, o meglio, il grado (più o meno intenso) di «inespressione» all’uopo giuridicamente rilevante, al cospetto di scheda testamentaria redatta anche in epoca anteriore alla (formale) «ricezione normativa» dell’atto di destinazione; l’altro, concernente la sorte degli atti compiuti in violazione della «destinazione» (sia pure «implicitamente» riconosciuta) impressa ai beni.
Sotto il primo profilo, riaffiora l’utilità del percorso storico-esegetico in precedenza seguito, da cui è emerso come nell’elaborazione di common law la confidentia è stata intesa quale «ufficio fiduciario di necessità» ragguagliabile, si è visto, più che alla figura dell’«esecutore testamentario» scaturito dallo sviluppo romanistico del fideicommissum, a quell’altra (anch’essa continentale, ancorché dalla diversa «genealogia» concettuale)[1] della negotiorum gestio. In quest’ultima fattispecie, la ragione giustificativa risiede notoriamente nella «necessità» (dovuta, a sua volta, all’«impossibilità» temporanea) per il dominus di curare la propria sfera patrimoniale tramite la (implicita) «relazione di fatto» (storicamente, «fiduciaria») intrattenuta con il «gestore», con l’impegno di «riequilibrare» quanto da costui prestato in esecuzione di attività a ciò «destinate» (donde l’utiliter coeptum), sotto pena (inespressa) di «indebito arricchimento» e relativa tutela per quest’ultimo.
I due poli («fisiologico» e «patologico») della fattispecie così descritta – «relazione fiduciaria» vs «indebito arricchimento» – hanno finito per assumere un significato del tutto peculiare lungo il «fiume carsico» sfociato nel concepimento degli istituti del trust, nel cui «alveo» la stessa clausola «confidenziale» deve essere convogliata per coglierne il preciso significato e l’esatta portata.
A differenza, infatti, di quanto accaduto in ambito continentale, l’esperienza di common law è giunta a configurare i due poli «opposti» testé richiamati come «intersecanti», ogniqualvolta è dato riscontrare l’esistenza di un difetto di legittimazione negoziale di un soggetto rispetto a beni, di cui sia entrato nella disponibilità. E ciò, non perché sia stato «espressamente» pattuito un regolamento gestionis causa, ma perché elementi, sovente puramente fattuali, indicano l’esistenza su quei medesimi beni di «altrui interessi» meritevoli di tutela prioritaria, e tuttavia pregiudicati dal modo di disporne.
E’ questo il c.d. constructive trust, che permette di lasciare «aperta» la classe degli interessi protetti, collocandoli nell’area della «fattispecie» così (funzionalmente) «reinterpretata» (ed oggi resa «esplicita» dall’art. 2645-ter c.c.), ovviando ad una serie di problematiche insite nella (nota) «residualità» dell’azione di indebito arricchimento, a rischio dunque di inidonea tutela[2].
Ne consegue altresì che, una volta accertato l’«effettivo» assetto di interessi divisato, il titolare del diritto ne diviene «affidatario» esattamente come se tale affidamento derivasse da un trust «esplicito». Di guisa che, l’«effetto segregativo» tipico di quest’ultimo maturerà anche in capo all’implicito beneficiario, al quale i creditori personali, indipendentemente dalla natura dei beni e/o delle situazioni giuridiche legittimanti, giammai potranno sottrarre (esecutando) gli incrementi del relativo patrimonio, né – come subito si vedrà – eventuali aventi causa potranno consolidarne i propri acquisti, sino ad avvenuta rimessione in pristino.
In esito al descritto «itinerario a tappe» successive di approdi, è dunque possibile avanzare una prima ipotesi ricostruttiva in ottica costituzionale: il principio del c.d. «giusto processo», elevato a rango costituzionale mediante la modifica dell’art. 111 Cost., il cui «logico corollario» di più immediata percezione consiste nell’«effettività»[3] della tutela, si ripercuote (anche) a livello di ermeneutica contrattuale, con il superamento del tradizionale «ordine gerarchico» dei relativi canoni ex art. 1362 ss. c.c. Una posizione di primo piano assume, in questo quadro, la regola ‘cerniera’ tra canoni c.d. «soggettivi» ed «oggettivi» (ovvero «integrativi»), ossia l’interpretazione «secondo buona fede» ex art. 1366 c.c., la quale – nel valorizzare l’«argomentazione» a sostegno del procedimento ermeneutico «generatore» della «regola» affermata[4] – diviene lo scandaglio per far emergere l’assetto «proporzionale»[5] all’effettiva (ancorché inespressa) situazione riveniente dal piano degli interessi in gioco, ben condensabile (in ipotesi) mediante una clausola «confidenziale».
[1] Su cui, v. funditus P. Sirena, La gestione di affari altrui. Ingerenze altruistiche, ingerenze egoistiche e restituzione del profitto, Torino, 1999, spec. p. 421, ove giustamente si osserva come: «la natura giuridica dell’atto compiuto dal soggetto agente non assuma uno specifico rilievo nella conformazione della disciplina legale dell’istituto, rispetto alla quale è del tutto indifferente che l’ingerenza nell’altrui sfera giuridica si sia verificata mediante un negozio giuridico, un atto giuridico in senso stretto ovvero, addirittura, un atto illecito». Per tale accostamento, riveniente dall’articolazione dei rimedi esperibili, v. ancora F. Treggiari, La fiducia testamentaria prima dei codici, cit., p. 267.
