Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

La comunicazione al pubblico di opere protette dal diritto d'autore nel World Wide Web. Limiti all'utilizzo degli hyperlink per viaggiare nel ciberspazio (di Michael William Monterossi)


Il contributo si occupa di analizzare le questioni giuridiche attinenti all’uso di collegamenti ipertestuali (o hyperlink) per comunicare contenuti protetti dal diritto d’autore, per verificare se ed entro quali limiti la normativa europea posta a protezione del diritto d’autore nella sfera digitale – e, segnatamente, la Direttiva 2001/29/CE – subordini tale pratica alla preventiva autorizzazione dell’autore del contenuto.

Sulla questione, a lungo dibattuta in dottrina, si è pronunciata numerose volte la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), da ultimo a grande sezione nel giudizio VG Bild-Kunst v. Stiftung Preußischer Kulturbesitz. L’analisi della casistica consente di evidenziare come la Corte, basandosi sulla c.d. dottrina del consenso implicito, tenda a far dipendere la decisione circa la liceità dell’atto di comunicazione effettuata tramite hyperlink in assenza di autorizzazione dalla eventuale previsione, a opera del titolare del diritto d’autore, di misure tecnologiche volte a limitare l’accesso o l’uso del contenuto protetto.

L’Autore intende mettere in rilievo come la giurisprudenza così elaborata dalla Corte, sebbene apparentemente permissiva verso l’uso di hyperlink, non appaia del tutto aderente alle norme e ai principi che regolano la proprietà intellettuale, comportando un disincentivo alla diffusione di contenuti protetti online anche quando la tutela del diritto d’autore non risponde alle esigenze che giustificano il riconoscimento dell’esclusiva.

Il tema assume oggi particolare rilievo, considerando l’impatto che la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea può esercitare in relazione all’applicazione della più recente Direttiva UE 2019/790 sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale.

The communication to the public of works protected by copyright on the world wide web. Limits on the use of hyperlinks to travel in cyberspace

This article addresses the legal issues related to the use of hyperlinks to communicate copyright protected content, in order to verify whether and within which limits the European legislation on copyright in the digital sphere - and, in particular, Directive 2001/29/EC - makes this practice subject to the authorization by the author of the content.

This issue, long debated in doctrine, has been brought to the attention of the Court of Justice of the European Union (CJEU) on several occasions, the last of which in the VG Bild-Kunst v. Stiftung Preußischer Kulturbesitz judgment, decided in the Grand Chamber.

The Court has elaborated a line of interpretation which, by relying on the so-called implied consent doctrine, tends to make the decision on the lawfulness of the act of communication made by the hyperlinker in the absence of an authorization dependent on whether the holder of the right has limited the access to or use of the copyright content through technological measures.

The Author highlights how the reasoning adopted by the CJEU, although apparently permissive towards the use of hyperlinks, does not appear to adhere to the rules and principles governing intellectual property, resulting in a disincentive to the dissemination of protected content online even when the recognition of an exclusivity in favor of the right holder does not seem to be justified.

The topic takes on particular relevance nowadays, considering the impact that the decisions handed down by the CJEU may exert on the application of the recent EU Directive 2019/790 on Copyright and related rights in the digital single market.

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Michael William Monterossi - La comunicazione al pubblico di opere protette dal diritto d’autore nel World Wide Web. Limiti all’utilizzo degli hyperlink per viaggiare nel ciberspazio

SOMMARIO:

1. Introduzione. - 2. Note preliminari: le diverse forme di collegamento ipertestuale. - 3. Il collegamento ipertestuale nella prospettiva del diritto d’autore. La Direttiva 2001/29/CE. - 4. La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea: il collegamento ipertestuale come «atto di comunicazione al pubblico» e l’applicazione del criterio del «pubblico nuovo» alla sfera digitale - 5. Dietro il criterio del «pubblico nuovo»: teoria del «consenso implicito» e (mancata) adozione di misure tecnologiche di protezione. - 6. La teoria del «consenso implicito» oltre il criterio del «pubblico nuovo». - 7. Adozione di misure tecnologiche e limiti all’uso di hyperlink. - 8. Verso una classificazione delle ipotesi di hyperlink che rinviano a opere protette dal diritto d’autore.


1. Introduzione.

A partire dal 2012, la Corte di giustizia dell’Unione europea è stata a più riprese interpellata dalle corti nazionali per rispondere a dubbi interpretativi relativi all’applicazione della Direttiva 2001/29/CE sull’armonizzazione del diritto d’autore nella società dell’informazione, nell’ipotesi in cui le opere protette siano messe a disposizione del pubblico tramite la tecnica del collegamento ipertestuale (hypertext link o, più brevemente, hyperlink). Com’è noto, l’art. 3, par. 1, della citata Direttiva impone agli Stati membri di attribuire agli autori di contenuti originali il diritto esclusivo di autorizzare o vietare la comunicazione al pubblico delle loro opere. Se è pacifico che, in base a tale disposizione, qualunque atto di riproduzione o comunicazione al pubblico di un’opera da parte di un terzo attraverso la rete Internet necessiti del previo consenso del suo autore, si è reso nel tempo necessario chiarire se, ed eventualmente in quali circostanze, anche le comunicazioni “secondarie” di detti contenuti, effettuate per mezzo di collegamenti ipertestuali, richiedano a loro volta l’autorizzazione del titolare del diritto sull’opera, per poter essere lecitamente compiute.

Si tratta di un tema complesso, che occupa una piccola schiera di studiosi, specie oltreoceano, a dispetto della crescente rilevanza – non solo giuridica, ma anche e soprattutto socio-economica – che dette questioni rivestono all’interno della sfera digitale. La tecnica dell’hyperlink può avere importanti ricadute, oltre che sull’effettivo esercizio delle prerogative riconosciute agli autori, sulla tutela dei diritti e delle libertà fondamentali che con esse entrano in collisione: tra le quali, specialmente, la libertà di iniziativa economica, la libertà d’espressione nonché l’accesso alla cultura e all’informazione, che proprio nel web trovano ormai un luogo imprescindibile per il loro esercizio. L’affermazione acquista oggi ancor più pregnanza, laddove si ponga a mente che, con l’entrata in vigore del nuovo art. 17 della Direttiva (UE) 2019/790 (c.d. Direttiva Copyright), i prestatori di servizi di condivisione di contenuti online potranno consentire l’accesso al pubblico di contenuti protetti, su richiesta degli utenti, solo dopo aver ottenuto l’autorizzazione dal titolare del diritto, in ossequio al disposto di cui al citato art. 3. Considerato che la condivisione è spesso effettuata tramite hyperlink, ne deriva che tanto più stringenti saranno i limiti giurisprudenziali al loro utilizzo non autorizzato, tanto più ampio sarà il dovere-potere di sorveglianza attiva sui contenuti condivisi in capo alle piattaforme di intermediazione, con una conseguente potenziale compressione della libertà di espressione degli utenti all’interno di Internet.

Già queste ragioni suggerirebbero di riservare particolare attenzione alla sentenza VG Bild-Kunst[1] con cui la Corte di giustizia, in composizione plenaria, è nuovamente intervenuta sul tema, soffermandosi sul più specifico caso del framing, un particolare tipo di hyperlink che consente all’utente di visualizzare all’interno di un determinato sito web contenuti provenienti da siti web di terze parti. Ma le circostanze da cui muove il caso concreto moltiplicano i motivi di interesse dell’ultimo arresto, ampliandone la portata e il significato ben oltre la mera valutazione delle condizioni di liceità della tecnica in esame. Il quesito proposto dal Bundesgerichtshof tedesco è invero incentrato sul valore da assegnare alle misure tecnologiche volte a impedire la messa a disposizione di un’opera protetta tramite hyperlink, nell’ottica di stabilire se la loro adozione da parte del titolare del diritto d’autore (o la loro imposizione ai licenziatari) possa risultare determinante ai fini della qualificazione del collegamento come «atto di comunicazione al pubblico», ai sensi della Direttiva 2001/29. Nel dare una risposta affermativa al quesito, e ritenere dunque la loro elusione in ogni caso contraria al diritto d’autore, la Corte appare prima facie recepire gli orientamenti giurisprudenziali formulati nei leading case che hanno preceduto tale ultimo giudizio[2], ponendosi in linea con un percorso – chiaro anche a livello legislativo – che vede l’Unione europea impegnata in una politica di rafforzamento della protezione del diritto d’autore all’interno della sfera digitale, come presupposto per stimolare la produzione di contenuti originali anche nel nuovo contesto tecnologico.

Eppure, una più attenta analisi della serie di argomentazioni addotte dalla Corte restituisce all’interprete non pochi motivi di perplessità, con riguardo tanto all’effettiva rispondenza delle soluzioni interpretative elaborate ai principi che governano la materia, tanto (e di conseguenza) alla capacità delle stesse di realizzare un bilanciamento equilibrato dei diversi interessi in conflitto. A sollecitare la riflessione critica è, in particolar modo, l’assenza di una puntuale distinzione tra le diverse fattispecie concrete, così come risultanti dall’intreccio tra le due (principali) variabili che contribuiscono a delinearle: il tipo di collegamento ipertestuale utilizzato per comunicare l’opera, da un lato, e il tipo di misura tecnologica adottata, ed eventualmente elusa, dall’altro.

Il contributo intende ripercorrere la giurisprudenza della Corte di giustizia, per segnalare come i vizi logico-giuridici, all’origine di tali ambiguità, risiedano in talune precedenti statuizioni che, ove ulteriormente veicolate dalla Corte medesima, legittimerebbero un’applicazione eccessivamente estensiva della normativa richiamata, apprestando una tutela al titolare del diritto d’autore, con sacrificio degli interessi contrapposti, anche quando ciò non risponde alle esigenze che giustificano il riconoscimento dell’esclusiva.

 

[1] Corte giust. UE, Grande Sezione, VG Bild-Kunst c. Stiftung Preußischer Kulturbesitz, sentenza 9 marzo 2021, causa C 392/19 (d’ora in avanti, caso VG Bild-Kunst).

[2] Ci si riferisce in particolare a: Corte giust. UE, Quarta Sezione, Nils Svensson, Sten Sjögren, Madelaine Sahlman, Pia Gadd c.cRetriever Sverige AB, sentenza 13 febbraio 2014, causa C 466/12 (d’ora in avanti, caso Svensson); Corte giust. UE, Seconda Sezione, Land Nordrhein-Westfalen c. Dirk Renckhoff, sentenza 7 agosto 2018, causa C 161/17 (d’ora in avanti, caso Renckhoff); Corte giust. UE, Seconda Sezione, GS Media BV c. Sanoma Media Netherlands BV, Playboy Enterprises International Inc., Britt Geertruida Dekker, sentenza 8 settembre 2016, causa C 160/15 (d’ora in avanti, caso GS Media).


2. Note preliminari: le diverse forme di collegamento ipertestuale.

L’importanza nodale delle questioni affrontate dalla Grande Sezione della Corte di giustizia risulta evidente se solo si consideri che esse investono, minandola, la quintessenza della tecnologia nota come World Wide Web: vale a dire, la possibilità per gli utenti di viaggiare tra gli innumerevoli siti web di cui è costellato il ciberspazio, pur senza essere a conoscenza degli indirizzi che definiscono la loro precisa collocazione all’interno della rete Internet.

Ad abilitare tale funzionalità è precisamente il collegamento ipertestuale. Da un punto di vista tecnico, il collegamento ipertestuale è un’istruzione, espressa in linguaggio HTML e rivolta al browser dell’utente, che consente a quest’ultimo di accedere, partendo dal sito Internet in consultazione, alle risorse contenute in un altro sito Internet. Tale operazione non implica alcuna archiviazione (se non in alcuni casi temporanea)[1] di informazioni digitali sul server web del sito inizialmente consultato dall’utente, posto che la visualizzazione delle risorse costituisce la risposta all’interrogazione, mediata dall’hyperlink, che viene fatta direttamente al server che ospita le pagine del sito di destinazione. I collegamenti ipertestuali creano dunque delle “porte di accesso” secondarie ai siti web, sfruttando le quali l’utente può raggiungere una delle molteplici pagine di cui essi si compongono ovvero singole risorse – quali file di testo, file video o audio – in tali pagine contenute, senza necessità di seguire il protocollo di accesso canonico, che esigerebbe l’inserimento dell’indirizzo URL (Uniform Resource Locator) nel campo dell’indirizzo del browser web e la successiva pressione del tasto invio del proprio computer[2].

L’accesso alle risorse del sito cui il link rinvia può tuttavia assumere una forma più o meno diretta, a seconda della diversa istruzione veicolata dal collegamento ipertestuale.

Alcuni tipi di link contengono esclusivamente l’indirizzo URL del sito al quale rinviano, sicché l’utente, dopo aver cliccato la relativa stringa di testo (ben riconoscibile, come noto, dal colore blu e dalla sottolineatura che la connota) ovvero l’immagine (più spesso una sua copia in miniatura, nota come thumbnails) che lo incorpora, sarà ridiretto alla pagina di presentazione, la c.d. home page del sito “linkato” (si parla in tale caso di simple o surface link) ovvero direttamente a una pagina interna (o a una risorsa in essa contenuta) del sito di destinazione (c.d. deep link)[3].

In entrambe le ipotesi, l’utente, dovendo necessariamente attivare mediante un click il collegamento ipertestuale contenente l’indirizzo URL del sito di destinazione e vedendo in ogni caso graficamente apparire sul proprio browser una pagina web diversa e individuabile dal relativo nome (di regola contenuto nell’indirizzo web), avrà modo di prendere atto del fatto che il sito al quale è stato rinviato sia diverso da quello inizialmente consultato. Non a caso, si parla a tal riguardo di link «referenziali»[4], per alcuni studiosi più simili a delle mere citazioni online o a delle note a piè di pagina[5]; ad ogni modo caratterizzati dal fatto che, per mezzo di essi, l’utente vive un’autentica esperienza di navigazione sul web, avendo egli sempre contezza di trascorrere da un luogo virtuale ad un altro e, quindi, della diversa fonte consultata.

Ma i collegamenti ipertestuali possono altresì essere programmati in modo tale da sintetizzare – quanto meno agli occhi degli utenti – questa serie di passaggi e consentire una visualizzazione diretta e automatica dei contenuti presenti in un altro sito, senza la partecipazione attiva dell’utente. Tale caratteristica connota anzitutto il c.d. in-line o embed link, un collegamento ipertestuale utilizzato come elemento di web design che consente di incorporare all’interno della pagina web in cui il link è installato un contenuto o una risorsa ospitata sul server di un sito diverso. Un risultato simile può essere raggiunto anche utilizzando la c.d. tecnica del framing, mediante la quale la schermata della pagina web di un sito è suddivisa in più riquadri – o frame – ciascuno dei quali può visualizzare una pagina o risorsa web differente. La pagina può così essere costruita in modo tale che una o più parti dello schermo contengano risorse ospitate sul server del sito effettivamente consultato dall’utente, laddove altre parti dello stesso schermo visualizzino – per il tramite di un collegamento cliccabile ovvero automatico – risorse provenienti da server di terze parti.

