Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Breve ricognizione giurisprudenziale e dottrinale sulle eccezioni dilatorie (eccezione di inadempimento; mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti; clausola solve et repete) (di Giuseppe De Falco)


Il saggio intende offrire una panoramica dell’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale degli ultimi decenni circa i rimedi contrattuali che il codice civile italiano offre nei casi di inadempimento o di pericolo di perdere la controprestazione per mutamenti di carattere patrimoniale sopravvenuti rispetto alla conclusione del contratto.

Overview of the case law and legal theory trends on contractual remedies available in the event of contractual breaches, anticipatory breaches or deterioration of a party creditworthiness

The essay aims at providing an overview of the case law and legal theory trends of the most recent decades regarding the contractual remedies provided for by the Italian civil code in the event of contractual breaches, anticipatory breaches or deterioration of a party creditworthiness occurred after entering into the contract and which might hinder the innocent party right to obtain the performance of the obligation set forth in the contract.   

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Giuseppe De Falco - Breve ricognizione giurisprudenziale e dottrinale sulle eccezioni dilatorie (eccezione di inadempimento; mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti; clausola solve et repete)

SOMMARIO:

A) Eccezione d’inadempimento. - 1. Origine storica dell’eccezione di inadempimento. - 2. Natura e funzione dell’exceptio inadimpleti contractus. - 3. Presupposti. a) Corrispettività e interdipendenza. - 4. b) Corrispettività e ambito di applicazione. - 5. c) Inadempimento. - 6. L’ordine cronologico delle prestazioni. - 7. Buona fede ed eccezione d’inadempimento. - 8. Onere della prova. - 9. Modificazioni soggettive del rapporto obbligatorio ed eccezione d’inadempimento. - B) Mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti. - 1. Elementi comuni propri delle eccezioni dilatorie di cui agli articoli 1460 c.c. e 1461 c.c. - 2. Mutamento in peius delle condizioni patrimoniali dell’altro contraente. - 3. Buona fede. - 4. La giurisprudenza in tema di obbligo a contrarre del monopolista e l’articolo 1461 c.c. - C) Solve et repete. - 1. Natura e funzione della clausola “solve et repete”. - 2. Ambito di applicazione. - 3. Sospensione della condanna e “gravi motivi”.


A) Eccezione d’inadempimento. - 1. Origine storica dell’eccezione di inadempimento.

È comune l'affermazione sia nei contributi che tangenzialmente si occupano della genesi dell'istituto[1] sia in trattazioni di impianto precipuamente storico[2] che l'eccezione di inadempimento come strumento di difesa generale del contraente fedele nei contratti sinallagmatici è conquista relativamente recente. Inizialmente, la giurisprudenza pretorile romana considera - nell'effettuazione di una valutazione di buona fede del comportamento delle parti di una "emptio-venditio" - l'eventuale inadempimento di uno dei due soggetti sino a riconoscere specifiche forme di legittima reazione a tutela del proprio interesse. In particolare, al venditore è consentito di trattenere (quasi pignus o pignoris loco) presso di sé la cosa compravenduta sino all'avvenuto pagamento del prezzo[3] e al compratore di non pagare se non in presenza di traditio della cosa compravenduta[4]. Trattasi peraltro di casi in cui la debolezza dell'elaborazione teorica dell'istituto, tardivamente espresso attraverso la nota formula "exceptio inadimpleti contractus"[5], è da collegarsi alla timida ed incerta nozione di sinallagma in abito romanistico[6] e quindi dell'assoluta carenza di nozioni o modelli generali di contratto o negozio che troveranno solo successivamente più rigorosa classificazione allorché le riflessione pandettistiche astrattizzanti e categorizzanti daranno sistemazione all'ermeneutica canonistica e giusnaturalistica.[7] Lo sviluppo della nozione di sinallagma tuttavia non si è mostrato capace di per sé e da solo di superare la difficoltà di contemperare la (apparente) dicotomia tra il principio di consensualità e l'esigenza di tutelare il contraente fedele. L'eccezione di inadempimento realizza, attraverso la sospensione temporanea del vincolo (eccezione dilatoria), una sorta di congelamento o cristallizzazione del rapporto contrattuale sinallagmatico funzionale ad un'economia di mezzi probatoria e processuale[8] [9]. E' così che nel codice civile italiano del 1865 non esiste una norma espressa di tenore generale ma solo norme particolari, spesso legate all'ambito specifico di origine storica del rimedio (esemplare in questo senso l'articolo 1469 del codice civile del 1865 in tema di compravendita ma anche l'articolo 1510 dello stesso codice, sempre in tema di compravendita) estese poi nell'applicazione giurisprudenziale e nell'interpretazione della letteratura giuridica corrente [continua ..]