[2] In tema, v. amplius soprattutto M. Lupoi, Trusts, 2a ed., Milano, 2001, spec. p. 152; nonché A. Vicari, Le situazioni fiduciarie al di fuori dell’area contrattuale: i constructive trusts e l’arricchimento senza causa, in F. Alcaro, R. Tommasini (cur.), Mandato, fiducia e trust. Esperienze a confronto, Milano, 2003, pp. 143-146. I prodromi di tale impostazione sono già rinvenibili nella (discussa) figura del «mandato presunto» utilizzata, proprio in riferimento alla gestione ex art. 2028 c.c., da L. Campagna, I «negozi di attuazione» e la manifestazione dell’intento negoziale, ivi, 1958, spec. p. 172. Interessante sul punto, Cass., 19 febbraio 2000, n. 1898, in Giust. civ., 2001, I, p. 2481, la quale significativamente statuisce che: «il giudice, nel procedere all’identificazione del rapporto contrattuale, alla sua denominazione ed all’individuazione della disciplina che lo regola, deve procedere alla valutazione "in concreto" della causa, quale elemento essenziale del negozio, tenendo presente che essa si prospetta come strumento di accertamento, per l’interprete, della generale conformità a legge dell’attività negoziale posta effettivamente in essere, della quale va accertata la conformità ai parametri normativi dell’art. 1343 c.c. (causa illecita) e 1322, comma 2, c.c. (meritevolezza di tutela degli interessi dei soggetti contraenti secondo l’ordinamento giuridico)». Nella specie, una società aveva, contemporaneamente e presso la stessa banca, depositato somme di denaro su un libretto al portatore ed aperto un conto corrente. Sopravvenuto il concordato preventivo della società, la banca aveva proceduto alla compensazione tra l’attivo del deposito e lo scoperto del conto corrente. Il giudice di merito aveva dichiarato legittima la compensazione, qualificando il rapporto come «contratto fiduciario», comprendente la pattuizione della compensazione stessa. La Suprema Corte, nell’enunciare il massimato principio di diritto, ha annullato l’impugnata sentenza per avere omesso di accertare la conformità di tale contratto ai parametri di liceità e meritevolezza previsti dalle citate disposizioni normative, evidenziando così una «responsabilità per mala gestio» e, quindi, il ruolo «implicito» di c.d. constructive trustee della banca. Eloquente a riguardo, anche Trib. Prato, 12 agosto 2015, n. 942, fonte @DeJure.it, che ha ritenuto «meritevole» e, dunque, valido ed efficace un «vincolo di destinazione» diretto ad assicurare una soddisfazione «proporzionale» ai creditori sociali, non ancora muniti di causa di prelazione, in vista sempre di un concordato preventivo, sottolineandosi così nuovamente l’«implicito» impegno all’«utile gestione» in capo alla società in crisi.
[3] Un’interpretazione coerente dell’art. 24 Cost., oggi valorizzato alla luce del nuovo art. 111 Cost., condurrebbe, infatti, a ravvisare: «la portata concreta della copertura costituzionale, stabilendo [ch]e essa riguardi [non] solo il diritto al “giusto processo” (…) [ma] anche quello all’effettiva tutela» (scil., sostanziale): cfr. I. Pagni, Tutela specifica e tutela per equivalente. Situazioni soggettive e rimedi nelle dinamiche dell’impresa, del mercato, del rapporto di lavoro e dell’attività amministrativa, Milano, 2004, p. 56.
[4] In base alle feconde riflessioni sull’ermeneutica, svolte recentemente da A. Gentili, Il diritto come discorso, in Tr. dir. priv., cur. G. Iudica-P. Zatti, Milano, 2013, spec. p. 10 s.
[5] Su tale innovativa impostazione, v. amplius M. Pennasilico, Contratto e interpretazione. Lineamenti di ermeneutica contrattuale, 2a ed., Torino, 2015, spec. p. 32 s. e p. 79 s., con puntuali riferimenti alla legislazione speciale ed alla giurisprudenza in argomento.
Ulteriore problema che si pone, nel silenzio serbato sul punto dall’art. 2645-ter c.c., attiene – come si diceva – alle sorti del negozio, con cui il «gestore» del bene vincolato ne disponga, in violazione della «destinazione» impressa.
Secondo un diffuso orientamento[1], il silenzio normativo dovrebbe interpretarsi nel senso che il legislatore non ha inteso configurare il negozio ex art. 2645-ter c.c. quale destinazione di tipo «statico», vale a dire postulante un’indisponibilità (o una disponibilità soggetta a limitazioni) del bene vincolato. In tale ottica, eventuali divieti e/o limitazioni alla facoltà di alienare il bene, che fossero inseriti nel negozio dal disponente per meglio realizzarne le finalità, essendo il mero frutto di una scelta dell’autonomia privata, ricadrebbero nella previsione dell’art. 1379 c.c., ossia avrebbero rilievo meramente «obbligatorio».
Da tale impostazione si fa discendere pertanto che, ove il gestore disponga «abusivamente» del bene vincolato, il beneficiario sarà tutelato dal fatto che il bene circola (e, dunque, viene acquistato dall’avente causa dal gestore e dai successivi subacquirenti) gravato dal vincolo (in base al noto principio res transit cum onere suo), senza che tale acquisto possa ritenersi né invalido, né inefficace. Com’è stato osservato[2], appare evidente come la tesi in esame concepisca il vincolo ex art. 2645-ter c.c. come una sorta di «peso» inerente al bene e, come tale, destinato a seguirlo nelle sue vicende circolatorie[3].
La tesi dianzi esposta, pur nella condivisibile attitudine «euristica», merita talune precisazioni.
In primo luogo, a ben vedere, l’art. 2645-ter c.c. afferma che: «i beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione». Pertanto, non può escludersi che, mediante tale espressione, il legislatore abbia inteso distinguere tra attività dispositiva del gestore in conformità al fine di «destinazione» (e, come tale, legittimante l’avente causa dal gestore ad acquistare il bene libero dal «vincolo») ed attività costituente, invece, violazione di detto fine (e, come tale, all’origine di un negozio inidoneo a produrre effetti in danno dei beneficiari del vincolo, salvo verificare il tipo di sanzione più appropriata, cui assoggettare tale negozio)[4].
In quest’ottica, pertanto, ove il negozio di destinazione fosse strutturato, si è visto, in modo tale da «contenere» una clausola di inalienabilità, parrebbe alquanto arduo ricondurla alla dimensione meramente «obbligatoria» dell’art. 1379 c.c. (dettato, oltretutto, per una proprietà «piena»), facendo essa strutturalmente parte del contenuto del vincolo impresso al bene (oggetto quest’ultimo di una proprietà non già «piena», bensì «vincolata nel fine») e, come tale, idoneo a condizionare l’efficacia della sua (eventuale) alienazione nei confronti dei beneficiari del vincolo stesso.
Del resto, non manca chi afferma che l’art. 1379 c.c. risulterebbe incompatibile rispetto al negozio ex art. 2645-ter c.c.[5] Trattasi di tesi che, tra l’altro, ha trovato accoglimento anche in alcune decisioni giudiziarie[6].
Né il fatto che il bene «abusivamente» alienato venga acquistato dal terzo “gravato” dal vincolo appare costituire una tutela sufficiente per il beneficiario. Una tale conclusione, infatti, postulando che l’acquirente diventi senz’altro «gestore» del bene vincolato nell’interesse del beneficiario (in luogo del «gestore» che tale bene ha «abusivamente» alienato), trascura che l’identità del «gestore» e le sue qualità soggettive potrebbero non essere affatto indifferenti per l’autore del negozio di destinazione (e dei relativi beneficiari), poiché assai spesso l’incarico gestorio sarà stato conferito dal disponente intuitu personae[7].