In una prospettiva tecnica, il funzionamento dell’in-line link o del framing – noti anche come link «non-referenziali» – è il medesimo di quelli in precedenza richiamati: anche in questo caso il collegamento consente di visualizzare l’elemento, ad esempio un’immagine o un video, senza necessità di archiviarla sul server del sito su cui appare. A mutare è però l’esperienza dell’utente: essendo la risorsa visualizzata direttamente sulla schermata del sito web consultato e mancando (spesso anche nel framing) il riferimento al sito in cui la risorsa è contenuta, l’utente potrebbe essere portato a intendere quel contenuto come parte integrante del sito inizialmente visitato.

È bene sin d’ora segnalare come il collegamento ipertestuale, specie nella sua forma più rudimentale di «link referenziale», abbia avuto un ruolo fondamentale per la nascita e lo sviluppo del World Wide Web. Esso costituisce il principio tecnico che governa il funzionamento della rete Internet, quale sistema di ricerca ipertestuale di informazioni digitali: è l’installazione di collegamenti ipertestuali a consentire il movimento virtuale dell’utente nel ciberspazio, sia tra le diverse pagine che strutturano un singolo sito (internal links), sia tra la moltitudine di siti – e, quindi, di informazioni – che sono ospitati dai server che compongono il Web (external links). A ben vedere, l’utilizzo di tale tecnica ha storicamente accompagnato, abilitandole, le diverse trasformazioni che hanno segnato i processi di evoluzione della rete Internet.  Tra i tanti esempi possibili, può essere utile ricordare che proprio sfruttando i link collocati dagli utenti all’interno dei siti web, Google poteva introdurre un motore di ricerca destinato a rivoluzionare l’esperienza di ricerca dell’utente in rete, dando avvio a quel modello di sfruttamento della rete – su cui oggi poggia il capitalismo cognitivo – improntato alla c.d. «saggezza della folla»[6].

Non sorprende dunque che i primi giuristi ad occuparsi dei possibili profili di illiceità degli hyperlink abbiano insistito sulla natura consustanziale della pratica alla rete Internet, sottolineando come essa risponda a un «uso normale» e «consuetudinario» del World Wide Web[7]. Del pari, le autorità giudiziarie che, a diversi livelli e in diversi paesi, hanno avuto occasione di confrontarsi in ordine a problematiche a essi relativi, ne hanno esaltato il fondamentale ruolo per lo sviluppo e il funzionamento di Internet, nella prospettiva di promuovere e tutelare la più ampia libertà di accesso alle informazioni e di espressione delle opinioni che tale tecnologia abilita. Una funzione dunque strumentale rispetto all’esercizio di diritti fondamentali, quale quello sancito dall’art. 10 della Convenzione EDU, come segnalato dalla stessa Corte di Strasburgo, la quale ha messo in rilievo come i collegamenti ipertestuali, permettendo agli utenti di Internet di navigare verso e da contenuti specifici all’interno di un network caratterizzato da un’immensa quantità di informazioni, contribuiscano in modo determinante a rendere tali informazioni accessibili agli internauti[8].

 

[1] Occorre fin da subito segnalare che l’art. 5, par 1. della Direttiva 2001/29 esenta dal diritto di riproduzione di cui all’art. 2, gli atti di riproduzione temporanea privi di rilievo economico proprio che sono transitori o accessori, e parte integrante e essenziale di un procedimento tecnologico, laddove siano eseguiti al solo scopo di consentire: a) la trasmissione in rete tra terzi con l'intervento di un intermediario o b) un utilizzo legittimo di un'opera o di altri materiali.

[2] Per un approfondimento sugli aspetti tecnici del linking, si vedano, tra i diversi contributi, M.A. O’Rourke, Fencing Cyberspace: Drawing Borders in a Virtual World, in Minnesota Law Review, 1998, pp. 609 ss, pp. 630 ss.; S. L. Dogan, Infringement Once Removed: The Perils of Hyperlinking to Infringing Content, in Iowa Law Review, vol. 87, 2002, pp. 829-908, pp. 837 ss.

[3] Per un approfondimento tecnico si veda, ex multis, A. Strowel, N. Ide, Liability with regard to hyperlinks, in The Columbia Journal of Law & the Arts, 2000-2001, pp. 101 ss.

[4] La distinzione tra «referential» e «nonreferential» link (di cui si dirà infra) è elaborata da J.C. Ginsburg, L. Ali Budiardjo, nel lavoro dal titolo Embedding Content or Interring Copyright: Does the Internet Need the Server Rule, in Columbia Journal of Law & the Arts, vol. 42, 2019, pp. 417-478, p. 423.

[5] Testi sostenuta anzitutto da Tim Berners-Lee, ritenuto l’inventore del World Wide Web, di cui si veda Weaving the Web: The Original Design and Ultimate Destiny of the World Wide Web, Harper Business, New York, 2000, e id., Axioms of Web Architecture. Links and Law: Myths, consultabile al seguente indirizzo web https://www.w3.org/DesignIssues/LinkMyths.html, secondo cui il linking non è altro che una citazione o un riferimento digitale e la possibilità di operare un riferimento a un documento è essenziale per assicurare il diritto fondamentale al free speech. Questa posizione è stata poi ripresa da diversi organismi operanti nel settore della proprietà intellettuale, tra cui lo European Copyright Society, nella Opinion on the Reference to the CJEU in Case C-466/12 Svensson, 2013, https://europeancopyrightsociety.org/opinion-on-the-reference-to-the-cjeu-in-case-c-46612-svensson/ e la Federal Communications Commission, nel testo The Information Needs of Communities: The Changing Media Landscape in the Broadband Age (a cura di S. Waldman), 2011, p. 340. In dottrina, in questo senso, si vedano J. Litman, Digital Copyright: Revising Copyright Law for the Information Age, in L. Bently, B. Sherman (a cura di), Intellectual Property Law, OUP, Oxford, 2009, pp. 183 ss.; A. Cruquenaire, Electronic Agents as Search Engines: Copyright related aspects, in International Journal of Law and Information Technology, 2001, pp. 327-343.

[6] Per un approfondimento si veda A. Quarta, G. Smorto, Diritto privato dei mercati digitali, Le Monnier, Firenze, 2020, pp. 114 ss.

[7] Cfr, in questo senso ad esempio L.A. Stangret, The Legalities of Linking on the World Wide Web, in Communications Law, vol. 2, 1997, pp 202 ss., pp. 204 ss

[8] Corte EDU, Magyar Jeti Zrt v. Hungary, 4 dicembre 2018, ricorso n. 11257/16, punto 73.


3. Il collegamento ipertestuale nella prospettiva del diritto d’autore. La Direttiva 2001/29/CE.

Sebbene la tecnica del collegamento ipertestuale, si ponga al cuore del funzionamento del World Wide Web (e, insieme, della rete Internet), essa acquista un potenziale di illiceità, ogniqualvolta il contenuto cui fa rinvio sia oggetto di un monopolio in capo al suo autore. La diffusione delle opere protette all’interno della rete Internet incontra invero un limite nel diritto esclusivo dell’autore di autorizzare o vietare «la messa a disposizione del pubblico» delle proprie opere, come parte del più ampio «diritto di comunicazione al pubblico», sancito dall’art. 3, par. 1, della Direttiva 2001/29. La disposizione riprende, con identico linguaggio, l’art. 8 del World Copyright Treaty (WCT), con il quale l’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (OMPI)[1], appena pochi anni prima, aveva introdotto la prerogativa in esame come vertice di una più ampia strategia volta a modernizzare il quadro di tutela del diritto d’autore per rispondere ai dirompenti cambiamenti tecnologici che a quel tempo iniziavano a rendere possibili forme di circolazione e sfruttamento immateriali delle opere, rispetto alle quali l’assetto delle prerogative riconosciute dalla Convenzione di Berna sul diritto d’autore risultava insufficiente[2]. Si ritenne allora che, per garantire «un elevato livello di protezione della proprietà intellettuale» all’interno della sfera digitale[3], fosse necessario ampliare il novero delle prerogative di matrice patrimoniale riconosciute al titolare del diritto, per ricomprendere nell’ambito dell’esclusiva anche quelle modalità di diffusione al pubblico, proprie della trasmissione delle opere via web, nelle quali l’accesso degli utenti è effettuato dal luogo e nel momento che ciascuno di essi sceglie. Fissando un generale divieto di diffusione delle opere in assenza di una previa autorizzazione del titolare del diritto, si intendeva assicurare agli autori la forza contrattuale necessaria per ottenere un «adeguato compenso» per il loro utilizzo (e, ai produttori, per ottenere le risorse necessarie per poter finanziare le creazioni intellettuali) e, per tale via, garantire quegli incentivi economici e di mercato che, secondo l’impostazione teorico-concettuale su cui si fonda il sistema di intellectual property, sono essenziali per stimolare l’attività di creazione e produzione artistica[4].

Tale volontà politica ha trovato espressione, sul fronte europeo, attraverso l’elaborazione di un sistema di tutela del diritto di esclusiva sull’opera particolarmente ampio e pervasivo. L’estensione si palesa, anzitutto, sul fronte della circolazione dell’opera già diffusa al pubblico: poiché la messa a disposizione è ricondotta alla prestazione di un servizio anziché alla cessione di un bene, non trova qui applicazione il principio dell’esaurimento del diritto, il quale, pertanto, conserva la propria integrità anche a seguito del primo atto di comunicazione autorizzato dal suo titolare (art. 3, par. 3, della Direttiva 2001/29). Talune limitazioni derogatorie al potere di esclusione dell’autore sono invece fissate dal legislatore sul fronte dell’utilizzazione dell’opera da parte di terzi, nell’ottica di garantire un «giusto equilibrio» tra i diritti e gli interessi dei titolari e quelli degli utenti dei materiali protetti. Tuttavia, la tutela di questi ultimi rimane confinata all’interno di un sistema di eccezioni chiuso e tassativo[5], il cui ambito di operatività, ulteriormente ristretto per effetto della consueta clausola interpretativa nota come “three-step test”[6], è limitato a talune ipotesi in cui l’utilizzo dell’opera è essenziale per soddisfare specifici interessi di carattere generale, quale quello alla ricerca scientifica o all’educazione.

Dal canto suo, la pervasività si ricollega alla previsione di una tutela giuridica rafforzata per le opere protette da «efficaci misure tecnologiche», come definite all’art. 6, par. 3, della Direttiva[7], la quale si sostanzia in una protezione armonizzata contro la loro elusione e contro la fornitura di dispositivi o servizi che perseguono un tale fine. Lasciando al prosieguo una più estesa valutazione circa l’applicazione di tali norme da parte della giurisprudenza, merita qui osservare come, in tal modo, il legislatore non solo riconosca in capo all’autore la facoltà di utilizzare sistemi di recinzione virtuali per rivendicare ex ante il proprio potere escludente, ma ne incentivi altresì l’utilizzo, raddoppiando in tali ipotesi i piani di tutela del diritto d’autore: alla protezione immateriale del copyright, si sovrappone una tutela para-proprietaria delle stesse misure tecnologiche che, come si dirà meglio oltre, contribuisce a cancellare la stretta linea di confine tra il controllo sullo sfruttamento di un’opera e il controllo sul suo utilizzo da parte degli utenti, una volta immessa in rete[8]. Ne deriva un assetto giuridico intransigente, ispirato a una modalità di regolazione dei rapporti che, nel ribaltare la logica tradizionale, sottrae ai terzi – per così dire, non-proprietari – la facoltà di fare dell’opera un uso che essi valutino come lecito o anche, e in modo più radicale, di scegliere di violare il diritto di proprietà intellettuale[9]. Un quadro che, a dispetto delle apparenze, è ulteriormente irrigidito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, impegnata a definire i confini applicativi del diritto in esame nel contesto delle comunicazioni effettuate all’interno del World Wide Web.

 

[1] Trattato OMPI sul diritto d’autore (WCT), Ginevra, 1996, in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, L 89/9, 11 aprile 2000.

[2] Il riferimento è alla Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche (come riveduta da ultimo a Parigi nel 1971). L’esigenza di ammodernamento della disciplina internazionale emerge chiara dal Preambolo del WCT. In dottrina, sul rapporto tra il WTC e la Convenzione di Berna, con particolare riferimento al nuovo diritto di comunicazione al pubblico si veda J. Ginsburg, The (new?) right of making available to the public, in D. Vaver, L. Bently (a cura di), Intellectual Property in the New Millennium: Essays in Honour of William R. Cornish, Cambridge University Press, Cambridge, 2004, pp. 234-247.

[3] Cui si affiancano gli obiettivi, insiti nello stesso utilizzo dello strumento della direttiva, di assicurare una maggiore certezza del diritto e l’assenza di distorsioni nella concorrenza all’interno del mercato interno.

[4] Cfr. in questo senso i considerando 4, 9 e 10 della Direttiva 2001/29.

[5] Cfr. in particolare il considerando 31 e l’art. 5 della Direttiva 2001/29. Il sistema adottato dal legislatore europeo differisce da quello statunitense, in cui vige un sistema di eccezioni aperto, governato dalla «fair use doctrine». Nel codificarla, la Section 107 del US Copyright Act del 1976 individua quattro fattori di cui le corti devono tenere conto per determinare se l’uso dell’opera possa ritenersi fair, vale a dire: «(1) the purpose and character of the use, including whether such use is of a commercial nature or is for nonprofit educational purposes; (2) the nature of the copyrighted work; (3) the amount and substantiality of the portion used in relation to the copyrighted work as a whole; and (4) the effect of the use upon the potential market for or value of the copyrighted work».

[6] L’art. 5, par. 5, della Direttiva 2001/29 stabilisce che le eccezioni e limitazioni in essa previste «sono applicate esclusivamente in determinati casi speciali che non siano in contrasto con lo sfruttamento normale dell'opera o degli altri materiali e non arrechino ingiustificato pregiudizio agli interessi legittimi del titolare» (corsivo aggiunto). Il paragrafo recepisce il c.d. three-step test, introdotto nel panorama internazionale dalla Convenzione di Berna del 1967 e poi entrato in gran parte delle convenzioni internazionali sul Copyright, tra cui l’Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPS) (art. 13), il WCT dell’OMPI (art. 10), nonché in diverse direttive dell’Unione europea, tra cui, oltre quella qui in esame, la Direttiva 96/9/CE dell’11 marzo 1996 relativa alla tutela giuridica delle banche di dati (art. 6, par. 3), la Direttiva 2009/24/CE del 23 aprile 2009 relativa alla tutela giuridica dei programmi per elaboratore (art. 6, par. 3), la Direttiva del 17 aprile 2019 sul diritto d'autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale e che modifica le direttive 96/9/CE e 2001/29/CE (considerando n. 6). In giurisprudenza, sull’interpretazione in senso restrittivo della disposizione, cfr. Corte di giust. UE, Quarta Sezione, Infopaq International A/S c. Danske Dagblades Forening, causa C-5/08, sentenza 16 luglio 2009, punti 56-57.

[7] L’art. 6, par. 3, della Direttiva 2001/29 definisce le misure tecnologiche come «le tecnologie, i dispositivi o componenti che, nel normale corso del loro funzionamento, sono destinati a impedire o limitare atti, su opere o altri materiali protetti, non autorizzati dal titolare del diritto d'autore o del diritto connesso al diritto d'autore, così come previsto dalla legge o dal diritto sui generis previsto al capitolo III della direttiva 96/9/CE». Su tale definizione si tornerà infra § 5.

[8] S. Dusollier, Technology as an imperative for regulating copyright: from the public exploitation to the private use of the work, in European Intellectual Property Review, 2005, 27, pp. 201 ss., p. 202.

