Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Breve ricognizione giurisprudenziale e dottrinale sulle eccezioni dilatorie (eccezione di inadempimento; mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti; clausola solve et repete) (di Giuseppe De Falco)


Il saggio intende offrire una panoramica dell’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale degli ultimi decenni circa i rimedi contrattuali che il codice civile italiano offre nei casi di inadempimento o di pericolo di perdere la controprestazione per mutamenti di carattere patrimoniale sopravvenuti rispetto alla conclusione del contratto.

Overview of the case law and legal theory trends on contractual remedies available in the event of contractual breaches, anticipatory breaches or deterioration of a party creditworthiness

The essay aims at providing an overview of the case law and legal theory trends of the most recent decades regarding the contractual remedies provided for by the Italian civil code in the event of contractual breaches, anticipatory breaches or deterioration of a party creditworthiness occurred after entering into the contract and which might hinder the innocent party right to obtain the performance of the obligation set forth in the contract.   

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Giuseppe De Falco - Breve ricognizione giurisprudenziale e dottrinale sulle eccezioni dilatorie (eccezione di inadempimento; mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti; clausola solve et repete)

SOMMARIO:

A) Eccezione d’inadempimento. - 1. Origine storica dell’eccezione di inadempimento. - 2. Natura e funzione dell’exceptio inadimpleti contractus. - 3. Presupposti. a) Corrispettività e interdipendenza. - 4. b) Corrispettività e ambito di applicazione. - 5. c) Inadempimento. - 6. L’ordine cronologico delle prestazioni. - 7. Buona fede ed eccezione d’inadempimento. - 8. Onere della prova. - 9. Modificazioni soggettive del rapporto obbligatorio ed eccezione d’inadempimento. - B) Mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti. - 1. Elementi comuni propri delle eccezioni dilatorie di cui agli articoli 1460 c.c. e 1461 c.c. - 2. Mutamento in peius delle condizioni patrimoniali dell’altro contraente. - 3. Buona fede. - 4. La giurisprudenza in tema di obbligo a contrarre del monopolista e l’articolo 1461 c.c. - C) Solve et repete. - 1. Natura e funzione della clausola “solve et repete”. - 2. Ambito di applicazione. - 3. Sospensione della condanna e “gravi motivi”.


A) Eccezione d’inadempimento. - 1. Origine storica dell’eccezione di inadempimento.

È comune l'affermazione sia nei contributi che tangenzialmente si occupano della genesi dell'istituto[1] sia in trattazioni di impianto precipuamente storico[2] che l'eccezione di inadempimento come strumento di difesa generale del contraente fedele nei contratti sinallagmatici è conquista relativamente recente.

Inizialmente, la giurisprudenza pretorile romana considera - nell'effettuazione di una valutazione di buona fede del comportamento delle parti di una "emptio-venditio" - l'eventuale inadempimento di uno dei due soggetti sino a riconoscere specifiche forme di legittima reazione a tutela del proprio interesse.

In particolare, al venditore è consentito di trattenere (quasi pignus o pignoris loco) presso di sé la cosa compravenduta sino all'avvenuto pagamento del prezzo[3] e al compratore di non pagare se non in presenza di traditio della cosa compravenduta[4].

Trattasi peraltro di casi in cui la debolezza dell'elaborazione teorica dell'istituto, tardivamente espresso attraverso la nota formula "exceptio inadimpleti contractus"[5], è da collegarsi alla timida ed incerta nozione di sinallagma in abito romanistico[6] e quindi dell'assoluta carenza di nozioni o modelli generali di contratto o negozio che troveranno solo successivamente più rigorosa classificazione allorché le riflessione pandettistiche astrattizzanti e categorizzanti daranno sistemazione all'ermeneutica canonistica e giusnaturalistica.[7]

Lo sviluppo della nozione di sinallagma tuttavia non si è mostrato capace di per sé e da solo di superare la difficoltà di contemperare la (apparente) dicotomia tra il principio di consensualità e l'esigenza di tutelare il contraente fedele. L'eccezione di inadempimento realizza, attraverso la sospensione temporanea del vincolo (eccezione dilatoria), una sorta di congelamento o cristallizzazione del rapporto contrattuale sinallagmatico funzionale ad un'economia di mezzi probatoria e processuale[8] [9].

E' così che nel codice civile italiano del 1865 non esiste una norma espressa di tenore generale ma solo norme particolari, spesso legate all'ambito specifico di origine storica del rimedio (esemplare in questo senso l'articolo 1469 del codice civile del 1865 in tema di compravendita ma anche l'articolo 1510 dello stesso codice, sempre in tema di compravendita) estese poi nell'applicazione giurisprudenziale e nell'interpretazione della letteratura giuridica corrente anteriore al nuovo codice, a norme di comportamento generale valide per tutti i contratti sinallagmatici[10].

Sarà solo il codice civile del 1942 ad enunciare come principio generale l'exceptio inadimpleti contractus e a disciplinare per i contratti in genere le eccezioni di cui agli articoli 1461 c.c. e 1462 c.c. senza per questo sacrificare le specialità di singoli tipi contrattuali (la compravendita e gli articoli 1481 e 1482 c.c., che costituiscono applicazione particolare del principio in esame).

Questo stesso principio appare oggi patrimonio comune delle discipline sovranazionali del contratto[11].

 

[1] Rossetti, in P. Cendon (a cura di) Il diritto privato nella giurisprudenza, I Contratti in generale, Risoluzione - Inadempimento - Impossibilità sopravvenuta - Eccessiva Onerosità, sez. X, L'eccezione di inadempimento - pp. 301 - 371, sez. XI, pp. 301-302; ma con un ricorso maggiormente consapevole all'evoluzione storica della formazione dell'istituto sia in correlazione alla storia delle idee giuridiche sia in un'ottica comparatistica, si vedano i contributi di Vecchi, L'eccezione di inadempimento in Mazzamuto (a cura di), Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo. Torino, 2002, pp. 378 - 389; Addis, Le eccezioni dilatorie, in Trattato del contratto, diretto da Roppo, Milano, 2006, p. 422.  

[2] Fascione, Profili storici dell'eccezione di inadempimento, in Riv. it. dir. lav., 1993, II, p. 704 e ss.;

[3] D.19,1,13,8 (Ulp. XXXII ad Ed.): Offerri pretium ad emptore debet, cum ex empto agitur, et ideo etsi pretii partem offerat, nondum est ex empto actio: venditor quasi pignus retinere potest eam rem quam vendidit.

[4] C. 8, 44, 5 (Antoninus A. Patroinae): Ex praediis, quae mercata es, si aliqua a venditore obligata et necdum tibi tradita sunt, ex empto actione consequeris, ut ea a creditrice liberentur: id enim fiet, si adversus venditorem ex vendito actione pretium petentem doli exceptionem opposueris.

[5] Secondo taluni, Scaduto, L'"exceptio non adimpleti contractus" nel diritto civile italiano, in Ann. Palermo, 8 (1921/22), 79), l'icastica formula latina risalirebbe al giurista Bartolo da Sassoferrato mentre secondo Bianca, Diritto Civile, V, p. 38, sarebbe da attribuirsi ad una decisione del Parlamento di Grenoble del XVI secolo. E' opportuno però aggiungere che l'uso stesso del termine eccezione, come attualmente conosciuto e adoperato, con l'implicito connotato tecnico di difesa processuale o sostanziale del (potenziale) convenuto, postula uno stato di articolazione concettuale del pensiero giuridico occidentale giunto a maturazione nel periodo post-giusnaturalistico e non prima.

[6] Un'introduzione ricca di spunti è contenuta in Brutti, Il diritto privato nell'antica Roma, Torino, 2009, pp. 432 e ss. dove è tracciata l'embrionale configurazione/trasposizione del concetto di sunallagma in ambito giuridico ad opera di Labeone, sulla scorta del primo incontro del mondo romano con la filosofia aristotelica. Il concetto, secondo l'Autore, viene poi ampliato da Aristone sino ad elaborare in nuce gli elementi primigeni di una teoria generale del contratto.

[7] Addis, op. cit., p. 422.

[8] Addis, op. cit., p.418-19.

[9] Non mancano nell'esperienza recente casi giurisprudenziali nei quali l'eccezione di inadempimento, come meglio vedremo successivamente, travalica i limiti del rimedio dilatorio, sospensivo, di manutenzione del rapporto e giunge ad avere effetti di definitività che non gli sarebbero propri sia pure nell'ambito di casi circostanziati di inadempimento definitivo ed irrimediabile. Si veda in proposito, A.M. Benedetti, L'eccezione di inadempimento, in Visintini (diretto da), Trattato della responsabilità contrattuale, vol. Primo, Padova, 2009, pp.625 e ss. Id. La deriva dell'eccezione d'inadempimento: da rimedio sospensivo a rimedio criptorisolutorio? in Danno e resp. 2003, 758 e s., dove si descrive puntualmente e polemicamente la parabola dell'exceptio inadimpleti contractus in direzione di effetti risolutori (o, come più prudentemente si esprime l'autore, "criptorisolutori"). Peraltro, l'opinione secondo cui l'eccezione di inadempimento possa avere effetto risolutivo, date particolari circostanze, era già positivamente ammessa da Realmonte, Eccezione di inadempimento, in Enciclopedia del diritto, vol. XIV, Milano, 1965, p. 235

[10] Opportunamente citato da Addis, op. cit. nota (28) p. 423, presumibilmente per il suo valore inconsapevolmente "profetico" oltre che rappresentativo della communis opinio degli operatori e degli interpreti sotto il codice abrogato, è un passo di Lessona, in Legittimità della massima "inadimplenti non est adimplendum", in Riv. dir. comm. 1918, I, 383, "Vi sono scrittori e specialmente giudicati che applicano il nostro principio senza neppure enunciarne il fondamento: lo applicano come se fosse scritto chiarissimo in un articolo di codice dei più generali".

[11] Si vedano l'articolo 71 della "Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale delle merci", la Section 9:201 dei Principles of European Contract Law e l'articolo 7.1.3 dei "Principi dei Contratti Commerciali Internazionali" elaborati da UNIDROIT. Il riferimento all'articolo 71 della "Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale delle merci" contenuto in (lettera a) dell'articolo 71 della Convenzione Vecchi, Eccezione di inadempimento, in Mazzamuto (a cura di), Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo. Torino, 2002, p. 379, quale riconoscimento dell'eccezione di inadempimento appare quanto meno dubbio o, quantomeno, meritevole di precisazione. Il tenore letterale della norma: "Una parte può sospendere l'adempimento delle sue obbligazioni se, dopo la conclusione del contratto, risulta manifesto che l'altro contraente non adempirà una parte essenziale delle sue obbligazioni in conseguenza di: a) una grave insufficienza nella sua capacità di adempiere o nella sua solvibilità; o b) del modo in cui si prepara a dare esecuzione o esegue il contratto." sembra deporre per una commistione tra ipotesi di pericolo di inadempimento rese manifeste dalla sensibile ridotta solvibilità della controparte e il pericolo di inadempimento reso palese da casi di violazione di obblighi preparatori o dell'obbligo stesso di corretta esecuzione della prestazione (così Carboni, Sospensione dell'esecuzione del contratto, corrispettività delle prestazioni e responsabilità patrimoniale, in Rass. dir. civ., 2003, p. 831, nota 8). Ciò spinge altri autori (De Nictolis, in Leggi civ. comm., 1989, p. 230 e ss.) a considerare come fondamento dell'eccezione di inadempimento nell'ambito della nota Convenzione, il diverso articolo 58 in base al quale il compratore, se non altrimenti previsto, è obbligato a pagare il prezzo "(omissis)...quando, (omissis)...,il venditore mette a sua [del compratore] disposizione i beni o i documenti rappresentativi di essi."  Anche secondo un illustre autore (Bianca, Eccezione d'inadempimento e buona fede, in Realtà sociale ed effettività della norma, Scritti giuridici, Volume secondo, Obbligazioni e contratti Responsabilità, Tomo II, p. 898) l'eccezione di inadempimento non sarebbe espressamente menzionata dalla Convenzione ma deve intendersi legittima ed utilizzabile nei limiti del principio generale ed inderogabile della buona fede. Si vedrà in seguito come un'avanzata interpretazione e una moderna lettura del combinato disposto degli articoli 1460 e 1461 c.c. nonché dell'articolo 71 della Convenzione permette una più consapevole, integrata e completa applicazione dei rimedi dilatori, l'eccezione di inadempimento e l'eccezione di cui all'articolo 1461 c.c., combinandoli in una superiore e unitaria disciplina (Addis, Le eccezioni dilatorie, cit. p.425).


2. Natura e funzione dell’exceptio inadimpleti contractus.

Prevale in dottrina la convinzione secondo cui l'exceptio in questione costituisca un rimedio annoverabile fra gli strumenti di autotutela[1] e sia definibile come un'eccezione in senso proprio[2]. La giurisprudenza, meno interessata alla disputa precipuamente teorica se il rimedio in esame sia configurabile tra gli strumenti di autotutela, che pure è la ricostruzione prevalente dell'istituto, senz'altro e incontrastatamente tende a ricondurre l'articolo 1460 c.c. tra le eccezioni in senso proprio[3].

La propensione della dottrina e giurisprudenza dominanti a considerare l'eccezione di inadempimento come strumento di autotutela, relega oggi in secondo piano le diverse opinioni, espresse soprattutto in passato, secondo cui l'eccezione di inadempimento paralizza l'azione della parte inadempiente facendo valere un limite della stessa, quasi che il diritto del creditore-debitore sia condizionato al proprio adempimento ovvero sorga solo con l'adempimento del proprio obbligo o, più articolatamente e sottilmente, sia del tutto privo di tutela in quanto la pretesa della controprestazione sarebbe illegittima in mancanza di un proprio adempimento[4].

Similmente sono recessive o del tutto minoritarie le opinioni che attribuiscono al rimedio ex articolo 1460 c.c. la limitata funzione di riequilibrare prestazioni corrispettive solo se reciproche e simultanee (mano contro mano)[5].

Secondo Realmonte[6] l'exceptio inadimpleti contractus costituisce "una causa di giustificazione dell'inadempimento al pari dell'impossibilità sopravvenuta, nel senso che non escluda soltanto la colpevolezza del fatto, ma la sua stessa antigiuridicità." Ne consegue, secondo questa tesi, che l'eccipiente non è liberato dalla propria obbligazione né è tenuto al pagamento di interessi moratori ma può essere definitivamente liberato allorché sopravvenga l'impossibilità della prestazione propria o della controparte con applicazione diretta[7] o analogica dell'articolo 1256 c.c.

Per altra via, la tesi che attribuisce valore di diritto potestativo al potere di rifiuto del contraente fedele (normalmente tenuto per secondo) pure nega, necessariamente, antigiuridicità al comportamento dell'eccipiente poiché diversamente opinando si giungerebbe alla conclusione che l'eccipiente che abbia correttamente esercitato il potere di cui all'articolo 1460 c.c. si troverebbe esposto ad obblighi risarcitori sotto specie di pagamento di interessi moratori e impedito nella richiesta di rimedi risolutori o di adempimento coattivo[8].

Sebbene la giurisprudenza non vada al di là di una mera enunciazione di principio nel configurare l'eccezione di inadempimento come strumento di autotutela, lo stesso non può dirsi per la dottrina per la quale dall'inquadramento sistematico e concettuale dell'eccezione in parola tra gli strumenti di autotutela, discende la natura eccezionale del rimedio così ancorata alle ipotesi strettamente considerate dalla norma[9].

Una dottrina recente[10] ha invece negato, sulla scorta dell'evoluzione storico-dogmatica delle eccezioni dilatorie nonché sulla base delle risultanze dello sviluppo del processo normativo internazionale e dell'analisi comparatistica, che le eccezioni dilatorie rappresentino una deroga al principio generale della tutela giurisdizionale dei diritti[11] ma, semmai, che configurino esse stesse un principio generale nell'ambito dei rapporti sinallagmatici in guisa che sia la categoria dei contratti a prestazioni corrispettive concretamente individuata e non le ristrette maglie dell'autotutela a determinare il raggio d'azione del principio di tutela dilatoria. È verosimile, come sostenuto da più parti, che l'accostamento tra diritto di ritenzione ed eccezione di inadempimento, in virtù della comune origine dal ceppo dell'autotutela privata di romanistica memoria[12] abbia giocato a sfavore dell'eccezione di inadempimento, accostata così ad uno strumento di autotutela maggiormente caratterizzato da connotati di eccezionalità e tassatività[13] [14] da cui in realtà si differenzia in maniera pronunciata[15].  

La giurisprudenza, come già visto, pare in ogni caso ricondurre la facoltà di cui all'articolo 1460 c.c. all'eccezione ossia allo strumento di tutela dei diritti che, come indicato nell'articolo 2697 c.c., consiste nella facoltà di introdurre fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto dedotto in giudizio e, più in particolare, all'eccezione in senso stretto.

La distinzione tra eccezione in senso lato ed eccezione in senso stretto è fatta in ragione della rilevabilità d'ufficio delle stesse da parte del giudice, senz'altro possibile per le prime ed esclusa per le seconde.

La differenza non è solo nominalistica né ristretta alla sola circostanza della rilevabilità in quanto sempre più l'ordinamento ricorre a questa summa divisio in funzione della creazione di barriere processuali. Ha fatto da battistrada l'articolo 416 c.p.c., nel rito del lavoro, che impone al convenuto di proporre nella memoria difensiva, a pena di decadenza, "le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio". L'attuale articolo 167 c.p.c. contiene una norma analoga con riferimento al rito ordinario e un divieto di riproporre eccezioni in senso stretto in sede di appello è sancito dall'articolo 345, secondo comma, c.p.c. Una contrapposizione che non sembra risolvibile nella pura bipartizione tra eccezione in senso sostanziale[16] e in senso processuale[17] che, tutt'al più consente di decidere se l'eccezione, in quanto sostanziale e non meramente processuale, possa essere proposta in sede stragiudiziale[18].

Tuttavia, l'intervento delle Sez. Unite n. 1099/98[19], ha visibilmente accorciato la distanza e la rigorosa separazione posta dalla normativa processuale tra le due categorie di eccezione fondate sulla rilevabilità di ufficio in quanto ha tracciato una differenziazione tra il potere di allegazione della parte e il potere di rilevazione del giudice, il primo da esercitarsi entro i limiti temporali fissati dalla normativa processuale, il secondo esercitabile dal giudice in qualsiasi tempo se i fatti accertati dal processo consentono un accertamento della realtà concreta ulteriore ma più fedele di quello risultante dal formalismo processualistico. Il potere di rilevazione del giudice, sulla base degli atti di causa, del comportamento processuale delle parti e di quanto da esse allegato (non necessariamente dal solo convenuto) consentirà di non dare tutela a diritti non esistenti, estinti, mai sorti o sospesi ossia di avvicinare "la realtà accertata nel processo e il contenuto dell'accertamento giudiziale"[20].

In questo senso si esprime anche la prevalente giurisprudenza (di legittimità e di merito) in tema di rilevazione e proposizione dell'eccezione di inadempimento come, ad esempio, Cass. civ., 5 agosto 2002, n. 11728[21]: "L'exceptio inadimpleti contractus, di cui all'art. 1460 c.c., costituisce un'eccezione in senso proprio, rimessa pertanto alla disponibilità e all'iniziativa del convenuto, senza che il giudice abbia il dovere di esaminarla d'ufficio. Tuttavia, essa, al pari di ogni eccezione, non richiede l'adozione di forme speciali o formule sacramentali, essendo sufficiente che la volontà della parte di sollevarla (onde paralizzare l'avversa domanda di adempimento) sia desumibile, in modo non equivoco, dall'insieme delle sue difese e, più in generale, dalla sua condotta processuale, secondo un'interpretazione del giudice del merito che, se ancorata a corretti canoni di ermeneutica processuale, non è censurabile in sede di legittimità. ".