Appare, pertanto, più plausibile qualificare l’atto dispositivo, in violazione della destinazione ex art. 2645-ter c.c., come viziato[8] alla stessa stregua, mutatis mutandis, dell’evizione denotante, anch’essa – a ben riflettere – l’intrinseca priorità di uno «statuto di appartenenza» rispetto ad altro «deteriore», prescindendosi dagli stati soggettivi.
[1] Cfr. M. Bianca, M. D’Errico, A. de Donato, C. Priore, L’atto notarile di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile, Milano, 2006, pp. 43-44 e p. 63; A. Morace Pinelli, Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore, ivi, 2007, p. 264; G. Oberto, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, in Contr. impr. eur., 2007, p. 425.
[2] Cfr. S. Bartoli, Trust e atto di destinazione nel diritto di famiglia e delle persone, Milano, 2011, p. 279.
[3] Non a caso, infatti, tra i fautori di tale tesi non manca chi accosta il vincolo in questione ora all’«onere reale» (v. P. Spada, Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta, in Aa.Vv., Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, in Quad. Fondaz. Notar., n. 1/2007, p. 128; nonché E. Matano, I profili di assolutezza del vincolo di destinazione: uno spunto ricostruttivo delle situazioni giuridiche soggettive, in Riv. not., 2007, pp. 371-372 e p. 376); ora all’obligatio propter rem (A. Merlo, Brevi note in tema di vincolo testamentario di destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter, ibid., 2007, p. 514); ora infine al modus, stante la relativa «ambulatorietà» sancita, ad es., dagli artt. 676, cpv., 677, cc. 2 e 3, e 690 c.c.
[4] V. infra, § 6.1, in fine. Sulla discussa necessità che la «destinazione» sia sempre corredata da «effetti traslativi», si rinvia a L. Santoro, Il trust in Italia, 2a ed., Milano, 2009, p. 279 s.
[5] Cfr. G. Petrelli, Destinazioni patrimoniali e Trust, Milano, 2019, p. 61 s.; S. Bartoli, Riflessioni sul “nuovo” art. 2645-ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e trust, in Giur. it., 2007, p. 1307, ed ivi nt. 37. L’inapplicabilità dell’art. 1379 c.c. è stata, inoltre, affermata da taluni AA. sia, in generale, per le varie ipotesi di vincoli di destinazione presenti nell’ordinamento civilistico anche prima dell’introduzione dell’art. 2645-ter c.c. (v. M. Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova, 1996, p. 201), sia con specifico riferimento alla «contigua» figura del trust (v. S. Bartoli, D. Muritano, Le clausole dei trusts interni, Torino, 2008, p. 109 s.).
[6] Cfr. Trib. Reggio Emilia, decr. 26 marzo 2007, in Trusts e attività fiduciarie, 2007, p. 419; nonché in obiter Id., ord. 14 maggio 2007, ibid., p. 425. Il leading case, in presenza di negozio di destinazione posto in essere dai coniugi, in occasione di separazione consensuale, con previsione dell’inalienabilità di un immobile sino al momento dell’autosufficienza economica della loro prole, ha affermato che: «l’art. 2645-ter c.c. (norma successiva e speciale), nel prevedere l’opponibilità ai terzi della predetta inalienabilità (ove trascritta nei RR.II.), scardina il disposto dell’art. 1379 c.c.». Analoghe affermazioni nella seconda pronuncia, relativa a fattispecie in cui un creditore aveva invano tentato di pignorare beni oggetto di trust c.d. «autodichiarato», stipulato dal disponente e previamente trascritto.
[7] Si pensi all’ipotesi, oltretutto «tipizzata» dalla nuova norma, in cui il beneficiario sia un soggetto diversamente abile. Per una critica all’inquadramento del vincolo «destinatorio» nell’ambito delle figure di cui supra, nt. 110, si rinvia a S. Bartoli, Trust e atto di destinazione, cit., pp. 118-131.
[8] Cfr. R. Quadri, L’art. 2645-ter c.c. e la nuova disciplina degli atti di destinazione, in Contr. impr., 2006, pp. 1741-1744; nonché S. Meucci, La destinazione di beni tra atto e rimedi, Milano, 2009, p. 507 s. Sul trattamento giurisprudenziale dell’«evizione» quale proprietà «prioritaria», v. la rassegna ragionata curata da M. Sala, I beni subastati e la tutela dei diritti dei soggetti in buona fede, in Imm. propr., 2007, p. 239 s.
Orbene, all’interno di quest’ultima impostazione, mette conto segnalare quell’indirizzo di pensiero[1] che, rifacendosi all’iniziale inquadramento del «vincolo di indisponibilità» discusso in apertura, reputa applicabili i seguenti principi: a) l’atto compiuto in violazione sarebbe valido ed «efficace» inter partes (ossia, nei rapporti tra gestore e suo avente causa), ma «inopponibile» al patrimonio destinato (ossia, ai beneficiari), purché sia data prova della mala fede dell’avente causa dal gestore; nonché b) nell’ipotesi in cui il destinante vi abbia conferito espressa valenza di «condizione risolutiva» della stessa attribuzione patrimoniale al gestore, l’atto compiuto da quest’ultimo sarebbe invece (stante l’avveramento di tale condizione) inefficace.
Più precisamente, premessa la dubbia validità per il passato di una siffatta condizione, il cui congegno ex art. 1357 c.c. (ad efficacia «reale») avrebbe “eluso”, rendendo opponibile a terzi, il divieto (meramente «obbligatorio») previsto dall’art. 1379 c.c.[2], conclude affermando che l’art. 2645-ter c.c. consente, invece, di effettuare un trasferimento, a fini di destinazione, e prevedere che l’eventuale successiva alienazione del bene stesso, da parte del gestore, in contrasto con tale finalità, costituisca condizione risolutiva del trasferimento.
E tuttavia, se – come visto – alla proprietà «destinata» creata dal negozio ex art. 2645-ter c.c. risulta inapplicabile l’art. 1379 c.c. (in quanto i limiti alla disponibilità del bene sono in sé dotati di rilevanza «reale» e non meramente «obbligatoria»); e se, pertanto, l’atto dispositivo del gestore, il quale viola la destinazione, è già di per sé affetto da un vizio «strutturale», con possibilità di accedere ad una tutela lato sensu «reale» impugnando l’atto medesimo, il ricorso al congegno della condizione «risolutiva» (proficuo, ove lo si ammetta, in un contesto proprietario in cui vige l’art. 1379 c.c.) appare superfluo[3].