[9] In questo senso, si veda M.J. Radin, Regime Change in Intellectual Property: Superseding the Law of State with the 'Law' of the Firm, in University of Ottawa Law & Technology Journal, 2003-2004, pp. 173-188, p. 187, la quale rileva come «the use of a DRMS removes important options for the end-user. Under either a statutory rights scheme, such as copyright or a licence regime, the user has the ability to violate or breach if she so decides. Although that ability may incur legal liability, it is an important practical alternative». In tema, si veda altresì A. Quarta, G. Smorto, Diritto privato dei mercati digitali, cit., pp. 64-65.


4. La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea: il collegamento ipertestuale come «atto di comunicazione al pubblico» e l’applicazione del criterio del «pubblico nuovo» alla sfera digitale

Se lo scopo della normativa emerge chiaramente dalla lettura dei considerando che precedono l’articolato, la sinteticità e, per certi versi, l’ambiguità del fraseggio utilizzato all’art. 3, par. 1, della Direttiva 2001/29 hanno sollecitato di un’intensa attività interpretativa – e armonizzatrice – da parte della Corte di giustizia, volta a definirne il senso e la portata applicativa, specie con riguardo all’uso di collegamenti ipertestuali.

Già a partire dai primi anni Duemila, i tribunali di diversi Stati membri erano stati chiamati a valutare la liceità della pratica consistente nell’uso di hyperlink per ridirigere gli utenti verso contenuti già diffusi online, con l’autorizzazione dell’autore, su altri siti web. La copiosa giurisprudenza formatasi sul tema, pur se relativa a fattispecie tra loro diverse, lasciava intravedere le linee di una comune impostazione. Si riteneva che, in linea di principio, il collegamento ipertestuale non costituisse un atto di comunicazione al pubblico e, come tale, il suo utilizzo da parte del gestore di un sito web, privo di autorizzazione per l’utilizzo delle opere protette, non determinasse una violazione delle norme in tema di diritto d’autore. Nonostante ciò, ricorrendo determinate circostanze, il suo uso avrebbe potuto dar luogo a una responsabilità a titolo di concorso alla realizzazione dell’illecito[1].

A partire dal caso Svensson[2], tuttavia, la Corte di giustizia ha configurato un approccio alla questione diverso e, per certi versi, opposto a quello fatto proprio dalle corti dei diversi Stati membri. A giudizio della Corte, il collegamento ipertestuale verso opere tutelate dal diritto d’autore soddisfa, in linea di principio, i due criteri necessari per poter rientrare nell’ambito applicativo di cui all’art. 3, par. 1, della Direttiva 2001/29. L’hyperlink costituisce un «atto di comunicazione», in quanto atto idoneo a mettere a disposizione degli utenti le opere pubblicate sul sito cui fa rinvio, senza che peraltro sia determinante, ai fini della qualificazione, che questi ultimi si avvalgano o meno di tale possibilità[3]; esso si rivolge inoltre a un «pubblico», in quanto diretto a un «numero indeterminato» e «piuttosto considerevole» di destinatari potenziali, coincidente con tutti gli utilizzatori potenziali del sito gestito dal soggetto che fa uso del collegamento[4].

Il ribaltamento di prospettiva così operato dalla Corte non si traduce però in un giudizio ex se di illiceità dell’uso della tecnica in esame, in assenza del consenso prestato dal titolare del diritto d’autore. Anzi, ricorrendo determinate circostanze, esso conduce a esiti sostanzialmente analoghi a quelli fatti propri dalle corti interne.

Lo snodo interpretativo, che consente (secondo la Corte) di differenziare le diverse fattispecie concrete, di modo da assicurare un nuovo equilibrio nell’assetto degli interessi coinvolti dall’uso del collegamento ipertestuale[5], è individuato nel criterio – di elaborazione squisitamente pretoria – del c.d. «pubblico nuovo»[6]. Riprendendo argomentazioni elaborate in relazione alla distribuzione via cavo del segnale televisivo[7], la Corte di Giustizia ha affermato che la comunicazione secondaria – effettuata tramite hyperlink – di opere in precedenza già comunicate in Internet[8] possa essere qualificata come «comunicazione al pubblico» solo ove raggiunga un «pubblico nuovo», vale a dire, «un pubblico che i titolari del diritto d’autore non abbiano considerato, al momento in cui abbiano autorizzato la comunicazione iniziale al pubblico»[9].

Sulla scorta di tale assunto, i giudici del caso Svensson hanno delineato i due fondamentali principi di diritto – di cui l’uno suona come il rovescio dell’altro – dai quali muoveranno con analogie imperfette i successivi arresti della stessa Corte.

In base al primo principio, che del giudizio Svensson fonda la ratio decidendi, si ritiene che ogniqualvolta l’opera protetta, al quale rinvia il collegamento ipertestuale (nella specie un deep link), sia stata messa a disposizione, con l’autorizzazione del titolare del diritto, su un sito web liberamente accessibile e dunque privo di alcuna misura di restrizione, l’atto di comunicazione secondario non può ritenersi rivolto ad un «pubblico nuovo». Il link, infatti, consentirebbe la messa a disposizione dell’opera allo stesso pubblico per il quale l’autore aveva in precedenza prestato il proprio consenso: vale a dire, tutti gli utenti della rete Internet, sul presupposto – puramente astratto – che il complesso dei potenziali visitatori di un sito liberamente accessibile coincida con l’intera platea degli internauti[10].

È utile fin d’ora rilevare come, schiacciando la valutazione di liceità sul criterio del «pubblico nuovo», la Corte contribuisca a cancellare (almeno in parte) la distinzione tra i link «referenziali» e i link «non-referenziali»: quand’anche il collegamento ipertestuale, una volta cliccato[11], dia l’impressione che l’opera sia messa a disposizione sul sito in cui il collegamento è installato, anziché sul sito – liberamente accessibile – in cui detta opera è stata inizialmente comunicata, la regola del «pubblico nuovo» esclude, secondo i giudici, la necessità di ottenere una nuova autorizzazione da parte del titolare del diritto d’autore[12]. E, infatti, di lì a breve la Corte, nel caso BestWater International, non ha esitato a ritenere lecito l’uso della tecnica del framing, precisamente in quanto non idonea a mettere l’opera a disposizione di un «pubblico nuovo»[13].

La versione rovesciata del principio – anch’essa espressamente formulata dalla Corte, seppur a mo’ di obiter dictum – costituisce l’esito di un semplice (e apparentemente innocuo) ragionamento a contrario. Il principio suona pressappoco così: laddove il sito per il quale è stata concessa l’autorizzazione alla messa in rete dell’opera protetta preveda misure restrittive per limitare l’accesso ai soli utenti che abbiano pagato la relativa quota di abbonamento o iscrizione e il collegamento ipertestuale, nel rinviare al sito originario, consenta agli utenti di eludere le suddette restrizioni, si determina una violazione del diritto esclusivo riconosciuto all’autore dall’art. 3, par. 1, della Direttiva 2001/29. In siffatta ipotesi, la comunicazione effettuata tramite il collegamento ipertestuale amplia il pubblico al quale l’opera è stata inizialmente messa a disposizione, posto che, senza un tale intervento, gli utilizzatori del sito terzo non avrebbero potuto beneficiare delle opere in precedenza diffuse. Detto al contrario: nel caso di utilizzo di misure tecnologiche che condizionano l’accesso al sito, il pubblico in favore del quale l’opera è messa a disposizione è costituito dai soli utenti del sito che abbiano i requisiti per accedervi. 

Ebbene, alla medesima conclusione si perviene, secondo la decisione emessa dalla Grande sezione nel caso VG Bild-Kunst, nell’ipotesi in cui le misure tecnologiche siano dirette a limitare – si badi bene – non l’accesso del pubblico a un sito, riservandone la fruizione ai soli utenti che abbiano pagato per entrarvi, bensì le modalità attraverso cui è possibile accedere al sito – di per sé privo di restrizioni all’ingresso – in cui l’opera è stata inizialmente messa a disposizione del pubblico. Misure, in altre parole, volte a impedire (direttamente) l’uso del collegamento ipertestuale – nella fattispecie, il framing selezionabile – per accedere alle opere protette, a partire da siti Internet diversi.

Nel caso di specie, si trattava di stabilire se la società di gestione collettiva dei diritti d’autore, la VG Bild-Kunst, avesse il potere di subordinare la stipulazione di un contratto di licenza relativo all’uso delle miniature (thumbnails) del proprio catalogo di opere, all’inclusione di una clausola che obbligasse il licenziatario ad attuare misure tecnologiche efficaci contro l’uso del framing. Secondo la Corte, il fatto che il titolare del diritto abbia adottato (o imposto ai propri licenziatari) misure restrittive contro il framing, di modo da limitare l’accesso alle sue opere a partire da siti Internet diversi da quello sul quale ha autorizzato la loro comunicazione al pubblico, impone di considerare l’autorizzazione rilasciata dal titolare come limitata ai soli utenti di un determinato sito Internet, in modo analogo a quanto avviene nell’ipotesi in cui la restrizione riguardi l’accesso al sito. Di talché, il collegamento ipertestuale, sebbene rinvii a operare già diffuse su un sito web liberamente accessibile, costituisce un «atto di comunicazione al pubblico» ai sensi dell’art. 3, par. 1, della Direttiva 2001/29, quante volte esso comporti l’elusione delle misure di protezione contro il framing adottate o imposte dallo stesso titolare.

 

[1] In questo senso, si espresse il Bundesgerichtshof nel caso Paperboy (BGH, 23 luglio 2003, I ZR 259/00), affermando che l’uso di «link profondi» ad articoli di giornale liberamente disponibili su un altro sito Internet non costituisce un atto di «messa a disposizione del pubblico» a norma dell’art. 15(2) della legge tedesca sul diritto d’autore (Urheberrechtsgesetz, 1965), con il quale è stato recepito il testo dell’art. 3, par. 1, della Direttiva 2001/29 (fatti salvi eventuali profili di illiceità con riferimento alla disciplina della concorrenza sleale). In modo simile, l’Oberste Gerichtshof, la Corte suprema austriaca, sostenne che un contratto di licenza con il quale un fotografo limiti l’uso delle proprie opere al solo sito del licenziatario non impedisce a quest’ultimo di autorizzare terzi a configurare hyperlink che consentano l’accesso alle fotografie a partire da siti diversi (OGH, 21 dicembre 2021, 4 Ob 252/04v). Anche le Corti francesi e quelle italiane assunsero un orientamento in linea con tale impostazione di fondo. In particolare, il Tribunal de grande instance de Nancy, nella sentenza del 6 dicembre 2010 a definizione del caso Le Bien Public, Les journaux de Saône et Loire / Dijonscope, escluse la violazione del diritto d’autore da parte del titolare del sito web che aveva inserito un collegamento ipertestuale, sfruttando il quale l’utente poteva essere ridiretto ad articoli di giornali disponibili sul sito Internet degli attori, in quanto tramite esso il titolare si era limitato a predisporre un mezzo per consentire di accedere alla comunicazione al pubblico di tali opere effettuata dagli attori. Del pari, la Corte di cassazione italiana, nel caso Sky c. Telecom del 2006 (Cass. pen., Sez. III, sentenza del 10 ottobre 2006, n. 33945), ritenne che l’utilizzo di collegamenti ipertestuali che rinviano a siti Internet che trasmettono eventi sportivi in streaming non è per sé sufficiente a dare la stura a una violazione del diritto d’autore ai sensi dell'art. 16, l. n. 633 del 1941 (che recepisce l’art. 3, par. 1, della Direttiva 2001/29); tale condotta, semmai, può essere sanzionata sotto un profilo penalistico, nella misura in cui contribuisca alla realizzazione dell'illecito perpetrato da tali siti (art. 171 a bis). Su tale aspetto, in dottrina, si veda M. Borghi, “Hyperlink": la Corte europea riscrive il diritto di comunicazione al pubblico, in Giurisprudenza italiana, 10, 2017, pp. 2133-2140.

[2] Nel caso di specie, la controversia aveva ad oggetto l’uso da parte del gestore di un sito web di link profondi che consentivano ai propri utenti di accedere ad articoli di giornale pubblicati sul sito web di una delle principali testate giornalistiche svedesi, senza transitare per la homepage del giornale. Secondo gli autori ricorrenti nel procedimento principale, tra cui Nils Svensson, tale condotta, in assenza della loro autorizzazione, costituiva una violazione del diritto d’autore

[3] I due criteri ricorrono costantemente nella giurisprudenza della Corte di giustizia. Cfr., tra gli altri, Sociedad General de Autores y Editores de Espanã (SGAE) c. Rafael Hoteles SA, causa C-306/05, sentenza 7 dicembre 2006, punto 43 (d’ora in avanti, caso SGAE). Occorre tuttavia rilevare che, secondo alcuni studiosi, l’hyperlink, da un punto di vista tecnico, non realizza alcuna trasmissione e in ogni caso non trasmette un’opera, sicché non sarebbe in grado di soddisfare i summenzionati criteri. Cfr. sul punto la posizione del European Copyright Society, nella citata Opinion on the Reference to the CJEU in Case C-466/12 Svensson.

[4] In dottrina, si è rilevato che, a dispetto delle statuizioni della Corte, dalle quali sembrerebbe doversi desumere che tutte le tipologie di collegamenti ipertestuali costituiscano un “atto di comunicazione al pubblico”, i criteri dalla stessa individuata non troverebbero rispondenza nel caso del surface link. Cfr. in questo senso A. Cogo, Linking e framing al vaglio della Corte di giustizia dell’Unione europea, in Giurisprudenza italiana, 2014, 10, pp. 2201 ss. Ad ogni modo, l’utilizzo del surface link risulta di regola meno problematica, in quanto tramite la sua attivazione l’utente è rinviato direttamente all’home page del sito in cui l’opera è stata inizialmente comunicata.

[5] Sul punto, in dottrina, G. Jenkins, An Extended Doctrine of Implied Consent – A Digital Mediator?, in International Review Of Intellectual Property And Competition Law, 23 marzo 2021, pp. 1 ss.

[6] Secondo alcuni studiosi e operatori, la circostanza per cui il criterio del «pubblico nuovo» non trova alcun riferimento nel diritto internazionale del Copyright ne rende l’utilizzo per sé criticabile: cfr. in questo senso Association Littiraire et Artistique Internationale (ALAI), Opinion on the criterion “New Public”, developed by the Court of Justice of the European Union (CJEU), put in the context of making available and communication to the public, 17 settembre 2014, p. 9, consultabile all’indirizzo web: https://www.alai.org/en/assets/files/resolutions/2014-opinion-new-public.pdf. Per una critica nel merito del criterio elaborato dalla Corte si veda P.B. Hugenholtz, S.C. Van Velze, Communication to a new public? Three reasons why EU copyright law can do without a ‘new public’, in International Review of Intellectual Property and Competition Law, 7, 2016, pp. 797-816, spec. pp. 808 ss.