[22] La questione trova più completa e definita trattazione nell'ambito della disciplina dei profili probatori dell'eccezione di inadempimento e, in generale, della prova della risoluzione e dell'adempimento ma, preliminarmente si è ritenuto opportuno partire dal dato giurisprudenziale acquisito secondo cui il rimedio di cui all'articolo 1460 c.c. è da considerarsi eccezione, in senso proprio e in senso stretto. Naturalmente, la proposizione dell'eccezione d'inadempimento in via giudiziale o stragiudiziale non preclude, in seguito, all'eccipiente di richiedere la risoluzione o l'adempimento, anche in forma specifica[23].

In ordine alla funzione dell'eccezione di inadempimento, normalmente in dottrina, sono riscontrabili tre orientamenti.

Il primo e più accreditato orientamento[24] sostiene che l'eccezione d'inadempimento ha la finalità di garantire ed assicurare il rispetto dell'equilibrio sinallagmatico[25]

Una seconda opinione[26], largamente condivisa in passato[27], con rare conferme giurisprudenziali[28], proprio in considerazione della natura conservativa dell'eccezione di inadempimento tende a riconnettere all'exceptio inadimpleti contractus lo scopo di esercitare un'efficace "coazione psicologica"[29] indiretta sul contraente inadempiente ai fini del conseguimento dell'adempimento. In tal senso, l'eccezione di inadempimento deve intendersi, secondo questa tesi, preferibilmente diretta a conseguire l'adempimento anziché la risoluzione del contratto benché nulla escluda la possibilità, attraverso l'exceptio in parola, di preparare la risoluzione del contratto.

Inoltre, ad avviso di chi se ne è fatto sostenitore, l'attribuzione all'exceptio inadimpleti contractus della funzione di stimolo psicologico indiretto all'adempimento, avrebbe anche lo scopo pratico di assicurare la validità della clausola con la quale le parti dovessero qualificare qualsiasi inadempimento, indipendentemente dall'applicazione concreta del canone di buona fede, come ragion sufficiente della proponibilità dell'eccezione d'inadempimento[30].

Infine, una terza teoria che oggi non ha alcuna eco nelle pronunce dei giudici individua la funzione dell'eccezione di inadempimento in una garanzia del contraente fedele, per alcuni garanzia per il conseguimento della controprestazione, per altri garanzia della ripetibilità della propria prestazione, altrimenti perduta[31].

 

[1] In tal senso si esprime la giurisprudenza sia pure senza approfondita motivazione sull'inquadramento della nozione giuridica di autotutela, così Cass. civ. sez. unite, 20 dicembre 2006, n. 27170, in Mass. Giur. It., 2006, che ha ritenuto l'autotutela della Pubblica Amministrazione attraverso l'utilizzo di strumenti autoritativi incidenti su contratti di diritto privato, come strumento eccezionale di applicazione tassativamente limitata ai casi previsti dalla legge laddove, al di fuori di dette ipotesi limitate, il più generale ricorso all'autotutela privata da parte della P.A., nella specie all'eccezione di cui all'articolo 1460 c.c., è soggetto ai limiti e alle condizioni applicabili a qualsiasi soggetto privato; Cass. civ., sez. lavoro, 3 maggio 2004, n. 8364, in Riv. Critica dir. lav., 2004, 637, con nota di Bulgarini D'Elci, secondo cui l'esercizio dell'eccezione di cui all'articolo 1460 c.c., è espressione dell'autotutela del lavoratore nell'ambito del rapporto di lavoro. Analogamente, l'eccezione di inadempimento è qualificata come "mezzo di autotutela" da Cass. civ. sez. II, 11 novembre 1992, n. 12121, in Mass. Giur. It., 1992 o formulazione espressa del principio stesso di autotutela, Cass. civ., 19 dicembre 2003, n. 19556, in Corriere Giur. 2004, 2, 161. Addirittura in un caso, Trib. Bari, 3 gennaio 2007, il giudice pugliese procedendo ad una vera e propria ma anche non corretta inversione dei termini della questione ha ritenuto che "Secondo la giurisprudenza di legittimità il diritto di ritenzione trova fondamento nel generale principio di autotutela stabilito dall'articolo 1460 c.c., per effetto del quale nei contratti a prestazioni corrispettive, ciascun contraente può rifiutare la sua obbligazione (sic!), se l'altro non adempie contemporaneamente la propria (Cass. n. 271/1998 in materia di contratto d'opera; Cass. n. 8235 e n. 2738/1982, in materia di appalto)". Nel caso specifico si trattava del rifiuto di un'autorimessa alla riconsegna di un veicolo ad un cliente che opponeva il rifiuto di pagare i servizi di riparazione ricevuti). Di autotutela parla anche il Lodo del Coll. Arbitrale 16 luglio 1984 in Arch. Giur. oo. pp. 1985, 916.

[2] In questo senso può dirsi paradigmatica la posizione di Bigliazzi Geri, Risoluzione per inadempimento, II, p.1, in Commentario Scialoja-Branca, (Art. 1460-1462) Bologna – Roma, 1988, p.1.

[3] Valga per tutte quanto sancito da Cass. civ., 5 agosto 2002, n. 11728, in Mass. Giur, It., 2002 e Contratti, 2003, I, 38, che, con formula abitualmente ripetuta dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, afferma: "L'exceptio inadimpleti contractus, di cui all'articolo 1460 c.c., costituisce un'eccezione in senso proprio, rimessa pertanto alla disponibilità ed all'iniziativa del convenuto, senza che il giudice abbia il dovere di esaminarla d'ufficio."

[4] Sacco, Le eccezioni dilatorie, in Sacco e De Nova, Il Contratto, I, 1993, 644.

[5] Grasso, Inadempimenti simultanei e rimedi sinallagmatici, in Saggi sull'eccezione di inadempimento e la risoluzione del contratto, Napoli, 1993, p. 68:"...soltanto in presenza del cd. "adempimento mano contro mano" in senso proprio (e, perciò, degli inadempimenti simultanei e reciproci) al quale peraltro esplicitamente si riferisce la stessa norma in esame, si pone invece il problema di proteggere, con lo specifico rimedio in parola, una parte di fronte alla pretesa dell'altra, al fine di non eseguire la sua prestazione senza contemporaneamente conseguire - appunto secondo siffatta modalità cronologica di attuazione programmata nel contratto - la controprestazione alla quale ha diritto"; Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, p.1025. Secondo Grasso, la cui ricostruzione, rigorosa dal punto di vista teorico-formale, risente di alcuni limiti applicativi che non ne hanno decretato il successo in sede giurisprudenziale, la proposizione dell'eccezione di inadempimento estingue il diritto della controparte di chiedere l'adempimento da parte dell'excipiens, a sua volta e necessariamente inadempiente. L'autore considera difatti l'articolo 1460 c.c., in forza della sua lettera, applicabile alla sola ipotesi di domanda di adempimento da parte del contraente inadempiente non eccipiente giacché, nella diversa ipotesi in cui il contraente inadempiente non eccipiente domandasse la risoluzione del contratto, mancherebbero le condizioni stesse dell'azione di risoluzione, rilevabili d'ufficio dal giudice.

[6] Realmonte, op. cit. 234-5.

[7] Persico, L'eccezione d'inadempimento, Milano, 1955, p. 227;

[8] Grasso, Eccezione di inadempimento e risoluzione, (Profili generali), Napoli, 1973, pag. 82 e ss.; 132 e ss.

[9] Rappazzo, L'autotutela della parte nel contratto, Padova, 1999, p. 52 secondo cui l'eccezione di inadempimento è ammissibile solo ed esclusivamente nei caso di contratti a prestazioni corrispettive con assoluto divieto di applicazione analogica a casi differenti; Bigliazzi Geri,  Profili sistematici dell'autotutela privata, I, Introduzione, Milano, 1971, passim che contiene l'enucleazione della teoria dell'eccezione di inadempimento come potere privato (diritto potestativo) di incidere sull'attuazione del rapporto obbligatorio leso dal comportamento illegittimo della controparte e, perciò stesso, un caso eccezionale di deroga al principio della somministrazione ordinamentale dei rimedi giuridici.

[10] Addis, Le eccezioni dilatorie, cit., pp. 435-437.

[11] L'articolo 2907 c.c. può dirsi espressione centrale di questo principio a livello codicistico.

[12] v. supra note 3 e 4; passi del Digesto citati anche da Vecchi, op. cit., p. 391 (nota 50) e 392;

[13] Cass. 15 novembre 1984, n. 5828, in Mass. Giur. It., 1984, 1181;

[14] Secondo Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell'autotutela privata, II, cit. 192, proprio il timore di un simile accostamento avrebbe indotto parte della dottrina ad un atteggiamento teso a negare ogni contatto tra eccezione di inadempimento e ritenzione che l'Autrice definisce come "eccesso opposto".

[15] Nella sintesi di Rossetti, op. cit. p. 310:

"- il diritto di ritenzione può esercitarsi anche nei confronti dei terzi mentre l'eccezione d'inadempimento può essere opposta alla sola controparte;

- il retentore non contesta l'esistenza dell'altrui diritto, ma intende esercitare una garanzia a soddisfazione del proprio credito; l'eccipiente contesta invece la stessa esistenza dell'altrui diritto alla prestazione;

- il diritto di ritenzione prescinde dal vincolo sinallagmatico;

- il diritto di ritenzione può cessare nel caso in cui l'obbligato presti idonea garanzia, il che non pè previsto in tema di eccezione d'inadempimento;

- il diritto di ritenzione può esercitarsi soltanto su una res corporis, mentre l'eccezione di inadempimento può avere ad oggetto qualsiasi tipo di obbligazione (dare, facere, praestare);

- i casi in cui è concesso il diritto di ritenzione costituiscono ipotesi eccezionali, tassativamente previste dalla legge.".

[16] Pagni, Le azioni di impugnativa negoziale. Contributo allo studio della tutela costitutiva. Milano, 1999, p. 218 e ss, che intende l'eccezione in senso stretto come manifestazione di un diritto potestativo di natura sostanziale da cui deriva l'effetto modificativo, estintivo o impeditivo.

[17] Merlin, Compensazione e processo, vol. I, Milano, 1991, I, p. 204 e ss., secondo cui l'eccezione non produce il fatto estintivo, modificativo o impeditivo ma si limita a catturarlo nel mondo reale per trasporlo in quello processuale.

[18] Come peraltro la giurisprudenza normalmente ritiene possibile, Cass. civ., 26 maggio 2003, n. 8314, in Mass. Giur. It. 2003, e in Contratti, 2004, I, 47, in cui la suprema Corte ammette la possibilità di eccepire per la prima volta l'inadempimento della controparte in sede processuale pur non avendo l'eccipiente sollevato l'exceptio in sede stragiudiziale, salvo la verifica alla stregua della buona fede di un simile comportamento; nello stesso senso vedasi. Cass. civ., 18 marzo 1999, n. 2474, in Mass. Giur. It, 1999. Tuttavia, l'esercizio dell'eccezione per la prima volta in sede giudiziale, esaminato alla luce del comportamento complessivo dell'eccipiente anche durante la fase esecutiva del contratto può indurre ad una valutazione di contrarietà a buona fede dell'esercizio del potere di cui all'art. 1460 c.c., in tal senso, Cass. civ. 8 settembre 1986, n. 5459, in Mass. Giur. It., 1986.

[19] Cass. civ. Sez. Unite, 3 febbraio 1998, n. 1099, in Giust. Civ. 1998, I, 645, con nota di Giacalone. È da notare che i principi enunciati dalla sentenza delle Sezioni Unite del 1998 sono ancora adesso richiamati dalla giurisprudenza più recente delle stesse Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 13 giugno 2019, n. 15895, in One Legale).

[20] Colesanti, "Eccezione" in Enc. dir., vol. XIV, Milano, 1965, p. 181.

[21] in Mass. Giur. It, 2003; e in Contratti, 2003, 1, 38, v. anche Cass. civ. 23 luglio 2010, n. 17424.

[22] Val la pena sottolineare, tuttavia, che il tema della rilevabilità d’ufficio dell’eccezione d’inadempimento costituisce lo snodo concettuale fondamentale della ricostruzione della natura del rimedio come eccezione. Infatti, per gli autori che escludono la natura sostanziale dell’exceptio, equiparandola ad una sorta di ipostasi di una condizione di esigibilità dell’altra prestazione, dovrebbe coerentemente apparire illogico (come puntualmente spiega Vecchi, op. cit., p. 383) che l’eccezione debba essere sollevata ad opera del contraente convenuto poiché i temuti inconvenienti processuali di una tesi contraria (ossia quella che pone a carico del convenuto l’onere di eccepire l’inadempimento dell’attore) sarebbero infondati. Da un lato, il giudice potrebbe chiedere alle parti di spiegare per intero le proprie domande fornendo ogni dettaglio sull’esecuzione del contratto; dall’altro è da ritenersi ammissibile nel nostro ordinamento anche una condanna condizionata (v. in tal senso, in giurisprudenza, Cass. civ. 10 febbraio 2003, n. 1934, in Giust. Civ. Mass. 2003, 287; Cass. civ. 25 agosto 2003, n. 12444, in Giust. Civ. Mass., 2003, 7-8; Cass. civ. 15 luglio 2003, n. 11061 Giust. Civ. Mass., 2003, 7-8; Cass. civ. 1 ottobre 2004, n. 19657, in Banca, borsa e tit. cred., 2005, II, p. 611, con nota di L. Prosperetti, Note in tema di tutela dell'utilizzatore rispetto ai vizi originari del bene nel leasing finanziario, e, Cass. civ. 14 ottobre 2010, n. 21243, in DeJure, 2010, proprio in tema di inadempimento reciproco giacché il lodo arbitrale impugnato e rimasto incensurato dopo il giudizio della Suprema Corte, condannava la ditta acquirente a pagare l’ultima rata di prezzo per la fornitura ricevuta a condizione che il fornitore rimuovesse alcuni vizi della struttura, già stimati in perizia come suscettibili di agevole rimozione) stante la massima consolidata per cui “nel nostro ordinamento sono ammesse, in omaggio al principio dell’economia dei giudizi, sentenze condizionali, nelle quali l’efficacia della condanna è subordinata al verificarsi di un determinato evento futuro ed incerto, o di un termine prestabilito, o di una controprestazione specifica, sempre che il verificarsi della circostanza tenuta presente non richieda ulteriori accertamenti in merito da compiersi in un nuovo giudizio di cognizione. Con dette pronunce, infatti, non viene emessa una condanna da valere per il futuro, ma si accerta l’obbligo (attuale) di eseguire una certa prestazione ed il condizionamento (parimenti attuale) di tale obbligo al verificarsi di una circostanza il cui avveramento, pur presentandosi differito e incerto, non richiede, per il suo accertamento, altre indagini che quella se la circostanza stessa si sia o meno verificata.” (Cass. civ. 15 luglio 2003, cit.). Addis, op. cit., pp. 419, invece, attribuisce il successo dell’opzione interpretativa dell’eccezione d’inadempimento come eccezione in senso stretto proprio a motivi di economia processuale in quanto responsabilizza la parte interessata e solleva il giudice da onerosi accertamenti ed investigazioni.

[23] Cass. civ. 13 aprile 2010, in Guida al dir. 2010, 26, p. 95 (s.m.): "La domanda di adempimento in forma specifica dell'obbligo di concludere un contratto avente ad oggetto una cosa determinata può essere respinta solo in caso di inadempimento della parte istante e non anche quando la stessa a termini dell'articolo 1460 c.c., si sia rifiutata (in precedenza) di addivenire alla conclusione del contratto eccependo l'inadempimento della parte promittente venditrice, come nel caso di avvenuta iscrizione, da parte del promittente venditore, di ipoteca sull'immobile in violazione dell'obbligo di trasmettere la proprietà libera da garanzie reali".

[24] Bigliazzi geri,  op. cit. p. 2, secondo cui, l'eccezione di inadempimento è un diritto potestativo del contraente fedele atto ad incidere "...non sul vincolo obbligatorio (nel senso, ad esempio, proprio delle eccezioni di prescrizione e di compensazione), ma sull'attuazione del rapporto; che essa [l'eccezione d'inadempimento] tende a conservare (e, con esso, l'equilibrio delle posizioni sostanziali, di diritto e di obbligo, delle parti)..."; analoga la posizione di Bianca, op. cit. p. 345, dove si legge che: "...funzione dell'eccezione di inadempimento è dunque quella di garantire l'eguaglianza delle posizioni delle parti nell'esecuzione del contratto..."

[25] Cass. civ., 10 novembre 2003, n. 16822, in Arch. Civ., 2004, 1078, afferma che "La salvaguardia del nesso sinallagmatico tra prestazioni corrispettive da adempiere simultaneamente, riconosciuto a ciascun contraente dall'articolo 1460 c.c., mediante la facoltà di sospendere l'adempimento della propria obbligazione fino a quando l'altra parte non adempia, o non offra di adempiere, la propria..."

[26] Realmonte, op. cit., p. 239.

[27] Persico, op. cit., p. 8; Dalmartello, Eccezione di inadempimento, in Noviss. Dig. It., VI, Torino, 1960, p. 356.

[28] Cass. civ., 11 febbraio 1987, n. 1489, in Mass. Giur. It. 1987, afferma che "L'eccezione di inadempimento ex articolo 1460 c.c., avente la finalità di rafforzare il vincolo contrattuale - stimolando la controparte all'adempimento della propria obbligazione...".

[29] Realmonte, loc. cit.

[30] Realmonte, loc. ult. cit., il quale, a riprova, cita (nota 91) la massima di Cass. 22 ottobre 1960, n. 2859; Bianca, Eccezione di inadempimento etc., cit., p. 897-8, nota 1, condivide la massima testé citata pur con l'avvertenza che una clausola che attribuisse rilevanza genericamente a qualsiasi inadempimento, sia essa ai fini della risoluzione come dell'eccezione di inadempimento avrebbe contenuto non sufficientemente determinato. 

[31] Si vedano gli autori e le opere citate da Realmonte, op. ult. cit., nota 90 ma anche Persico, op. cit., p. 8.


3. Presupposti. a) Corrispettività e interdipendenza.

L'inquadramento dell'istituto dell'eccezione d'inadempimento nel contesto e in funzione dello sviluppo dell'idea di sinallagmaticità crea un legame di corrispondenza biunivoca tra l'individuazione dei contratti a prestazioni corrispettive e l'eccezione di inadempimento[1].

La giurisprudenza[2] mantiene da tempo ferma la statuizione secondo cui non è sufficiente a ritenere esistente un contratto a prestazioni corrispettive la circostanza che le obbligazioni reciproche delle parti[3] derivino da un medesimo contratto[4] qualora non sia individuabile un nesso sinallagmatico ossia "di corrispettività e interdipendenza tra prestazioni ineseguite e prestazioni rifiutate"[5]. Una scriminante, dunque, quella della corrispettività, che ha non solo la finalità di definire il campo di applicazione della tutela di cui all'articolo 1460 c.c. ma anche quella di selezionare, nella congerie di obblighi che fanno capo a ciascuna delle parti di un contratto, quelle prestazioni che si pongono in reciproco rapporto funzionale tale da realizzare o concorrere a realizzare congiuntamente il programma contrattuale frutto dell'assetto che la parti hanno dato ai propri interessi trasfusi in contratto.

È pacificamente riconosciuto che la nozione di corrispettività coinvolge le prestazioni essenziali di un contratto a prestazioni corrispettive senza le quali lo stesso valore di scambio, in senso giuridico, verrebbe meno. Appare evidente che il pagamento del canone si ponga come corrispettivo del godimento del bene immobile nel contratto di locazione o che nel contratto di compravendita, il prezzo rappresenti il corrispettivo del trasferimento della proprietà della cosa compravenduta.

Tuttavia è pur vero che la varietà di situazioni concrete che si pone all'attenzione dell'interprete è normalmente più complessa ed intrecciata e che una nozione letterale e restrittiva di corrispettività rischia di frustrare l'utile impiego dell'eccezione di inadempimento in situazioni in cui pure essa realizza correttamente il suo scopo.

Così nel caso, esemplificativamente, degli obblighi restitutori e di quelli accessori che, pure se collocati fuori dalla visuale ristretta della corrispettività, tuttavia necessitano di una tutela, quella della risoluzione per inadempimento, dell'eccezione d'inadempimento e della sospensione dell'adempimento ovvero del complesso degli strumenti giuridici connessi al "microsistema" dei contratti con prestazioni corrispettive da cui una nozione ristretta di corrispettività li espungerebbe.