Peraltro, la sanzione derivante dall’avveramento di tale condizione (i.e., l’inefficacia) non potrebbe consentire la tutela degli aventi causa in buona fede dal gestore, in base al generale principio di salvaguardia dell’affidamento incolpevole, reputato immanente al nostro ordinamento[4], ancorché non riveniente dalla norma. Se, infatti, l’inopponibilità dell’atto ben potrebbe desumersi implicitamente dal suo complessivo dettato (che ricollega alla pubblicità del «vincolo di destinazione» l’opponibilità, vietando di usare i beni «destinati» per finalità estranee), nessun riscontro vi si trova invece – non facendosi mai questione degli stati soggettivi di quanti entrino in contatto con il patrimonio «destinato» – circa la salvezza o meno della posizione dell’avente causa dal gestore a seconda, rispettivamente, della sua buona o mala fede[5].
Converrà, tuttavia, individuare in subiecta materia un meccanismo implicante la tutela dei terzi aventi causa in buona fede: se infatti, in alcune fattispecie concrete, sarà impossibile per costoro – pur se il gestore abbia, in ipotesi, espressamente dichiarato l’inerenza dell’atto ai fini della «destinazione» – invocarne il relativo stato, in altre l’«inerenza» o meno dell’atto dispositivo alla «destinazione» potrebbe essere tutt’altro che pacifica [es., per fattispecie «ibride» quale l’«impresa familiare», in relazione alla responsabilità della comunione ex art. 186, lett. c), c.c.][6].
D’altronde, il problema della tutela in questi casi dell’avente causa in buona fede dal gestore è insito nel diritto dei trusts – cui la presente disamina si è finora raccordata – giacché l’art. 15, § 1, lett. f) della Conv. de L’Aja del 1° luglio 1985, sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, sottolinea l’esigenza di coordinarne la disciplina con eventuali norme interne, poste a tutela dei terzi che agiscano in buona fede. Nell’impossibilità di «importare» sic et simpliciter nel nostro ordinamento la peculiare tecnica del c.d. tracing[7], ivi previsto all’art. 11, § 2, lett. d), tornerà utile comprendere le tecniche «rimediali»[8] di diritto interno, idonee ad assicurare un risultato il più possibile affine.
Senza addentrarsi in maniera approfondita nelle soluzioni prospettate, è possibile osservare che, perlomeno in riferimento all’«atto di destinazione» mortis causa, l’operatività del regime pubblicitario – quale che ne sia la «forma» (salvo quanto si dirà tra breve) – eliderebbe a priori ogni questione circa gli stati soggettivi dei terzi aventi causa dal «gestore», la cui stabilità degli acquisti ricalcherebbe, per certi versi, la verifica cui sono esposti gli acquisti con provenienza «donativa» all’apertura della successione. Con l’unica – ancorché sostanziale – differenza che, in quest’ultima ipotesi, la «riformulazione»[9] dell’art. 563 c.c. ha offerto una soluzione basata sul criterio temporale, ragguagliato (nel termine massimo) alla c.d. «prescrizione acquisitiva» (arg. ex art. 1158 c.c.), onde «contenere» gli effetti restitutori conseguenti alla riduzione della liberalità ricevuta (e poi ritrasferita a titolo oneroso) dal dante causa; laddove, nella fattispecie in esame, l’«inerenza» dell’atto dispositivo alla «destinazione» necessita, qualora contestata, di una valutazione giudiziale ancorata al «mobile» criterio di meritevolezza degli interessi perseguiti, sotto pena di inopponibilità (ad effetti «reali») per il destinante.
Ancora una volta soccorre la prospettiva storica dianzi ripercorsa, che ha evidenziato la configurabilità di situazioni «fiduciarie» facenti capo anche in via «inespressa» – vale a dire, sul piano (interpretativo) dell’effettività degli interessi in gioco – ad un negotiorum gestor il quale, ove inadempiente verso il «gerito» (i.e., destinante), si esporrebbe al compimento di atti violativi della «causa» destinatoria: quest’ultima, ove consistente in un trasferimento, lo renderebbe «nullo» per difetto dell’elemento (essenziale) teleologico; mentre, in ipotesi di mutamento di destinazione, lo renderebbe perseguibile tramite i rimedi c.d. «quasi-contrattuali» della ripetizione dell’indebito (scil., «oggettivo») e/o comunque dell’indebito arricchimento, che tuttavia assumerebbero quoad effectum i connotati «reali» della c.d. «retroattività»[10] ex art. 1357 c.c., fatte comunque salve le ragioni dei terzi in buona fede, i quali medio tempore facciano valere unicamente un acquisto a titolo originario (i.e., per usucapione), esclusa l’applicabilità dell’art. 2652, n. 6, c.c.
[1] Si allude a G. Petrelli, Destinazioni patrimoniali, cit., pp. 63-64. Soluzione affine a quella codificata dall’art. 2384 c.c., in tema di pubblicità dei limiti ai poteri degli amministratori di S.p.A., pur se in quest’ultima norma si richiede non la semplice «mala fede» dell’avente causa dall’amministratore, bensì che costui abbia «intenzionalmente agito a danno della società».
[2] Cfr. G. Rocca, Il divieto testamentario di alienazione, cit., p. 468 s.; nello stesso senso G. Bonilini, La prelazione volontaria, cit., pp. 191-192, il quale ritiene necessario che, con la condizione implicante la decadenza dal lascito, in caso di inosservanza di prelazione (testamentaria): «non si miri a conseguire quell’efficacia reale che più di una ragione spinge a ritenere preclusa»; Id., Il testamento. Lineamenti, Padova 1995, p. 138 s.; E. Moscati, Alienazione (divieto di), in Enc. giur. it., I, Roma, 1988, p. 5; N. Di Mauro, Condizioni illecite, cit., p. 145 s.; L. Gardani Contursi-Lisi, Delle disposizioni condizionali, a termine e modali (Artt. 633-648), in Comm. c.c. Scialoja-Branca, cur. F. Galgano, Bologna-Roma, 1997, p. 163 s., con ulteriori riferimenti bibliografici; R. Sacco, G. De Nova, Il contratto, cit., pp. 1090-1091, i quali dubitano – alla luce degli artt. 1379 e 1458 c.c. – che i limiti posti alla creazione di diritti reali atipici «possano serenamente venir aggirati mediante il ricorso alla costituzione di diritti condizionati»). Quanto alla deduzione in condizione «risolutiva» del vincolo di destinazione, cfr. A. Chianale, Vincoli negoziali di indisponibilità, in Aa.Vv., Scritti in onore di Rodolfo Sacco, II, Milano, 1994, p. 204; nonché M. Franzoni, Degli effetti del contratto, cit., p. 424 s. Per la liceità della «condizione di non alienare», purché negli stessi limiti indicati dall’art. 1379 c.c., in giurisprudenza, v., oltre a quella riportata da G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, 2a ed., Napoli, 1990, p. 525, ed ivi anche nt. 4, anche Trib. Fermo 29 dicembre 1993, in Riv. not., 1995, p. 1526, e Cass. 17 novembre 1999 n. 12769, in Rep. Foro it., 1999, voce Contratto in genere, n. 454. Nessun problema sorge, ovviamente, per la deducibilità in condizione di ulteriori comportamenti limitativi del contenuto del diritto di proprietà (o di altro diritto reale), come appunto nell’ipotesi esaminata di clausola «confidenziale», vincolando l’acquirente ad una determinata «destinazione». La liceità di tali condizioni, dubbie quando oggetto della limitazione è lo stesso diritto di proprietà, andrà valutata in relazione alle norme (inderogabili) che disciplinano le singole situazioni a carattere «reale», così come appare orientato G. Amadio, La condizione di inadempimento (contributo alla teoria del negozio condizionato), Padova, 1996, p. 41, ed ivi nt. 109.