[7] Il criterio è stato utilizzato per la prima volta dalla Corte di giust. UE, nel citato caso SGAE, relativo all’uso di apparecchi televisivi e di apparecchi di diffusione di musica d’ambiente da parte di un albergo, per diffondere, nelle relative camere e negli spazi comuni, opere appartenenti al repertorio gestito dalla ricorrente. Riprendendo un’interpretazione in precedenza proposta dall’Avvocato Generale La Pergola in relazione al caso Egeda (Corte di giust. UE, Sesta Sezione, Entidad de Gestión de Derechos de los Productores Audiovisuales (Egeda) c. Hostelería Asturiana SA (Hoasa), causa C-293/98, sentenza del 3 febbraio 2000), la Corte muove dall’art. 11 bis della Convenzione di Berna, come interpretato dalla guida alla Convenzione di Berna del 1978 (documento interpretativo non vincolato elaborato dall’OMPI), per rilevare come la comunicazione di una trasmissione mediante altoparlante o uno strumento analogo fa sì che l’opera non sia più trasmessa ai soli utilizzatori diretti, ossia i detentori di apparecchi di ricezione i quali, individualmente o nella loro sfera privata o familiare, captano le trasmissioni, ma sia comunicata ad un nuovo pubblico, che non era stato preso in considerazione dall’autore, allorché ha autorizzato la radiodiffusione della sua opera. Pertanto, tale ricezione pubblica deve essere oggetto di autonoma autorizzazione da parte dell’autore. Nello stesso senso cfr. Corte di giust. UE, Grande Sezione, Football Association Premier League e a., 403/08 e C 429/08, sentenza del 4 ottobre 2011, punto 197.

[8] Sul presupposto, dunque, che la comunicazione “secondaria” dell’opera sia effettuata con le stesse modalità tecniche di cui ci si è serviti in precedenza per metterla a disposizione del pubblico. Diversamente, se la comunicazione al pubblico è effettuata secondo una modalità tecnica diversa troverà applicazione l’art. 3, par. 1, della Direttiva 2001/29 e, dunque, sarà necessario ottenere il previo consenso del titolare del diritto d’autore prima di poter mettere l’opera a disposizione del pubblico. In questo senso, cfr. Corte giust. UE, Quarta Sezione, ITV Broadcasting Limited and others c. TVCatchup Limited, causa C-607/11, sentenza 7 marzo 2013, relativa alla diffusione, non autorizzata, via Internet e in tempo reale di programmi televisivi gratuiti di società emittenti che detengono i diritti d’autore sui loro programmi televisivi nonché sui film e sugli altri elementi inclusi nei loro programmi.

[9] Così, testualmente, Corte di giust. UE, sentenza Svensson in cui si richiamano, per analogia, in particolare le già citate sentenze SGAE, punti 40 e 42, e ITV Broadcasting, cit., punto 39. Nello stesso senso, da ultimo, la sentenza VG Bild-Kunst, punto 32.

[10] Sulla base di tale principio, la CGUE nel caso Svensson ha ritenuto che l’installazione da parte del convenuto di link sul proprio sito web che rinviavano agli articoli dei ricorrenti non costituisse la violazione del loro diritto esclusivo di comunicazione al pubblico. Considerato che il sito web del giornale telematico non era soggetto a restrizione all’accesso, la pubblicazione dei link su un sito diverso non aveva bisogno di un nuovo consenso alla comunicazione al pubblico da parte degli autori.

[11] È questo il fattore che induce a rilevare come la distinzione tra le due tipologie di link resti, in altra parte, ancora in piedi. Come sottolineato dall’Avvocato Generale Maciej Szpunar nelle conclusioni relative al caso VG Bild-Kunst (10 settembre 2020, causa C-392/19, punto 111), la Corte in Svensson fa riferimento esclusivamente ai collegamenti cliccabili. Resterebbe pertanto impregiudicata la valutazione circa il framing (e a fortiori l’in-line linking) che determinino una visualizzazione automatica – e dunque priva della partecipazione attiva dell’utente – del contenuto protetto sul sito nel quale è collocato il collegamento ipertestuale. Sull’argomento si ritornerà infra § 8.

[12] Corte di giust., Svensson, punto 29 e 30.

[13] Corte giust. UE, BestWater International GmbH c. Michael Mebes, Stefan Potsch, causa C-348/13, ordinanza 21 ottobre 2014. Sul punto, in chiave critica, si vedano i rilievi di A. Cogo in Nota a Corte di giustizia UE, 21 ottobre 2014, in causa C-348/13 – BestWater International GmbH c. Michael Mebes, Stefan Potsch, in Annali italiani del diritto d’autore, 2015, pp. 436-440.


5. Dietro il criterio del «pubblico nuovo»: teoria del «consenso implicito» e (mancata) adozione di misure tecnologiche di protezione.

Si è segnalato nelle pagine precedenti come la liceità della tecnica dell’hyperlink dipenda dalla capacità di quest’ultimo di mettere l’opera a disposizione di un pubblico diverso da quello per il quale l’autore ha acconsentito alla sua diffusione nel contesto della comunicazione primaria[1]. Si è altresì potuto osservare come l’individuazione di un pubblico «nuovo» sia fatto dipendere, a sua volta, dall’eventuale esistenza di misure tecnologiche (e dalla conseguente elusione garantita dal link) volte a limitare la diffusione dell’opera nel web: la loro mancata adozione è assunta quale fattore decisivo da cui inferire l’intenzione del titolare di mettere l’opera a disposizione di tutti gli internauti.

Questa tecnica argomentativa non è nuova al giurista più familiare con il diritto di proprietà intellettuale. Essa richiama infatti un particolare dispositivo concettuale – elaborato nel contesto del copyright law anglo-americano e circolato anche in taluni sistemi di civil law – che prende il nome di teoria del «consenso implicito» o della «licenza implicita»[2].

Prima di saggiare la tenuta dell’impianto concettuale eretto dalla Corte di giustizia, conviene spendere qualche parola su tale teoria. In via di prima approssimazione, si parla di «consenso implicito» o «licenza implicita» per riferirsi a un particolare processo interpretativo-ricostruttivo, in virtù del quale il giudice riconosce come lecito un determinato uso di un’opera protetta, sebbene non espressamente autorizzato dal titolare del diritto, sul presupposto che una qualche condotta di quest’ultimo abbia indotto altri soggetti a inferire che il titolare stesso abbia prestato il proprio consenso a quell’uso[3].

Da un punto di vista metodologico, la dottrina presenta taluni profili di affinità con la tecnica integrativa, nota come «implication», di cui i giuristi di common law (sia inglesi che statunitensi) si servono per ricostruire gli aspetti lacunosi o incompleti del regolamento contrattuale, attraverso l’inserimento di clausole ritenute in esso implicite (implied terms)[4]. Nel contesto del diritto di proprietà intellettuale, tuttavia, la tecnica in parola assume una connotazione più complessa sotto il profilo funzionale, rinviando a meccanismi tra loro eterogenei (e anzi, per certi tratti, inversi) la cui distanza riflette la natura giuridicamente multiforme della licenza d’uso, da sempre in bilico tra contract law e property law[5].

In taluni casi, la dottrina è stata utilizzata come strumento di completamento del contenuto di una licenza in precedenza rilasciata dal titolare del diritto d’autore, di regola mediante un contratto. L’intervento del giudice, fondato sulla ricostruzione del subjective intent delle parti alla luce delle circostanze che connotano il contesto fattuale in cui la transazione si inserisce, ha ricoperto una funzione di integrazione suppletiva, assimilabile a quella propria della implication di origine contrattuale (nella specie dell’«implication in fact»): ciò nella misura in cui la ragione giustificatrice dell’integrazione risiede nella necessità di assicurare al licenziatario il pieno esercizio del diritto trasmessogli e, quindi, al contratto di raggiungere lo scopo per il quale è stato stipulato. In questa prospettiva, si è ad esempio affermato che il contenuto di una licenza di registrare un’opera musicale implica anche la facoltà per il licenziatario di distribuire e vendere tali registrazioni, così come la licenza per eseguire delle copie di un’opera implica che dette copie cadano in proprietà del licenziatario[6].

Nel più specifico ambito legato all’uso (non espressamente autorizzato) di materiale protetto dal diritto d’autore all’interno della rete Internet, la dottrina ha assunto una traiettoria differente, operando al di fuori di un perimetro (o di una logica) contrattuale e in risposta a interessi non riconducibili a soggetti destinatari di un atto autorizzatorio da parte del titolare del diritto. Il dato può essere ben compreso guardando all’utilizzo che della dottrina in esame è stato fatto al fine di legittimare la prassi, invalsa all’inizio del nuovo millennio, consistente nell’uso da parte di motori di ricerca – e segnatamente di Google – di materiali protetti nel contesto dell’attività di memorizzazione e messa a disposizione ora di copie delle pagine web dei siti raccolti (cache), ora di copie in miniatura (thumbnails) di immagini protette pubblicate all’interno di tali siti. Di primo acchito, la lettura delle sentenze su tali questioni emesse – al di là come al di qua dell’Atlantico – restituisce all’interprete una linea argomentativa fondata su una prospettiva che, nel legare la decisione alla volontà (desunta) del titolare del diritto e alla (assenza di) lesione degli interessi economici di quest’ultimo, mima la parallela costruzione di matrice contrattuale poc’anzi richiamata. Una più attenta analisi, tuttavia, consente di rilevare come, in tale casistica, la dottrina dell’implied licence muova all’interno di una cornice lato sensu proprietaria e sia diretta a incidere sul concreto modo di atteggiarsi del rapporto esclusione-accesso, come mediato dal diritto di proprietà intellettuale, nell’ambito del ciberspazio. Lo si ricava, anzitutto, dal fatto che, in questa costellazione di ipotesi, il riconoscimento della facoltà d’uso implicita ha quale punto di incidenza soggettiva una platea indeterminata di soggetti terzi rispetto al titolare del diritto, che abbiano fatto – o intendano fare – un determinato uso dell’opera protetta. Lo si desume, ancora, dal fatto che il procedimento di “implication” dell’autorizzazione inespressa, spesso guidato da criteri oggettivi quali la fairness e la reasonableness, risponde in tali casi alla primaria necessità di conformare il diritto riconosciuto in capo all’autore, già esercitato tramite un qualche atto autorizzatorio, sì da renderlo aderente a canoni e/o interessi di carattere generale[7], legati al corretto operare dell’infrastruttura Internet, nella sua essenziale funzione abilitante rispetto alla diffusione delle opere e, più in generale, all’accesso alle informazioni[8].

Il richiamo ad alcune delle sentenze emesse in ordine a tali questioni aiuta a dare la misura delle osservazioni fin qui svolte. Nel caso Field v. Google[9], ad esempio, la District Court del Nevada era stata chiamata a decidere in merito alla liceità della prassi in base alla quale Google, nel memorizzare, in modo automatico, una copia «cache» delle pagine web raccolte nel proprio motore di ricerca[10], consente ai suoi utenti di accedere alle opere protette dal diritto d’autore in esse incorporate, senza aver previamente ottenuto il consenso dei titolari dei relativi diritti. La Corte ha accolto la difesa proposta da Google, fondata sull’esistenza di una «licenza implicita» da parte del titolare del diritto d’autore, nel caso di specie il sig. Field, di copiare e distribuire le opere protette, memorizzandole nella cache. A mettere in moto il procedimento interpretativo-ricostruttivo è – almeno prima facie – la stessa condotta del titolare del diritto: questi, infatti, sebbene a conoscenza del modus operandi di Google, non aveva adottato le diverse misure tecnologiche disponibili per impedire la memorizzazione della copia cache[11], così di fatto incoraggiando l’utilizzo del proprio materiale da parte della società di Mountain View. Eppure, tra le righe della decisione, emerge chiara l’esigenza di carattere generale che, dietro la “finzione giuridica” del consenso del titolare, sorregge l’operazione ricostruttiva dei giudici. L’archiviazione di copie cache delle pagine web raccolte dal motore di ricerca risponde infatti a una molteplicità di funzioni socialmente rilevanti per gli utenti di Internet, consentendo una serie di verifiche che possono acquisire un certo rilievo anche sul piano politico, legale o di ricerca scientifica[12]. Tuttavia, il servizio non potrebbe essere garantito qualora Google fosse tenuta a ottenere, mediante licenza, la previa autorizzazione alla pubblicazione delle opere protette eventualmente incorporate nelle pagine dalla stessa raccolte. In questa prospettiva, il riconoscimento di un sistema di licenze implicite da parte dei titolari dei siti web, abilitando uno schema di opt-out, tale per cui Google può archiviare le copie cache delle pagine web salvo il rifiuto “espresso” da parte dei titolari, consente di regolare il funzionamento del web in modo rispondente alle esigenze degli utenti[13] e di garantire un più ampio accesso all’informazione.

Del pari, nel caso Vorschaubilder I[14], deciso dalla Suprema Corte federale tedesca, la teoria del «consenso implicito» è stata utilizzata per legittimare l’uso da parte di Google di materiale protetto dal diritto d’autore nel contesto del servizio di ricerca Google’s Image. A differenza che per le ricerche consuete, rispetto alle quali l’utente può essere edotto circa la rilevanza del risultato della ricerca attraverso la visualizzazione, sotto il link al sito, di un breve estratto del testo del sito medesimo (c.d. snippet), la ricerca per immagini richiede che l’utente possa visualizzare per intero – sebbene non necessariamente con la stessa qualità o dimensione – l’immagine ricercata. A tal fine, Google memorizza in modo automatico copie in miniatura (thumbnails) delle immagini presenti nelle pagine dei siti web da essa raccolti, consentendone la visualizzazione all’utente, in risposta alla ricerca da questi effettuata. Con argomentazioni assimilabili a quelle del caso Field, la Corte tedesca si è espressa in favore di Google, assumendo che la messa a disposizione su Internet di immagini prive di misure tecnologiche in grado di impedirne la raccolta automatica da parte dei motori di ricerca equivale a garantire un «consenso implicito» allo svolgimento di tali operazioni. Anche in questo caso, tuttavia, la decisione muove da un interesse più generale, legato alla necessità di preservare un servizio ritenuto fondamentale per gli utenti e, per tale via, di garantire un’infrastruttura Internet libera ed efficiente[15], nell’interesse dei terzi utenti della rete.

 

[1] Il criterio è utilizzato anche nell’ipotesi in cui la comunicazione primaria dell’opera sia avvenuta senza il consenso del titolare del diritto, sebbene esso sia poi ulteriormente mediato – al fine di assicurare un giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti – attraverso l’introduzione del criterio della conoscenza del rinvio ad un’opera pubblicata in violazione del diritto d’autore. Cfr. Corte di giust. UE, sentenza GS Media, cit., punto 47. In tal caso, tuttavia, il ricorso al criterio del «pubblico nuovo» appare ridondante, in quanto un tale equilibrio potrebbe essere già raggiunto riferendo il criterio della conoscenza alla comunicazione primaria, onde stabilire se questa, essendo stata effettuata in modo deliberato, costituisca un atto di comunicazione al pubblico. In questo senso, cfr. Corte di giust. UE, Seconda Sezione, Stichting Brein c. Filmspeler, causa C-527/15, sentenza 26 aprile 2017 e Stichting Brein c. Ziggo BV and XS4AlI Internet BV, causa C-610/15, sentenza 14 giugno 2017. Su tali profili, in dottrina, si veda J.C. Ginsburg, L. Ali Budiardjo, Liability for Providing Hyperlinks to Copyright-Infringing Content: International and Comparative Law Perspectives, in Columbia Journal of Law & the Arts, vo. 41, 2018, pp. 153-224, spec. pp. 163 ss.