Altrimenti detto, la nozione di "interdipendenza" avrebbe lo scopo di individuare un'area di applicazione dell'eccezione di inadempimento all'interno della categoria dei contratti con prestazioni corrispettive[6]. Quest'area, ad esempio, includerebbe gli obblighi di consegna nei contratti ad effetti reali, gli obblighi di restituzione e tutti gli obblighi strumentali ed accessori di un contratto a prestazioni corrispettive, quali gli obblighi di protezione, di custodia, di salvataggio etc...

Tutti casi, secondo altri[7], che, ad una critica puntuale, rigorosa e serrata sarebbero comunque catturati dalla nozione di corrispettività[8] laddove una più ristretta nozione di interdipendenza dovrebbe riservarsi ad ipotesi limitate.

Invero, le incertezze dottrinali rendono ragione della relativa indifferenza con cui la giurisprudenza è usa riferirsi alle nozioni di interdipendenza e corrispettività.

Talvolta usate come sinonimi: "L'eccezione di inadempimento prevista dall'articolo 1460 c.c., attendendo al momento funzionale di ogni contratto a prestazioni corrispettive, trae fondamento dal nesso di interdipendenza che lega tra loro le opposte prestazioni, cioè dall'esigenza di simultaneità nell'adempimento delle reciproche obbligazioni scadute legate dal rapporto sinallagmatico"[9] oppure: "Il principio che sorregge l'eccezione inadimpleti contractus, e che trova la sua consacrazione nella formulazione dell'articolo 1460 c.c., trae fondamento dal nesso di interdipendenza che nei contratti a prestazioni corrispettive lega le opposte obbligazioni e prestazioni nell'ambito di una rapporto sinallagmatico...(omissis)", le due nozioni e i loro contorni non sono sempre chiariti anche nelle decisione dell'organo nomofilattico.

Sembra di poter dire però che le decisioni giurisprudenziali sono solite far riferimento all'interdipendenza delle prestazioni ogniqualvolta si registri un nesso tra più prestazioni sorretto da un collegamento negoziale[10].[11] Non è il caso in questa sede di approfondire i termini del dibattito ormai maturo sulle varie figure di collegamento negoziale e della concreta applicazione dei rimedi previsti dalla normativa in caso di patologia dei rapporti che dal collegamento sorgano[12], valga ai nostri limitati fini condividere l'analisi di chi, in relazione alle ipotesi di collegamento, ha preso atto di un allargamento significativo della nozione di corrispettività con sentenze che possono ormai considerarsi giurisprudenza costante[13]. In contrapposizione alla teoria che postula l'unicità della fonte contrattuale come requisito ineliminabile della corrispettività[14] la giurisprudenza, una volta riconosciuto il fenomeno del collegamento negoziale, ne ha tratto le ineludibili conseguenze anche in tema di exceptio inadimpleti contractus allorché il collegamento investa anche la fase attuativa del rapporto, ossia tra prestazioni derivanti da contratti strutturalmente autonomi ma tenuti insieme da un vincolo funzionale[15].

Il medio di collegamento tra due contratti differenti può essere anche rappresentato dall'identità del rapporto su cui incidono[16].

Un'area in cui la valutazione del collegamento negoziale è di particolare interesse ai fini della valutazione dell'opponibilità dell'eccezione, è quella dei contratti di finanziamento al consumo o di beni strumentali, specie leasing o altre analoghe forme di finanziamento di scopo dove si realizza un delicato equilibrio di interessi governato da collegamenti negoziali di tipo funzionale[17].

In generale la giurisprudenza[18] tende a riconoscere nell'ambito del leasing finanziario, la legittimazione dell'utilizzatore del bene ad esercitare in nome proprio le azioni scaturenti dal contratto di vendita o facendo leva proprio sulla nozione di collegamento negoziale o, attraverso il ricorso all'azione diretta del mandante/utilizzatore, nei confronti del terzo venditore (dove la società di leasing assume, s'intende, il ruolo di mandatario) ex articolo 1705, 2° co., c.c.[19]

[20].

La questione si pone in termini analoghi in caso di mutuo di scopo, specie se si tratta di prestito al consumo[21]. E' pur vero che gli interventi legislativi recenti hanno, tuttavia, decisamente esplicitato il collegamento tra i contratti di mutuo e di acquisto di beni e servizi, a determinate condizioni[22], arrivando a contemplare esplicitamente l'adozione del rimedio risolutorio e, quindi, dell'eccezione di inadempimento, nei confronti del finanziatore benché soggetto diverso dal fornitore inadempiente[23].

La giurisprudenza sembra ormai consolidata nel riconoscere l’eccezione di inadempimento nei confronti del finanziatore qualora si tratti di mutuo di scopo[24]

Anche il collegamento genetico tra contratto preliminare e contratto definitivo è rilevante ai fini della corrispettività di cui all'articolo 1460 c.c.[25]

Un orientamento giurisprudenziale consolidato[26] è rintracciabile anche in merito alla riconducibilità alla nozione di corrispettività delle obbligazioni accessorie in rapporto a quella principale per cui anche l'inadempimento di una di tali obbligazioni, tenendo conto dell'economia complessiva dello specifico contratto e alla luce del criterio interpretativo ed esecutivo della buona fede, può legittimare il rifiuto della controprestazione.

Il nesso di corrispettività involge le prestazioni accessorie in quanto la violazione di quest'ultime incida sull'equilibrio complessivo del contratto o intacchi, in modo particolare, interessi essenziali della parte non inadempiente[27].

È oggetto di analisi in dottrina se la violazione di obblighi precontrattuali possano condurre all’adozione del rimedio risolutorio[28].

Si ritiene peraltro che le obbligazioni accessorie che possano integrare la corrispettività, imprescindibile presupposto dell'applicabilità del rimedio di cui all'articolo 1460 c.c., siano non solo le obbligazioni immediatamente accessorie a quella principale[29] o quella risarcitoria, sostitutiva, per equivalente di quella lesa[30], ma anche gli obblighi di protezione benché aventi fonte diversa dal contratto[31]. In questo senso pare si esprima non solo la giurisprudenza lavoristica di legittimità e di merito[32] ma anche quella più prettamente civilistica[33].

Sotto altro profilo è stato oggetto di divergenti opinioni se la corrispettività di cui all'articolo 1460 c.c., possa invocarsi anche nell'ipotesi di reciprocità di obblighi restitutori.

 Ci si riferisce, in questo specifico caso, a quegli obblighi che sorgano dalla declaratoria di invalidità o di inefficacia di un contratto a prestazioni corrispettive.

In subiecta materia è noto si confrontino due teorie contrapposte, la prima propendendo per l'indipendenza di ciascuna obbligazione restitutoria con l'effetto che l'impossibilità di restituzione di una delle prestazioni non avrebbe conseguenze sulle altre - contrapposte e reciproche - e la contraria posizione dogmatica sostenendo che le dette obbligazioni sarebbero invero interdipendenti così che ciascuna parte non sarebbe tenuta a restituire la prestazione ricevuta se non nella misura in cui anche l'altra parte faccia o offra di fare altrettanto[34].

I primi[35] sottolineano come, in maggiore aderenza alla coerenza dogmatica imposta dalla disciplina in materia di indebito, non esista un rapporto sinallagmatico a tenere insieme i due indebiti isolatamente considerati. A supporto di quest'ultimo orientamento vi è parte della stessa giurisprudenza[36].

Le molteplici costruzioni contrarie, dalla cosiddetta "Saldotheorie" di matrice tedesca, secondo cui il debitore di una restituzione deve conteggiare l'eventuale impossibilità o mancata restituzione dell'altra[37], alla teoria che fa leva sul pagamento dell'indebito come atto negoziale[38] ed altre più risalenti che pongono le controprestazioni in rapporto di reciproco condizionamento[39], muovono tutte dall'esigenze di conservare l'equilibrio dell'originario contratto anche in sede restitutoria per evitare conseguenze stridenti con il senso comune che premierebbero il soggetto più spregiudicato.

Alcuni autori non esitano, quindi, ad affermare l'opponibilità dell'eccezione di inadempimento, anche in sede restitutoria, non foss'altro che per il "perfetto parallelismo esistente tra gli effetti obbligatori" nascenti dal contratto e dal suo scioglimento negoziale o giudiziale[40].

La giurisprudenza talvolta si preoccupa dei possibili e paradossali esiti di una troppo rigorosa applicazione dell'atomismo in tema di obbligazioni restitutorie da indebito e ritiene ammissibile invocare l'exceptio inadimpleti contractus in caso di inadempimento di tali obblighi restitutori[41].

Frequentemente l'eccezione di inadempimento ex articolo 1460 c.c. è accolta in sede di risoluzione del rapporto di locazione di un immobile ad uso non abitativo quando una delle parti non adempia al proprio obbligo, si tratti del rilascio dell'immobile o del pagamento dell'indennità di avviamento[42]. Tuttavia, ci pare sarebbe forzoso in questo caso voler sostenere che le decisioni in tal senso possano comprovare il riconoscimento dell'operatività dell'eccezione di inadempimento in materia di obblighi restitutori se non altro perché, come la medesima Suprema Corte ha avuto modo di affermare[43], "il condizionamento dell'esecuzione del provvedimento di rilascio all'avvenuto pagamento dell'indennità, disposto dagli artt. 34 e 69 della l. n. 392 del 1978, non trova fondamento nell'attribuzione al conduttore di un "diritto di ritenzione", ma nell'instaurazione ex lege di una relazione di interdipendenza tra l'obbligazione del conduttore di restituire la cosa locata e l'obbligazione del locatore di corrispondere l'indennità, prevedendosene la reciproca inesigibilità in difetto di previo o contestuale adempimento della speculare obbligazione della controparte, mediante eccezione riconducibile nell'ambito della previsione dell'articolo 1460 c.c...".

Per contro. nella prospettiva rimediale[44] che è tendenza degli ordinamenti europei e del processo di costruzione di una regolamentazione generale paneuropea (ed oltre) dei contratti, è d'obbligo segnalare la preferenza di un modello che avvicina il regime restitutorio da indebito al rovescio simmetrico della disciplina del contratto cosicché, in ultima analisi, gli strumenti di tutela e le difese esperibili nella seconda siano parallelamente adoperati nel primo. Per usare le parole di un'autorevole dottrina[45], un modello che tenga conto che: "...quegli stessi principi contrattuali destinati a governare l'esecuzione del contratto si prendano anche la cura di governarne lo scioglimento e gli effetti...".

 

[1] Al punto che taluno (Dalmartello, op. cit., p. 354) ha parlato dell'eccezione di inadempimento come di "manifestazione minore del sinallagma funzionale, a fianco della risoluzione del contratto per inadempimento.". Altri (Mirabelli, Dei contratti in generale, in Commentario Utet, Torino, 1955, p. 500) ha affermato che l'eccezione di inadempimento come anche l'eccezione di cui all'articolo 1461 c.c. "derivano dall'essenza stessa della corrispettività e, pertanto, sono effetti che conseguono, ex lege, dalla situazione di corrispettività".

[2] Per tutte, Cass. civ., 8 settembre 1994, n. 7701, in Contratti, 1995, 1, 21, secondo cui: "L'exceptio inadimpleti contractus, prevista dall'articolo 1460 c.c., è opponibile non già per il semplice fatto che essa si riferisca ad un contratto dal quale derivino obbligazioni per entrambe le parti, ma solo in quanto sussista un rapporto di corrispettività tra la prestazione non adempiuta e quella di cui si pretende che sia stato rifiutato l'adempimento. La valutazione della sussistenza di questo elemento, indispensabile per l'applicabilità dell'eccezione, risolvendosi in un apprezzamento di fatto demandato al giudice del merito è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato".

[3] Pret. Torino, 13 maggio 1983, in Lavoro, 80, 1983, 835, nega che l'eccezione di inadempimento sia applicabile ad obbligazioni solo perché reciproche qualora manchi un nesso di corrispettività tra le medesime.

[4] Secondo Persico, L'eccezione di inadempimento, cit. p. 65, l'unicità della fonte è requisito necessario benché non sufficiente.

[5] App. Napoli, Sez. III, 1 marzo 2006 (inedita).

[6] Nelle parole di Realmonte, op. cit., p. 223: "Il problema affrontato [quello dell'interdipendenza], quindi, concerne esclusivamente l'applicabilità del rimedio [l'exceptio inadimpleti contractus] a rapporti che, pur derivanti da tali contratti [quelli a prestazioni corrispettive], non possono considerarsi volti direttamente alla realizzazione di risultati tra i quali intercorra il vincolo della corrispettività".

[7]  Bigliazzi Geri, op. cit. 10-14.

[8] Bigliazzi Geri, loc. ult. cit., secondo l'autorevole studiosa, in alcuni casi (deposito e mandato onerosi), l'exceptio è validamente sostituita dal diritto di ritenzione privilegiato (ex articoli 2756 c.c. e 2761 c.c.) o comunque sarebbe applicabile naturaliter perché l'obbligo di consegna e quello restitutorio sono parte stessa della prestazione corrispettiva come anche in ogni altro caso di obbligazione accessoria che non abbia natura di mero onere. Nei contratti con efficacia reale (articolo 1376 c.c.) i presunti obblighi accessori di consegna, secondo l'Autrice, sono, anch'essi, parte essenziale della prestazione, se intesa come strumento che procura l'attribuzione finale del bene oggetto del contratto. Anche per il collegamento negoziale, la nozione di corrispettività è sufficiente a qualificare il rapporto tra obblighi nascenti da più fonti negoziali in quanto avvinti dalla realizzazione di uno scopo comune. Sicché, in questa ricostruzione del rapporto tra le nozioni di corrispettività e interdipendenza, residua un'area marginale rappresentata da quelle situazioni in cui la reciprocità delle prestazioni è dovuta non all'astratta finalizzazione verso un risultato comune ma ad un obiettivo intrecciarsi degli obblighi delle parti di un contratto in virtù della doverosa o necessitata attuazione del rapporto nascente dal contratto. Si pensi, ad esempio, al caso di inadempimento da parte del mandante degli obblighi di cui all'articolo 1720 c.c. oppure al caso dai cd. contratti bilaterali imperfetti (es. comodato immobiliare, mutuo gratuito) quando un obbligo sia rinvenibile a carico del comodatario di un immobile o del mutuatario a titolo gratuito (nel primo caso il comodante potrebbe non adempiere all'obbligo di rimborso di cui all'articolo 1808, 2° comma, c.c.; nel secondo caso, un obbligo risarcitorio potrebbe ricadere sul mutuante per i vizi dei beni oggetto del mutuo ex articolo 1821, comma 2° c.c.) e l'adempimento di tale obbligo consentirebbe di realizzare un equilibrio necessario alla realizzazione dello scopo dello specifico contratto.

[9] Cass. civ. sez. lav. 17 marzo 2006, n. 5938, in Mass. Giust. Civ., 2006, 3; In senso analogo Trib. Sup. Acque, 4 marzo 1996, n. 25, in Cons. Stato, 1996, II, 498, secondo cui "L'esercizio dell'"exceptio inadimpleti contractus"  di cui all'articolo 1460 c.c. presuppone che le reciproche prestazioni siano in rapporto di corrispettività, sicché l'exceptio non può essere invocata allorquando la relazione sinallagmatica non sussista (Nella specie, costituendo il canone il prezzo della fornitura, non è stato ritenuto legittimo il mancato pagamento dello stesso da parte del concessionario a fronte della pretesa mancata costruzione di una rete idrica da parte della Cassa del Mezzogiorno); ma vedi anche App. Napoli citato in nota 47 supra.

[10] Quando questo collegamento è assente, l’eccezione non è disponibile nonostante l’identità delle parti. Si veda Trib. Milano, sez. imprese (B), 29 novembre 2018 in Le società, 12, 2019, con

 

 

 

 di BREGGIA, Eccezione di inadempimento tra società e amministratore, p. 1385 e ss. che ha rigettato l’eccezione ex articolo 1460 c.c. di una società nei confronti del proprio amministratore sollevata al fine di paralizzare la richiesta della corresponsione della remunerazione da parte di quest’ultimo deducendo la violazione di obblighi del medesimo amministratore realizzatisi quando questi era ormai cessato dalla carica conservando la sola qualità di socio della medesima società.

[11] L'uso del termine "interdipendenza" precipuamente riferito ai collegamenti negoziali appare anche in Cass. civ., 14 gennaio 1998, n. 271, in Mass. Giur. It., 1998, questa volta per negare il diritto di ritenzione (definito applicazione concreta del principio generale di autotutela contrattuale di cui all'articolo 1460 c.c.) ad un carrozziere su un bene oggetto di riparazione per crediti attinenti ad altre prestazioni, in assenza di prova della sussistenza di un unico rapporto obbligatorio; in Cass. civ., 19 dicembre 2003, n. 19556 in Foro It. 2004, c. 718, con nota di Faella in base alla quale: "L'eccezione di inadempimento può essere opposta, da parte del contraente fedele, anche nell'ipotesi di inadempimento di un diverso negozio, che tuttavia risulti collegato con il primo da un nesso di interdipendenza, fatto palese dalla comune volontà delle parti, atto a rendere sostanzialmente unico il rapporto obbligatorio, con valutazione rimessa al prudente e insindacabile apprezzamento del giudice di merito (nella specie, è stata confermata la sentenza di merito che aveva ritenuto legittima l'exceptio inadimpleti contractus opposta dalla società promittente alienante di un immobile al socio promissario acquirente, che non aveva adempiuto l'obbligo di pagare il cinquanta per cento della passività sociali, assunto in forza dell'accordo - funzionalmente connesso al preliminare di vendita - con cui i soci avevano regolato i loro rapporti patrimoniali in conseguenza del suo recesso dalla società)".

[12] Valga qui un rinvio ad alcune opere quali quelle di G. Lener, Profili del collegamento negoziale, Milano, 1999; Colombo, Operazioni economiche e collegamento negoziale, Padova, 1999; Rappazzo,  I contratti collegati, Milano, 1998.

[13] Faella, Nota a Cass. civ., Sez. III, 19 dicembre 2003, n. 19556, già citata, supra, alla nota 53, c. 720-1

[14] Persico, loc. ult. cit., infra nota 46.

[15] Cirillo, Negozi collegati ed eccezione di inadempimento, nota a Cass. civ., 11 marzo 1981, n.1389, in Foro. It. 1981, c. 378 e ss., nel caso concreto, la decisione della Suprema Corte conferma la sentenza di appello impugnata, negando a una ditta fornitrice di merci di potersi avvalere dell'eccezione di inadempimento relativa ad un precedente rapporto di fornitura non saldato, per rifiutare la consegna di merce relativa ad altra fornitura intercorsa tra le medesime parti posto che queste non avevano stabilito neppure convenzionalmente un nesso funzionale tra i due contratti.

[16] Così Cass. civ. Sez. Lavoro, 23 dicembre 2002, n. 13620, in Arch. civ. 1993, 144, secondo cui: "Il principio inadimplenti non est adimplendum opera anche con riguardo ad inadempienze inerenti a convenzioni diverse sempre che siano riferibili al medesimo rapporto; pertanto il rifiuto dei componenti la rsa di collaborare con la direzione dell'impresa al fine di definire le modalità di applicazione dell'orario flessibile, come previsto dal contratto collettivo applicabile, deve ritenersi legittimamente opposto - in base all'articolo 1460 c.c. - in relazione ad un pregresso inadempimento del datore di lavoro relativo al pagamento dell'indennità di contingenza dovuta ai lavoratori dell'azienda, trattandosi di prestazioni cui ciascuna delle parti si era impegnata rispettivamente con riguardo allo stesso contratto di lavoro".

[17] Per un’analisi delle varie forme di finanziamento di scopo e dell’influenza della nozione di collegamento in questo campo v. Clarizia, I contratti per il finanziamento dell’impresa Mutuo di scopo, leasing, factoring, in Tratt. Dir. comm. diretto da Buonocore, Sezione II, Tomo 4, Torino, 2000.