[3] Cfr. S. Bartoli, Trust e atto di destinazione, cit., p. 285 s.
[4] In tal senso, R. Quadri, La destinazione patrimoniale. Profili normativi e autonomia privata, Napoli, 2004, p. 52 s., p. 89 s. e p. 110 s. Per un diverso approccio di «rigore» sanzionatorio, v. però D. Messinetti, Il concetto di patrimonio separato e la c.d. «cartolarizzazione» dei crediti, in Riv. dir. civ., 2002, II, p. 108 s.; U. La Porta, Il problema della causa del contratto, I, La causa ed il trasferimento dei diritti, Torino, 2000, p. 162; G. Infante, I profili civilistici dei fondi speciali per la previdenza e assistenza, Napoli, 2002, p. 36 s.
[5] Il tenore della norma la rende pertanto, anche sotto questo profilo, affine all’art. 169 c.c., dettato per il fondo patrimoniale.
[6] Importanti chiarimenti a riguardo in Cass., 15 febbraio 2007, n. 3471, in Giust. civ., 2008, I, p. 2264.
[7] Su cui, cfr. A. Underhill, D. Hayton, Law relating to Trusts and Trustees, London, 2003, p. 880 s.; nella nostra migliore dottrina, M. Lupoi, Trusts, cit., p. 48 s. Da segnalare, in ogni caso, gli artt. 55, L. n. 42/2010 sui trusts, nonché 10, cpv., L. n. 43/2010 sul contratto di affidamento fiduciario, entrambe della Repubblica di San Marino, che paiono indicare un’embrionale «via civilistica» al tracing, in prospettiva, anche al legislatore italiano. Il quale, è fermo alla p.d.l. n. 4554, presentato il 27 luglio 2011 alla Camera dei Deputati, primo firmatario on. Cambursano, il cui art. 1 prevede l’inserimento nel Tit. III, lib. IV del codice civile di un nuovo Capo IX-bis “Del contratto di fiducia”, raffigurato come «sottotipo» del mandato, una sorta di trust “all’italiana” ad impianto contrattuale disciplinato (non a caso) dall’art. 1741-bis all’art. 1741-duodecies; e l’art. 2, tra l’altro, la modifica dell’attuale art. 2645-ter c.c., nuovamente rubricato “Trascrizione del contratto di fiducia”. Il dibattito sembra destinato a riaccendersi a seguito della L. 22 giugno 2016, n. 112 (c.d. legge sul “dopo di noi”), il cui art. 6 comprende una variegata tipologia di «istituti fiduciari», frutto delle pregnanti elaborazioni di M. Lupoi, Le ragioni della proposta dottrinale del contratto di affidamento fiduciario; la comparazione con il trust, in Aa.Vv., Contratti di convivenza e contratti di affidamento fiduciario quali espressioni di un diritto civile postmoderno, in Quad. Fondaz. Notar., n. 1/2017, spec. pp. 128-130; la cui menzione compare per la prima volta in norme «sostanziali» e non già «di conflitto», con intuibili problemi di coordinamento sistematico: cfr. S. Mazzamuto, L’eclissi e l’antieclissi, a proposito di due libri recenti, in Eur. dir. priv., 2016, p. 1129 s.
[8] Vale a dire – secondo A. Di Majo, Il linguaggio dei rimedi, in Eur. dir. priv., 2005, p. 355 – la tutela più efficace per garantire l’interesse sostanziale, espressione a sua volta dell’effettività del rimedio teso ad accorciare: «per così dire, le distanze del mezzo di tutela rispetto all’interesse e/o al bene che si intende proteggere»; v., altresì, F. Galluzzo, L’amministrazione dei beni destinati, Milano, 2012, p. 124 ss.
[9] Tramite aggiunta «e non sono trascorsi venti anni dalla donazione», inserita dall’art. 2, c. 4-novies, lett. a), n. 2, D.L. 14 marzo 2005, n. 35, nel testo convertito con L. 14 maggio 2005, n. 80.
[10] Secondo la prospettiva delineata supra, ntt. 115 e 121. L’alternativo riferimento all’art. 2058 c.c., infatti, resterebbe comunque «esposto» agli stati soggettivi confliggenti, tuttavia, con forme di tutela «reale»: v., inoltre, le perplessità espresse a riguardo da S. Tondo, Ambientazione del trust nel nostro ordinamento e controllo notarile sul trustee, in I. Beneventi (cur.), I trusts in Italia oggi, cit., pp. 202-203; nonché L. Ricca, Oggetto del trust, doveri del trustee e strumenti coercitivi o sanzionatori nel diritto interno, ibid., pp. 108-109. Impregiudicata l’eventuale operatività, in tali ipotesi, del c.d. disgorgement, ricalcato dal dispositivo di tutela ex art. 125, D.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (recante Codice della proprietà industriale), su cui, v. amplius P. Pardolesi, Contratto e nuove frontiere rimediali. Disgorgement v. punitive damages, Bari, 2012, spec. p. 129 ss.; ovvero della speciale tutela esecutiva introdotta dall’art. 2929-bis c.c., esaminata in tali contesti da A. Ciatti Càimi, Vincoli di destinazione, tutela del ceto creditorio e il nuovo art. 2929-bis c.c., in Aa.Vv., Il negozio di destinazione fiduciaria. Contributi di studio, Milano, 2016, p. 12 ss.
Ove, dunque, il «vincolo di indisponibilità» sia di fonte testamentaria e, nello specifico, recato da clausola «confidenziale», il problema residuale, benché non di poco momento, da cui far dipendere la plausibilità dell’analisi finora condotta, sarebbe circoscritto alla forma[1].