[2] Sull’applicazione dell’«implied licence doctrine» nel diritto inglese cfr. di W. Cornish, D. Llewelyn, T. Aplin, Intellectual Property: Patents, Copyrights, Trademarks & Allied Rights, Sweet & Maxwell, Londra, 2010, pp. 536-537; sull’applicazione della dottrina nel diritto statunitense, oltre ai contributi già citati, si vedano in particolare O. Afori, Implied License: An Emerging New Standard in Copyright Law, in Santa Clara High Technology Law Journal, vol. 25, 2009, pp. 275-325 e il più recente lavoro di J.C. Ginsburg, L. Ali Budiardjo, dal titolo Embedding Content or Interring Copyright: Does the Internet Need the Server Rule, cit., pp. 417-478. Nei sistemi di civil law, la dottrina ha trovato applicazione in particolare in Germania. Per una ricostruzione in ambito tedesco, si veda T. Höppner, F. Schaper, Moving Towards a World of Selfies? – A Critical View of the European Legal Framework for the Online Use of Third Party Images, in Gewerblicher Rechtsschutz und Urheberrecht Internationaler Teil (GRUR Int), 2016, pp. 633-639.

[3] La definizione è ripresa dalla casistica americana e, in particolare, dai casi Effects Assocs., Inc. v. Cohen, 908 F.2d 555, 558-59 (9th Cir. 1990); Keane Dealer Servs., Inc. v. Harts, 968 F. Supp. 944, 947 (S.D.N.Y. 1997); Quinn v. City of Detroit, 23 F. Supp. 2d 741, 749 (E.D. Mich. 1998); Field v. Google Inc., 2006 WL 242465 (D. Nev. Jan. 19, 2006),; Interscope Records v. Time Warner, Inc., No. CV 10-1662 SVN (PJWx), 2010 WL 11505708 (C.D. Cal. June 28, 2010), i quali muovono tutti dal più risalente caso De Forest Radio Tel. & Tel. Co. v. United States, 273 U.S. 236, 241 (1927). In dottrina, cfr. T. Pihlajarinne, Setting the limits for implied license in copyright and linking discourse - the European perspective, in International Review of Industrial Property and Copyright Law, 43, 2012, pp. 700 ss.; A. Cruquenaire, Electronic Agents as Search Engines: Copyright related aspects, cit., pp. 334 ss.

[4] Il procedimento di implication può essere suddiviso in diverse categorie a seconda che l’integrazione del contenuto contrattuale tragga la propria fonte (diretta) dalla legge (terms implied by statute), dall’attività ricostruttiva dei giudici (terms implied by court) o dal diritto consuetudinario (terms implied by custom).  Sulla distinzione tra i vari tipi di implied terms cfr. K. Lewison, The Interpretation of Contracts, Sweet & Maxwell, ed. III, 2004, pp. 152 ss. Per un approfondimento sul tema, si veda altresì il più recente studio di V. Bongiovanni, su Integrazione del contratto e clausole implicite, Giuffrè, Milano, 2018.

[5] Il dibattito dottrinale è efficacemente ricostruito, con particolare riferimento alla licenza d’uso del software, da A. Quarta, in Mercati senza scambi. Le metamorfosi del contratto nel capitalismo della sorveglianza, Esi, Napoli, 2020, spec. pp. 135 ss.

[6] Gli esempi sono tratti, rispettivamente, dai casi Royal c. Radio Corp. of Am., 107 U.S.P.Q. 173, 173 (S.D.N.Y. 1955) e United States c. Wells, 176 F. Supp. 630, 634 (S.D. Tex. 1959).

[7] Secondo alcuni studiosi, la distinzione delineata nel corpo del testo potrebbe essere assimilata alla classificazione, interna alla categoria dei c.d. terms implied by the court o judicial implied terms, quelli che trovano la loro fonte diretta nell’attività interpretativa e ricostruttiva dell’autorità giudiziaria, tra terms implied in fact e terms implied in law. Nel primo caso, l’inserimento di clausole implicite si fonda sulla ricostruzione dei fatti che connotano l’operazione economica cui il processo di implication si riferisce e si giustifica in ragione della necessità di assicurare la “business efficacy” del contratto, ossia che il contratto raggiungo il suo scopo. Nel secondo caso, l’inserimento delle clausole implicite trova la propria fonte (indiretta) in norme di legge: le clausole “estratte” in via interpretativo-ricostruttiva dal giudice sono considerate “necessary incidents of a defined relationship” e, come tali, si applicano a tutti i contratti dello stesso tipo. Sulla distinzione tra implication in fact e in law si veda J. Beatson, A. Burrows, J. Cartwright, Anson’s Law of Contract, Oxford University Press, 2016, pp. 161 ss. Sull’accostamento tra la classificazione dei terms implied by court e dell’implied licence doctrine si veda P. Mysoor, Exhaustion, Non-Exhaustion and Implied Licence, in International Review of Intellectual Property and Competition Law, 2018, pp. 656 ss., spec. p. 666 e, più estesamente, Id., Implied Licences in Copyright Law, Oxford University Press, Oxford, 2021.

[8] In argomento, si vedano le riflessioni di U Mattei, nel lavoro su Prime note critiche sull'informazione come bene comune, in Rivista Critica del diritto privato, 2020, pp. 75-94.

[9] Field v. Google Inc., cit., su cui cfr. M.I. Jasiewicz, Copyright Protection in an Opt-Out World: Implied License Doctrine and News Aggregators, in The Yale Law Journal, vol. 122, 2012, pp. 837-850 e O. Afori, Implied License: An Emerging New Standard in Copyright Law, cit., pp. 313 ss. Sul punto si vedano anche le sentenze relative ai casi Perfect 10, Inc. v. Google Inc., 508 F.3d 1146 (9th Cir., 2007) e ancora prima, Kelly v. Arriba Soft Corp., 336 F.3d 811 (9th Cir. 2003).

[10] Com’è noto, il motore di ricerca di Google si avvale di un c.d. web crawler (nel caso di specie anche chiamato Googlebot), ossia un programma informatico o script che consente di scandagliare la rete tramite un’interrogazione automatizzata dei server che ospitano le pagine dei siti web (per tale aspetto simulando la ricerca sul browser di un utente umano) e di raccogliere grandi quantità di informazioni in pochissimo tempo. Durante tale operazione, il bot crea di regola una copia testuale di tutti i documenti presenti nelle pagine web scandagliate una o più pagine web e un indice che ne permetta, successivamente, la ricerca e la visualizzazione.

[11] Si tratta in particolare della possibilità di inserire un “meta-tag” nel codice HTML della pagina web, attraverso cui il gestore del sito istruisce il bot di non creare copie cache delle pagine web ovvero della possibilità di prevedere un protocollo di esclusione robot (robot.txt), posto nel “root” del proprio sito web e che, nell’indicare le regole cui i “crawler” che lo visitano devono attenersi, imponga l’applicazione di restrizioni di analisi sulle pagine del sito medesimo. Si tratta tuttavia di un invito a rispettare tali regole che di regola può essere aggirato in sede di programmazione del crawler.

[12] La Corte sottolinea come le copie cache di Google consentano, in particolare, l’accesso al contenuto della pagina web quando la pagina originale non è più disponibile, nonché di verificare eventuali modifiche nel tempo all’interno di una pagina web; funzioni, entrambe, che possono risultare molto utili per finalità di ricerca, di giornalismo o anche giuridiche. In questo senso, cfr. altresì il caso Kelly v. Arriba Soft Corp., 336 F.3d 811 (9th Cir. 2002), nel quale si sottolinea l’importanza dei motori di ricerca per facilitare e migliorare l’esperienza di ricerca di informazione su Internet.

[13] Il punto è ben evidenziato da O. Afori, Implied License: An Emerging New Standard in Copyright Law, cit., p. 314.

[14] BGH, 29 Aprile 2010, I ZR 69/08, Vorschaubilder I, in GRUR 2010, 628 para. 33 ss., su cui estesamente M. Leistner, The German Federal Supreme Court's Judgment on Google's Image Search - A Topical Example of the "Limitations" of the European Approach to Exceptions and Limitations, in International Review of Industrial Property and Copyright Law, 2011, pp. 417 ss., spec. p. 430. La decisione è stata poi confermata, con riferimento alle statuizioni qui prese in esame, dal BGH nella sentenza Vorschaubilder II, I ZR 140/10, del 19 ottobre 2011.

[15] Simili conclusioni sono state raggiunte dalle corte di altri Stati membri: si vedano in particolare la sentenza del Tribunal de Grande Instance de Paris, nel caso Société des Auteurs des arts visuels et de l’image fixe (SAIF) c. Google France and Google Inc., 20 maggio 2008, confermata dalla Cour d’Appel de Paris, con sentenza del 26 gennaio 2011, nonché la sentenza del Tribunal Supremo. Sala de lo Civil, nel caso Megakini.com vs. Google, del 3 aprile 2012.


6. La teoria del «consenso implicito» oltre il criterio del «pubblico nuovo».

Con a mente queste premesse, è ora possibile soffermare l’attenzione sul modo in cui la giurisprudenza di Lussemburgo ha applicato la teoria del «consenso implicito» nel contesto delle decisioni relative all’uso di collegamenti ipertestuali. Come anticipato, nei casi esaminati la Corte è ricorsa a tale dispositivo concettuale per assumere che il titolare, nell’autorizzare la comunicazione dell’opera su un sito liberamente accessibile, abbia acconsentito a mettere l’opera a disposizione di tutti gli internauti. In questo senso, il consenso implicito trova il suo punto di incidenza nel contesto della comunicazione iniziale dell’opera, sì da integrare il contenuto dell’autorizzazione in quella sede rilasciata e, di regola, inglobata all’interno di un negozio da questi stipulato con il gestore del sito web su cui le opere sono pubblicate.

Questa conclusione, seppur agevolata dall’uso di un criterio già disponibile all’interno della giurisprudenza, appare insoddisfacente sotto diversi profili.

Un primo nodo critico concerne l’estensione del pubblico originario a tutta la platea degli internauti. L’assunto conduce al paradossale esito di addebitare alla volontà del titolare – desunta dal solo fatto di aver pubblicato un’opera su un sito liberamente accessibile – la scelta di privarsi del potere di sfruttare economicamente l’opera in futuro. Occorre infatti osservare che, portando alle estreme conseguenze il ragionamento della Corte, la garanzia di accesso all’opera nei confronti di tutti i potenziali utenti di Internet vale quanto a impedire al titolare del diritto di contrattare la concessione di una licenza d’uso con altri gestori di siti web, posto che, in mancanza di misure restrittive all’accesso del sito, tutti potrebbero mettere le opere a disposizione degli utenti dei rispettivi siti.

Oltre a essere contraria alla logica che sorregge l’attribuzione del diritto esclusivo di comunicazione al pubblico, questa soluzione interpretativa si pone in contrasto con il principio di non-esaurimento del diritto esclusivo di comunicazione al pubblico[1]. Ciascun utente potrebbe invero scaricare l’opera protetta dal sito sul quale è stata pubblicata e poi riprodurla su un diverso sito, archiviandone una copia direttamente sul server che ne ospita le pagine web: il pubblico della messa a disposizione inziale sarebbe infatti lo stesso del sito sul quale l’opera è stata successivamente riprodotta: ossia, tutti gli internauti. Tuttavia, come statuito dalla stessa Corte di giustizia nella sentenza Renckhoff, la messa a disposizione dell’opera attraverso il download dal sito – liberamente accessibile – in cui è stata originariamente pubblicata e la successiva archiviazione della stessa in un server diverso è in ogni caso subordinata alla previa autorizzazione del titolare[2].

L’opzione tesa ad espandere la platea degli utenti presi in considerazione dal titolare del diritto nemmeno pare giustificabile in ragione dell’esigenza di favorire la libera circolazione delle idee e delle opere, nell’ottica di assicurare quel giusto equilibro tra l’interesse del titolare del diritto e quello degli utenti alla fruizione delle opere, che pure la Direttiva persegue. Una tale interpretazione può anzi risolversi, per i motivi sopra indicati, in un disincentivo per i titolari di diritto a pubblicare opere su siti web liberamente accessibili dagli utenti: il potenziale di remunerazione in favore del titolare del diritto potrà essere salvaguardato solo pubblicando l’opera su siti che consentano un accesso di pubblico limitato o anche – stante l’equiparazione tra misure tecnologiche promossa dalla Grande Sezione – avvalendosi di altre misure idonee a impedire direttamente l’uso di collegamenti ipertestuali, quali il framing e, quindi, la circolazione dell’opera nel ciberspazio[3].

Sembra allora condivisibile, sotto questo primo profilo, l’opinione di quegli studiosi che, rompendo l’astrazione su cui tale lettura poggia, vale a dire, che tutti gli internauti sono potenziali visitatori di ogni sito web esistente sulla rete[4], affermano che il titolare del diritto d’autore, nell’autorizzare la prima comunicazione su un sito web, abbia preso in considerazione, quale pubblico della sua opera, la sola cerchia di utenti (potenziali) di quel dato sito (sia esso liberamente accessibile ovvero ad accesso condizionato): la quale potrà essere più o meno ampia, ma comunque inferiore all’intera platea degli internauti.

Non altrettanto condivisibile, tuttavia, è la conclusione che viene tratta da questa premessa. Si ritiene che tale rilievo sia per sé sufficiente a escludere – sempre sulla base del criterio «pubblico nuovo» – la necessità di ottenere un’autorizzazione per comunicare l’opera tramite l’hyperlink, sul presupposto che il pubblico del sito che contiene il link diviene il pubblico del sito di destinazione del link e, quindi, il pubblico che era stato preso in considerazione dal titolare del diritto. Una tale lettura – caldeggiata dall’Avvocato Generale nelle conclusioni al caso VG Bild-Kunst, ma di fatto scartata dalla Grande Sezione della Corte[5] – potrebbe risultare non meno ambigua e artificiosa di quella che con essa si tenta di superare. Invero, la moltiplicazione dei link situati su siti terzi determinerebbe una notevole espansione della platea dei potenziali fruitori dell’opera (in quanto comprensiva degli utenti potenziali di tutti i siti su cui sono collocati i relativi collegamenti ipertestuali), vanificando di fatto il tentativo di limitare il novero degli utenti presi in considerazione dal titolare del diritto. Va del pari segnalato che, seguendo alla lettera il ragionamento, ciascun sito che provveda a installare al suo interno un link di rinvio al sito su cui originariamente l’opera è stata pubblicata potrebbe – per ciò solo – archiviare altresì sui propri server una copia dell’opera: anche in queste ipotesi, infatti, il pubblico del sito sarebbe già ricompreso tra il pubblico considerato dal titolare del diritto.

A ben vedere, il cortocircuito interpretativo potrebbe essere risolto, per così dire, “a monte”, vale a dire, escludendo ab origine il ricorso al criterio del «pubblico nuovo». Ed è qui che si innesta il secondo rilievo critico. Al di là, e ancor prima, di valutare quanto ampia sia la platea di utenti a cui il titolare del diritto ha inteso diffondere l’opera, converrebbe chiedersi se sia corretto utilizzare la tecnica del «consenso implicito» per individuare il pubblico per il quale è stata data autorizzazione con la comunicazione iniziale. Una tale operazione, infatti, lega l’ambito di operatività di tale dottrina a un atto di comunicazione (e dunque a un rapporto) diverso da quello in relazione al quale essa è chiamata a realizzare il suo scopo[6]: che non è quello di ricavare, in via interpretativa, un consenso negoziale, al fine di integrare il contenuto di una licenza già concessa da parte del titolare; bensì quello di dedurre un permesso da parte del titolare, riconducibile a un paradigma lato sensu proprietario e funzionale a salvaguardare l’utilizzo dei link, quale elemento fondamentale dell’architettura del Web, in quanto strumentale a favorire l’accesso alla cultura e alle informazioni.