[18] Cass. civ. 13 dicembre 2000, in Foro It., Rep. 2000, voce Contratto in genere, n. 317.

[19] Faella, op. cit., c. 721

[20] Esemplificatrice dell'atteggiamento dei giudici della Suprema Corte e dei giudici di merito, è la decisione di Cass. civ., Sez. III, 1 ottobre 2004, n. 19657, in Contratti, 2005, 5, 474, in una controversia che opponeva l'utilizzatore (lessee) di un calcolatore elettronico, da un lato, e il fornitore del medesimo, assieme alla società di leasing, dall'altro. A seguito della presenza di vizi del bene oggetto dell'operazione di leasing, l'utilizzatore chiedeva, tra l'altro, ai giudici la restituzione da parte della società di leasing dei canoni già versati opponendo appunto l'eccezione di inadempimento.

In merito, la Corte di ultima istanza ha avuto modo di precisare che: "...nonostante il collegamento negoziale esistente tra il contratto di leasing finanziario, qual è quello in esame, ed il contratto di fornitura tra il concedente ed il fornitore, con obbligo di consegna del bene all'utilizzatore, allorché detta consegna vi è stata, è elemento naturale del negozio, salva clausola contraria, l'esonero dal locatore di ogni responsabilità in ordine alle condizioni del bene acquistato per l'utilizzatore, essendo quest'ultimo a prendere contatti con il fornitore, a scegliere il bene, che sarà oggetto del contratto, ed a stabilire le condizioni di acquisto per il concedente, per cui ogni vizio del bene dovrà essere fatto valere direttamente dall'utilizzatore nei confronti del fornitore, così come avviene nel caso di contratto concluso dal mandatario in nome proprio, ma per conto del mandante. In proposito, la sentenza di merito ha osservato che tanto nella fattispecie era anche espressamente statuito dalla clausola n. 9 del contratto di leasing. Ne ha fatto conseguire che, l'utilizzatore non può far valere l'eccezione di inadempimento del fornitore, per vizio del bene locato, a norma dell'articolo 1460 c.c. per rifiutare le proprie prestazioni nei confronti del concedente" Parzialmente, la decisione citata, pare dare rilievo - se non decisivo senz'altro significativo - alla volontà delle parti che, pur in presenza, di un collegamento funzionale obiettivo, hanno inteso escludere alcuni effetti di tale collegamento.

[21] In passato l'analisi degli autori che si sono occupati specificamente della eccezione in esame, ha scarsamente affrontato il tema recentemente di accresciuta importanza con la crescita esponenziale del mercato del credito al consumo e della susseguente crisi economica di questi anni. Oggi la materia è densa di contributi dottrinali, decisioni giurisprudenziali e interventi legislativi tra cui il Decreto Legislativo 13 agosto 2010, n. 141 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 4 settembre 2010) attuativo della Direttiva 2008/48/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008 relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE. Per una prima analisi della disciplina comunitaria del credito al consumo si veda Capriglione (a cura di), La disciplina comunitaria del credito al consumo, in Banca d'Italia, Quaderni di ricerca giuridica della consulenza legale, luglio 1987, n. 15; più recentemente e con riferimento ai riflessi del collegamento negoziale tra il contratto di mutuo al consumo e il contratto oggetto di finanziamento, si veda Carriero, Credito al consumo e inadempimento del venditore, in Foro. it., 2007, IV, 590.

[22] Già la normativa consumeristica (articolo 42, Codice del Consumo), consente oggi al consumatore, in caso di inadempimento del fornitore di beni e servizi, di agire contro il finanziatore qualora abbia effettuato inutilmente la costituzione in mora del fornitore e a condizione che esista un accordo di esclusiva tra fornitore e finanziatore. L'esistenza di una sorta di responsabilità sussidiaria del finanziatore ha indotto la dottrina (Colombo, Operazioni economiche e collegamento negoziale, Padova, 1999, cit. p. 317) a concludere che il consumatore possa far valere contro il finanziatore anche pretese di carattere risarcitorio e restitutorio, oltre a poter opporre eccezione di inadempimento e sospendere il pagamento delle rate (De Nova, L'attuazione in Italia delle direttive comunitarie sul credito al consumo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1992, 909. La normativa di attuazione della Direttiva 2008/48/CE, prima citata (supra, nota 63) ha ormai definitivamente sancito:

-sia l'evidente esistenza di un collegamento negoziale (l’Articolo 3, lettera n) della Direttiva 2008/48, contiene la seguente definizione di "«contratto di credito collegato»: un contratto di credito che soddisfa le due condizioni seguenti:

  1. i) il credito in questione serve esclusivamente a finanziare un contratto relativo alla fornitura di merci specifiche o alla prestazione di servizi specifici;
  2. ii) i due contratti costituiscono oggettivamente un'unica operazione commerciale; si ritiene esistente un'unica operazione commerciale quando il fornitore o il prestatore stesso finanzia il credito al consumo oppure, se il credito è finanziato da un terzo, qualora il creditore ricorra ai servizi del fornitore o del prestatore per la conclusione o la preparazione del contratto di credito o qualora le merci specifiche o la prestazione di servizi specifici siano esplicitamente individuati nel contratto di credito.");

- sia la facoltà (secondo il nuovo articolo 125-quinquies del t.u. l. banc.) di domandare la risoluzione del contratto di finanziamento per inadempimento grave del fornitore e, a fortiori, in questo caso, senza con ciò costruire un'equivalenza necessaria e biunivoca tra i due rimedi, di avvalersi dell'eccezione di inadempimento.

[23] E' stato in proposito sottolineato (Macario, Collegamento negoziale e principio di buona fede nel contratto di credito per l'acquisto: l'opponibilità al finanziatore delle eccezioni relative alla vendita, in Foro.it., 1994, I, 2, 3098 e ss.) che il credito al consumo è da considerarsi operazione unitaria, almeno in termini temporali ed economici, al punto che una tesi atomistica che scinda le due fasi contrattuali astraendole dal contesto unitario dell'operazione economica "...evidenzia tutti i suoi limiti nel momento in cui gli effetti giuridici dell'autonomia concettuale tra i negozi si risolvono in un pregiudizio iniquo per il consumatore-utilizzatore del bene (o del servizio...)".

[24] Cass. civ., 11 febbraio 2011, n. 3392, sembra ritenere non valida una clausola che vieti al mutuatario di un credito al consumo di avvalersi dell’eccezione di inadempimento nei confronti del finanziatore nell’ipotesi di inadempimento del fornitore del bene acquistato mediante la somma mutuata, in quanto pattuizione contraria a buona fede. Si condivide la nota critica di RUMI, in I Contratti, n. 11, 1 novembre 2011, p. 994 e ss. dove giustamente si sottolinea come la decisione in commento abbia impiegato categorie deputate al vaglio dell’esercizio dell’eccezione di inadempimento (fondamentalmente la buona fede) per trarne un giudizio ultroneo sulla validità della clausola laddove l’ordinamento offre in ambito consumeristico e bancario, norme definite, di origine comunitaria, che avrebbero consentito di considerare quella medesima clausola come abusiva ovvero di rintracciare quel collegamento negoziale che legittima la proposizione dell’eccezione di inadempimento in ragione del complesso e unitario assetto di interessi realmente voluto dalle parti”.   

[25] Cass. civ., 7 novembre 2005, n. 21490, in Mass. Giur. It., 2005.

[26] Un chiaro esempio dell'orientamento prevalente in giurisprudenza è quello di Cass. civ., 16 novembre 2000, n. 14865, in Corriere giur., 2001, 762, con nota di Forchino, Onere della prova spettante al venditore a fronte dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. sollevata dall'acquirente, secondo cui: "Nei contratti a prestazioni corrispettive i doveri di correttezza, di buona fede e di diligenza - di cui agli articoli 1337, 1338, 1374, 1375 e 1175 c.c. - si estendono anche alle cosiddette obbligazioni collaterali di protezione, di informazione, di collaborazione, che presuppongono e richiedono una capacità discretiva ed una disponibilità cooperativa dell'imprenditore nell'esercizio della sua professione e, quindi, nel tener conto delle motivazioni della controparte all'acquisto. Detti doveri ed obblighi impongono che l'imprenditore, anzitutto, si preoccupi dell'esatta specificazione delle caratteristiche del bene compravenduto al momento della conclusione del contratto, rispondendo anche della negligenza dei propri agenti al riguardo, ed, in secondo luogo, che, nel caso la necessaria specificazione fosse stata omessa, ne faccia richiesta all'acquirente prima di provvedere alla propria prestazione, astenendosi dal consegnare beni di una specie qualunque fra quelli appartenenti al genus prodotto o commerciato, diversamente rendendosi inadempiente alle indicate obbligazioni accessorie, che si pongono come precondizioni dell'obbligazione principale, e già solo per questo legittimando l'eccezione ex articolo 1460 c.c.". Nella giurisprudenza di merito, Trib. Roma 15 febbraio 2000, in Giur. romana, 2000, 253, "L'eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., può essere sollevata non soltanto a fronte dell'inadempimento dell'obbligazione principale dedotta in contratto, ma anche dinanzi all'inadempimento di obbligazioni accessorie".

[27] Nel caso deciso da Cass. civ. 18 marzo 1999, n. 2474, in Mass. Giur. It., 1999, una società acquirente di apparecchi telefonici forniti dall'allora Sip, da installare su autovetture, su cui effettuare il collaudo e la connessione di rete, aveva violato quest'obbligo creando una valigetta dove riporli trasformandoli così in portatili e inducendo la Sip a sospendere la fornitura, sospensione che la Suprema Corte ha ritenuto legittima poiché il principio di cui all'articolo 1460 c.c. "...ben può trovare applicazione anche nel caso d'inadempimento a clausole particolari del contratto o ad obbligazioni accessorie, ove le une o le altre siano da considerare essenziali nell'economia complessiva del rapporto e tali, comunque, per cui la loro violazione comporti un pregiudizio rilevante per la parte in favore della quale dovevano operare e, per altro verso, incida negativamente sul rapporto fiduciario inter partes inducendo in quella lesa il ragionevole dubbio della probabile iterazione del comportamento illecito della controparte, per il che deve ritenersi che il principio stesso, alle considerate condizioni, possa trovare applicazione non solo nell'ipotesi d'integrale inadempimento dell'obbligazione principale ma anche nelle ipotesi di non rite adimpleti contractus". v. anche Trib. Monza, 9 gennaio 1997, in Giust. Civ., 1997, I, 1401, con nota di Codini.

[28] Solo alcuni autori hanno investigato approfonditamente la possibilità di ottenere la risoluzione del contratto per l’inadempimento di obblighi precontrattuali (da cui discende la stessa possibilità di ogni altro rimedio connesso, inclusi quelli degli articoli 1460 e 1461 c.c.) e tra questi DEL PRATO, Ai confini della risoluzione per inadempimento, in I contratti, 2013, 653; Id., Le basi del diritto civile, 2020, Torino, 168; Id., Corrispettività senza contratto e rimedio risolutorio, in Obbl. e contr., 2002, 405.

[29] Realmonte, op.cit., p. 224 e ss.;

[30] Grasso, op. cit., p. 122;

[31] Vecchi, op. cit. pp. 396-397

[32] Si vedano le decisioni citate in massima da Vecchi, op. cit., p. 397 (nota 64) in materia di demansionamento e trasferimento di sede.

[33] Cass. civ. 16 gennaio 1997, n. 387, in Mass. Giur. It., 1997: "Il principio che sorregge l'eccezione inadimpleti contractus, e che trova la sua consacrazione nella formulazione dell'articolo 1460 c.c., trae fondamento dal nesso di interdipendenza che nei contratti a prestazioni corrispettive lega le opposte obbligazioni e prestazioni nell'ambito di un rapporto sinallagmatico il cui contenuto, indipendentemente da esplicite previsioni negoziali, è - secondo il principio interpretativo-integrativo correlato all'obbligo di correttezza delle parti (art. 1175 c.c.) - esteso alle cosiddette obbligazioni collaterali di protezione, di collaborazione, di informazione etc. Ne consegue che, in sede di valutazione comparativa delle condotte delle parti di un contratto di appalto, il giudice non può avere riguardo alle sole obbligazioni principali dedotte in contratto (e cioè, il pagamento del compenso, per il committente ed i compimento dell'opera, per l'appaltatore), ma anche quelle cosiddette "collaterali" di collaborazione, privilegiandone l'apprezzamento quando il loro inadempimento da parte dell'obbligato abbia dato causa a quello del creditore."

[34] La questione ha sempre suscitato un fortissimo interesse della dottrina a causa dell'intreccio - mai compiutamente risolto nel nostro codice civile - delle discipline della patologia del contratto, dell'indebito e dei rimedi. Particolare rilievo ha in questo campo il noto volume di Di Majo, La tutela civile dei diritti, III ed., Milano, 2001 e più di recente, Id., Il regime delle restituzioni contrattuali nel diritto comparato ed europeo, in Mazzamuto (a cura di) Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo. Torino, 2002, p. 423 e ss. ma v. anche, Maffeis, Responsabilità medica e restituzione del compenso: precisazioni in tema di restituzioni contrattuali, in Il caso.it, Sezione II - Dottrina, opinioni e interventi, documento n. 29/2005 (commento alla sentenza del Trib. civ. di Roma del primo luglio 2004). Secondo le parole di Di Majo (Il regime delle restituzioni contrattuali nel diritto comparato ed europeo, in Mazzamuto (a cura di) Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo. Torino, 2002, p. 436): "...le maggiori aporie sono sul terreno dei rapporti contrattuali che nascono sinallagmatici e che poi, dissolto il contratto, diventano per incanto unilaterali perché, in tema di indebito, l'originario sinallagma è destinato a scomparire".

[35] Maffeis, op.cit., p. 9, secondo cui nel nostro ordinamento "...non vige la regola della sinallagmaticità delle obbligazioni restitutorie".

[36] Cass. civ., 7 marzo 2008, n. 6197, in Mass. Giur. It, 2008; Cass. civ. 11 novembre 1992, n. 121121, in Foro it., Rep. 1992, voce "Indebito", n. 11 ("poiché il mezzo di autotutela, predisposto mediante l'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 c.c., è applicabile ai contratti con prestazioni corrispettive e (...) non ai casi diversi ed analoghi, esso non può essere invocato nella fattispecie, in cui le obbligazioni delle parti discendono dal principio dell'indebito oggettivo, generalmente posto dall'articolo 2033". Cass. civ. 28 ottobre 1991, n. 11469, in Foro. it. Rep. 1991, voce "Contratto in genere", n. 394.

[37] Compiutamente descritta da Di Majo, La tutela civile dei diritti, op. cit. in particolare, pp. 354 - 355. Più precisamente, tale teoria, nata sul piano delle restituzioni da indebito arricchimento suggerisce di dedurre dal proprio arricchimento, quello conseguito dalla controparte.

[38] Rescigno, voce Ripetizione dell'indebito, in Noviss. dig. it., Torino, 1957, p. 1235.

[39] Luzzatto, Le obbligazioni nel diritto italiano, Torino, 1950, pp. 176-7

[40] Realmonte, op. cit., p. 227, per il quale l'unico limite della corrispettività tra obbligazioni restitutorie, per lo stesso parallelismo invocato, è il fatto che il contratto sciolto da cui gli obblighi restitutori traggono origine, fosse privo della irrinunciabile caratteristica della corrispettività o interdipendenza.

[41] Cass. civ. 23 aprile 1980, n. 2678, in Banca borsa, 1981, II, p. 145. Si segnala per esplicita adesione alla cosiddetta "Saldotheorie", Trib. Roma, 1 luglio 2004, in allegato a Maffeis, Responsabilità medica e restituzione del compenso: precisazioni in tema di restituzioni contrattuali, in Il caso.it, Sezione II - Dottrina, opinioni e interventi, documento n. 29/2005 (commento alla sentenza del Trib. civ. di Roma del primo luglio 2004) e fortemente criticata da quest'ultimo sia per il recepimento della "Saldotheorie" sia per "un uso assai poco ragionato della comparazione giuridica".

[42] Si veda per tutte Cass. civ. 17 gennaio 2001, n. 580, in Corriere Giur., 2001, 3, 307.

[43] Cass. civ. 22 gennaio 1999, n. 587, in Foro. It., 1999, I, 1209.

[44] Una sintetica ma esaustiva rappresentazione della prospettiva rimediale (di matrice anglosassone e opposta a quella tradizionale di civil law imperniata sul diritto soggettivo), dei vantaggi della medesima e dell'avvicinamento progressivo dei sistemi continentali al modello anglosassone in funzione di una più ampia e generale convergenza degli ordinamenti verso un modello unificante di disciplina contrattuale è in Caringella - Buffoni, Manuale di diritto civile, Roma, 2009, pp. 279 - 294. Una profonda e coltivata meditazione sull'influenza del metodo e della circolazione delle idee della letteratura giuridica nella sua dimensione storica e geografica, con riferimento più particolare al diritto civile, si rinviene nello splendido testo di Alpa, La cultura delle regole - Storia del diritto civile italiano, Bari, 2009. Per una efficace rappresentazione dell'influenza della tradizione giuridica sull'ermeneutica dei giuristi, v. Bussani, Il diritto nell'occidente. Geopolitica delle regole globali, Torino, 2010, p. 9 e ss.

[45] Di Majo, Il regime etc., cit. p. 442, cui si rinvia più in generale per un'analisi del panorama internazionale e comparatistico.


4. b) Corrispettività e ambito di applicazione.

La delimitazione dell'incipit di cui al primo comma dell'articolo 1460 c.c. ("nei contratti con prestazioni corrispettive...") genera incertezze anche in ordine a talune figure contrattuali di più difficile e complesso inquadramento in cui, pur essendovi uno scambio, pare di ardua individuazione un vero e proprio vincolo sinallagmatico.

E' normalmente escluso in giurisprudenza che tra questi contratti, cui il rimedio qui analizzato si applicherebbe, possa essere ricompreso il contratto plurilaterale con comunione di scopo[1] nella misura in cui tra il socio e la società intercorra il solo rapporto associativo mentre più articolata è la  natura dei rapporti tra socio e società nelle società cooperative, ad esempio nelle cooperative edilizie in cui uno specifico rapporto di scambio tra socio e cooperativa, cui è applicabile la natura di contratto a prestazione corrispettiva, può affiancarsi a quello sociale[2] ovvero ancora può ad esso sostituirsi quando i soci abbiano definitivamente sciolto il loro vincolo sociale[3].  La dottrina si mostra più aperta alla possibilità di impiegare il rimedio come strumento alternativo e meno radicale del recesso o dell'esclusione[4].

È affermazione diffusa in giurisprudenza che l'eccezione di inadempimento non trovi applicazione ai contratti associativi agrari (colonia, mezzadria)[5].

Il difetto di corrispettività è considerato ostativo anche all'esperibilità del rimedio di cui all'articolo 1460 c.c. da parte dei condomini nell'ambito di un rapporto di condominio[6] poiché, l'obbligo di corrispondere gli oneri condominiali è funzione del diritto di comproprietà (articolo 1123, co. 1, c.c.) ossia della necessaria condivisione degli oneri che ineriscono alla gestione e conservazione della comune proprietà e non un elemento del rapporto dialettico inerente al contratto sinallagmatico.

Similmente, nei rapporti di natura reale come tra soggetti, ad esempio, proprietari di suoli confinanti, la Corte di Cassazione ha affermato che: "Il principio "inadimplenti non est adimplendum" (art. 1460 c.c.) non è applicabile ai rapporti tra proprietari confinanti poiché tali rapporti hanno natura reale, sono indipendenti l'uno dall'altro ed attribuiscono a ciascuno di essi il reciproco diritto di pretendere l'osservanza delle distanze legali".

Tuttavia, le ricordate affermazioni della giurisprudenza non possono indurre ad escludere senz'altro la possibilità di avvalersi dell'eccezione di inadempimento per il solo motivo che fonte del rapporto biunivoco, reciproco e corrispettivo non sia un contratto[7].