2. Natura e funzione dell’exceptio inadimpleti contractus.

Prevale in dottrina la convinzione secondo cui l'exceptio in questione costituisca un rimedio annoverabile fra gli strumenti di autotutela[1] e sia definibile come un'eccezione in senso proprio[2]. La giurisprudenza, meno interessata alla disputa precipuamente teorica se il rimedio in esame sia configurabile tra gli strumenti di autotutela, che pure è la ricostruzione prevalente dell'istituto, senz'altro e incontrastatamente tende a ricondurre l'articolo 1460 c.c. tra le eccezioni in senso proprio[3]. La propensione della dottrina e giurisprudenza dominanti a considerare l'eccezione di inadempimento come strumento di autotutela, relega oggi in secondo piano le diverse opinioni, espresse soprattutto in passato, secondo cui l'eccezione di inadempimento paralizza l'azione della parte inadempiente facendo valere un limite della stessa, quasi che il diritto del creditore-debitore sia condizionato al proprio adempimento ovvero sorga solo con l'adempimento del proprio obbligo o, più articolatamente e sottilmente, sia del tutto privo di tutela in quanto la pretesa della controprestazione sarebbe illegittima in mancanza di un proprio adempimento[4]. Similmente sono recessive o del tutto minoritarie le opinioni che attribuiscono al rimedio ex articolo 1460 c.c. la limitata funzione di riequilibrare prestazioni corrispettive solo se reciproche e simultanee (mano contro mano)[5]. Secondo Realmonte[6] l'exceptio inadimpleti contractus costituisce "una causa di giustificazione dell'inadempimento al pari dell'impossibilità sopravvenuta, nel senso che non escluda soltanto la colpevolezza del fatto, ma la sua stessa antigiuridicità." Ne consegue, secondo questa tesi, che l'eccipiente non è liberato dalla propria obbligazione né è tenuto al pagamento di interessi moratori ma può essere definitivamente liberato allorché sopravvenga l'impossibilità della prestazione propria o della controparte con applicazione diretta[7] o analogica dell'articolo 1256 c.c. Per altra via, la tesi che attribuisce valore di diritto potestativo al potere di rifiuto del contraente fedele (normalmente tenuto per secondo) pure nega, necessariamente, antigiuridicità al comportamento dell'eccipiente poiché diversamente opinando si giungerebbe alla conclusione che l'eccipiente che abbia correttamente esercitato il potere di cui all'articolo 1460 c.c. si troverebbe esposto ad obblighi risarcitori sotto specie di [continua ..]


3. Presupposti. a) Corrispettività e interdipendenza.

L'inquadramento dell'istituto dell'eccezione d'inadempimento nel contesto e in funzione dello sviluppo dell'idea di sinallagmaticità crea un legame di corrispondenza biunivoca tra l'individuazione dei contratti a prestazioni corrispettive e l'eccezione di inadempimento[1]. La giurisprudenza[2] mantiene da tempo ferma la statuizione secondo cui non è sufficiente a ritenere esistente un contratto a prestazioni corrispettive la circostanza che le obbligazioni reciproche delle parti[3] derivino da un medesimo contratto[4] qualora non sia individuabile un nesso sinallagmatico ossia "di corrispettività e interdipendenza tra prestazioni ineseguite e prestazioni rifiutate"[5]. Una scriminante, dunque, quella della corrispettività, che ha non solo la finalità di definire il campo di applicazione della tutela di cui all'articolo 1460 c.c. ma anche quella di selezionare, nella congerie di obblighi che fanno capo a ciascuna delle parti di un contratto, quelle prestazioni che si pongono in reciproco rapporto funzionale tale da realizzare o concorrere a realizzare congiuntamente il programma contrattuale frutto dell'assetto che la parti hanno dato ai propri interessi trasfusi in contratto. È pacificamente riconosciuto che la nozione di corrispettività coinvolge le prestazioni essenziali di un contratto a prestazioni corrispettive senza le quali lo stesso valore di scambio, in senso giuridico, verrebbe meno. Appare evidente che il pagamento del canone si ponga come corrispettivo del godimento del bene immobile nel contratto di locazione o che nel contratto di compravendita, il prezzo rappresenti il corrispettivo del trasferimento della proprietà della cosa compravenduta. Tuttavia è pur vero che la varietà di situazioni concrete che si pone all'attenzione dell'interprete è normalmente più complessa ed intrecciata e che una nozione letterale e restrittiva di corrispettività rischia di frustrare l'utile impiego dell'eccezione di inadempimento in situazioni in cui pure essa realizza correttamente il suo scopo. Così nel caso, esemplificativamente, degli obblighi restitutori e di quelli accessori che, pure se collocati fuori dalla visuale ristretta della corrispettività, tuttavia necessitano di una tutela, quella della risoluzione per inadempimento, dell'eccezione d'inadempimento e della sospensione dell'adempimento ovvero del complesso degli strumenti giuridici [continua ..]


4. b) Corrispettività e ambito di applicazione.