Infatti, quanto alla realizzazione di interessi «meritevoli», varranno le medesime osservazioni enucleate in riferimento al divieto «contrattuale» di alienazione: per l’opponibilità ai terzi sarà necessario non soltanto che l’atto sia «lecito», ma sia anche diretto a realizzare un interesse «apprezzabile» ex art. 1322 c.c., espressamente richiamato nel contesto precettivo della (nuova) norma; ad ulteriore riprova che in tanto sarà concepibile una deroga alla facoltà di disporre ed alla (connessa) «responsabilità patrimoniale» con efficacia erga omnes, soltanto al cospetto di «interessi» che in diritto anglosassone qualificherebbero il trust come charitable[2] e di cui, per ciò stesso, ben possono essere «beneficiari» intere categorie di soggetti non rigidamente predefiniti nella relativa platea. In mancanza, tale vincolo c.d. «di scopo», seppur «alido inter partes, non potrà però produrre effetti «segregativi» e di opponibilità, secondo il modello ex art. 2645-ter c.c.
Quanto poi alla «durata», se il «vincolo di indisponibilità» fosse effettivamente «funzionale» ad un interesse (non soltanto «lecito», bensì) «apprezzabile», dovrà ammettersene la piena validità nei limiti necessari al suo compimento, e comunque non oltre novant’anni, come espressamente stabilito da quest’ultimo.
Tornando alla «forma», nei rapporti successori si è reputato non potersi prescindere dal testamento redatto in forma pubblica: è il ministero notarile a conferire quel ‘filtro di legalità’ che la norma prescrive. Considerando che il riferimento normativo ad «atti in forma pubblica» ha la finalità di garantire un preventivo controllo del pubblico ufficiale sulla «meritevolezza» degli interessi perseguiti, attraverso la costituzione del «vincolo», si è osservato come l’unica forma, idonea a costituire un vincolo di destinazione, agli effetti dell’art. 2645-ter c.c., sia il testamento pubblico[3]; sarà compito del notaio, dopo averne provveduto alla registrazione, unitamente al verbale con cui si dà atto del suo passaggio dal Repertorio degli atti mortis causa a quello degli atti inter vivos, trascrivere il «vincolo di destinazione» presso l’Agenzia del Territorio e/o presso il Registro delle Imprese.
Una diversa lettura della vicenda sembra, tuttavia, suggerire (se non proprio consigliare) la prospettiva storica dianzi ripercorsa, avallata da recenti spunti normativi, utili in tema di «veicolo di esternazione» (anche) delle ultime volontà. Seguendo tale prospettiva, in linea con quanto argomentato circa la possibile configurabilità di un affidamento «fiduciario», emergente in via interpretativa dal piano «effettuale» degli interessi in gioco, la forma del «testamento pubblico» per il «vincolo» di destinazione mortis causa non sarebbe indispensabile, giacché quest’ultimo acquista sempre efficacia «obbligatoria» al momento dell’apertura della successione, mentre l’opponibilità erga omnes deriva dalla (sicura) pubblicità[4] del negozio istitutivo (arg. ex artt. 621 e 622 c.c.).
Il «vincolo» predisposto dal testatore integrerà gli estremi della condizione, con cui, ad eccezione di pesi ed oneri incidenti sulla quota spettante ai legittimari (arg. ex art. 549 c.c.), si pone all’erede (o al legatario) il «comando» di destinare ad tempus specifici beni previamente individuati, sotto pena di risolubilità del lascito[5]. Tale prospettiva offre il vantaggio di permettere al testatore la realizzazione della sua volontà «destinatoria», che può presentare specifica rilevanza nella pianificazione patrimoniale post mortem, anche tramite il testamento «olografo», che rappresenta notoriamente la forma di gran lunga più utilizzata a livello statistico.
Il filtro di «meritevolezza» degli interessi perseguiti attraverso la destinazione patrimoniale, affidato pur sempre al ministero notarile, si attuerebbe con l’atto pubblico, con cui l’onerato dia esecuzione alla vicenda destinatoria e ne chieda a quest’ultimo, previo espletamento delle formalità «olografe», la trascrizione ex art. 2645-ter c.c. nei pubblici registri. Il che non elide possibili rischi di utilizzo «improprio» della destinazione testamentaria, e tuttavia neppure rimuovibili a priori qualora la vicenda «destinatoria» sia stata portata a compimento con l’assistenza notarile, stante l’evidenziata necessità della verifica giudiziale, in fatto di «meritevolezza» degli interessi perseguiti, nei casi dubbi.
[1] Sulla configurabilità «destinatoria» anche anteriormente all’introduzione dell’art. 2645-ter c.c., in applicazione dell’«autonomia contrattuale» di cui all’art. 1322 c.c., intesa quale esplicazione del più ampio «potere dispositivo» spettante al proprietario, v. autorevolmente già Salv. Romano, L’accordo fiduciario e il problema della sua rilevanza, in Aa.Vv., Studi in onore di Gioacchino Scaduto, III, Diritto civile e diritto romano, Padova, 1970, p. 66 s., il quale sin da allora qualificava il «contratto fiduciario» come contratto traslativo di diritti reali «a causa atipica» meritevole di tutela ex art. 1322 c.c.; più di recente, U. La Porta, Destinazione di beni allo scopo e causa negoziale, Napoli, 1994, spec. p. 42 s.; G. Palermo, Contributo allo studio del trust e dei negozi di destinazione disciplinati dal diritto italiano, in Riv. dir. comm., 2001, I, p. 391 s.; nonché M. Lobuono, I «nuovi beni» del mercato finanziario, in Riv. dir. priv., 2002, spec. p. 48.