La Corte di Cassazione[8] ha inevitabilmente escluso corrispettività ad un accordo di separazione consensuale, omologato dal Tribunale di Milano, con il quale il padre donava alla figlia, quale datio in solutum, per il proprio obbligo di mantenimento nei confronti di questa, una propria casa ritenendo di aver diritto, quale "controprestazione", acché la moglie consentisse visite o incontri con la figlia. In realtà entrambi gli obblighi, paterno e materno, trovano fonte nella legge e non sono tra di essi in rapporto di corrispettività, nemmeno in forza dell'omologato accordo di separazione, sicché la violazione dell'uno o dell'altro non può trovare tutela nei rimedi contrattuali di cui all'articolo 1453 e 1460 c.c.[9]

In materia di rapporti tra società ed amministratori, la fonte legale del rapporto[10] di natura societaria e quindi di immedesimazione organica non sembra assumere effetto preclusivo all’utilizzo dell’exceptio[11]. E’ anche vero che la posizione sottesa alla decisione delle Sezioni Unite n. 1545/2017 risente dell’angolazione prospettica di un confronto con il rapporto di lavoro subordinato ai fini specifici di quella decisione e che il rapporto di immedesimazione organica, di per sé, non esclude l’alterità e la contrapposizione astratta dell’amministratore rispetto alla società, come esplicitato nello specifico regime di responsabilità dell’amministratore di società che poggia su una fitta rete di obblighi, taluni generali ed altri puntuali.

Se non è premessa indefettibile della proponibilità dell'eccezione l'esistenza di una fonte contrattuale, dovrebbe dunque ammettersi che l'articolo 1460 c.c. sia invocabile in caso di gestione di affari altrui[12].

Quanto, invece, alle cosiddette obbligazioni propter rem, si è già visto che la commistione di elementi di realità e personalità rende difficile una risposta affermativa e definitiva (da un lato, si nega che i rapporti condominiali possano ricadere nell'area di operatività dell'eccezione qui esaminata[13], dall'altro si ammette che possano esservi inclusi i rapporti contrattuali che danno origine ad una servitù) benché, tuttavia, dato l'orientamento giurisprudenziale attuale che li considera un numerus clausus, il problema assuma limitato rilievo.

Diffusa è la giurisprudenza che ammette l'esercizio dell'eccezione d’inadempimento in sede di stipula del contratto definitivo quando vi sia stato inadempimento del contratto preliminare, specie in presenza di vizi o mancanza di qualità essenziali della cosa compravenduta. Diversi sono specialmente i casi in cui è stata ritenuta legittima la sollevazione dell'eccezione di inadempimento per la mancanza di abitabilità di un immobile o l'esistenza di trascrizioni o iscrizioni pregiudizievoli[14] sul bene compravenduto o sul bene costruito, in caso di appalto[15].

La giurisprudenza nega, invece, che l'eccezione d'inadempimento possa trovare applicazione in sede di esecuzione forzata: "La tutela di cui all'art. 1460 c.c., la quale consente di mantenere in vita il contratto e tuttavia nel sospendere l'adempimento quando ciò sia giustificato dall'inadempimento altrui, non è estendibile alla vendita forzata. Pertanto, non è valutabile la sussistenza degli estremi dell'articolo 1460 c.c. (o eventualmente degli artt. 1481 e 1482 c.c.) al fine di escludere la decadenza dell'aggiudicatario e la confisca della cauzione o al solo fine di escludere quest'ultima nell'ipotesi in cui l'aggiudicatario non versi il prezzo nel termine adducendo la sussistenza di una situazione che comporta l'applicabilità delle norme sopraindicate".[16]

Discussa è la possibilità di invocare l'eccezione d'inadempimento nelle obbligazioni negative ossia di sospendere l'obbligo negativo violandolo. Il dubbio è originato dal fatto che la violazione dell'obbligo negativo è, per sua natura, irrimediabile e quindi incompatibile con la funzione dilatoria dell'eccezione d'inadempimento[17]. Più correttamente e prudentemente, altri autori[18] hanno segnalato che non sempre alla violazione di obbligazioni negative consegua l'effetto di vanificare l'interesse del creditore leso. Vi è differenza tra la violazione di un obbligo di non alienare che, una volta violato, non può essere rimediato e violazione di un obbligo di non concorrenza che, seppure temporaneamente violato, può essere per il futuro ancora interesse del creditore che non venga disatteso.

 

[1] Cass. civ., 4 maggio 1993, n. 5180 in Mass. Giur. It., 1993: "L'eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.) è proponibile solo in relazione ai contratti con prestazioni corrispettive, in quanto è preordinata alla tutela degli interessi contrapposti delle parti, e non è, quindi, configurabile in ordine al contratto di società, nel quale non vi sono interessi contrapposti tra il socio e l'ente sociale e questo, in caso di morosità del primo nell'adempimento dei propri obblighi, ha solo l'alternativa di pretendere l'adempimento o di sciogliere il vincolo sociale, limitatamente al socio inadempiente, con l'esclusione dello stesso”.

[2] Nel caso delle cooperative edilizie Cass. civ. 7 marzo 2008, n. 6197, in Mass. Giur. It, 2008,: "Nelle cooperative edilizie aventi come scopo la costruzione di alloggi e l'assegnazione degli stessi in godimento e, successivamente, in proprietà individuale ai soci, le anticipazioni e gli esborsi effettuati dal socio non a titolo di conferimento od in conseguenza dell'obbligo inerente alla partecipazione alle spese comuni di organizzazione e di amministrazione, ma per il conseguimento dei singoli beni o servizi prodotti dalla cooperativa, pongono il socio nella posizione di creditore verso la cooperativa, posizione che - una volta avvenuto lo scioglimento del rapporto sociale - si manifesta come diritto alla restituzione delle somme anticipate (sempre che la proprietà dell'alloggio non sia stata nel frattempo conseguita e lo scopo sociale non sia stato raggiunto); al diritto di credito al rimborso, tuttavia, non corrisponde un diritto di ritenzione dell'alloggio, nè in relazione a ciò è possibile avvalersi dell'exceptio inadimplenti non est adimplendum" di cui all'articolo 1460 c.c., poichè gli obblighi di riconsegna e di restituzione delle somme non sono configurabili come prestazioni reciproche di un sinallagma contrattuale, ma soltanto come un effetto del venir meno del rapporto sociale tra il socio receduto od escluso e la cooperativa". Conforme, Cass. civ. 10 luglio 2009, n. 16304 in Contratti, 3, 2010, p. 232 con nota di Angiuli ma v. in senso che appare difforme, Cass. civ. 18 gennaio 2001, n. 694, in Società, 2001, n. 8, con nota di Paolucci, Mutualità e scambio mutualistico nelle cooperative, p. 945: "Il principio secondo il quale i rimedi generali dettati in tema di inadempimento contrattuale (risoluzione del contratto, exceptio inadimpleti contractus, ecc.), non sono utilizzabili nel diverso ambito dei contratti societari (per essere questi ultimi caratterizzati non già dalla corrispettività delle prestazioni dei soci, bensì dalla comunione di scopo, sì che i rimedi invocabili sono quelli del recesso e dell'esclusione del socio) non si applica alle società cooperative, nelle quali il rapporto (ulteriore rispetto a quello relativo alla partecipazione all'organizzazione della vita sociale) attinente al conseguimento dei servizi o dei beni prodotti dalla società, è caratterizzato dalla contrapposizione tra quelle prestazioni e il prezzo corrispettivo. In particolare, con riguardo alle cooperative edilizie, un tale rapporto economico-giuridico, distinto da quello sociale, instaurandosi (tra socio prenotatario e società) nella fase della successiva attribuzione dell'unità immobiliare costruita, caratterizza tale attribuzione come vero e proprio atto traslativo della proprietà a titolo oneroso, sicchè riprendono vigore i rimedi generali volti a mantenere, o ristabilire, l'equilibrio sinallagmatico fra le prestazioni."

[3] Cass. civ. 4 dicembre 1995, n. 12487, in Giur. it., 1996, I, 1, 722, "Una volta verificatasi una causa di scioglimento ex articolo 2272 c.c. di una società di persone costituita tra due soci, qualora uno dei soci della società ormai disciolta proponga nei confronti dell'altro domanda di adempimento relativamente ad un'obbligazione avente la sua fonte nel contratto costitutivo, non è impedita la proponibilità dell'eccezione di inadempimento ex articolo 1460 c.c., da parte del socio convenuto, secondo i principi contrattuali generali, in quanto le obbligazioni corrispettive facenti capo ai due soci non devono essere considerate e valutate nell'ambito di un rapporto societario o della vita di una società ormai disciolta, e sulla quale non possono  più incidere in alcun modo". V. anche Cass. civ. 12 dicembre 2014, n. 26222, in Pluris. Cass. civ. 18 gennaio 2001, n. 694, in Diritto societario, 2001, 945, con nota di PAOLUCCI.

[4] Bianca, op. ult. cit., p. 331.

[5] Cass. civ., 4 ottobre 1986, n. 5897, in Giur. Agr. It., 1987, p. 38, con nota di Danza,:"Ai contratti associativi agrari non è applicabile il principio inadimplenti non est adimplendum stabilito dall'art. 1460 c.c. in ordine ai contratti con prestazioni corrispettive". Analogamente Cass. civ. 11 ottobre 1985, in Mass. Giust. Civ., 1985, n. 4951, che Bigliazzi Geri (op. cit., nota 1, p. 8) definisce "singolarmente restrittiva". App. Genova, Sez. agraria, 31 maggio 2007, in DeJure, in tema di affitto agrario, negando nel caso concreto la corrispettività tra l'obbligo del concedente di effettuare le riparazioni straordinarie e quello dell'affittuario di pagare il canone, ammette implicitamente la proponibilità dell'exceptio nel contratto di affitto agrario, mancando questa figura tipica contrattuale di un profilo associativo altrove, in campo di contratti agrari, rinvenibile. Rossetti, op. cit., ritiene al contrario che la negazione della corrispettività tra i due obblighi da parte della giurisprudenza (obbligo di riparazioni straordinarie a carico del concedente e obbligo di pagamento del canone a carico dell'affittuario) debba interpretarsi come inapplicabilità del rimedio dell'eccezione di inadempimento, in via generale, al contratto di affitto agrario.

[6] Cass. civ., Sez. Unite, 26 novembre 1996, n. 10492 in Giur. It., 1997, I, 1, 1544, con nota di Guerra: "L'obbligo di corrispondere gli oneri condominiali non scaturisce da un rapporto sinallagmatico di natura contrattuale, bensì dalla partecipazione necessaria alla proprietà comune degli impianti. Consegue che il rimedio di cui all'art. 1460 c.c., riguardante il campo dei contratti a prestazioni corrispettive, non può ritenersi applicabile ai rapporti fra condominio e condomini (Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto che la mancata o insufficiente erogazione del servizio relativo al riscaldamento centralizzato, non giustifichi il rifiuto del pagamento degli oneri ad esso relativi)". nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Genova, 28 maggio 2007, in DeJure, e Trib. Monza, 15 marzo 2000, in Giur. milanese, 2000, 309.

[7] In questo senso, Rossetti, op. ult. cit. p. 317, dove viene citata la decisione di Cass. civ., 6 agosto 1983, n. 5276, in Foro. it., 1983, Rep., voce "Servitù", 56, nella parte in cui afferma che: "...nella servitù di derivazione e presa d'acqua in cui il proprietario del fondo servente si sia obbligato a sollevare l'acqua dal sottosuolo a norma dell'art. 1030 c.c. l'eventuale inadempimento della prestazione accessoria non incide sul rapporto costitutivo della servitù, atteso che l'utilità consiste nell'assicurare al fondo dominante la disponibilità di una determinata quantità d'acqua a scopo irrigatorio, e le opere occorrenti per l'eduzione dell'acqua dal fondo servente hanno una funzione meramente strumentale rispetto a tale utilità, costituendo solo prestazioni accessorie della servitù, con la conseguenza che ove il proprietario del fondo dominante non paghi il corrispettivo delle correlative spese, il concedente può opporre l'exceptio inadimplenti non est adimplendum, senza che tale inadempimento importi la risoluzione del contratto costitutivo della servitù, non facendo venire meno il vantaggio di presa d'acqua obiettivo e durevole che con il titolo si è inteso attribuire al fondo dominante". In verità, la citazione riportata da Rossetti menziona l'esistenza di un contratto costitutivo della servitù e fa, dunque, applicazione diretta dell'articolo 1460 c.c. che, non ricorrendo un contratto come fonte, dovrebbe invece applicarsi in via analogica o estensiva. Nel senso dell'applicazione estensiva dell'articolo 1460 c.c. a rapporti reciproci che non abbiano fonte contrattuale si pronuncia Realmonte, op. cit., p. 227

[8] Cass. civ., 17 giugno 2004, n. 11342, in Giust. civ., 2005, I, p. 415.

[9] La sentenza, inter alia, così afferma: "La stessa normativa in materia di separazione dei coniugi non consente di ravvisare, in un accordo solutorio del tipo di specie sul mantenimento della prole, parte essenziale del più ampio accordo di separazione tra coniugi, omologato dal giudice, quel rapporto di sinallagmaticità tra le prestazioni delle parti, che è fondamento della risolubilità od ineseguibilità del contratto per inadempimento, secondo le previsioni degli artt. 1453 e 1460 c.c. Ed invero, nient'affatto compatibile col vincolo di corrispettività tra prestazioni è la previsione che all'interesse esclusivo della prole, non ad altro, debba farsi riferimento sia nell'adozione dei connessi provvedimenti di separazione giudiziale (art. 155, co. primo, c.c.) e sia nel provvedimento di omologazione della separazione consensuale (art. 158, comma secondo, c.c.) ...".

[10] Cass. civ. Sez. Unite. 20 gennaio 2017, n. 1545 in One Legale nell’esaminare funditus la questione della pignorabilità dell’emolumento dell’amministratore di società, esclude il carattere di remunerazione proprio del lavoro dipendente poiché: “L'amministratore unico o il consigliere d'amministrazione di una società per azioni sono legati da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell'immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell'assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dall'art. 409 c.p.c., n. 3. Ne deriva che í compensi spettanti ai predetti soggetti per le funzioni svolte in ambito societario sono pignorabili senza í limiti previsti dall'art. 545 c.p.c., comma 4.”

[11] Trib. Milano, sez. imprese (B), 29 novembre 2018 in Le società, 12, 2019, con nota di BREGGIA, Eccezione di inadempimento tra società e amministratore, cit. p. 1385 e ss.  

[12] Realmonte, loc. ult. cit. (nota 21). Al gestore spettano infatti, ai sensi dell'articolo 2031 c.c., il rimborso delle spese necessarie o utili con gli interessi dal giorno in cui sono state sostenute, oltre all'eventuale obbligo di corresponsione di indennizzi.

[13] Con riferimento all'obbligo di pagamento degli oneri condominiali ex articolo 1123 c.c. (per cui v. supra nota 93).

[14] Cass. civ. 18 settembre 2003, n. 13767, in Giur. Bollettino legisl. tecnica, 2004, 253; Cass. civ. 25 febbraio 2002, in Mass. Giur. It., 2002; Cass. civ. 8 marzo 2001, in Danno e resp., 2001, 7, 758 e Mass. Giur. It., 2001, che ammette l'esperimento dell'eccezione di inadempimento in presenza di vizi della cosa venduta. Cass. civ. 3 luglio 2000, n. 8880, in Mass. Giur. It., 2000.

[15] Trib. Brescia, 1 dicembre 2003, in Mass. Trib. Brescia, 2004, 16.

[16] Cass. civ., 19 giugno 1995, n. 6940, in Fall., 1996, 1, 58.

[17] Zana, La regola della buona fede nell'eccezione d'inadempimento, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1972, p. 1388.

[18] Realmonte, op. cit., p. 232; Bigliazzi Geri, op. cit., pp. 43-44.


5. c) Inadempimento.

La proposizione del rimedio di cui all'articolo 1460 c.c. presuppone un inadempimento[1] che è fatto costitutivo del diritto potestativo del creditore della prestazione - in rapporto di corrispettività con quella non eseguita - di rifiutare il proprio adempimento quando richiesto[2].

E' considerato sufficiente ai fini dell'opponibilità dell'eccezione di inadempimento, salvo, in ogni caso, il controllo di buona fede, un qualsiasi inadempimento, totale o parziale, un adempimento inesatto o un ritardo nell'adempimento ed anche un inadempimento non imputabile[3] per il quale il contraente rispettoso, la controparte non soddisfatta, qualunque sia il motivo della mancata ricezione della prestazione, non può dover comunque diminuire il proprio patrimonio in presenza di un'alterazione obiettiva dell'equilibrio contrattuale.

Anche in giurisprudenza, l'opinione avversa, secondo cui l'inadempimento che legittima la proposizione dell'eccezione deve essere imputabile, è ormai da considerarsi superata.

Infatti, intuitive considerazioni di ordine equitativo hanno agevolmente prevalso su rigorose considerazioni sistematiche o su tradizionali interpretazioni dottrinali come in Cass. civ., 19 ottobre 2007, in Mass. Giur. It., 2007: "L'esercizio dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. che trova applicazione anche in riferimento ai contratti ad esecuzione continuata o periodica, nonché in presenza di contratti collegati, prescinde dalla responsabilità della controparte, in quanto è meritevole di tutela l'interesse della parte a non eseguire la propria prestazione in assenza della controprestazione e ciò per evitare di trovarsi in una situazione di diseguaglianza rispetto alla controparte medesima, sicché, detta eccezione può essere fatta valere anche nel caso in cui il mancato adempimento dipende dalla sopravvenuta relativa impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore". Nel caso specifico, esaminato dalla Suprema Corte nella sentenza appena citata, il sequestro penale di un deposito aveva temporaneamente impedito (fino alla revoca del medesimo, intervenuta successivamente) una promessa fornitura di carbone, legittimando il soggetto tenuto al pagamento a sospenderne l'effettuazione.

In proposito si segnala anche il costante orientamento della giurisprudenza che ritiene opponibile l'eccezione d'inadempimento in sede di stipula di un contratto definitivo di compravendita immobiliare quando il contratto preliminare sia stato violato dal mancato rilascio del certificato di abitabilità, benché tale mancato adempimento non sia affatto dipeso dal promittente venditore bensì da un soggetto del tutto estraneo alla pattuizione, ossia dal Comune[4].

Analogamente in un caso in cui una compagnia aerea aveva sospeso la retribuzione di un dipendente cui la polizia giudiziaria aveva disposto la revoca del tesserino di accesso alla struttura aeroportuale, in forza di una violazione non riconducibile a istruzioni o direttive del datore di lavoro, ma a un provvedimento dell’autorità, estraneo, stricto sensu, alla sfera di volizione delle parti del rapporto[5].

Lo stesso dovrà dirsi di quelle ipotesi in cui la prestazione della controparte dell’eccipiente divenga impossibile per un fatto sopravvenuto come nel caso emblematico della paralisi temporanea degli obblighi contrattuali dovuta alle misure restrittive della libertà personale ovvero alla chiusura forzosa di determinate attività cagionate dalla pandemia da Coronavirus. In proposito, rileva la formula piuttosto vaga ed ambigua dell’art. 3, comma 6 bis, D.L. n. 6/2020 e poi dall’art. 91 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, c.d. “Cura Italia”, secondo cui “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata [sic!] ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. In proposito si è osservato che: “La “moratoria” dell’inadempimento o del ritardo sulla prima tipologia di obbligazioni [ossia obbligazioni ad esecuzione istantanea] mira a posticipare l’attuazione del vincolo alla revoca delle misure che rendono temporaneamente impossibile la prestazione, senza imputare a responsabilità del debitore la ritardata prestazione, con conseguente sospensione della controprestazione in applicazione del principio inadimplenti non est adimplendum che, in sede giudiziaria, fonda autotutela attuata mediante l’exceptio inadimpleti contractus di cui all’art. 1460 c.c., e che una corrente di pensiero radicata ritiene applicabile anche nel caso di violazione non imputabile del contratto, come, per l’appunto, quella determinata da un’impossibilità non colposa di carattere temporaneo”[6]. Per quel che qui interessa e ai fini limitati di questa ricognizione, tralasciando l’esegesi puntuale della disposizione su cui vi è ampia bibliografia[7], non si può che confermare quanto la presenza di una giustificazione dell’inadempimento non impedisca alla controparte non interessata dall’evento paralizzante dell’adempimento, di avvalersi dell’exceptio.