La delimitazione dell'incipit di cui al primo comma dell'articolo 1460 c.c. ("nei contratti con prestazioni corrispettive...") genera incertezze anche in ordine a talune figure contrattuali di più difficile e complesso inquadramento in cui, pur essendovi uno scambio, pare di ardua individuazione un vero e proprio vincolo sinallagmatico. E' normalmente escluso in giurisprudenza che tra questi contratti, cui il rimedio qui analizzato si applicherebbe, possa essere ricompreso il contratto plurilaterale con comunione di scopo[1] nella misura in cui tra il socio e la società intercorra il solo rapporto associativo mentre più articolata è la  natura dei rapporti tra socio e società nelle società cooperative, ad esempio nelle cooperative edilizie in cui uno specifico rapporto di scambio tra socio e cooperativa, cui è applicabile la natura di contratto a prestazione corrispettiva, può affiancarsi a quello sociale[2] ovvero ancora può ad esso sostituirsi quando i soci abbiano definitivamente sciolto il loro vincolo sociale[3].  La dottrina si mostra più aperta alla possibilità di impiegare il rimedio come strumento alternativo e meno radicale del recesso o dell'esclusione[4]. È affermazione diffusa in giurisprudenza che l'eccezione di inadempimento non trovi applicazione ai contratti associativi agrari (colonia, mezzadria)[5]. Il difetto di corrispettività è considerato ostativo anche all'esperibilità del rimedio di cui all'articolo 1460 c.c. da parte dei condomini nell'ambito di un rapporto di condominio[6] poiché, l'obbligo di corrispondere gli oneri condominiali è funzione del diritto di comproprietà (articolo 1123, co. 1, c.c.) ossia della necessaria condivisione degli oneri che ineriscono alla gestione e conservazione della comune proprietà e non un elemento del rapporto dialettico inerente al contratto sinallagmatico. Similmente, nei rapporti di natura reale come tra soggetti, ad esempio, proprietari di suoli confinanti, la Corte di Cassazione ha affermato che: "Il principio "inadimplenti non est adimplendum" (art. 1460 c.c.) non è applicabile ai rapporti tra proprietari confinanti poiché tali rapporti hanno natura reale, sono indipendenti l'uno dall'altro ed attribuiscono a ciascuno di essi il reciproco diritto di pretendere l'osservanza delle distanze legali". Tuttavia, le ricordate affermazioni [continua ..]


5. c) Inadempimento.

La proposizione del rimedio di cui all'articolo 1460 c.c. presuppone un inadempimento[1] che è fatto costitutivo del diritto potestativo del creditore della prestazione - in rapporto di corrispettività con quella non eseguita - di rifiutare il proprio adempimento quando richiesto[2]. E' considerato sufficiente ai fini dell'opponibilità dell'eccezione di inadempimento, salvo, in ogni caso, il controllo di buona fede, un qualsiasi inadempimento, totale o parziale, un adempimento inesatto o un ritardo nell'adempimento ed anche un inadempimento non imputabile[3] per il quale il contraente rispettoso, la controparte non soddisfatta, qualunque sia il motivo della mancata ricezione della prestazione, non può dover comunque diminuire il proprio patrimonio in presenza di un'alterazione obiettiva dell'equilibrio contrattuale. Anche in giurisprudenza, l'opinione avversa, secondo cui l'inadempimento che legittima la proposizione dell'eccezione deve essere imputabile, è ormai da considerarsi superata. Infatti, intuitive considerazioni di ordine equitativo hanno agevolmente prevalso su rigorose considerazioni sistematiche o su tradizionali interpretazioni dottrinali come in Cass. civ., 19 ottobre 2007, in Mass. Giur. It., 2007: "L'esercizio dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. che trova applicazione anche in riferimento ai contratti ad esecuzione continuata o periodica, nonché in presenza di contratti collegati, prescinde dalla responsabilità della controparte, in quanto è meritevole di tutela l'interesse della parte a non eseguire la propria prestazione in assenza della controprestazione e ciò per evitare di trovarsi in una situazione di diseguaglianza rispetto alla controparte medesima, sicché, detta eccezione può essere fatta valere anche nel caso in cui il mancato adempimento dipende dalla sopravvenuta relativa impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore". Nel caso specifico, esaminato dalla Suprema Corte nella sentenza appena citata, il sequestro penale di un deposito aveva temporaneamente impedito (fino alla revoca del medesimo, intervenuta successivamente) una promessa fornitura di carbone, legittimando il soggetto tenuto al pagamento a sospenderne l'effettuazione. In proposito si segnala anche il costante orientamento della giurisprudenza che ritiene opponibile l'eccezione d'inadempimento in sede di stipula di un contratto definitivo di [continua ..]