L’argomento trova un preciso supporto nel ragionamento condotto dalla Corte di giustizia nella richiamata sentenza Renckhoff. Per non rompere l’orientamento giurisprudenziale inaugurato nel precedente Svensson, occorreva affermare che, nel pubblicare l’opera su un sito liberamente accessibile, l’autore aveva autorizzato la sua messa a disposizione in favore dei soli utenti del sito medesimo. Diversamente, e quindi considerando l’opera come già messa a disposizione di tutti gli utenti, la Corte non avrebbe potuto giustificare la necessità di ottenere una nuova autorizzazione dal titolare, nel caso di archiviazione di un’opera già diffusa su un server web diverso da quello originario. A tal fine, i giudici si sono adoperati in una puntuale opera di distinguishing, che contribuisce a disvelare l’esigenza che sorregge il principio, formulato nel caso Svensson, della liceità dei collegamenti che rinviino a opere pubblicate su siti privi di restrizioni all’ingresso: in siffatte ipotesi, l’esclusione degli hyperlink dagli atti soggetti al diritto d’autore si giustifica precisamente in quanto essi «contribuiscono […] al buon funzionamento di Internet permettendo lo scambio di informazioni in tale rete caratterizzata dalla disponibilità di enormi quantità di informazioni»[7]. È giocoforza affermare che, non potendosi individuare un’analoga funzione con riferimento all’atto di comunicazione all’origine del giudizio Renckhoff, la sua esclusione dal novero degli atti per i quali è richiesta l’autorizzazione risulterebbe del tutto priva di fondamento.

Ebbene, se si accetta tale premessa, e si assume dunque il processo di “implication” dell’autorizzazione inespressa come giustificato dall’esigenza di assicurare il buon funzionamento di Internet, nei termini sopra richiamati, la teoria del «consenso implicito» è destinata a subire una torsione di senso. Invero, la tutela delle funzionalità essenziali di Internet, strumentale all’accesso alle informazioni, non esige la garanzia di una generale libertà degli utenti di comunicare opere protette dal diritto d’autore, laddove già messe a disposizione su siti liberamente accessibili; che, anzi, come segnalato, può compromettere la libertà ed efficienza della rete, nella misura in cui incentivi l’uso da parte del titolare del diritto di misure atte a limitare l’accesso e la diffusione delle opere. Essa transita invece per la garanzia di una generale libertà di navigare in rete, vale a dire, di viaggiare nel ciberspazio sfruttando la rete di link che compongono il World Wide Web e che abilitano, non da ultimo, il funzionamento degli stessi motori di ricerca. D’altra parte, volendo continuare a insistere sulla finzione del consenso implicito, risulta ben più fondato ritenere che, con la prima comunicazione al pubblico, il titolare del diritto abbia preso in considerazione non già che l’opera sarebbe stata messa a disposizione di tutti gli utenti della rete Internet, ma che il sito sarebbe stato raggiungibile sia utilizzando direttamente il relativo indirizzo URL, sia i link, collocati su siti diversi, che a tale sito rinviano.

Alla luce di tali premesse, si ritiene che la mancata adozione di misure tecnologiche possa al più fondare un’autorizzazione inespressa a che gli utenti possano accedere al sito in cui l’opera è stata messa a disposizione anche da tutte quelle porte “laterali”, che siano installate e diffuse all’interno della rete. Questa diversa conclusione, oltre a non porre alcun problema di coordinamento con la sentenza Renckhoff[8], risulterebbe altresì coerente con la natura «precauzionale» del diritto d’autore. Il titolare del diritto potrebbe infatti mantenere un potere di controllo effettivo sulle comunicazioni della propria opera da parte di terzi, posto che l’eventuale decisione di revocare il consenso alla comunicazione sul sito originario, rendendo non più operativi i collegamenti ipertestuali che a esso rinviano (c.d. broken link), determinerebbe la rimozione dell’opera medesima dall’intera rete web[9].

 

[1] In questo senso, in dottrina si veda P.B. Hugenholtz, S.C. Van Velze, Communication to a new public? Three reasons why EU copyright law can do without a ‘new public’, cit., pp. 810-811. La critica è condivisa anche dall’Avvocato Generale Szpunar, nelle conclusioni sul caso VG Bild-Kunst, punto 57.

[2] Fatte salve le eccezioni previste dall’art. 5 della Direttiva 2001/29. Nel caso di specie, la questione sottoposta all’esame dei giudici di Lussemburgo riguardava la liceità della condotta dell’utente che, senza l’autorizzazione del titolare del diritto d’autore, aveva messo a disposizione del pubblico un’opera protetta, scaricandola dal sito – liberamente accessibile – in cui era stata originariamente pubblicata, per poi archiviarla nel server che ospita le pagine del sito terzo su cui era stata riprodotta.

[3] Si veda in tale prospettiva M. Burri, Permission to Link. Making Available via Hyperlinks in the European Union after Svensson, in Journal of Intellectual Property, Information Technology and E-Commerce Law, 2012, pp. 245-255, p. 252.

[4] Cfr. S. Karapapa, The requirement for a 'new public' in EU copyright law, in European Law Review, 42(1), 2017, pp. 63-81, spec. p. 63. L’immensa vastità che caratterizza lo spazio virtuale di Internet impedisce di ritenere effettivamente che ciascun utente possa conoscere tutti i siti e le pagine disponibile sul World Wide Web.

[5] Cfr. conclusioni dell’Avvocato Generale Maciej Szpunar, caso VG Bild-Kunst, cit., punto 71-72.

[6] Sebbene su basi diverse, la confusione, sotto questo profilo, è rilevata anche da P.B. Hugenholtz, S.C. Van Velze, Communication to a new public? Three reasons why EU copyright law can do without a ‘new public’, cit., p. 809.

[7] Così, testualmente, Corte di giust. UE, GS Media, cit., punto 45.

[8] Questo profilo è ben analizzato nella sentenza Renckhoff, punti 30 e ss. È chiaro infatti che, seguendo questa impostazione, l’operatività della teoria del «consenso implicito» incontrerebbe un limite intrinseco ogniqualvolta la messa a disposizione dell’opera protetta sia stata eseguita attraverso il download del file e la sua successiva archiviazione nel server del sito su cui l’opera è riprodotta.

[9] È bene precisare che se la soluzione interpretativa in ordine alla liceità dell’uso del collegamento ipertestuale non deve in ogni caso porsi in contrasto con la natura precauzionale del diritto d’autore, ciò non vuol dire che il mantenimento del potere di controllo sull’opera e, dunque, di rimuoverla dalla rete revocando il consenso in precedenza prestato, sia per sé sufficiente a escludere la violazione del diritto d’autore. Come si dirà più avanti, nel procedimento di individualizzazione della valutazione, occorre tenere conto di una serie di altri fattori onde verificare se l’uso del link, benché non implichi alcuna archiviazione dell’opera su server diversi da quello del sito per il quale è stata concessa l’autorizzazione, possa pregiudicare il legittimo interesse dell’autore a sfruttare commercialmente la propria opera. A tal proposito, è utile osservare come, fino a pochi anni fa, la giurisprudenza statunitense ritenesse che una soluzione interpretativa incentrata sul profilo tecnico dell’archiviazione dell’opera su un server diverso da quello ospitante il sito sul quale essa è stata pubblicata con il consenso del titolare, fosse idonea a dirimere le controversie relative all’uso dell’hyperlink. A partire dal caso Perfect 10 v. Amazon, deciso nel 2007 dalla United States Court of Appeals for the Ninth Circuit (508 F.3d 1146, 1159), la giurisprudenza è stata dominata dalla c.d. “server rule”, secondo cui il soggetto che utilizza la tecnica del framing o dell’in-line linking non incorre in responsabilità a meno che non archivi sul proprio server il materiale cui il link rinvia. La fornitura di collegamenti ipertestuali poteva dare luogo esclusivamente a una responsabilità secondaria, laddove idonea a facilitare l’accesso dell’utente a materiali messi a disposizione del pubblico in violazione del copyright. Negli ultimi anni, diverse corti hanno superato tale orientamento. Cfr. in questo senso i casi Leader's Inst., LLC v. Jackson, No. 3:14-CV-3572-B, 2017 WL 5629514 (N.D. Tex. Nov. 22, 2017) e Goldman v. Breitbart News Network, LLC, 302 F. Supp. 3d 585 (S.D.N.Y. 2018).


7. Adozione di misure tecnologiche e limiti all’uso di hyperlink.

In una prospettiva di logica giuridica, l’utilizzo di una finzione dovrebbe giustificarsi solo laddove negare la realtà assicuri, nell’economia della teoria in cui essa opera, benefici maggiori dei costi che produce. Non sembra essere questo il caso della finzione del «consenso implicito». Oltre ai potenziali costi legati alle ambiguità che, come visto, connotano l’applicazione di tale teoria, il maggior prezzo da pagare si sconta sul piano metodologico. A stretto rigore, la dottrina dovrebbe operare fintantoché manchi una espressa manifestazione di volontà del titolare del diritto, lasciando all’interprete lo spazio necessario per legittimare il suo intervento nella prospettiva di individuare il giusto punto di equilibrio tra gli interessi concorrenti. Di diverso avviso sembra essere la Corte di giustizia, che non resiste alla tentazione di sfruttare (per quanto solo implicitamente) la teoria in esame per disciplinare le situazioni diametralmente opposte, in modo perfettamente speculare. Si afferma, in altre parole, che laddove il titolare del diritto adotti misure tecnologiche e la comunicazione secondaria, operata tramite collegamento ipertestuale, ne comporti l’elusione, la violazione del diritto d’autore è sostanzialmente inesorabile. E ciò – come già osservato – a prescindere dal fatto che le misure operino nel senso di limitare il pubblico che ha accesso al sito ovvero nel senso di limitare le modalità di accesso al sito, privo di restrizioni all’ingresso, sul quale l’opera è stata inizialmente messa a disposizione del pubblico.

Per il vero, la distorsione della teoria così messa in scena dalla Corte non è il frutto di un ragionamento tutto interno alla giurisprudenza. Essa ha radici più profonde. L’equivoco si annida nella formulazione poco felice (o felicemente ambigua, a seconda dei punti di vista) dell’art. 6 della Direttiva 2001/29. A differenza dell’analoga disposizione contenuta nel WTC[1], la norma introdotta dal legislatore europeo non circoscrive espressamente la protezione garantita alle misure tecnologiche agli atti rientranti nell’esercizio del diritto d’autore (o dei diritti connessi). La misura tecnologica è, invero, protetta ove destinata a «impedire o limitare atti, su opere o altri materiali protetti, non autorizzati dal titolare». La circolarità della disposizione, insita nel fatto che l’adozione da parte del titolare del diritto di una misura tecnologica volta a impedire un atto relativo alla sua opera implica di per sé l’intenzione del titolare di non autorizzare quell’atto, offre il destro per ribaltare la logica della norma: a determinare l’ampiezza del potere di esclusione non è l’estensione del diritto d’autore, quanto invece la capacità tecnologica disponibile in un dato momento storico[2]. La norma sembra, in altre parole, preludere alla costruzione di una prerogativa in favore del titolare del diritto, altra e distaccata rispetto al fascio di esclusive legate alla creazione di un’opera dell’ingegno; una prerogativa dai tratti squisitamente proprietari, avente quale oggetto il potere di determinare «le modalità di accesso alle opere e ai siti che le accolgono»[3], cui sono chiamati a uniformarsi gli utenti che di tali opere volessero fare uso.

Questa interpretazione costituisce al contempo causa ed effetto di un modo di intendere la proprietà intellettuale come mero surrogato dalla proprietà privata. La sovrapposizione tra l’una e l’altra, promossa sul piano retorico dal legislatore europeo (anche) nella Direttiva 2001/29[4], è perfezionata, sul piano più strettamente applicativo, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Invero, il procedimento interpretativo che induce a riconoscere l’esigenza di tutela in favore del titolare sulla base del mero segnale inviato per il tramite della adozione di misure tecnologiche sottintende una coincidenza (quasi) perfetta tra la volontà escludente del titolare e l’estensione del diritto in capo a esso riconosciuto: una coincidenza che, in altre parole, esclude un’indagine sulla meritevolezza dell’interesse fatto valere dal titolare del diritto d’autore, in quanto già presupposta nella e assorbita dalla adozione delle misure restrittive.

A ben guardare, l’osservazione trova un’ulteriore conferma indiretta nel fatto che le controversie in esame siano di regola affrontate dalla giurisprudenza nella prospettiva del free riding dell’utente-trasgressore, vale a dire, incentrando il giudizio di liceità – qui relativo alla comunicazione secondaria dell’opera tramite hyperlink – sull’arricchimento e il vantaggio (oggetto per sé di un giudizio di disvalore) che l’utente può realizzare avvalendosi dell’opera, pur in assenza di autorizzazione da parte del titolare[5]. Un tale visione, se ribaltata, non può che veicolare l’idea per cui il titolare del diritto di proprietà intellettuale goda di una tutela pressoché assoluta (salvi i limiti legali esterni), che – ove fatta valere – gli assicura la capacità di internalizzare tutte le esternalità positive che derivano dalla creazione dell’opera[6], ossia, nel caso di specie, dalla sua messa a disposizione all’interno della rete Internet. E non sorprende che, nel solco di una siffatta impostazione teorica, l’autorizzazione implicita possa essere intesa come un (maldestro) tentativo di rompere la tassatività delle “exceptions and limitations” riconosciute all’utente legittimo, sull’esempio della dottrina del fair use anglo-americano con la quale – non a caso – la teoria del consenso implicito finisce non di rado per confondersi[7]: un tentativo destinato a infrangersi contro la chiarezza testuale che connota il preambolo della Direttiva e che rende una tale interpretazione contra litteram legis.

Questo modo di procedere, oltre a essere fondato su un modello puramente ideale di proprietà privata[8], determina un progressivo, seppur spesso impercettibile, scollamento tra la giustificazione storico-economica che sorregge il riconoscimento del diritto d’autore e la sua concreta tutela in giudizio, una volta che il titolare ne abbia fatto – o intenda farne – esercizio. Se, infatti, il sistema di proprietà intellettuale, che presiede alla produzione di una scarsità puramente “virtuale” all’interno dei beni immateriali, si giustifica in ragione della necessità di garantire all’autore-inventore un incentivo economico alla creazione delle opere, l’assegnazione e la tutela delle relative prerogative dovrà necessariamente conformarsi, sul piano operativo, al perseguimento di detto scopo. Ne consegue, anzitutto, una inversione del rapporto tra esclusione e accesso che tradizionalmente connota il diritto dominicale: il riconoscimento della prerogativa esclusiva in capo all’autore si impone come deroga, all’interno di un regime fondato sulla libertà di fruizione e condivisione delle idee in quanto parte di un patrimonio pubblico posto a beneficio della collettività. Ne consegue, ancora, che il potere di esclusione attribuito al titolare del diritto d’autore, lungi dal godere di una protezione assoluta (anche solo puramente astratta), nasce ab origine pervaso da un limite intrinseco, rappresentato dalla possibilità di ottenere un compenso «adeguato» che assicuri all’autore, per l’appunto, una remunerazione sufficiente a incentivare la produzione creativa. La stessa giurisprudenza di Lussemburgo non esita a rimarcare tale funzione nel contesto dell’applicazione del diritto d’autore in ambito digitale. Essa rileva come la proprietà intellettuale miri precisamente a tutelare «la facoltà [dei titolari del diritto] di sfruttare commercialmente la messa in circolazione o la messa a disposizione degli oggetti protetti, concedendo licenze dietro il pagamento di un compenso adeguato per ogni utilizzazione degli oggetti protetti»[9]. D’altro canto, la stessa «three-step test rule», nel restringere l’ambito di operatività delle eccezioni o limitazioni al diritto d’autore, suggerisce come la tutela del suo titolare non si estenda al punto da sanzionare tutti gli atti di uso dell’opera che assicurino un vantaggio ai terzi; essa, per contro, si rivolge solo a quegli atti che possono «arrecare pregiudizio agli interessi legittimi dei titolari dei diritti» o che siano «in contrasto con la normale utilizzazione economica delle […] opere o materiali protetti»[10].