Qualora, alla stregua della valutazione imposta dalla norma (“Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato…”) emergesse non una radicale esclusione della responsabilità del debitore, è chiaro che l’interprete e il giudice, in concreto, dovrà tenerne conto ai fini della gravità della lesione denunciata e della conseguente reazione della controparte interessata all’adempimento sospeso, sempre alla luce del criterio di buona fede di cui si dirà in appresso.

È dunque da condividersi, anche in relazione al quadro normativo emergenziale, quanto considerato di recente da un autore secondo cui legittimamente il creditore può reagire con il rimedio dell’eccezione di inadempimento al mancato adempimento del debitore “immune”[8] poiché: “i) da una parte, l’eccezione di inadempimento può essere attivata anche in reazione a inadempimenti incolpevoli, perché derivanti, ad esempio, da impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore; ii) dall’altra, se si ritenesse diversamente, il creditore finirebbe con l’essere gravato di tutte le conseguenze economiche dello stato emergenziale, dovendo (essere costretto a) eseguire nei confronti di chi si trova nell’impossibilità (fattuale e giuridica) di farlo”. La natura temporanea dell’impossibilità o della giustificazione dell’inadempimento, l’incolpevolezza, la finalità conservativa dell’esercizio dell’eccezione condurrebbero a ritenere che il contratto addivenga a una situazione di “quiescenza” o “paralisi”.

Il rifiuto dell'adempimento che è contenuto dell'eccezione ex articolo 1460 c.c. non sarà, invece, giustificato in presenza di un'offerta di adempimento da parte del debitore. L'offerta in discorso è (può ben essere) offerta non formale ai sensi dell'articolo 1220 c.c., ed essa è "l'atto mediante il quale il debitore mette a disposizione del creditore per consentirgliene l'apprensione o il godimento".[9] A differenza dell'offerta formale, gli effetti dell'offerta ex articolo 1220 c.c., sono meramente conservativi ed atti e preservare il debitore contro eventuali iniziative del creditore per l'inadempimento, inclusa, appunto, l'opposizione dell'eccezione di inadempimento. Per contro la mancanza di un'offerta (formale o meno) non può essere strumentalmente utilizzata a pretesto del proprio inadempimento[10].

In taluni specifici casi l'offerta di adempimento potrà dover rivestire carattere formale in quanto costituisca adempimento di un obbligo contenuto in un contratto preliminare di cui si chieda l'esecuzione in forma specifica[11]. Il contraente, promittente acquirente, inadempiente al versamento della caparra contemplata nel preliminare non potrebbe poi chiedere l'esecuzione in forma specifica del contratto preliminare senza esporsi ad eccezione di inadempimento del promittente alienante. Al contrario un'offerta non formale è considerata sufficiente ai fini dell'articolo 2932 c.c. quando la prestazione non sia già esigibile al momento della domanda giudiziale.

Il ritardo nell'adempimento deve comunque ritenersi idoneo a giustificare la reazione dell'altro contraente mediante l'eccezione di inadempimento, pur in assenza di un termine essenziale, se sussista un apprezzabile interesse dell'eccipiente a ricevere in termine ragionevolmente utile i benefici della prestazione, oggetto dell'accordo[12].

È invece unanimemente riconosciuto che un parziale inadempimento possa comunque legittimare la controparte a sollevare l'exceptio inadimpleti contractus[13] e il consenso unisce dottrina[14] e giurisprudenza[15]. Si ritiene anzi che il legittimo esercizio della eccezione avverso un inadempimento parziale escluda che l’eccipiente sia tenuto al pagamento degli interessi di mora relativi al periodo in cui la propria prestazione è stata sospesa proprio per effetto del corretto esercizio dell’eccezione[16]. Incertezze e differenze vi sono in dottrina invece circa la legittimità di un esercizio parziale dell'eccezione benché in giurisprudenza, almeno nell’ambito dei contratti di locazione o di affitto di azienda, dove sono previsti in corrispettivo del godimento di un bene pagamenti periodici di canoni, si sia consolidato un orientamento favorevole [17]. Proprio il caso dell'inadempimento parziale rende necessario valutare la misura della violazione che è causa della proposizione dell'eccezione in rapporto al rifiuto della controprestazione, comparando l'atto causativo (inadempimento) e l'atto causato (rifiuto di adempimento) in guisa da valutarne la proporzione e la correttezza alla luce dei canoni elaborati in sede di buona fede ex articolo 1460 c.c., secondo comma. L'ostilità antica nei confronti dell'eccezione non rite adimpleti contractus trae forse origine dalle medesime radici tipologiche del rimedio, nato nell'ambito del contratto di compravendita in concorrenza ad altri mezzi di tutela, come le azioni edilizie cui oggi, al contrario, la giurisprudenza non riconosce il ruolo esclusivo di tutela contro i vizi dei beni oggetto di compravendita[18]. E', infatti, ricorrente l'affermazione in giurisprudenza secondo cui l'eccezione non rite adimpleti contractus costituirebbe un rimedio di carattere generale, se non un principio o l'espressione tipica del principio di autotutela contrattuale e avrebbe fondamento nel comma 2 dell'articolo 1460 c.c.[19].

Anzi, lo stesso criterio di buona fede, con i suoi corollari di proporzionalità, cronologia e causalità, hanno la propria area di elezione nel vaglio di legittimità dell'esercizio dell'eccezione a fronte di un inadempimento parziale[20], come meglio si vedrà esaminando il criterio di buona fede applicato all'eccezione in parola.

Non si è mancato di osservare, peraltro, che una corretta e rigorosa nozione di adempimento imporrebbe di considerare già il primo comma quale fonte del riconoscimento dell'opponibilità dell'eccezione di inadempimento poiché vi è identità tra inadempimento, inesatto adempimento e ritardo nell'adempimento, costituendo tutti questi casi ipotesi di inadempimento[21].

L'identità logico-giuridica delle diverse situazioni di inadempimento tuttavia non esclude la diversa rilevanza empirica e, quindi, la differente reazione della controparte alla luce della quale si potrà misurare l'eventuale esercizio dell'eccezione d'inadempimento[22].

Diverso è infatti l'effetto dell'accettazione pura e semplice dell'adempimento, dell'accettazione con riserva e dell'accettazione piena della prestazione inesatta, in quanto ritenuta comunque idonea a soddisfare l'interesse del contraente fedele[23].

Nei primi due casi, è certo che il creditore-debitore possa ricorrere all'eccezione d'inadempimento, nell'ultimo caso, altrettanto convincentemente dovrebbe negarsi l'esperibilità del rimedio[24]. Inversamente e parallelamente, l'eccezione non può trovare luogo nei casi in cui la parte che la invoca, si sia posta nella condizione di non poter più adempiere[25]. L'eccezione, infatti, consente, in presenza dell'inadempimento (totale o parziale) di una delle parti, di conservare il vincolo contrattuale, in attesa che l'adempimento vi sia o che l'adempimento inesatto venga corretto o integrato, esso "non distrugge il rapporto, ma, anzi, punta alla sua conservazione, agevolando la piena attuazione dell'equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni dedotte in contratto"[26]. Se l'inadempimento dell’attore è irreversibile, il convenuto può proporre una domanda di risoluzione, non una eccezione di inadempimento. Ciò non significa che l'eccezione di inadempimento sia volta solo a paralizzare un'azione di adempimento né, per converso, che essa rappresenti un mero atto preparatorio della risoluzione.

Infatti, l'eccezione di inadempimento può fungere anche come difesa nei confronti della proposizione di una domanda di risoluzione[27] o dell'operatività di una clausola risolutiva espressa[28].

Tuttavia, nell'esperienza recente, specie in materia di contratti d'opera professionale si registra un orientamento consolidato teso ad attribuire all'eccezione - proponibile indipendentemente dalla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, in questa sede irrilevante[29] - una valenza ulteriore che supera la natura originaria di mezzo dilatorio a scopo conservativo per assumere i connotati del rimedio estintivo, "pararisolutorio" determinante la perdita del diritto al compenso del professionista inadempiente cui l'eccezione di inadempimento venga opposta[30] indipendentemente dalla proposizione di una domanda di risoluzione[31] ed, anzi, in mancanza della proposizione di un'azione di risoluzione[32].

Si è già visto come l'excipiens possa paralizzare l'utilizzo della clausola risolutiva espressa e della diffida ad adempiere promossa dalla controparte mentre conserva intatto il diritto di avvalersene in proprio ai fini di far constatare la definitiva risoluzione del rapporto.

In caso di termine essenziale stabilito nell'interesse della parte inadempiente, l'opinione degli studiosi è divisa tra chi esclude che l'esercizio del potere di rifiuto dell'excipiens abbia effetto estintivo in quanto l'esercizio di un diritto potestativo è incompatibile con un inadempimento imputabile[33] e chi ritiene che il caso concreto - quand'anche la regola dell'articolo 1457, secondo co. c.c., non trovasse applicazione per mancanza di un inadempimento imputabile - dovrebbe comunque essere analizzato alla luce dell'interesse effettivo che la prestazione possa avere per il creditore dell'eccipiente sia pure a seguito di un ritardo non imputabile[34].

 

[1] Cass. civ. 13 aprile 2010, cit. :"La domanda di adempimento in forma specifica dell'obbligo di concludere un contratto avente ad oggetto una cosa determinata può essere respinta solo in caso di inadempimento della parte istante e non anche quando la stessa a termini dell'articolo 1460 c.c., si sia rifiutata (in precedenza) di addivenire alla conclusione del contratto eccependo l'inadempimento della parte promittente venditrice, come nel caso di avvenuta iscrizione, da parte del promittente venditore, di ipoteca sull'immobile in violazione dell'obbligo di trasmettere la proprietà libera da garanzie reali".

[2] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 17.

[3]Bigliazzi Geri, op. cit., p. 19, che lo definisce più correttamente "mancato adempimento". Per l'irrilevanza dell'imputabilità anche Realmonte, op. cit., p. 227 e Sacco, op. cit., p. 646, che efficacemente stigmatizza l'implausibile soluzione opposta: "A noi pare assurdo, peraltro, che un conduttore sia obbligato a pagare il canone ad un locatore che, sia pure senza colpa, non gli ha dato l'appartamento". L'opinione contraria appare oramai recessiva e legata alla concezione sanzionatoria dell'eccezione.

[4] Cass. civ. 11 maggio 2009, n. 10820.

[5] Cass. civ. sez. lavoro, 4 luglio 2018, n. 16388, in OneLegale.

[6] PIRAINO, La normativa emergenziale in materia di obbligazioni e di contratti, I Contratti, 4/2020, pp.485 e ss. dove si rinviene un’analisi dettagliata degli effetti delle misure emergenziali sull’equilibrio contrattuale anche in ragione dei tipi sociali o, se si preferisce, settoriali di contratto.

[7] Si rinvia in proposito alla bibliografia presente in PIRAINO, La normativa emergenziale in materia di obbligazioni e di contratti, in I Contratti, 4/2020, pp.485 e ss.

[8] BENEDETTI, Stato di emergenza, immunità del debitore e sospensione del contratto, in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, n. 3, 1 maggio 2020 che definisce “immune” (forse anche in assonanza al dominante linguaggio di impronta sanitaria nel dibattito pubblico) il debitore di cui in forza della legge emergenziale possa scusarsi l’inadempimento alla stregua della valutazione da condursi secondo la disciplina eccezionale dettata per la crisi pandemica. In quest’ottica, dunque, si comprende anche il rilievo secondo cui l’eccezione di inadempimento assolverebbe in questo caso per il creditore non inadempiente a una funzione eminentemente conservativa laddove normalmente, secondo l’autore, il rimedio persegue una funzione di stimolo al conseguimento della controprestazione.

[9] Bianca, Inadempimento delle obbligazioni, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna, 1983, p. 219. L'offerta che dovrà essere esatta, seria e tempestiva deve concretamente porre il creditore nelle condizioni di ricevere la prestazione.

[10] È questo il caso, peraltro meglio configurabile come una concreta applicazione del canone correttivo delle buona fede, deciso da Cass. civ., sez. lavoro, 28 dicembre 1991, n. 13977, in Mass. Giur. It., 1991.

[11] Cass. civ. 13 dicembre 2007, in Mass. Giur. It., 2007 e in Contratti, 2008, 5, 487. V. anche Cass. civ. 28 ottobre 2004, n. 29867, in Mass. Giur. It. 2004. Analogo ragionamento è stato svolto da Trib. Roma, 5 aprile 2000, in Giur. romana, 2000, 332. In generale, il secondo comma dell’articolo 2932 c.c. e il principio inadimplenti non est adimplendum, pur non essendo in rapporto di specie a genere, danno luogo a un necessario ma delicato intreccio e contemperamento, per il cui approfondimento, che qui non ci è concesso, preferiamo rinviare all’analisi puntuale contenuta nel recente articolo di Venturelli,  L’ambito di operatività dell’art. 2932, 2° co., c.c.: la “esigibilità” della prestazione, in Obbl. e Contr., 2011, 01, 40 e ss.

[12] Cass. civ. 24 febbraio 1982, n. 1182, in Mass. Giur. It., 1982.

[13] Dubbi sull'ampio riconoscimento dell'exceptio non rite adimpleti contractus si rinvengono oggi molto limitatamente e larvatamente in dottrina (Breccia, Le obbligazioni, Milano, 1991 e Roppo, Il contratto, Milano, 2001, p. 986 e ss., esplicitamente contrario Dalmartello, op. cit., p. 357)  Invero, alcune sentenze, in particolare in tema di locazione e di rapporto di lavoro subordinato non hanno segno univoco e, talvolta, accolgono l'eccezione di inadempimento solo quando l'inadempimento della controparte sia totale mancando del tutto l'adempimento della prestazione primaria. In tal senso, Cass. civ. 23 aprile 2004, n. 7772, in Guida al diritto, 2004, 28, 61: "Al conduttore di immobile urbano non è consentito astenersi dal versare il corrispettivo o di determinare unilateralmente il canone, nel caso in cui si verifichi una riduzione o diminuzione del godimento del bene, anche quando si assume che tale evento sia ricollegabile a fatto del locatore, e ciò perché la sospensione totale o parziale di detta obbligazione, ai sensi dell'articolo 1460 c.c. è legittima solo quando venga completamente a mancare la prestazione della controparte". In materia di rapporto di lavoro subordinato, si veda Cass. civ., sez. lavoro, 23 dicembre 2003, n. 19689, in Mass. Giur. It., 2003 e Gius. 2004, 2232 (ma anche in Lavoro nella giur., 2004, 1169 con nota di Dallacasa),  V. anche Cass. civ., sez. lavoro, 1 marzo 2001, n. 2948, in Riv. It. dir. lav., 2002, II, 70, con nota di Marra e in Dir. Lav., 2002, II, 181, con nota di Iacobone. Nello stesso senso Cass. civ., sez. lavoro, 9 maggio 2007, n. 10547, in Riv. It. dir. lav., 2008, 3, 597, con nota di Raimondi, Rifiuto di svolgere mansioni inferiori e licenziamento per giusta causa: un revirement nella giurisprudenza della Cassazione? Le decisioni appena mentovate, in deciso contrasto con l'orientamento giurisprudenziale maggioritario (espresso da Cass. civ., sez. lavoro, 5 gennaio 2007, n. 43, in www.adapt.it (Bolletino Adapt) e secondo cui la reazione del dipendente ad un trasferimento di sede illegittimo deve misurarsi alla stregua del canone di buona fede), di legittimità e di merito sembrano fortemente censurabili nella parte in cui negano che l'inadempimento che legittimerebbe la proponibilità dell'eccezione di inadempimento possa essere parziale ma debba essere necessariamente totale. Si oppongono due considerazioni, infatti, che paiono, entrambe decisive; in primo luogo, come meglio e più diffusamente si vedrà nel testo, che il giudizio di buona fede di cui al secondo comma dell'articolo 1460 c.c. è il parametro attraverso il quale si può e si deve misurare la legittimità di una eccezione, eventualmente sproporzionata, rispetto ad un inadempimento parziale, com'è costante insegnamento di quell'orientamento dei giudici di legittimità che appunto nel controllo di buona fede vede la conferma dell'applicabilità dell'articolo 1460 c.c. anche ai casi di exceptio non rite adimpleti contractus (per questa via le due sentenze si pongono in evidente contrasto con tale orientamento della Suprema Corte);  in secondo luogo, le due decisioni restringono il fascio complesso di obblighi riconducibili al datore di lavoro alle sole obbligazioni di remunerazione e previdenziali, omettendo di considerare che costituiscono obbligazioni primarie e non meramente accessorie, anche quelle concernenti il rispetto delle competenze, della professionalità e della dignità del lavoratore che si compendiano nel rispetto delle mansioni attribuitegli. Non sfugge al lettore l'impressione che i giudici abbiano utilizzato uno strumento giuridico e un'interpretazione, per così dire, "soverchiante" per conseguire un risultato di equità sostanziale che sarebbe stato più agevolmente raggiungibile con l'impiego di soluzioni ermeneutiche meno dirompenti e drastiche. Nel primo caso (rifiuto del lavoratore di svolgere occasionalmente mansioni inferiori) si sarebbe, infatti, potuto far ricorso all'opinione che ritiene non integrata una dequalificazione quando il lavoratore non abbia dato prova che le mansioni inferiori gli siano state affidate solo incidentalmente e marginalmente (Cass. civ., sez. lavoro, 25 febbraio 1998) con ciò escludendo in radice che via sia inadempimento da cui possa originare un diritto potestativo al rifiuto della propria prestazione; nel secondo caso, invece, sarebbero state applicabili tutte quelle decisioni che fanno ricorso ad una comparazione tra l'inadempimento datoriale e la reazione del lavoratore, per valutare se quest'ultima sia stata proporzionata e in rapporto di causalità con il primo ovvero ancora se l'eccezione non sia piegata allo scopo diverso ed ulteriore di realizzare pretestuosamente un vero e proprio inadempimento mascherandolo da reazione giustificata (in questo senso la mancata offerta della prestazione originaria, pur non richiesta ai fini del legittimo esercizio dell'eccezione d'inadempimento, è indizio di un atteggiamento contrastante con la buona fede). La dottrina lavoristica non ha mancato di aggiungere che l'orientamento criticato appare discutibile "...perchè il ricorso all'autotutela non può ritenersi limitato nè dagli obblighi di diligenza e obbedienza, nè tantomeno da quello di fedeltà, atteso che la collaborazione che il prestatore di lavoro è tenuto ad assicurare non implica un dovere di compartecipazione al risultato produttivo finale cui tende l'organizzazione di impresa. Diversamente ragionando, infatti si arriverebbe a un ingiustificato ampliamento della responsabilità contrattuale, che verrebbe proiettata oltre il limite di cui all'art. 1176, secondo comma, c.c.." (Riccobono, Profili applicativi degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie: l'autotutela individuale del lavoratore, in Riv. It. dir. lav., 2010, 01, p. 121 e ss.)  Poiché, inoltre, il demansionamento, nella prassi, non si accompagna quasi mai alla sospensione degli obblighi retributivi e contributivi l'effetto pratico sarebbe che, di fronte ad un demansionamento "retribuito", il lavoratore non avrebbe alcuna autodifesa. Ragioni che inducono a privilegiare la via del riconoscimento dell'autotutela del lavoratore anche di fronte ad un parziale illegittimo esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro qualificabile come inadempimento parziale (Riccobono, op. cit., p. 129). Autotutela, soggetta al vaglio di buona fede e proporzionalità per cui potrebbe pur sempre apparire sproporzionato e, quindi, illegittimo, il rifiuto totale della prestazione lavorativa in presenza di un inadempimento solo parziale del datore di lavoro (App. Torino, 5 giugno 2002, in Giur. piemontese, 2004, 85).

[14] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 18 e, in specie, nota 3 dove si osserva che la distinzione tra i due tipi di exceptio dovrebbe, tutt'al più incidere sulla disciplina dell'onere della prova.