6. L’ordine cronologico delle prestazioni.

La circostanza per cui l'inadempimento contrattuale di una parte costituisce presupposto dell'esercizio dell'eccezione d'inadempimento presuppone, a sua volta, che tra le prestazioni vi debba essere contemporaneità o simultaneità oppure uno iato cronologico che renda possibile la dinamica contrapposta di inadempimento ed eccezione in cui il soggetto tenuto per secondo, per necessità logica in quanto cronologica, possa opporre il rifiuto quando il termine per l'adempimento a carico del primo sia trascorso senza che abbia ricevuto la prestazione o che l'obbligazione sia stata esattamente adempiuta. Facendo leva sul dato letterale dell'articolo 1460 c.c.[1], si è sostenuta l'opinione secondo cui l'eccezione d'inadempimento ha come necessario campo di applicazione i casi in cui le prestazioni debbano essere simultanee poiché il soggetto che fosse tenuto per secondo, al fine di paralizzare qualsiasi pretesa di adempimento proveniente dalla controparte, potrebbe opporre l'inesigibilità della prestazione medesima, una difesa peraltro anche superflua, in quanto già il giudice dovrebbe, nel considerare le condizioni dell'azione, cogliere l'elemento ostativo all'accoglimento della domanda consistente nell'inadempimento dell'attore[2]. La giurisprudenza unanime e la dottrina sono, però, a dispetto della rigorosa lettura sopra citata, largamente favorevoli al riconoscimento dell'eccezione d'inadempimento anche nei casi in cui vi sia una scissione cronologica nella fase esecutiva del contratto[3] arrivando le decisioni dei giudici a considerare l'eccezione d’inadempimento espressione di un principio generale di autotutela. La norma non può che concedere alla parte tenuta per seconda la possibilità di avvalersi dell'eccezione d'inadempimento[4] poiché, al fine di reagire ad un inadempimento, bisogna pure che questo avesse modo di manifestarsi. La regola, però, può soffrire eccezioni, individuate dalla dottrina in quattro ipotesi attinenti ai contratti di durata, la prima, alla dichiarazione di non adempiere resa dal soggetto tenuto per secondo, la seconda, al caso di decadenza dal beneficio del termine del contraente tenuto per secondo, la terza, e, infine, "alla certezza o fondata probabilità dell'altrui inadempimento"[5]. Nei contratti di durata, infatti, siano essi ad esecuzione periodica o continuata anche il contraente tenuto per primo potrebbe avvalersi [continua ..]


7. Buona fede ed eccezione d’inadempimento.

Esaminati i presupposti dell'eccezione d'inadempimento, resta da svolgere l'analisi sui limiti estrinseci all'esercizio del potere di rifiuto del contraente fedele giacché, pur in presenza di tutte le condizioni richieste dall'articolo 1460 c.c., l'esercizio dell'eccezione potrebbe considerarsi illegittimo se in violazione del limite della buona fede. È molto discusso cosa debba tuttavia, almeno nel contesto dell'esercizio dell'eccezione d'inadempimento, intendersi per buona fede, posto come assunto che, in ogni caso, di buona fede in senso oggettivo si tratti. L'orientamento prevalente in giurisprudenza tende a far coincidere la buona fede dell'esercizio dell'eccezione con la gravità dell'inadempimento cui reagisce per cui dove l'inadempimento che è presupposto dell'exceptio inadimpleti contractus è grave, è in buona fede l'eccipiente mentre qualora l'inadempimento medesimo grave non sia, l'exceptio non è opponibile[1]. A volte alla gravità si aggiunge il vaglio del rispetto della correttezza ex articolo 1175 c.c. imposta alle parti in relazione alla natura del contratto e alle finalità che con questo si perseguono[2]. Nel contesto della pandemia provocata dalla diffusione del coronavirus la giurisprudenza di merito ha ritenuto che gli effetti endemici della propagazione del contagio possa avere effetto lenitivo sulla gravità dell’inadempimento[3]. Difatti, la previsione dell'art. 91 del D.L. n. 18 del 2020 convertito nella L. n. 27 del 2020 secondo cui "il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione ai sensi e per gli effetti degli art. 1218 e 1223 c.c. della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse ritardati o omessi pagamenti" con l’uso della locuzione avverbiale “anche” sembra lasciare teoricamente aperta all’interprete la possibilità di escludere del tutto un simile inadempimento, quale giustificazione della paralisi della controprestazione per effetto dell’articolo 1460 c.c. È doveroso avvertire, tuttavia, che in tal modo si potrebbe assistere a squilibri contrattuali non dissimili ovvero analoghi a quelli che si vedranno a proposito dell’obbligo a contrarre del monopolista (Parte B) 4.).      L'uso dell'eccezione d'inadempimento per paralizzare un inadempimento [continua ..]