[2] In linea con quanto osservato supra, nt. 45. Ove peraltro il «vincolo», anziché come riferito alla «destinazione» dei beni, sia inteso come diretto (anche) a «vincolare lo scopo» dell’ente affidatario, potrebbe ravvisarsi una causa di illiceità della «condizione», in rapporto all’eventuale «coartazione» di libertà costituzionali qualora «neutre» rispetto alla «destinazione» impressa sui primi: si pensi a finalità sanitarie ovvero educative, cui i beni risultano «destinati», del tutto «neutre» rispetto allo scopo «di culto» o «laico» di quest’ultimo (cfr. N. Di Mauro, Condizioni illecite, cit., p. 91 s. Per l’identificazione dell’interesse «meritevole» ex art. 2645-ter con l’interesse «lecito», v., E. Russo, Il negozio di destinazione di beni immobili e beni mobili registrati (art. 2645-ter c.c.), in Vita not., 2006, p. 1243 s.; A. Gentili, Le destinazioni patrimoniali atipiche. Esegesi dell’art. 2645-ter c.c., in Rass. dir. civ., 2007, p. 12, nonché Id., La destinazione patrimoniale. Un contributo della categoria generale allo studio della fattispecie, in Riv. dir. priv., 2010, spec. p. 62; G. Vettori, Atto di destinazione e trascrizione. L’art. 2645-ter, in M. Bianca (cur.), La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, Milano, 2007, p. 176. Nel senso opposto, sia pure con varietà di accenti, la maggioranza della dottrina: cfr. U. La Porta, L’atto di destinazione di beni allo scopo trascrivibile ai sensi dell’art. 2645-ter c.c., in G. Vettori (cur.), Atti di destinazione e trust (Art. 2645-ter del codice civile), Padova 2008, p. 103; G. Gabrielli, Vincoli di destinazione importanti separazione e pubblicità nei Registri immobiliari, in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 329; A. Morace Pinelli, Tipicità dell’atto di destinazione ed alcuni aspetti della sua disciplina, ibid., 2008, II, p. 451 s.; F. Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645-ter, in Giust. civ., 2006, II, p. 179; C. Scognamiglio, Negozi di destinazione, trust e negozi fiduciari, in M.V. De Giorgi, S. Delle Monache, G. De Cristofaro (cur.), Studi in onore di Giorgio Cian, t. 2, Padova, 2010, p. 2313 s.; M. Nuzzo, L’interesse meritevole di tutela tra liceità dell’atto di destinazione e opponibilità dell’effetto della separazione patrimoniale, in Aa.Vv., Famiglie e impresa: strumenti negoziali per la separazione patrimoniale, in Quad. Fondaz. Notar., n. 1/2010, p. 29, nonché Id., L’evoluzione del principio di responsabilità patrimoniale illimitata, in M. Bianca, G. Capaldo (cur.), Gli strumenti di articolazione del patrimonio. Profili di competitività del sistema, Milano, 2010, p. 316 s.; R. Lenzi, voce Atto di destinazione, in Enc. dir. – Ann., V, ivi, 2012, p. 57. In quest’ultimo senso, nella giurisprudenza di merito, v., da ultimo, Trib. Ravenna, decr. 22 aprile 2015, in @ilfallimentarista.it, dal 23.11.2015, con nota di M. A. Russo.
[3] Cfr. M. Bianca, M. D’Errico, A. de Donato, C. Priore, L’atto notarile di destinazione, cit., p. 14, secondo cui l’esigenza di garantire il filtro della «meritevolezza» degli interessi perseguiti con l’atto di destinazione dovrebbe giustificare la deroga al generale principio di equivalenza delle forme testamentarie, in particolare escludendo la possibilità di costituire un vincolo di destinazione con il testamento olografo o segreto; nonché F. Spotti, Il vincolo testamentario di destinazione, in Fam. pers. succ., 2011, p. 384 s.
[4] Per l’opportuno distinguo tra «realità» ed «opponibilità», nel cui (secondo) ambito collocare propriamente l’effetto «destinatorio», in disparte da questioni di «titolarità» e nel rispetto del c.d. numerus clausus dei diritti reali, cfr. M. Bianca, Vincoli di destinazione, cit., spec. p. 209, ed ivi nt. 72); G. Vettori, Efficacia ed opponibilità del patto di preferenza, Milano, 1988, spec. p. 158; G. Alpa, Destinazione dei beni e struttura della proprietà, in Riv. not., 1983, I, p. 7, il quale giustamente osserva come: «il vincolo convenzionale che sia trascritto […] è reso opponibile ai terzi ed acquista quindi carattere di realità».
[5] Per un’interpretazione «estensiva» della liceità di costituzione del «vincolo di destinazione» anche attraverso il testamento «olografo» o «segreto», cfr. A. Merlo, Brevi note, cit., p. 513; R. Calvo, Vincoli di destinazione, cit., p. 182 s.; G. Rispoli, Atto di destinazione e pretese successorie, in V. Cuffaro (cur.), Successioni per causa di morte. Esperienze e argomenti, Torino, 2015, p. 657 s.
Un avallo al (possibile) superamento dell’indispensabile forma «pubblica» testamentaria sembra oggi – sia pure indirettamente – provenire dalla complessa vicenda sfociata nel nuovo art. 2643, n. 12-bis, c.c., onde rimediare al contrasto nella giurisprudenza (teorica e pratica) circa l’ammissibilità di un accordo conciliativo diretto ad accertare l’usucapione e la sua trascrivibilità[1]. In disparte i notevoli problemi di coerenza sistematica che l’introduzione della novella ancora suscita, sta di fatto che attualmente dovrebbe reputarsi accantonata (perlomeno) la risalente disputa sull’equipollenza «effettuale», anche sotto il profilo della pubblicità dichiarativa, tra «sentenza» di accertamento di diritto reale e «negozio» di accertamento (a seguito di verbale di conciliazione «omologato») avente pari oggetto, un tempo considerato incompatibile rispetto alle conseguenze «sostanziali» proprie degli atti «trascrivibili», (tassativamente) elencati dall’art. 1350 c.c.[2]
In estrema sintesi, la forma appare sempre meno «veicolo degli effetti» per l’assetto di interessi divisato, e sempre più (mero) requisito ex art. 2657 c.c., ai fini dell’opponibilità del relativo atto; un ragionamento analogo valevole, altresì, per le osservazioni svolte in precedenza, riguardo alla «libertà» delle forme testamentarie suscettibili di veicolare (ultime) volontà «destinatorie». Il che conferma, sotto altro aspetto, come l’art. 2645-ter c.c. non è «norma di fattispecie», bensì affida ad interpreti ed operatori pratici un «perimetro normativo», entro cui può realizzarsi la vicenda «effettuale» prefigurata dal legislatore intorno a poche coordinate essenziali (i.e., atto pubblico c.d. ad transcriptionem; durata; meritevolezza degli interessi), lasciando poi che quest’ultime si (ri)compongano (partendo pur sempre dal dato normativo) in nuove e differenti strutture negoziali, talora note da tempo immemore alla multiforme esperienza delle situazioni «fiduciarie»; qual è appunto la stessa clausola «confidenziale».
Si perviene, così, alla seconda (e conclusiva) ipotesi ricostruttiva in ottica costituzionale della fattispecie esaminata: la «meritevolezza» degli interessi, richiesta perché possa validamente compiersi un «atto di destinazione», secondo il «modello» oggi reso «esplicito» dall’art. 2645-ter c.c., quale che ne sia la fonte (i.e., «contrattuale» o «testamentaria»), è dunque, anzitutto, costituito da quell’insieme di «valori-interessi» sottesi al (rispetto del) principio del c.d. numerus clausus dei diritti reali, che si è visto inglobare in sé – oltre al divieto di creare nuovi diritti reali in re aliena – anche (fuori dai casi e dai modi previsti dalla legge) quello di alterare lo schema del diritto di proprietà, attraverso la creazione di proprietà «a termine», «risolubili», e via discorrendo.