[15] L'affermazione è spesso implicita. Per un'esplicitazione della questione si veda Cass. civ. 17 maggio 1983, n. 3411, in Foro. It., Repertorio, voce Locazione, n. 541..

[16] In tal senso, Cass. civ. 14 settembre 2017, n. 21315: “al riguardo va anzitutto rilevato che sospendendo l'adempimento della propria obbligazione di pagamento in ragione dei vizi denunziati, la committente ha posto in essere una condotta qualificabile come exceptio non rite adimpleti contractus; tale eccezione, infatti, non richiede l'adozione di forme speciali o formule sacramentali, essendo sufficiente che la volontà della parte di sollevarla sia desumibile, in modo non equivoco, dall'insieme delle sue difese (cfr. fra le altre Cass. 29.9.2009, n. 20870); - in proposito, questa Corte ha più volte affermato che il contraente che si avvale legittimamente di tale diritto non può essere considerato in mora, e non è perciò tenuto al pagamento degli interessi moratori e degli eventuali maggiori danni subiti dall'altro contraente, non essendo applicabile l'art. 1224 c.c., che ricollega alla mora del debitore il diritto del creditore al relativo pagamento (fra le altre, si v. Cass. 9.12.2013, n. 27437; Cass. 21.6.2010, n. 14926; Cass. 28.9.1996, n. 8567);”.

[17] Difende la possibilità di un esercizio parziale dell'eccezione Bianca, op. cit., pp. 916-918, definendola "un'eccezione proporzionale all'inadempimento del debitore" che, in taluni casi, quando l'inadempimento cui si oppone è parziale o quando un'eccezione totale sarebbe contraria a buona fede, consente di preservare l'equilibrio sinallagmatico evitando di "incappare in un eccesso di legittima difesa" (Sacco, op. cit., p. 647). Altrimenti ragionando, il contraente fedele non avrebbe altra reazione, a fronte di un inadempimento parziale che procedere alla risoluzione del contratto o chiedere l'adempimento, senza potere, proprio nel caso in cui la prestazione potrebbe, in ipotesi, essere integrata o rimediata, spingere la controparte a farlo. Nè hanno pregio i rilievi secondo cui l'eccezione parziale non sarebbe espressamente contemplata dall'articolo 1460 c.c. o che, in tal modo, l'eccipiente produrrebbe unilateralmente un effetto modificativo del contratto; il primo, infatti, non tiene conto che ammettendo l'inadempimento parziale, è giocoforza ammettere l'eccezione parziale proprio ai fini del rispetto del principio di buona fede e il secondo omette di considerare che al debitore inadempiente nulla preclude di offrire la prestazione non eseguita o la parte di prestazione non eseguita al fine di ricondurre il contratto e la sua esecuzione al loro tenore originario (Bianca, loc.ult.cit.). In giurisprudenza, un esercizio parziale dell'eccezione di inadempimento appare in tema di locazione o in materia di demansionamento o trasferimento di sede del lavoratore, con decisioni oscillanti, come si è già visto (v. specie nota 118) o che fanno, parzialmente, ricorso a principi tipologici non necessariamente estensibili o generalizzabili (il riferimento è al richiamo giurisprudenziale all'articolo 1584 c.c. che legittima una riduzione proporzionale della pigione dovuta dal conduttore quando le riparazioni condotte sull'immobile ne riducano l'uso). La giurisprudenza più recente in tema di locazione è piuttosto consolidata nell’ammettere che, in omaggio al principio di proporzionalità, un limitato godimento del bene possa essere riequilibrato o contrastato da un più limitato importo del canone. In tal senso nella recente giurisprudenza si segnala una pronuncia che considera legittima la sospensione parziale o totale del pagamento del canone di locazione, ai sensi dell’articolo 1460 c.c., nell’ipotesi di inesatto inadempimento, “purché essa appaia giustificata in relazione alla oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, riguardata con riferimento all’intero equilibrio del contratto e all’obbligo di comportarsi secondo buona fede” (Cass. civ. 22 settembre 2017, n. 22039, con riferimento a un caso nel quale il conduttore rifiuta di versare il corrispettivo, per non aver potuto esercitare nell’immobile la prevista attività di ristorazione). Successivamente, in un caso analogo riguardante un affitto di azienda per l’esercizio di attività di ristorazione in locali rivelatisi parzialmente inagibili, Cass. civ. 29 marzo 2019, n. 8760, ha censurato la pronuncia della Corte di Appello impugnata davanti al medesimo organo supremo di giurisdizione, proprio per avere la corte di merito giudicato legittima, dinanzi ad un inadempimento grave, la totale sospensione dell’intera prestazione. La Suprema Corte ha rinvenuto il fondamento della pronuncia in diritto nel richiamo alla buona fede, intesa in senso oggettivo: “La buona fede oggettiva, tra le sue tante declinazioni, vanta anche questa: che la difesa sia proporzionata all'offesa. Dunque in tanto il rifiuto di pagamento integrale del canone poteva dirsi conforme a buona fede, in quanto l'inadempimento dell'affittante avesse impedito il godimento integrale dell'azienda” e quindi ha statuito che la sentenza fosse censurabile poiché: “La Corte d'appello, così giudicando, ha accertato in facto una situazione di sproporzione tra l'inadempimento della Punta Marana Club (che fu parziale) e la reazione "difensiva" della La Marinella, che consistette in un inadempimento totale; ed ha reputato in iure che l'eccezione di inadempimento fosse legittima, e dunque conforme a buona fede. Questa valutazione costituì perciò una violazione dell'art. 1460 c.c., perché ha ritenuto applicabile tale norma in un caso in cui l'oggettiva sproporzione tra i contrapposti inadempimenti rendeva la difesa non proporzionata all'offesa, e quindi non conforme a buona fede”. Alla luce di questa ordinanza si ricava che il rispetto della buona fede può non solo consentire ma anche esigere un esercizio solo parziale dell’eccezione di inadempimento.  

Anche Cass. civ. 26 luglio 2019, n. 20322, in tema di locazione ha confermato l’orientamento prima descritto: “non vi è alcun dato positivo né ragione logica o sistematica che impongano di adottare, con riferimento al contratto di locazione, una interpretazione diversa ovvero una versione per così dire più limitata di tale strumento di autotutela e dei relativi presupposti”, per cui i “criteri di buona fede e proporzionalità sinallagmatica che concretano il funzionamento dell’istituto verrebbero traditi ove, pur in presenza di accertati inadempimenti del locatore, ancorché non tali da escludere ogni possibilità di godimento dell’immobile, non si ammettesse una ‘proporzionale’ sospensione della prestazione di controparte, ma se ne richiedesse al contrario l’integrale adempimento”.

[18] Cass. civ. 1 ottobre 1997, n. 9560, in Corriere giur., 1998, p. 559 con nota di Vidiri, Contratto preliminare e mezzi di tutela del promissario acquirente, in cui si riconosce al promissario acquirente la possibilità di avvalersi dell'eccezione d’inadempimento anche qualora sia decaduto dall'azione di garanzia per vizi o ne sia privo per intervenuta prescrizione.

[19] Cass. civ., 7 gennaio 2004, n. 58, in Guida al diritto, 2004, 7, 66. La decisione rinvia a giurisprudenza precedente della medesima Corte, a maggior conforto della tesi accolta (Cass. 4457/82; 250/85; 3341/2001). Le citate sentenze si collocano al cuore del dibattito in tema di eccezione d'inadempimento e locazione in cui si confrontano i pronunciamenti (come Cass. civ. 7772/2004, già citata in nota 118 supra, ma anche Cass. civ. 5 ottobre 1998, n. 9863 in Mass. Giust. Civ. 1998, 2014; 3411/83) secondo cui è legittima, ex articolo 1460 c.c., una riduzione unilaterale o una sospensione integrale del pagamento del canone da parte del locatario, solo nel caso in cui l'inadempimento del locatore sia integrale. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Padova, 11 luglio 2001, in Mass. Giur. Civ. Patavina, 2006, che definisce l'autoriduzione o la sospensione del pagamento del canone da parte del locatario, a fronte di inadempimento parziale del locatore, come "fatto arbitrario ed illegittimo". L'atteggiamento favorevole al riconoscimento dell'opponibilità dell'exceptio non rite adimpleti contractus si avvale, in realtà, di un argomento ulteriore e rafforzativo derivante dalla specifica normativa applicabile in materia di locazione (articolo 1584, co. 1, c.c.) che consente la riduzione del canone, nel caso specifico applicata in autotutela dal conduttore, purché nel rispetto dei canoni di buona fede e correttezza e del principio di proporzionalità, come in Cass. civ. 8 gennaio 2010, n. 74, in Giust. civ. 2010, 3, p. 584 e in Cass. civ. 7 marzo 2001, n. 3341, in Contr. 2001, 995, con nota di Zappata, Eccezione di inesatto adempimento e denunzia dei vizi della cosa locata, richiamata da App. Catania, 23 maggio 2007, DeJure, : "L'"exceptio non rite adimpleti contractus", di cui all'articolo 1460 c.c. postula la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, da valutare non in rapporto alla rappresentazione soggettiva che le parti se ne facciano, ma in relazione alla oggettiva proporzione degli inadempimenti stessi, riguardata con riferimento all'intero equilibrio del contratto e alla buona fede; pertanto, il conduttore, qualora abbia continuato a godere dell'immobile, per quanto lo stesso presentasse vizi, non può sospendere l'intera sua prestazione, consistente nel pagamento del canone di locazione e degli oneri accessori, perché così mancherebbe la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, potendo giustificarsi, ricorrendone i presupposti, soltanto una riduzione del canone proporzionata all'entità del mancato godimento, applicandosi, per analogia, i principi dettati dall'art. 1584 c.c." e da Trib. Benevento, 10 dicembre 2007, in DeJure, secondo cui: "In tema di locazione di immobili, il conduttore che continua a godere dell'immobile, per quanto esso presenti vizi, non può sospendere integralmente il pagamento del canone di locazione, giustificandosi in tal caso, ex articolo 1460 c.c., soltanto una riduzione del canone proporzionata all'entità del mancato godimento dipendente dai difetti dell'immobile, imputabili ad inadempimento del locatore agli obblighi di manutenzione a suo carico, in applicazione analogica dei principi di cui all'art. 1584 c.c.".

[20] Addis, op. cit., p. 452, secondo cui "non sembra azzardato affermare che l'area occupata da questa controversa figura coincide interamente con l'operatività della regola di buona fede".

[21] Natoli, Attuazione del rapporto obbligatorio, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 1984, Tomo II, p. 52.

[22] Addis, op. cit., p. 452.

[23] realmonte, op. cit., p. 228.

[24] In questo senso, Cass. civ., 4 gennaio 1996, n. 26, in Mass. Giur. It., 1996: "Nel caso in cui, nella opposizione all'esecuzione forzata promossa sulla base di titolo cambiario, si deduca la inefficacia del rapporto causale per asseriti vizi della cosa venduta, non può l'opponente invocare, per paralizzare l'azione esecutiva, l'eccezione d'inadempimento di cui all'art. 1460 c.c., avendo ormai l'altra parte, per ammissione dello stesso opponente, adempiuto alla propria obbligazione, ancorché in modo inesatto, sicché non ricorre uno dei presupposti essenziali della norma citata, diretta ad apprestare un rimedio contro il rischio dell'altrui inadempimento". Nei contratti di durata, il principio espresso si applica alle prestazioni già eseguite (Cass. civ., 28 ottobre 1991, n. 11469, in Mass. Giur. It., 1991: "Nei contratti a consegne ripartite, e per il caso in cui la prestazione sia economicamente scindibile, l'eccezione inadimplenti non est adimplendum (art. 1460 c.c.) può paralizzare la richiesta della controprestazione, relativa alla parte della prestazione non eseguita, ma non quella relativa alla parte della prestazione già eseguita, che non sia stata restituita né offerta in restituzione".

[25] Cass. civ., 28 aprile 1986, n. 2923, in Mass. Giur. It., 1986 :"Il promittente venditore, che si sia reso definitivamente inadempiente all'obbligo assunto con il preliminare, avendo ad altri trasferito il bene, ove evocato in giudizio con azione di risoluzione proposta dal promittente acquirente, il pregresso inadempimento di quest'ultimo, solo a sostegno di una propria domanda riconvenzionale di risoluzione, non quale mera eccezione per paralizzare la pretesa attrice, atteso che l'eccezione d'inadempimento, di cui all'art. 1460 c.c., configura uno strumento accordato alla parte che voglia salvaguardare i propri interessi, nell'ambito della conservazione del rapporto, e non può essere quindi utilizzata da chi si sia volontariamente posto nell'impossibilità di dare esecuzione al contratto". Analogamente, Cass. civ., sez. lavoro, 16 gennaio 1996, n. 307, in Riv. It. dir. lav., 1996, II, con nota di Saisi e in Mass. Giur. It., 1996 :" Con riguardo al mezzo di autotutela previsto dall'art. 1460 c.c. (utilmente invocabile anche nel contratto di lavoro subordinato tenuto conto della sua tipica natura di contratto a prestazioni corrispettive) se la parte chiamata successivamente ad adempiere non si avvale del rimedio consentito dall'exceptio inadimpleti contractus ed esegue invece la prestazione, deve eseguirla esattamente, non potendo più richiamarsi al principio "inadimplenti non est adimplendum", dal momento che eseguendo, benché inesattamente, la prestazione dimostra di non volersi avvalere dell'eccezione, mentre dall'altra parte non è interdetto di avvalersi, per l'inesattezza dell'adempimento, del potere di risoluzione del contratto".

[26] A.M. Benedetti, L'eccezione di inadempimento, op.cit., p. 635.

[27] Cass. civ., 13 aprile 2000, n. 4809, in Mass. Giur. It., 2000 e Contratti, 2000, 8/), p. 791: "L'exceptio inadimpleti contractus ex articolo 1460 c.c. è invocabile oltre che per paralizzare una domanda di adempimento anche nei confronti della domanda di risoluzione della controparte". È da notare che, nel caso in cui domandasse la risoluzione un soggetto inadempiente, mancherebbero le condizioni stesse per l'accoglimento della domanda sicché risulterebbe, secondo alcuni (Grasso), persino superfluo sollevare l'eccezione di inadempimento. In realtà, quest’ultima opinione, che tende a limitare fortemente l’ambito operativo del rimedio di cui all’articolo 1460 c.c., appare emarginata dall’orientamento giurisprudenziale corrente richiamata da Cass. civ., 3 febbraio 2015, n. 1904, secondo cui nell’ipotesi di reciproci inadempimenti sono da rammentare: “…i noti principi giurisprudenziali (da ultimo ancora ribaditi) di questa Corte, secondo cui "nei contratti con prestazioni corrispettive non è consentito al giudice del merito, in caso di inadempienze reciproche, di pronunciare la risoluzione, ai sensi dell'art. 1453 c.c., o di ritenere la legittimità del rifiuto di adempiere, a norma dell'art. 1560 c.c., in favore di entrambe le parti in quanto la valutazione della colpa dell'inadempimento ha carattere unitario, dovendo lo stesso addebitarsi esclusivamente a quel contraente che, con il proprio comportamento prevalente, abbia alterato il nesso di interdipendenza che lega le obbligazioni assunte mediante il contratto e perciò dato causa al giustificato inadempimento dell'altra parte" (Cass. civ., Sez. 2, 11 giugno 2013, n. 14648, nonché Cass. n. 20614/2009 e n. 13840/2010).”.

[28] Cass. civ. 11 ottobre 1989, n. 4058, in Mass. Giur. It., 1989, in quanto non potrebbe domandare la risoluzione il soggetto che fosse, a sua volta, inadempiente.

[29] Irrilevante in quanto assorbita dalla valutazione della violazione dell'obbligo di diligenza ex articolo 1176 c.c. da parte del professionista, così, Cass. civ. 26 marzo 2010, n. 7251; Cass. civ. 9 febbraio 2010, n. 2898, in Guida al dir. 2010, 26, p. 100 (s.m.).

[30] Cass. civ. 5 agosto 2002, n. 11728 in Riv. trim. app. 2003, 455 con nota di Dafarra, L'oggetto dell'obbligazione professionale e il diritto al compenso del professionista; in termini analoghi, Cass. civ. 29 novembre 2004, n. 22487, in Mass. Giur. It., 2004; Cass. civ. 23 aprile 2002, n. 5928, in Mass. Giur. It., 2002 e in Danno e resp., 2003, I, 66 con nota di Bonetta; Cass. civ. 4 maggio 2010, n. 10737, (inedita), in cui si è ritenuto che l'inadempimento di un avvocato, conformemente alla giurisprudenza citata in precedenza, abbia determinato "in applicazione del principio di cui all'articolo 1460 c.c., la perdita del compenso". L'orientamento esaminato, originariamente formatosi in materia di responsabilità dei professionisti tecnici (architetto, ingegnere), abbraccia oggi la responsabilità professionale di professionisti estranei al settore tecnico, inteso stricto sensu, offuscando il confine (sempre incerto, per vero) tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato.

[31] Fortemente critico il giudizio di A.M. Benedetti, L'eccezione di inadempimento, cit., p. 640 che definisce quello accolto dalla Suprema Corte, un "uso distorto dell'eccezione di inadempimento" ovvero ancora, citando Roppo, come la legittimazione di una "giusta causa di un inadempimento radicale e definitivo" (Roppo, Il contratto, p. 989). BREGGIA, op. cit. p. 1393 e s. rileva come l’effetto unilaterale pararisolutorio dell’exceptio si registri anche nell’ambito dei rapporti tra l’amministratore e la società poiché, se la seconda potrebbe rifiutare il pagamento dell’emolumento al proprio amministratore, questi non potrebbe mai in sede di autotutela sottrarsi agli obblighi che a suo carico pone la legge, obblighi posti tuttavia, nel caso dell’amministratore di società,  a tutela di profili che coinvolgono soggetti terzi (quali ad esempio la diligente informazione e gestione sociale nell’interesse di creditori, dipendenti, finanziatori e quindi di diverse categorie di stakeholder) oppure, come nel caso del difensore, involgenti valori primari di rango costituzionale (diritto di difesa, art. 24 Cost.).

[32] Comportamento espressamente contemplato nella casistica elaborata da Bianca, Eccezione d'inadempimento etc., cit., p. 907, come contrario a buona fede in quanto il creditore della prestazione professionale, tramite l'esercizio dell'eccezione, non si limita a preservare il vincolo contrattuale in vista del conseguimento della prestazione altrui (ormai irrimediabile) ma, addirittura, consegue un vantaggio indebito. v. anche Realmonte, op.cit., p. 232.

[33] Bigliazzi Geri, op.cit., pp. 47-8.

[34] Bianca, op.cit., p. 912;


6. L’ordine cronologico delle prestazioni.

La circostanza per cui l'inadempimento contrattuale di una parte costituisce presupposto dell'esercizio dell'eccezione d'inadempimento presuppone, a sua volta, che tra le prestazioni vi debba essere contemporaneità o simultaneità oppure uno iato cronologico che renda possibile la dinamica contrapposta di inadempimento ed eccezione in cui il soggetto tenuto per secondo, per necessità logica in quanto cronologica, possa opporre il rifiuto quando il termine per l'adempimento a carico del primo sia trascorso senza che abbia ricevuto la prestazione o che l'obbligazione sia stata esattamente adempiuta.

Facendo leva sul dato letterale dell'articolo 1460 c.c.[1], si è sostenuta l'opinione secondo cui l'eccezione d'inadempimento ha come necessario campo di applicazione i casi in cui le prestazioni debbano essere simultanee poiché il soggetto che fosse tenuto per secondo, al fine di paralizzare qualsiasi pretesa di adempimento proveniente dalla controparte, potrebbe opporre l'inesigibilità della prestazione medesima, una difesa peraltro anche superflua, in quanto già il giudice dovrebbe, nel considerare le condizioni dell'azione, cogliere l'elemento ostativo all'accoglimento della domanda consistente nell'inadempimento dell'attore[2].