8. Onere della prova.

Il panorama giurisprudenziale antecedente l'ormai famoso arresto delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 30 ottobre 2001, n. 13533[1] era composto di due orientamenti in ordine al tema generale del riparto dell'onere della prova ex articolo 2697 c.c. rapportato ai due rimedi che l'articolo 1453 c.c. contempla in ipotesi di inadempimento. Il primo orientamento chiede al creditore di provare l'inadempimento del contratto solo quando è domandata la risoluzione mentre la richiesta di adempimento può essere sorretta dalla sola e semplice statuizione dell'esistenza della fonte dell'obbligo della controparte e, quindi, del diritto del creditore a ricevere la prestazione. L'orientamento avverso, invece, in forza dell'identità dei presupposti delle due azioni (risoluzione e adempimento), entrambe con fonte nel titolo, fonte del diritto azionato, riteneva possibile e doverosa una soluzione omogenea che imponesse al creditore solo di provare l'esistenza del titolo salvo l'onere del debitore, appunto, di dover provare il fatto estintivo eccepito in difesa. Al fine le Sezioni Unite privilegiano il secondo orientamento (definito minoritario) per due ragioni o, se si vuole, nella nomenclatura della Suprema Corte, due principi convergenti, quello di "prossimità della prova" e quello di "persistenza della prova". Il primo, desumibile dall'articolo 2697 c.c., secondo il quale il diritto sorto si presume esistente sin quando non venga data prova di un fatto contrario di natura estintiva così dimostrata la nascita di un diritto di credito, l'inadempimento si presume se l'attore ne faccia allegazione; il secondo principio, quello della "vicinanza o prossimità della prova" tende a gravare dell'onere probatorio il soggetto che debba dare prova di un fatto positivo, piuttosto che di un fatto negativo e il soggetto che in un inevitabile condizione di asimmetria informativa disponga verosimilmente di maggiori mezzi probatori o affronti un minor costo per procurarseli. In questa sede poco interessa e poco è opportuno diffondersi in un'analisi approfondita e dettagliata dell'argomentazione giuridica e logica trasfusa dalle Sezioni Unite nella decisione citata se non per intendere quali conclusioni essa ne tragga in materia di eccezione d'inadempimento e di onere della prova a carico dell'eccipiente, trascrivendo direttamente i passi salienti, in merito, dell'arresto: "Eguale criterio di riparto dell'onere della prova [continua ..]


9. Modificazioni soggettive del rapporto obbligatorio ed eccezione d’inadempimento.

A mo’ di completamento dell’illustrazione della tematica dell’eccezione d’inadempimento è utile far cenno al tema della legittimazione alla proposizione dell’eccezione nelle ipotesi in cui si verifichi un mutamento soggettivo del rapporto obbligatorio, dal lato attivo o passivo. Il campo delle modificazioni soggettive del lato attivo, escludendo i casi di novazione soggettiva, comprende essenzialmente la cessione dei crediti (articoli 1260 e ss.). È discusso infatti se e quali eccezioni possa proporre il debitore ceduto nei confronti del cessionario del credito poiché, a differenza di quanto espressamente statuito in sede di modificazioni soggettive dal lato passivo[1], manca, in questo caso una specifica disciplina. In linea generale, il principio accolto in giurisprudenza è che il rapporto tra cedente e ceduto non può considerarsi dal momento della cessione e perciò stesso come travolto e il ceduto ha dunque facoltà di tutelarsi anche nei confronti del cessionario qualora avesse avuto ragione di opporre eccezioni nei confronti del cedente[2]. Dunque, non solo le eccezioni che attengono alla fonte del credito (nullità, annullabilità) o quelle attinenti alle forme di circolazione del credito ma anche quelle attinenti allo sviluppo e alla dimensione esecutiva del rapporto sinallagmatico (se tale rapporto sia sussistente nel caso concreto), a fatti estintivi o modificativi del rapporto obbligatorio e, potrebbe ben dirsi a fortiori, le eccezioni legittimanti la sospensione dell’esecuzione della prestazione, si ritengono comprese nella concreta e definita applicazione del principio[3]. Ne consegue che il debitore ceduto potrà opporre al cessionario l’eccezione d’inadempimento o di inesatto adempimento sempre che l’eccezione abbia ad oggetto circostanze anteriori all’intervenuta accettazione, notifica o, in mancanza di accettazione o notifica, anche in caso di conoscenza effettiva da parte del terzo[4]. In tema di espromissione, l’articolo 1272, terzo comma, c.c., prevede che l’espromittente possa opporre al creditore le eccezioni che avrebbe potuto opporgli il debitore originario “se non sono personali a quest’ultimo e non derivino da fatti successivi all’espromissione”. Tralasciando - perché inappropriato da svolgersi in questa sede – l’ampio dibattito sulla natura [continua ..]


B) Mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti. - 1. Elementi comuni propri delle eccezioni dilatorie di cui agli articoli 1460 c.c. e 1461 c.c.