Ecco che, tornando alla questione in esame, un’interpretazione sistematica e teleologicamente orientata induce a illuminare il rapporto di strumentalità diretta esistente tra l’interesse ad escludere i terzi, anche quando fatto valere attraverso l’uso delle misure tecnologiche, e l’interesse a realizzare un «adeguato compenso» tramite lo sfruttamento economico dell’opera[11]. In questa prospettiva, e nonostante l’ambivalenza testuale dell’art. 6 della Direttiva, le misure tecnologiche dovranno essere intese quali modalità, per così dire, “auto-esecutive” di esercizio di un diritto vantato dall’autore e riconosciuto dall’ordinamento; e il loro utilizzo dovrebbe essere tutelato dalle corti fintantoché siano dirette a impedire atti per i quali è richiesta l’autorizzazione del titolare del diritto[12].

Una lettura inversa, che obliteri il dato relativo allo scopo e alla funzione del diritto d’autore, può rappresentare una pericolosa eterogenesi dei fini, sotto un duplice profilo. Da un lato, la saldatura tra liceità dell’uso del collegamento ipertestuale ed elusione di misure tecnologiche può farsi così stretta da rendere l’adozione di queste ultime una condizione dell’esercizio del diritto da parte del suo titolare. Questa invero la conclusione cui sembra approdare la Grande Sezione nella sentenza VG Bild-Kunst, laddove statuisce che, al fine di garantire la certezza del diritto e il corretto funzionamento di Internet, «il titolare del diritto d’autore non dovrebbe essere autorizzato a limitare il suo consenso se non per mezzo di misure tecnologiche efficaci, ai sensi dell’articolo 6, paragrafi 1 e 3, della direttiva 2001/29»[13]. Dall’altro lato, la protezione del diritto d’autore, derogando alla sua funzione, corre il rischio di essere estesa oltre ciò che è necessario per garantire un corretto meccanismo di incentivo, trasformandosi nella tutela di scelte idiosincratiche da parte del titolare del diritto slegate da una concreta esigenza di remunerazione[14]. Rischio che, con specifico riguardo al diritto esclusivo di comunicazione al pubblico, risulta accentuato dall’inapplicabilità del principio di esaurimento, principio al quale, nel campo dei beni dotati di un supporto materiale, è demandato il compito di fissare a priori il limite al potere di sfruttamento dell’opera da parte del diritto dell’autore, per salvaguardare gli interessi dei terzi[15]. Il che, però, lungi dal tradursi in una protezione illimitata del diritto d’autore, rimette all’interprete una più attenta valutazione, in sede di bilanciamento con altri interessi concorrenti e, in particolar modo, con il diritto alla libertà di espressione e informazione, dei limiti entro cui possa dirsi legittima l’aspettativa del titolare di estrarre il valore sociale prodotto o producibile tramite lo sfruttamento della sua opera.

 

[1] L’articolo 11 del WTC impone alle Parti contraenti di fornire una protezione adeguata e rimedi effettivi «against the circumvention of effective technological measures that are used by authors in connection with the exercise of their rights under this Treaty or the Berne Convention and that restrict acts, in respect of their works, which are not authorized by the authors concerned or permitted by law». La parte non in corsivo – qui appositamente segnalata – non compare nel corrispondente art. 6, par. 3, della Direttiva 2001/29.

[2] Cfr. S. Dusollier, Technology as an imperative for regulating copyright: from the public exploitation to the private use of the work, cit., p. 202.

[3] Così M. Ricolfi, Comunicazione al pubblico e distribuzione, in Annali italiani del diritto d’autore, 2002, pp. 48 ss., p. 64, nel richiamare il pensiero di T. Heide, nel saggio Copyright in the EU and U.S.: What ‘Access-Right’?, in Journal of the Copyright Society of the USA, vol. 48, 2001, pp. 363 ss.

[4] In questo senso, il considerando n. 3 della Direttiva 2001/29 stabilisce che l’armonizzazione perseguita tramite la normativa «[…] riguarda il rispetto dei principi fondamentali del diritto e segnatamente della proprietà, tra cui la proprietà intellettuale, della libertà d'espressione e dell'interesse generale». Ciò risulta peraltro in linea con l’indicazione a livello sistematico che deriva dall’inserimento del principio di tutela della proprietà intellettuale all’interno dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea rubricato, per l’appunto, “diritto di proprietà”. Il dato non esime tuttavia l’interprete dall’evidenziare le differenze, sotto il profilo storico, economico e operazionale tra la proprietà privata e la proprietà intellettuale.

[5] Lo si comprende guardando alla casistica: esemplare in tal senso la sentenza n. 172/2012, del Tribunal Supremo. Sala de lo Civil, nel già richiamato caso Megakini.com vs. Google.

[6] Il punto è messo bene in luce da M. A. Lemley, in Property, Intellectual Property, and Free Riding, in Texas Law Review, l. 83, 2005, pp. 1031-1075, spec. p. 1045.

[7] Cfr. J.J. Castelló-Pastor, Spain Approaches Anglo-American Fair Use Doctrine: Do We Need to Reform the European System of Copyright Limitations and Exceptions?, in WIPO/WTO. Compiled by the World Trade Organization –Intellectual Property Division, 2014, pp. 79-88

[8] Posto che, nemmeno la proprietà privata prevede un sistema di internalizzazione piena delle esternalità positive prodotte. In argomento, nella dottrina italiana si veda in particolare U. Mattei, La proprietà, Utet, Torino, 2015. Nella lettura statunitense, il tema è ben approfondito da C. Rose, in Canons of Property Talk, or, Blackstone’s Anxiety, in The Yale Law Journal, vol. 108, 1998, pp. 601 ss., spec. p. 631.

[9] Cfr. sentenza Renckhoff, cit., punto 34, e la sentenza del 4 ottobre 2011, Football Association Premier League e a., cit., punti 107 e 108. Nel contesto della Direttiva, la prospettiva è ben esplicitata al considerando 10. L’argomento è tuttavia di regola utilizzato al solo fine di giustificare l’illiceità di condotte che sfruttino, senza il consenso del titolare, l’opera protetta. Non si giunge mai a trarre la conseguenza anche sul versante opposto, nel senso di individuare i limiti al potere di sfruttamento dell’opera da parte del titolare del diritto.

[10] In questo senso, cfr. Tribunal Supremo. Sala de lo Civil, nel caso Megakini.com vs. Google, cit. Vale la pena di osservare, sotto questo profilo, come non manchino autorevoli posizioni propense a una lettura meno restrittiva della regola del three-step test, nella prospettiva di assicurare un effettivo ed equo bilanciamento tra il diritto dell’autore a ricevere un adeguato compenso e gli interessi contrapposti, quali i diritti fondamentali o gli interessi relativi alla concorrenza, che si sostanzia nella prevalenza di questi ultimi laddove l’uso dell’opera non sia in grado di  arrecare un effettivo pregiudizio al titolare del diritto. Cfr. in tema C. Geiger, R. Hilty, J. Griffiths, U. Suthersanen, Declaration A Balanced Interpretation of The "Three-Step Test" in Copyright Law, in Journal of Intellectual Property, Information Technology and E-Commerce Law, 2010, pp. 119 ss., p. 121, secondo cui «[t]he Three-Step Test should be interpreted in a manner that respects the legitimate interests of third parties, including – interests deriving from human rights and fundamental freedoms; – interests in competition, notably on secondary markets; and – other public interests, notably in scientific progress and cultural, social, or economic development». A conclusioni simili perviene lo studio curato da P.B. Hugenholtz, R.L. Okediji, Conceiving an International Instrument on Limitations and Exceptions to Copyright, final report, 6 marzo 2008, p. 3 in cui si afferma che: «[l]imitations and exceptions that (1) are not overly broad, (2) do not rob right holders of a real or potential source of income that is substantive, and (3) do not do disproportional harm to the right holders, will pass the test».

[11] In questo senso, cfr. M. Lemley, Property, Intellectual Property, and Free Riding, cit., p. 1057.

[12] Il punto emerge chiaramente nella sentenza del 23 gennaio 2014 della Corte di giustizia dell’UE, Quarta Sezione, nel caso Nintendo Co. Ltd et al. c. PC Box Srl, 9Net Srl, causa C‑355/12, punto 25, in cui si precisa che «la protezione giuridica prevista all’articolo 6 della direttiva citata si applica esclusivamente al fine di proteggere il suddetto titolare nei confronti degli atti per i quali è richiesta la sua autorizzazione».

[13] Prima del giudizio della Grande Sezione, la Corte aveva più volte affermato che il godimento e l’esercizio del diritto previsto dall’articolo 3, paragrafo 1, della Direttiva 2001/29 non possono essere subordinati ad alcuna formalità. Il principio era stato espresso nella sentenza del 16 novembre 2016 sul caso Soulier e Doke c. Premier ministre, Ministre de la Culture et de la Communication, causa C 301/15, punto 50, e poi ribadito nella richiamata sentenza Renckhoff, punto 36. L’orientamento assunto dalla Corte nel caso VG Bild-Kunst muove invece dal presupposto per cui, in mancanza di simili misure, potrebbe rivelarsi difficile, in particolare per i privati, accertare se il titolare dei diritti abbia voluto opporsi al framing delle sue opere.

[14] Secondo un processo che caratterizza anche l’uso dello strumento contrattuale come dispositivo tecnico volto a estendere le prerogative proprietarie del contraente-predisponente oltre i confini riconosciuti della legge. Sul punto, cfr. M.J. Radin, Regime Change in Intellectual Property: Superseding the Law of State with the 'Law' of the Firm, cit., pp. 178 ss.

[15] In tema, si vedano le riflessioni di C. Sganga, Il principio dell'esaurimento nel diritto d'autore digitale: un pericolo o una necessità?, in Il Diritto dell'informazione e dell'informatica, 2019, pp. 21-77, la quale argomenta in favore dell’introduzione di un principio di esaurimento digitale.


8. Verso una classificazione delle ipotesi di hyperlink che rinviano a opere protette dal diritto d’autore.

Volendo tradurre i rilievi teorici su un piano più strettamente operativo, è possibile ora fissare le due premesse da cui dovrebbe muovere l’analisi delle fattispecie sottoposte al vaglio della Corte.

Per un verso, la valutazione dovrebbe ruotare attorno alla verifica della idoneità della comunicazione secondaria a ledere l’interesse del titolare del diritto d’autore alla remunerazione dell’opera, prima ancora, e al di là, dell’accertamento dei vantaggi conseguiti o conseguibili dal presunto trasgressore. In questo senso, il riferimento a un criterio di ragionevolezza nel bilanciamento, teso a preservare il contenuto essenziale del diritto nella sua necessaria interrelazione con libertà e obiettivi di policy confliggenti, quali l’accesso alla cultura e la dissemination dell’opera tra gli utenti della rete, suggerirebbe di circoscrivere la tutela dell’autore nei limiti in cui ciò sia necessario a preservarne la capacità di negoziare il diritto tramite la concessione di licenze sull’opera, anche successivamente alla sua prima comunicazione. Si tratterebbe, in altre parole, di far coincidere il limite definitorio[1] del contenuto del diritto d’autore digitale con la salvaguardia della possibilità per il titolare di stipulare licenze multiple per il medesimo contenuto.

Per altro verso, e specularmente, l’utilizzo delle misure tecnologiche dovrebbe essere ammesso (o la loro elusione sanzionata) solo nella misura in cui tali misure tutelino il titolare del diritto contro atti in grado di incidere sul potere negoziale del titolare.

In questa categoria rientrano senz’altro le misure che condizionano l’accesso al sito, quali quelle prese in considerazione nella sentenza Svensson. La scelta se comunicare l’opera all’interno di un sito che riserva l’accesso ad una cerchia limitata di utenti, ad esclusione degli altri, rientra certamente nell’ambito delle prerogative riconosciute al titolare del diritto d’autore, in quanto decisione dettata dall’individuazione dei mercati in cui sfruttare commercialmente l’opera e (di regola) incidente sul prezzo che può essere spuntato dalla concessione della licenza al gestore del relativo sito. Di talché, l’installazione di un hyperlink situato su un sito terzo che consenta l’elusione di tali misure restrittive non sarebbe solo contraria alla volontà del titolare, ma altresì lesiva di una legittima strategia di utilizzo del monopolio da parte del titolare del diritto, in contrasto con la logica remunerativa che sorregge l’assegnazione della prerogativa escludente[2]. Si potrebbe argomentare che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte nel caso Svensson, la violazione del diritto d’autore sia qui indiretta, poiché l’illiceità della condotta dell’hyperlink sarebbe da ricondurre all’elusione delle misure tecnologiche. Ciò, tuttavia, non toglie che il fondamento della decisione risiede nella circostanza per cui la misura è posta a protezione di un atto per il quale è richiesta l’autorizzazione del titolare, in quanto connessa al legittimo esercizio del diritto dell’autore.

Più complesso è il discorso in relazione alle ipotesi in cui gli hyperlink rinviino a opere messe a disposizione dal titolare del diritto su siti web liberamente accessibili e le misure tecnologiche siano volte a limitare direttamente il funzionamento dei collegamenti ipertestuali. Su tale fronte sarà necessario non solo definire se, ed eventualmente in quali casi, gli hyperlink siano effettivamente idonei a comprimere il potere remunerativo al titolare del diritto, ma occorrerà altresì tenere conto dei costi opportunità[3], in termini di rischio, insiti nella scelta di utilizzare il proprio monopolio per diffondere l’opera in modo da renderla liberamente accessibile nella rete; costi che, a ben vedere, non potranno essere scaricati sugli utenti attraverso una limitazione al funzionamento dell’infrastruttura Internet.