L’introduzione della (nuova) norma, recante i «confini di validità» del relativo congegno, altro non fa che ampliare gli strumenti di «funzionalizzazione» della proprietà privata, ai sensi dell’art. 42 Cost., (non già nel «fondarla», bensì in prima battuta) nel «riconoscerla» anche in virtù e come conseguenza di scelte (non soltanto del legislatore, ma) della stessa autonomia negoziale, «declinata» nella rinnovata prospettiva di c.d. «sussidiarietà orizzontale» ex art. 118, c. 4, Cost., per via della delega «dal basso» ad interventi «conformativi» verso (uno o più) beni singoli, sui quali lo stesso proprietario imprime (inter vivos ovvero mortis causa) un «vincolo» funzionale al soddisfacimento degli evocati «valori-interessi» eminentemente «sensibili» per la collettività[3]. L’immediato e diretto «riconoscimento costituzionale» delle situazioni «fiduciarie» imporrà, in seconda battuta, nelle eventuali sedi contenziose, di «garantirne» pertanto, sempre ai sensi dell’art. 42 Cost., la precettività (di fonte negoziale) non soltanto in rapporto al «genotipo» oggi rispecchiato dall’art. 2645-ter c.c., bensì anche a quel vasto repertorio di «fenotipi» talora noti da tempo immemore (tra cui la stessa clausola «confidenziale»), ed apprezzabili sul piano (interpretativo) dell’equivalenza «funzionale» del risultato meritevole[4] ex art. 1322 c.c., dunque – alla luce della prima ipotesi ricostruttiva – dell’effettività della tutela parimenti accordabile.
E così, il disposto dell’art. 2645-ter c.c. «piuttosto che un’epifania rivoluzionaria, rappresenta null’altro che il punto terminale di un particolare percorso evolutivo della nozione di patrimonio del soggetto»[5], la cui lunga marcia, sin dai rievocati esordi romanistici, appare icasticamente schematizzata nella graduale «metamorfosi» gius-culturale dal mandato alla fiducia e, quindi, al trust, a disegnare non tanto: «un cerchio che si chiude; [N.d.A., quanto piuttosto] una parabola che si colloca su una linea tracciata verso l’infinito»[6].
[1] In tema, v. ora App. Reggio Calabria, 12 novembre 2015, in @Dir.giust., 2015, con osserv. critiche di F. Valerini; nonché in Riv. not., 2015, II, p. 1313, con nota redazionale, ed ivi puntuali riferimenti bibliografici alla dibattuta natura giuridica del «negozio di accertamento» ad effetti costitutivi.
[2] Aspetto giustamente affrontato da L. Follieri, L’accertamento convenzionale dell’usucapione, Napoli, 2018, spec. p. 179 ss., sul rilievo che l’art. 11, c. 3, D.lgs. n. 28/2010, non menziona affatto (la necessità del)l’«atto pubblico», ai fini della trascrizione del c.d. «accordo di usucapione» ex art. 2643, n. 12-bis c.c., essendo sufficiente per l’osservanza delle forme all’uopo prescritte dall’art. 2657 c.c. la «scrittura privata con autentica notarile». Del resto, è stato ben chiarito che la prescrizione ‘formale’ andrebbe estesa ai soli atti che producono l’effetto reale automaticamente e necessariamente, di modo che la forma vincolata dovrebbe considerarsi imposta ogniqualvolta «l’atto non sarebbe immaginabile senza l’effetto in relazione al quale essa è prescritta»: così, F. Di Giovanni, Il tipo e la forma. Aspetti dell’interferenza tra qualificazione e requisiti del contratto, Padova, 1992, p. 48.
[3] Sulla rilevanza «costituzionale» degli interessi «destinabili», cfr. M. Maggiolo, Il tipo della fondazione non riconosciuta nell’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c., in Riv. not., 2007, p. 1153 s.; con accenti più sfumati, G. Perlingieri, Il controllo di «meritevolezza» degli atti di destinazione ex art. 2645-ter c.c., in Foro nap., 2014, spec. p. 58; in generale, v. anche U. Stefini, Destinazione patrimoniale ed autonomia negoziale: l’art. 2645-ter c.c., 2a ed., Padova, 2010, p. 30 s.; G. D’Amico, La proprietà «destinata», in Riv. dir. civ., 2014, spec. pp. 542-543; A. Fusaro, Sussidiarietà, autonomia privata e limiti alla responsabilità patrimoniale, in M. Nuzzo (cur.), Il principio di sussidiarietà nel diritto privato, t. 2, Coordinamento tra imprese. Responsabilità patrimoniale del debitore. Soluzione negoziale delle crisi d’impresa, Torino, 2014, spec. p. 118 s.; G. Palermo, L’autonomia negoziale, 3a ed., ivi, 2015, p. 67 s.
[4] Sulle origini di quest’accezione, elaborata nella stagione del c.d. «disgelo costituzionale», v. ampiamente F. Macario, L’autonomia privata nella cornice costituzionale: per una giurisprudenza evolutiva e coraggiosa, in Quest. Giust., n. 4/2016, spec. pp. 55-56; un cui valido esempio è dato recentemente da Cass., 28 aprile 2017, n. 10506, in partic. punto 3.2 in motiv., in Guida dir., 2017, f. 23, p. 55, con nota di C. Schettini. Tornano, così, di attualità le (pionieristiche) riflessioni, sulla «successione» (rectius, «trasmissione») nella locazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, di G. Panza, La funzione sociale dell'acquisto mortis causa, Bari, 1997, p. 139 s.
[5] G. Doria, Il patrimonio «finalizzato», in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 498. Il ruolo «unificante» sul piano concettuale e categoriale della disposizione, con valenza chiaramente «ricognitiva», è ben sottolineato anche da L. Gatt, Dal trust al trust. Storia di una chimera, 2a ed., Napoli, 2010, p. 172 s., spec. p. 178, ed ivi giurisprudenza conforme. Ne sottolinea ora, con il consueto nitore, l’originario «sdoppiamento» in epoca rinascimentale fra «proprietario» ed «esercente funzioni con appannaggio» di determinati beni, M. Lupoi, Si fa presto a dire «trust», in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, spec. p. 680, testo e note.
[6] F.D. Busnelli, La parabola della responsabilità civile, ora in Id., S. Patti, Danno e responsabilità civile, 3a ed., Torino, 2013, p. 133. La segnalata «metamorfosi» riprende il titolo dell’opera collettanea cit. supra, nt. 104.