In ragione della partecipazione dell’eccezione di cui all’articolo 1461 c.c. dei caratteri o degli effetti dilatori e quindi della centralità nell’ambito del microsistema degli strumenti dilatori, si afferma che comune ai mezzi di tutela di cui agli artt. 1460 e 1461 c.c. è l'ambito di operatività rappresentato dai contratti con prestazioni corrispettive, condivisa è la natura di eccezione sostanziale o in senso proprio, sempre presente il temperamento che viene, in fase esecutiva, dall'applicazione del parametro di buona fede benché non espressamente richiamato nel testo della norma dell’articolo 1461 c.c. (a differenza di quanto previsto per l'eccezione d'inadempimento), ricorrente in entrambi una funzione di autotutela che offre al debitore che sia al contempo creditore uno strumento, un diritto potestativo con cui paralizzare e cristallizzare una situazione di incertezza, rischio, pericolo per la posizione del creditore-debitore[1]. Gli elementi di consonanza delle due figure di autotutela e il loro compartito fondamento riecheggiano nella giurisprudenza che si spinge ad adoperare il medesimo linguaggio, persino lo stesso brocardo[2] laddove parte della dottrina preferibilmente menziona, quale radice ultima della previsione in oggetto, la clausola "rebus sic stantibus"[3].  Ciò che distingue le due figure è proprio la situazione di pericolo che fronteggiano o, per meglio dire, il fenomeno, l'evento, l'accadimento che cagiona la situazione di pericolo da cui il creditore intende difendersi. Nel caso dell'eccezione d'inadempimento, la situazione di rischio per il creditore è rappresentata concretamente da un pregresso inadempimento mentre nel caso dell'eccezione di cui all'articolo 1461 c.c. si oggettiva nel deterioramento della condizione patrimoniale di uno dei contraenti e, quindi, mentre nel primo caso involge un comportamento, nel secondo un "dato di fatto"[4]. Del tutto difforme è altro orientamento dottrinale che vede nell'eccezione d'insolvenza di cui all'articolo 1461 c.c. non un’espressione del principio "inadimplenti non est adimplendum", non una esplicitazione della clausola rebus sic stantibus, non uno strumento contro il pericolo di perdere o di non conseguire la controprestazione in quanto inadempiuta ma avverso il rischio di non poter conseguire in sede esecutiva, sul patrimonio ormai incapiente del debitore l'equivalente di quanto si [continua ..]


2. Mutamento in peius delle condizioni patrimoniali dell’altro contraente.

È questo il presupposto tipico dell’eccezione di sospensione che consente di distinguerla dall’eccezione d’inadempimento. Tuttavia non vi è molta chiarezza quanto alla esatta individuazione di una nozione concreta del mutamento delle condizioni patrimoniali cui l’articolo 1461 c.c. fa riferimento nella rubrica. Secondo alcuni il peggioramento della situazione economica dell’altro contraente è da intendersi come insolvenza, quella stessa cui si riferisce l’articolo 1186 c.c., disciplina della decadenza dal beneficio del termine ma non quella di cui all’articolo 5 l. fall.[1]. Ad escludere che il rimedio ex articolo 1461 c.c. si riduca ad essere un’inutile superfetazione normativa, il discrimine tra le due nozioni di insolvenza, secondo questa dottrina, assume i contorni di una differenziazione quantitativa, o, meglio, di graduazione sicché l’insolvenza che provoca decadenza è più intensa e pregnante di quella che legittima la sospensione della prestazione[2]. Di contrario avviso sono coloro che, invece, alla radice, assegnano un diverso contenuto alle due nozioni in base a dove sono collocate le relative norme poiché l’insolvenza di cui all’articolo 1461 c.c. sarebbe un tertium genus rispetto alla nozione fallimentare come a quella che giustifica la decadenza[3]. Anche chi sostiene l’identità, diversamente accentuata, del presupposto dell’insolvenza riflessa nei due articoli, conviene con l’orientamento che configura per gli effetti e per la struttura, due strumenti di tutela che differiscono profondamente con un necessario riflesso sulla gravità del deterioramento presupposto[4]. Infatti, l’articolo 1186 c.c., sul piano strutturale, prescinde da un rapporto a prestazioni corrispettive[5] ed è anzi dettato per un rapporto obbligatorio o per il caso dei cd. contratti bilaterali imperfetti. Ma ancora più evidente è la differenza sul piano degli effetti o degli scopi dei due mezzi di tutela. Il meccanismo dell’articolo 1186 c.c. consente l’immediata esigibilità del credito ed è quindi misura “satisfattoria” mentre la sospensione dell’esecuzione ha natura “cautelare”[6]. Ulteriore elemento di differenziazione sul piano effettuale - che retroagisce sulla corretta lettura dei presupposti - è nel carattere irreversibile del [continua ..]