In questo ordine di idee, è opportuno operare una preliminare distinzione tra l’interesse dell’autore a sfruttare commercialmente la propria opera, tramite la comunicazione su un sito web, e l’interesse (autonomo e distinto) del licenziatario-gestore del sito web su cui l’opera è stata messa a disposizione, a trarre profitto dalla pubblicazione della stessa sul proprio sito. Una tale distinzione, sebbene spesso offuscata da una prospettiva appiattita sui vantaggi che può trarre l’utente che comunichi nuovamente l’opera, esiste, al punto che i due interessi possono entrare in conflitto tra loro. È il caso, in particolare, del deep linking. Di regola, il gestore del sito web avrà interesse a limitare le modalità di accesso al sito, in modo da costringere i visitatori a transitare sempre dall’home page, prima di visitare le pagine interne su cui l’opera è visualizzabile (ed eventualmente a prescindere dalla loro visita), perché è nella pagina di presentazione che si concentra più spesso la vendita di inserzioni pubblicitarie. Per contro, l’autore dell’opera potrebbe avere interesse all’accesso diretto e immediato, tramite «link profondi», alla pagina web contente l’opera, di modo da guadagnare una maggiore visibilità. Non va peraltro dimenticato che, come segnalato da alcuni autori in dottrina[4], l’hyperlink tende ad aumentare il numero di utenti in grado di accedere all’opera, potendo in tal senso avvantaggiare l’autore, a maggior ragione in un sistema, quale quello della circolazione delle opere online, in cui la capacità di trarre profitto costituisce sempre più spesso una funzione del numero di visualizzazioni che l’opera riceve e che attribuisce una notorietà virtuale al suo creatore.

Muovendo da questo presupposto, occorre chiedersi se una misura tecnologica volta a impedire l’uso di «link profondi» possa essere fatta rientrare nell’ambito dell’esercizio esclusivo del diritto alla messa a disposizione del pubblico riconosciuto in capo all’autore. Una risposta in senso negativo può essere fatta ruotare attorno a due argomenti. Per un verso, l’installazione di un deep link non incide sul potere negoziale del titolare del diritto, dal momento che i gestori di siti web diversi da quelli per il quale è stata concessa l’autorizzazione conserveranno l’interesse a ottenere una licenza dall’autore per diffondere l’opera sul proprio sito e, per tale via, guadagnare traffico Internet. Per altro verso, la scelta circa il modo in cui strutturare le pagine del sito web e vendere gli spazi pubblicitari al loro interno non attiene allo sfruttamento in sé dell’opera protetta, quanto invece allo sfruttamento del sito web, specie in termini di profitto pubblicitario, da parte del gestore che abbia acquisito il diritto a comunicare la relativa opera[5]. Il titolare del sito è sempre libero di decidere, sulla base del calcolo degli accessi alle diverse pagine che lo strutturano, se e come distribuire la pubblicità tra esse per ottenere una maggiore remunerazione[6]. Sicché, la deviazione del traffico (non già dalla pagina in cui è contenuta l’opera, ma) dalla home page del sito, riconducibile all’installazione dell’hyperlink, potrà essere al più valutata come fonte di danno per il gestore del sito web sotto il profilo della concorrenza sleale[7], ma non anche come pregiudizievole dell’esclusiva riconosciuta al diritto d’autore[8].

Ben diverso è il caso in cui le misure restrittive siano volte a impedire l’uso dei c.d. link «non-referenziali», vale a dire, di quei link che consentano la visualizzazione del materiale protetto direttamente all’interno del sito in sui sono installati. A differenza dell’ipotesi precedente, l’utilizzo di tale tecnica esibisce un maggiore potenziale lesivo, in quanto idonea a degradare la posizione negoziale dell’autore privandolo, a seguito della prima comunicazione, della capacità di contrattare la concessione di licenze con altri utenti[9]. Il gestore di un sito web non avrebbe infatti interesse ad acquistare il diritto di sfruttare l’opera sul proprio spazio virtuale se, in tal modo, egli garantisse a tutti gli altri gestori la possibilità di accedere gratuitamente all’opera all’interno dei propri siti. Un conto è visualizzare il contenuto protetto all’interno del sito su cui è stato comunicato, seguendo un percorso di navigazione diverso da quello prevede il previo accesso all’home page; un altro conto è prevedere un meccanismo che consenta agli utenti di visualizzare l’opera senza mai passare – di fatto – per il sito in cui questa è stata comunicata.

Si potrebbe allora argomentare che, in linea di principio, la comunicazione secondaria dell’opera tramite link «non-referenziale», in assenza di autorizzazione del titolare del diritto, debba ritenersi lesiva del diritto esclusivo di comunicazione dell’opera. La petizione di principio deve però essere calata all’interno della giurisprudenza della Corte di giustizia, la quale subordina la nozione di «comunicazione al pubblico» a una valutazione individualizzata. Occorre pertanto verificare se vi siano elementi tecnici e/o fattuali che, nel connotare l’uso della tecnica nei singoli casi concreti, suggeriscano di modulare diversamente la decisione in ordine alla liceità del collegamento ipertestuale.

Secondo l’Avvocato Generale del caso VG Bild-Kunst, sarebbe possibile operare una distinzione tra le diverse fattispecie, a seconda che la visualizzazione dell’opera sul sito in cui il link è collocato sia completamente automatizzata, per effetto dell’istruzione in tal senso inserita dallo stesso gestore nel codice HTML del sito terzo (è il caso dell’in-line link o dell’embedding); ovvero che la visualizzazione dell’opera all’interno del sito terzo dipenda dall’attivazione del relativo link da parte degli utenti (è il caso del framing cliccabile).

Poiché nella prima ipotesi l’effetto per l’utente che accede all’opera è il medesimo di una riproduzione e di una messa a disposizione del pubblico attraverso l’incorporazione dell’opera sul server del sito terzo – ipotesi, si ricorderà, presa in considerazione nel giudizio Renckhoff – non vi sarebbe motivo di rendere tale situazione oggetto di valutazioni diverse da quelle che inducono a ritenere detta tecnica bisognosa di un’autonoma e secondaria autorizzazione da parte del titolare del diritto. Nel caso del framing selezionabile, per contro, la necessità di ottenere l’ulteriore autorizzazione del titolare del diritto sarebbe esclusa dalla conoscenza o conoscibilità da parte dell’utente circa la provenienza del contenuto protetto da un sito web diverso da quello consultato, conoscibilità garantita dalla necessità di attivare il relativo link prima di poterlo visualizzare[10].

La distinzione suggerita dall’Avvocato Generale, sebbene mossa dal condivisibile intento di diversificare la valutazione a seconda delle circostanze del caso concreto, appare eccessivamente appiattita sul funzionamento tecnico delle diverse forme di hyperlink, rendendola avulsa da una logica fondata sui principi che governano la materia della proprietà intellettuale. Spostando l’asse del ragionamento in questa diversa direzione, la linea di confine tra uso lecito e illecito dei link «non-referenziali» potrebbe essere più correttamente individuata sulla base di due diversi criteri, tra loro interdipendenti, legati alla sussistenza di elementi altrettanto chiari e riconoscibili.

Il primo criterio guarda alla conoscibilità da parte dell’utente della fonte da cui il materiale protetto proviene, sebbene in modo solo indiretto. La valutazione, sotto tale profilo, avrà ad oggetto la condotta dell’hyperlinker, per verificare se egli si sia adoperato per modificare il materiale protetto o (nel caso del framing) per alterare la pagina web in cui questo è contenuto, ad esempio nascondendo l’URL o coprendo con propri banner pubblicitari alcune parti della pagina originaria, di modo da oscurare la provenienza dell’opera dal sito in cui originariamente è stata messa a disposizione[11]. Si tratterà, in altre parole, di verificare la meritevolezza della tutela del gestore del sito terzo, da escludersi ogniqualvolta la sua condotta sia idonea a ingenerare confusione nell’utente[12], specie sotto il profilo della paternità dell’opera e del luogo virtuale di provenienza della stessa, secondo un approccio mutuabile dalla disciplina della concorrenza sleale[13].

Il secondo criterio attiene alla funzione che il collegamento ipertestuale svolge nell’ambito della relazione che intercorre tra il sito che detto collegamento incorpora e il sito al quale il collegamento rinvia. Occorrerà, in altre parole, verificare se l’utilizzo del collegamento faciliti in qualche misura la ricerca e diffusione di contenuti all’interno del web, stimolando la visualizzazione del materiale all’interno del sito originario o se, viceversa, il suo utilizzo sia funzionale a sfruttare il materiale comunicato sul sito altrui per concentrare il traffico Internet sul sito del gestore che di tale tecnica si serve. A ben vedere, l’aspetto problematico dell’embedding risiede precisamente nella sua capacità di favorire una monopolizzazione del traffico Internet e una concentrazione delle informazioni rinvenibili sul web, presso i siti in cui i relativi collegamenti automatici sono collocati. Sotto questo profilo, è utile osservare che diverse piattaforme digitali fondate sulla condivisione dei contenuti da parte dei propri utenti inseriscono all’interno dei propri siti delle istruzioni che implicano la trasformazione dei collegamenti cliccabili condivisi dagli utenti in collegamenti automatici, di modo da incentivare gli utenti a rimanere all’interno dello spazio virtuale dalle stesse piattaforme governate[14]. In questo senso, la tecnica dell’incorporazione automatica svolge una funzione cruciale per il modello di business su cui tali operatori si fondano, ma in qualche modo contraria alla logica dell’hyperlink, il cui tratto caratterizzante, che lo rende essenziale per il buon funzionamento di Internet, è rappresentato precisamente dalla sua capacità di abilitare l’utente a navigare tra le infinite risorse presenti nella costellazione di siti che struttura il ciberspazio. Qualora il collegamento automatico persegua un tale effetto di concentrazione, la pretesa del titolare di subordinare la comunicazione secondaria all’ottenimento di una nuova autorizzazione dovrebbe essere accolta e tutelata. Questa lettura risulterebbe peraltro coerente con i nuovi obblighi, previsti dalla Direttiva Copyright, a carico dei prestatori di servizi di condivisione online, qualora si ritenesse il loro ambito di applicazione limitato alle sole tecniche in grado di promuovere una concentrazione del flusso degli utenti all’interno delle relative piattaforme[15].

Per inverso, nelle ipotesi in cui il collegamento ipertestuale sia configurato in modo da assicurare la corretta referenza all’opera protetta, favorendo la canalizzazione della ricerca dell’utente verso il sito – liberamente accessibile – in cui essa è stata messa a disposizione con il consenso del titolare del diritto, senza arrecare alcun pregiudizio a quest’ultimo, la pretesa del titolare di vietare l’uso dell’hyperlink potrebbe assumere i contorni dell’esercizio abusivo del diritto esclusivo di comunicazione al pubblico, in quanto esercizio non socialmente meritevole di tutela[16]. La pretesa, in altre parole, non potrebbe dirsi rispondente all’esigenza di garantire un giusto equilibrio tra gli interessi dei titolari dei diritti d’autore e quelli degli utenti, il cui perseguimento, a ben guardare, non giustifica solo l’imposizione di eccezioni e limitazioni all’esercizio del diritto d’autore, ma anche, e ancor prima, la delimitazione degli stessi confini entro cui il titolare è legittimato a ricevere una tutela da parte dell’ordinamento giuridico.

 

[1] In questo senso, cfr. A. Musso, Art. 2577 e ss. Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, Zanichelli, Bologna, 2008, pp. 157 ss, nel quale l’Autore evidenzia la distinzione tra limiti definitori ex ante dell’oggetto o del contenuto del diritto d’autore e limitazioni derogatorie al contenuto medesimo, come già definito a priori, ritenendo, conseguentemente, la richiamata regola del three-step-test applicabile solo alla seconda tipologia.

[2] D’altra parte, il link installato dal gestore del sito, senza autorizzazione, costituisce in tali casi, e a differenza delle ipotesi di cui si dirà oltre, l’unica modalità che gli utenti hanno per fruire dell’opera liberamente, senza pagare il canone di sottoscrizione previsto dal gestore del sito su cui l’opera è stata messa a disposizione con il consenso del titolare.

[3] Si vedano in questa prospettiva le riflessioni della più autorevole dottrina dedicatasi allo studio dell’istituzione-proprietà, nella prospettiva di evidenziare quei caratteri di relazionalità che implicano una limitazione del libero estrinsecarsi del potere di volontà del titolare nell’interesse dei terzi. Cfr. U. Mattei, La proprietà, cit., spec. p. 62 ss.

[4] In questo senso, L.A. Stangret, The Legalities of Linking on the World Wide Web, cit., pp. 204 ss.

[5] A simili conclusioni sembra giungere l’Avvocato Generale Szpunar, nelle già citate conclusioni relative al caso VG Bild-Kunst.

[6] A. Musso, Ipertesti e thesauri nella disciplina del diritto d'autore, in Annali italiani del diritto d’autore, 1998, I, pp. 211 ss., p. 251.

[7] In tema, cfr. A. Musso, Ipertesti e thesauri nella disciplina del diritto d'autore, cit., pp. 248 ss.

[8] Cfr. in questo senso le conclusioni dell’Avv. Generale Szpunar, punto 85.

[9] Id., punto 106.

[10] A tal fine occorrerà operare una verifica sulla base delle circostanze del caso concreto, posto che la tecnica del framing consente di nascondere (almeno in parte) la fonte da cui il contenuto proviene.

[11] Su questo profilo, cfr. J.C. Ginsburg, L. Ali Budiardjo, Embedding Content or Interring Copyright: Does the Internet Need the Server Rule, cit., pp. 435.

[12] In questo senso, in dottrina, si veda A. Musso, Ipertesti e thesauri nella disciplina del diritto d'autore, cit., p. 248.

[13] Non si ritiene invece applicabile il criterio elaborato dalla Corte di giustizia nel caso in cui il link rinvii a un’opera precedentemente pubblicata online senza l’autorizzazione del titolare. Il riferimento è alla sentenza GS Media, cit., punto 47, in cui la Corte afferma che «[...] qualora il collocamento di un collegamento ipertestuale verso un’opera liberamente disponibile su un altro sito Internet sia effettuato da una persona senza perseguire fini di lucro, occorre [...] tener conto della circostanza che tale persona non sia a conoscenza, e non possa ragionevolmente esserlo, del fatto che detta opera era stata pubblicata su Internet senza l’autorizzazione del titolare dei diritti d’autore». In tema, cfr. M. Borghi, “Hyperlink": la Corte europea riscrive il diritto di comunicazione al pubblico, cit., pp. 2139 ss.

[14] Cfr. sul punto J.C. Ginsburg, L. Ali Budiardjo, Embedding Content or Interring Copyright: Does the Internet Need the Server Rule, cit., pp. 440-441.

[15] Si potrebbe argomentare che una prospettiva tutta appiattita sulla garanzia di incentivi economici agli autori e sul mercato delle licenze, qual è quella fatta propria dal legislatore europeo anche nel contesto della Direttiva da ultimo citata, non favorisca quei processi di condivisione, propri dell’economia della conoscenza e dell’informazione, che si pongono alla base delle nuove teorie sullo sviluppo della creazione, quale esito di una pratica diffusa e collettiva. Ma ciò richiederebbe una puntuale analisi dei presupposti stessi del riconoscimento dell’esclusiva nel contesto della data-driven economy, che non può in questa sede compiersi. In letteratura, tali questioni sono affrontate in particolare da Yoachi Benkler, in The Wealth of Networks: How Social Production Transforms Markets and Freedom, Yale University Press, New Haven, CT, 2006 e nel lavoro sviluppato con H. Nissenbaum, dal titolo Commons-based Peer Production and Virtue, in The Journal of Political Philosophy: vol. 14, 2006, pp. 394-419. Ancora, per una critica fondata sulla produzione della creazione al di fuori dei circuiti di mercato cfr. J. Boyle, The Public Domain: Enclosing the Commons of the Mind, Yale University Press, New Haven, CT, 2008.

[16] In una prospettiva più ampia, cfr. U. Mattei, La proprietà, cit., pp. 272 ss.