3. Buona fede.

Nonostante che l'articolo 1460 c.c. non richiami la buona fede come condizione di opponibilità o, alternativamente, fattore integrativo o presupposto della fattispecie dell'eccezione di sospensione, non si riscontrano opinioni che contestino l'applicazione di questa clausola generale al rimedio in esame. Alla buona fede suole farsi capo per giustificare una serie di obblighi di comunicazione e di informazione attinenti all'esercizio del potere di sospensione o di fatti estintivi o impeditivi dello stesso. Ad esempio, è sulla buona fede che poggiano le argomentazioni di coloro che pongono a carico del contraente in bonis, che intenda avvalersi del rimedio, di darne comunicazione[1]. La scarsa giurisprudenza sembra, per converso, contraria ad un onere di avviso per l'esercizio del potere di sospensione da parte del contraente in bonis: "La sospensione dell'esecuzione della prestazione contrattuale, nei casi in cui è consentita dall'articolo 1461 c.c., non richiede per la sua validità alcuna previa comunicazione o dichiarazione alla controparte, né è necessario che la relativa decisione sia adottata prima della scadenza del termine previsto per l'adempimento"[2]. Alla buona fede dovrebbero poi ricollegarsi anche gli oneri di comunicazione in caso di miglioramento delle condizioni patrimoniali, sopravvenuto ad un precedente depauperamento o comunque a un mutamento[3]. Si è pure ritenuto che la contrarietà a buona fede sia motivo dell'inopponibilità dell'eccezione di sospensione quando l'inadempimento prospettico sia di scarsa importanza.   [1] Roppo, op. cit., p. 991; Boccalatte, op. cit., p. 36; Tamponi, La risoluzione per inadempimento, in I contratti in generale, (a cura di) Gabrielli, in Tratt. dei Contratti, Rescigno, Torino, 1999; giungono allo stesso risultato, senza evocare espressamente l'obbligo di buona fede, coloro che, come Donisi, Il contratto di assicurazione e l'articolo 1461 c.c., in Dir. e giur., 1967, p. 683, nota 10, correlano l'onere di avvisare il "contraente dissestato" con il diritto di questi di prestare garanzia ma anche Venturelli, Monopolio legale e "mutamento" delle condizioni patrimoniali dei contraenti in Addis, Ricerche sull’eccezione di insicurezza, cit., p. 136. Contra Bigliazzi Geri, op. cit., p. 73, ritiene che non sia possibile dare una soluzione assoluta ed univoca al problema poiché in base allo stesso principio di buona fede, [continua ..]


4. La giurisprudenza in tema di obbligo a contrarre del monopolista e l’articolo 1461 c.c.

Merita un'attenzione particolare, per quanto qui interessa ed omettendo, dunque, gli aspetti di marca prettamente fallimentaristica, la questione dell'applicazione dell'articolo 1461 c.c. ai contratti con prestazioni corrispettive conclusi con il monopolista di diritto che, com'è noto, è tenuto, in forza dell'articolo 2597 c.c. e della propria posizione particolare a contrattare con chiunque ne richieda le prestazioni e, per giunta, rispettando la parità di trattamento[1]. Il tema origina in sede fallimentare al momento in cui il curatore esperisce azione revocatoria ex articolo 67, l. fall., per recuperare i pagamenti ricevuti dal monopolista (in genere fornitore di servizi pubblici essenziali) nell'anno (oggi semestre) precedente la dichiarazione di fallimento. Il monopolista, d'altro canto, quand'anche conoscesse le condizioni patrimoniali dissestate, critiche, persino irreversibili dell'altro contraente, non avrebbe potuto opporsi alla conclusione del contratto in quanto obbligato a contrarre per legge (articolo 2597 c.c.). Sul punto si pronunciano in conflitto tra di esse diverse decisioni della Corte di Cassazione. Alcune pronunce, argomentando che il monopolista è obbligato a contrarre e che non può, nemmeno in fase esecutiva, avvalersi dell'articolo 1461 c.c., ne traggono la conclusione che esso  non possa consapevolmente accettare il rischio dell'insolvenza e, quindi, debba essere esentato dalla revocatoria[2][3]. Altre addivengono alla soluzione opposta, sostenendo che l'obbligo del monopolista concerne solo il momento della contrazione del vincolo contrattuale e non quello dell'esecuzione del contratto per cui non ricorrerebbero gli estremi per una disapplicazione dei rimedi sinallagmatici né dell'esenzione da revocatoria[4]. Quest'ultimo filone casistico non tiene conto né consente al monopolista di rifiutare il pagamento del contraente in decozione e lo condanna a riattivare il servizio. Nel 1998, le Sezioni Unite[5] compongono il contrasto affermando che, nei casi in cui il debitore (fallito) abbia pagato tempestivamente, il rifiuto della prestazione da parte del monopolista non sia possibile perché, ancora una volta, manca la possibilità di una scelta consapevole, ed è inapplicabile l'articolo 1461 c.c. con l'esito di derogare alla revocatoria ex articolo 67, l. fall.; mentre, avvalendosi dell'articolo 1460 c.c., gli sarebbe possibile l'exceptio inadimpleti [continua ..]


C) Solve et repete. - 1. Natura e funzione della clausola “solve et repete”.

L'introduzione dell'attuale articolo 1462 nel codice civile è stata preceduta da un serrato ed intenso dibattito[1]. Ancora sino a poco tempo fa esisteva un vivace confronto dottrinale sulla legittimità ed opportunità di una clausola solve et repete che nel recente passato ha portato persino la Corte Costituzionale a doversi pronunciare sulla compatibilità della previsione normativa di cui all'articolo 1462 c.c. con la carta fondamentale[2]. La posizione più critica e severa nei confronti della clausola ritiene infatti, in buona sostanza, che essa dia ingresso, sotto le formali spoglie dell'autonomia privata, ad uno squilibrio del sinallagma contrattuale, esattamente contrapposto ai rimedi di riequilibrio sinallagmatico sanciti negli articoli che immediatamente precedono (artt. 1460 e 1461 c.c.). Secondo quest'orientamento l'articolo 1462 c.c. è posto a tutela di un solo contraente, quello più forte[3], in grado di imporre contrattualmente la propria volontà all'altro e, intanto può dirsi coerente con l'equilibrio che deve connotare i rapporti contrattuali con prestazioni corrispettive in quanto è temperato dal controllo di cui al comma secondo della medesima disposizione[4]. Diversamente, altri autori[5], danno valenza positiva ad un rimedio teso a bloccare la capacità dilatoria dei rimedi di riequilibrio del contratto, ossia il potenziale abusivo delle eccezioni dilatorie e della domanda di risoluzione formulata nel giudizio promosso per l'adempimento[6]. Con la clausola legittimata dall'articolo 1462 c.c., la parte rinuncia ad avvalersi di un rimedio dilatorio o, per meglio dire, rinuncia temporaneamente o subordinatamente all'adempimento, evitando nelle more dell'accertamento giudiziale il pregiudizio del creditore a cui favore la clausola è disposta[7]. La stessa Corte Costituzionale[8] ha confermato la legittimità del rimedio in quanto espressione di autonomia privata, diretta a prevenire squilibri del sinallagma a danno, spesso, di soggetti che, nella pratica corrente degli affari, hanno provveduto per primi all'adempimento (locatore, venditore, fornitore), contro comportamenti illeciti mascherati dall'uso pretestuoso, defatigatorio, cavilloso di mezzi di autotutela o tutela giudiziaria. Essa ha inoltre considerato la legittimità dell'articolo 1462 c.c. alla luce del controllo giudiziario, comunque assicurato dal secondo comma del medesimo articolo [continua ..]


2. Ambito di applicazione.

Sono espressamente escluse dal novero delle eccezioni paralizzabili dalla clausola ostativa, quelle di nullità, annullabilità e rescissione. L'esclusione delle eccezioni appena citate ha fondamento nel fatto che esse attengono a vizi genetici del contratto, incidenti sulla stessa esistenza del vincolo contrattuale di cui si pretende la tutela in sede processuale[1]. Si ritiene comunemente in dottrina che la clausola non osti alla proposizione di eccezioni estintive, come l'eccezione di pagamento e quelle di novazione, estinzione, compensazione, remissione, confusione, e impossibilità sopravvenuta[2]. Inoltre, si ritiene che il solve sia legittimamente utilizzabile contro la domanda riconvenzionale di risoluzione perciocché, sebbene si tratti di azione e non di eccezione, essa mira a realizzare lo stesso risultato di un'eccezione riconvenzionale, quest'ultima pure temporaneamente sospesa dal solve (v. infra, nota 269)[3] e il medesimo ragionamento dovrebbe trovare applicazione ai casi di azione ed eccezione di risoluzione per impossibilità sopravvenuta. Diversa la soluzione per il caso di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta poiché, a differenza della rescissione per lesione ultra dimidium, la prima non riguarderebbe il momento genetico e la validità del contratto ma il solo squilibrio in fase esecutiva, come dimostrato dalla possibilità della reductio ad equitatem.[4] In generale, dunque, la clausola non opera quando si tratti di eccezioni che non afferiscano all'inadempimento ovvero al rapporto sinallagmatico. Ne consegue che il campo di elezione della clausola in commento è proprio quello stesso in cui operano le eccezioni che essa tipicamente è idonea a differire. l'eccezione di inadempimento e quella di sospensione o di insolvenza di cui all'articolo 1461 c.c.[5] Eppure, non si è mancato di contestare le incongruenze, i pericoli, i paradossi cui condurrebbe l'applicazione del patto in discorso, proprio in caso di mutamento in peius delle condizioni patrimoniali del contraente a favore del quale il detto patto sia previsto. Infatti, di fronte al rischio di perdere la controprestazione, il contraente in bonis dovrebbe pur sempre cedere al solve e prestare quanto previsto nel contratto, salvo conseguire una ripetizione che in questo caso non sarebbe possibile[6]. In giurisprudenza è accolta l'interpretazione restrittiva della clausola secondo cui [continua ..]


3. Sospensione della condanna e “gravi motivi”.