La giurisprudenza unanime e la dottrina sono, però, a dispetto della rigorosa lettura sopra citata, largamente favorevoli al riconoscimento dell'eccezione d'inadempimento anche nei casi in cui vi sia una scissione cronologica nella fase esecutiva del contratto[3] arrivando le decisioni dei giudici a considerare l'eccezione d’inadempimento espressione di un principio generale di autotutela.

La norma non può che concedere alla parte tenuta per seconda la possibilità di avvalersi dell'eccezione d'inadempimento[4] poiché, al fine di reagire ad un inadempimento, bisogna pure che questo avesse modo di manifestarsi.

La regola, però, può soffrire eccezioni, individuate dalla dottrina in quattro ipotesi attinenti ai contratti di durata, la prima, alla dichiarazione di non adempiere resa dal soggetto tenuto per secondo, la seconda, al caso di decadenza dal beneficio del termine del contraente tenuto per secondo, la terza, e, infine, "alla certezza o fondata probabilità dell'altrui inadempimento"[5].

Nei contratti di durata, infatti, siano essi ad esecuzione periodica o continuata anche il contraente tenuto per primo potrebbe avvalersi dell'eccezione d'inadempimento per le prestazioni non eseguite quando il contraente tenuto per secondo non abbia adempiuto al proprio obbligo[6].

Nei casi di decadenza dal beneficio del termine, ai sensi dell'articolo 1186 c.c., che colpisca il contraente tenuto per secondo, l'altro contraente, prima della decadenza tenuto per primo, potrà dunque immediatamente domandare la prestazione, divenuta, infatti, esigibile e, in caso di inadempimento o di mancanza di un'offerta di adempimento, avvalersi dell'eccezione d'inadempimento. Più che di inversione cronologica vera a propria, l'applicazione della decadenza dal beneficio del termine conferma l'assunto che il soggetto tenuto per primo non possa, nella normalità dei casi, sollevare l'eccezione d'inadempimento.

L'inversione cronologica che determini l'operatività dell'eccezione d'inadempimento, anche ad opera della parte tenuta per prima, può essere provocata dall'espressa dichiarazione di non adempiere resa del soggetto tenuto per secondo. La dichiarazione di non voler adempiere resa dal soggetto obbligato prima della scadenza dell'obbligazione, è equiparata al vero e proprio inadempimento consentendo alla controparte di avvalersi della risoluzione del contratto e, quindi, di riflesso dell'eccezione d'inadempimento[7]. Il presupposto dell'inversione cronologica sta nel ritenere che il rifiuto di adempimento espresso per iscritto o con comportamenti univoci sia equiparabile al vero e proprio inadempimento[8].

Rilievi critici sono stati sollevati quanto a tale equiparazione posto che fattore costitutivo dell'inadempimento è l'attualità[9] mancando la quale la dichiarazione anticipata d'inadempimento rimane circostanza priva di effetti (se non sul piano della buona fede e della correttezza[10]) e inidonea a giustificare l'applicazione dell'articolo 1460 c.c.[11].

Altra dottrina ha invece giustificato l'inversione cronologica operata dalla giurisprudenza salvaguardando la coerenza con il presupposto dell'inadempimento ma dilatando la nozione di corrispettività ovverosia configurando come inadempimento suscettibile di eccezione ex articolo 1460 c.c., la violazione di obblighi accessori, preparatori o cosiddetti di protezione[12]. Pure è stato ipotizzato che la dichiarazione di non voler adempiere fatta dal debitore prima del termine determini, per effetto di un'interpretazione analogica, pare di intuire, dell'articolo 1186 c.c., una decadenza dal beneficio del termine quando se ne possa dedurre come ragionevolmente certo l'inadempimento conseguente[13].

Per altra via[14] si è invece sostenuto che pur non essendo identico il presupposto dell'exceptio inadimpleti contractus in quanto inadempimento e dichiarazione anticipata di non voler adempiere non sono equiparabili dal punto di vista definitorio e dogmatico, vi sarebbe tra le due ipotesi un'identità diversamente graduata, più accentuata in caso di inadempimento, più ridotta in caso di dichiarazione anticipata di non voler adempiere, dello stesso fenomeno, il pericolo d'inadempimento (o, meglio, il pericolo di perdere la controprestazione ma anche la propria prestazione) dal quale il creditore intende proteggersi in quanto (anche) debitore[15]. In ogni caso, il comportamento del creditore il cui termine di adempimento sia successivo, in quanto contrario a buona fede, legittimerebbe, rendendolo, per definizione secundum bonam fidem, l'esercizio dell'eccezione d'inadempimento promosso da controparte[16]

L'atteggiamento della giurisprudenza sembra però ormai consolidato, al di là delle dispute dottrinali, nel ritenere possibile l'uso dell'eccezione d'inadempimento dinanzi a situazioni di pericolo d'inadempimento[17].

La lettura integrale delle decisioni, quando disponibili, non dissolve l'incertezza e le imprecisioni che sembrano trasparire dalle massime in quanto realmente l'uso del rimedio ex articolo 1460 c.c. in situazioni di pericolo d'inadempimento appare spurio o deformato dalla peculiarità delle circostanze concrete esaminate in cui, in ultima analisi, o l'adempimento non è più possibile a cagione del comportamento stesso del debitore tenuto solo successivamente alla prestazione con evidente rischio (per non dire certezza) del soggetto tenuto per primo di perdere la prestazione propria senza riceverne in cambio alcuna o le capacità patrimoniali del debitore sono diminuite al punto che è a rischio il conseguimento della prestazione[18] oppure ancora, ed è questo il caso che maggiormente interessa, il caso concreto non è sussumibile né nella categoria dell'inadempimento vero e proprio (da cui il creditore si protegge con l'esperimento della tutela dell'articolo 1460 c.c.) né nel pericolo di inadempimento causato da mutamento della situazione patrimoniale del debitore (da cui il creditore si difende con lo schermo dell'articolo 1461 c.c.), eppure rimane al giudice la difficoltà di preservare l'equilibrio sinallagmatico, riconoscere tutela contro un rischio evidente di squilibrio a svantaggio di una delle parti del contratto e, al contempo, individuare il mezzo idoneo approntato dall'ordinamento che, con maggiore economia di mezzi, permetta di attingere l'obiettivo.

In questi casi, sembra che si sovrappongano elementi e presupposti propri dell'articolo 1460 c.c. e dell’articolo 1461 c.c. al punto che alcuni ritengono, sia pure con atteggiamento critico, che i giudici abbiano fatto applicazione "di una norma creata ex novo, risultante dalla combinazione delle fattispecie previste dagli artt. 1460 e 1461 c.c."[19], laddove altri, positivamente, riconoscendo il bisogno di protezione giuridica che sarebbe necessario, promuove l'applicazione, per via analogica, del combinato disposto dei succitati articoli[20].

 

[1] Che sembra escludere la proponibilità dell'eccezione d'inadempimento allorché "termini diversi per l'adempimento siano stabiliti o risultino dalla natura del contratto".

[2] Grasso, Saggi sull'eccezione d'inadempimento e la risoluzione del contratto, cit., p. 86 e ss. Grasso, Eccezione di inadempimento e risoluzione del contratto (Profili generali), Napoli, 1973, p. 89 e ss.:"...il voler giudicare applicabile l'eccezione da parte di colui che non è tenuto ad adempiere per primo, quando vi siano, quindi, diversi termini per l'adempimento, significa tralasciare del tutto il rilievo che in tal caso manca addirittura il presupposto per il funzionamento dell'istituto. Se questo è un mezzo per giustificare con l'inadempimento dell'altro il proprio inadempimento, cosa c'è da giustificare nell'ipotesi in cui termini diversi consentono alla parte di adempiere dopo l'altro ? Ed invero se il termine non è ancora scaduto è indubbio che il preteso inadempimento da giustificare con l'eccezione non si è ancora verificato. Se invece il termine è già scaduto, allora l'ipotesi deve ritenersi assimilabile a quella generale della simultaneità degli adempimenti, essendo tutte le prestazioni divenute, dopo la scadenza del termine, contemporaneamente esigibili. Nemmeno ci si può riferire all'ipotesi di un contratto che preveda genericamente l'adempimento di una parte dopo quello dell'altra. Anche qui, infatti, è da riscontrare la stessa mancanza del fondamentale presupposto dell'inadempimento, atteso che la parte a cui è stato concesso di adempiere dopo l'altra non può essere considerata inadempiente fino all'adempimento di questa, sì che, sino a tale momento, non ha bisogno di giustificare con l'eccezione un inadempimento che, anche qui, non si è ancora verificato". Probabilmente, la premessa da cui parte il ragionamento dell'A., secondo cui l'eccezione è mezzo per giustificare il proprio inadempimento, da cui si dipartono, come logico corollario le conclusioni, potrebbe dirsi non completamente vera nella misura in cui all'eccezione si assegni eminentemente il compito di equilibrare il sinallagma alterato dall'inadempimento totale o parziale della controparte.

[3] Cass. civ. 19 aprile 1996, n. 3713, in Giust. civ., 1997, I, p. 779, con nota di Manna, Osservazioni in tema di risoluzione del contratto di appalto. In dottrina, Sacco, op. cit., p. 642, secondo il quale, la scrittura della norma abbisogna dell'"aiuto dell'interprete" per una sua migliore intelligenza o, altrimenti detto, di una lettura correttiva che ne chiarisca l'interpretazione e ne renda l'applicazione coerente con il sistema dei rimedi dilatori.

[4] Cass. civ. 28 agosto 2002, in Mass. Giur. It., 2002 e Diritto e Giustizia, 2002, 36, p. 70; Cass. civ., sez. lavoro, n. 267, in Mass. Giur. It., 1999.

[5] Bigliazzi Geri, op. cit., pp. 24 e ss.

[6] Cass. civ. 28 ottobre 1991, n. 11469, in Mass. Giur. It., 1991: "Nei contratti a consegne ripartite, e per il caso in cui la prestazione sia economicamente scindibile, l'eccezione inadimplenti non est adimplendum (art. 1460 c.c.) può paralizzare la richiesta della controprestazione, relativa alla parte della prestazione non eseguita, ma non quella relativa alla parte della prestazione già eseguita, che non sia stata restituita nè offerta in restituzione".

[7] Cass. civ., 14 marzo 2003, n. 3787, in Contratti, 2004, n. 5, p. 446 con nota di Sardo, Pericolo di inadempimento ed exceptio inadimpleti contractus :"L'"exceptio inadimpleti contractus" di cui all'articolo 1460, benchè, di regola presupponga che le reciproche prestazioni siano contemporaneamente dovute, è tuttavia opponibile alla parte che debba adempiere entro un termine diverso e successivo, qualora questa abbia dichiarato di non voler adempiere, ovvero sia certo o altamente probabile che essa non sia in grado di adempiere, indipendentemente dall'imputabilità dell'inadempimento". Nel caso deciso un autotrasportatore ha sospeso il pagamento del prezzo dovuto alla società venditrice per l'acquisto di vari automezzi adducendo che il venditore non aveva provveduto, secondo l'impegno assunto, a rinnovare per tutti i veicoli acquistati l'autorizzazione necessaria per il trasporto merci per conto di terzi. Il venditore chiedeva la risoluzione del contratto in quanto, inter alia, protestava inimputabilità del preteso inadempimento (dovuto ad ostacoli di carattere amministrativo) e l'impossibilità per il soggetto tenuto per primo (in questo caso il compratore) di invocare l'eccezione d'inadempimento.

[8] In tal senso si veda Cass. 9 gennaio 1997, n. 97, in Danno e resp. 1997, p. 727, con nota di Princigalli, La dichiarazione anticipata di non voler adempiere.

[9] Bianca, Inadempimento delle obbligazioni, cit., p. 15: "Assumendo l'attualità del tempo della prestazione a presupposto dell'inadempimento, deve coerentemente darsi risposta negativa al quesito se sia già inadempiente il debitore che anteriormente al termine della prestazione dichiari di non voler adempiere".

[10] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 29.

[11] Sardo, Pericolo di inadempimento ed exceptio inadimpleti contractus, cit., p. 453

[12] Vecchi, L'eccezione d'inadempimento, cit., p. 397: "...sembra si possa riconoscere che anche gli obblighi di protezione rientrino nell'operazione sinallagmatica, giustificando così che la loro violazione sia idonea a fondare un'eccezione d'inadempimento". Circa l'attualità della violazione di obblighi preparatori dell'adempimento, v. Bianca, op. ult. cit., p. 14 :"Già anteriormente alla scadenza del termine dell'obbligazione, come termine della prestazione finale, è invece attuale il tempo di esecuzione degli atti preparatori. Tali atti (...), rientrano nel contenuto della prestazione e la tempestività del loro compimento s'impone per la realizzazione dell'interesse strumentale del creditore. La violazione del tempo di esecuzione degli atti preparatori costituisce quindi immediata violazione del diritto creditorio e legittima l'applicazione dei rimedi a tutela dell'inadempimento. Anteriormente alla scadenza del termine della prestazione finale s'impone inoltre come immediatamente attuale l'osservanza di quel comportamento che è rivolto al rispetto della sfera giuridica del creditore, e che rientra anch'esso nel contenuto della prestazione dovuta [appunto gli obblighi di protezione]. Più in generale deve dirsi che l'inadempimento prescinde dalla scadenza del termine quando la prestazione è violata in modalità diverse da quella temporale (es.: difettosa esecuzione dell'opera) o addirittura diviene definitivamente impossibile".

[13] Bianca, op. ult. cit., p. 15. È dubbio se l'esimio Autore faccia applicazione analogica dell'articolo 1186 c.c. per l'uso dell'avverbio "analogamente" nell'incipit della proposizione: "Analogamente può quindi ammettersi che il debitore decada dal beneficio del termine se col fatto della propria dichiarazione di volontà abbia reso ragionevolmente certo il futuro inadempimento". Contra Addis, op. cit., nota 39, pp. 40-1, ad avviso del quale la tesi in esame astrae dalla natura specifica della fattispecie di cui all'articolo 1186 c.c. dedicata al mutamento di condizioni economiche del debitore e, quindi, insuscettibile di ricomprendervi i casi di inattitudine "al (futuro) inadempimento". 

[14] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 29.

[15] Ciò induce l'autrice a recuperare l'autonomia del presupposto del pericolo d'inadempimento quale fondamento dell'articolo 1461 c.c., attraverso una formalistica e puramente teorica distinzione tra la dichiarazione di non voler adempiere, rilevante ai fini dell'articolo 1460 c.c. e la dichiarazione di non poter adempiere, rilevante ai fini dell'articolo 1461 c.c. (Bigliazzi Geri, op. cit., p. 69 e, più in particolare, p. 30, in nota 2) mancando la quale, secondo l'autrice, resterebbe da applicare solo il rimedio dell'articolo 1460 c.c.

[16] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 29.

[17] Cass. civ., 11 novembre 2003, in Guida al diritto, 2004, 1, 54; Cass. civ. 4 novembre 2003, n. 16530, in Mass. Giur. It., 2003 e nello stesso senso Cass. civ. 8 settembre 2017, n. 20939 e, ancora più di recente, Cass. civ. 18 agosto 2020, n. 17214 secondo cui: “Come da tempo ribadito da questa Corte, la disposizione di cui all’arti. 1460, prima comma, ultima parte, cod. civ., secondo la quale l’eccezione di inadempimento non è ammissibile quando termini diversi per l’adempimento siano stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto, dev’essere interpretata nel senso che, pure in tale ipotesi, l’eccezione è consentita quando sia già evidente che la controprestazione non potrà mai essere adempiuta o vi siano fondate probabilità di un ritardo tale da superare il temine fissato in contratto per la controprestazione, eccedendo i limiti della normalità secondo un’interpretazione di buona fede ovvero, ancora, quando vi sia un evidente pericolo di perdere la controprestazione (v. ad es. Cass. 8 settembre 2017, n. 20939). Infatti, l’art. 1460 cod. civ. esclude soltanto che, nei contratti con prestazioni corrispettive, ove sia pattiziamente prevista la diversità dei termini di adempimento, il contraente tenuto per primo alla prestazione e resosi inadempiente possa giovarsi dell’exceptio inadimpleti contractus, salva l’ipotesi, sopra ricordata, del pericolo di perdere la controprestazione (Cass. 28 agosto 2002, n. 12609).”.

[18] Addis, op. cit., p. 430.

[19] Sardo, op. cit., p. 454.

[20] Addis, op. cit., p. 431-2, il quale tuttavia e, in aggiunta, osserva che il nostro ordinamento contiene già una tutela dilatoria contro il pericolo d'inadempimento, genericamente individuato, che prescinde dalle più strette maglie del mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore ossia l'articolo 71 della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili (v. infra nota 11). L'esigenza di venire incontro al contraente fedele per esigenze di equità in casi in cui apparirebbe che lo strictum jus non possa sovvenire è presente a Porrari, Eccezione di inadempimento, in Riv. dir. civ. 1985, II, p. 638-9 che, pur definendo, "sovversiva" una decisione (Cass. civ., 28 novembre 1984, n. 6196, in Mass., 1984) con inversione cronologica che riconosce l'opponibilità dell'eccezione da parte del contraente tenuto per primo, condivide la conclusione raggiunta dalla Suprema Corte per non lasciare sguarnito di tutela detto contraente che veda in evidente pericolo la controprestazione. Ciò non esclude, ad avviso di Bigliazzi Geri, op. cit., p. 36, che dovendo l'interprete valutare la buona fede alla luce delle "concrete circostanze", come recita il secondo comma dell'articolo 1460 c.c., anche elementi desumibili dalla situazione soggettiva dell'eccipiente (ma, riterremmo, a questo punto, pure dello stesso soggetto inadempiente) possano essere tenuti in conto (v. infra nota 162).


7. Buona fede ed eccezione d’inadempimento.

Esaminati i presupposti dell'eccezione d'inadempimento, resta da svolgere l'analisi sui limiti estrinseci all'esercizio del potere di rifiuto del contraente fedele giacché, pur in presenza di tutte le condizioni richieste dall'articolo 1460 c.c., l'esercizio dell'eccezione potrebbe considerarsi illegittimo se in violazione del limite della buona fede.

È molto discusso cosa debba tuttavia, almeno nel contesto dell'esercizio dell'eccezione d'inadempimento, intendersi per buona fede, posto come assunto che, in ogni caso, di buona fede in senso oggettivo si tratti.

L'orientamento prevalente in giurisprudenza tende a far coincidere la buona fede dell'esercizio dell'eccezione con la gravità dell'inadempimento cui reagisce per cui dove l'inadempimento che è presupposto dell'exceptio inadimpleti contractus è grave, è in buona fede l'eccipiente mentre qualora l'inadempimento medesimo grave non sia, l'exceptio non è opponibile[1]. A volte alla gravità si aggiunge il vaglio del rispetto della correttezza ex articolo 1175 c.c. imposta alle parti in relazione alla natura del contratto e alle finalità che con questo si perseguono[2]. Nel contesto della pandemia provocata dalla diffusione del coronavirus la giurisprudenza di merito ha ritenuto che gli effetti endemici della propagazione del contagio possa avere effetto lenitivo sulla gravità dell’inadempimento[3]. Difatti, la previsione dell'art. 91 del D.L. n. 18 del 2020 convertito nella L. n. 27 del 2020 secondo cui "il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione ai sensi e per gli effetti degli art. 1218 e 1223 c.c. della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse ritardati o omessi pagamenti" con l’uso della locuzione avverbiale “anche” sembra lasciare teoricamente aperta all’interprete la possibilità di escludere del tutto un simile inadempimento, quale giustificazione della paralisi della controprestazione per effetto dell’articolo 1460 c.c. È doveroso avvertire, tuttavia, che in tal modo si potrebbe assistere a squilibri contrattuali non dissimili ovvero analoghi a quelli che si vedranno a proposito dell’obbligo a contrarre del monopolista (Parte B) 4.).     

L'uso dell'eccezione d'inadempimento per paralizzare un inadempimento di lieve entità, si presta ad essere qualificato pretestuoso e, quindi, a "mascherare" l'inadempimento o la mancanza di volontà di adempiere da parte dell'eccipiente[4]. Non sempre, nelle decisioni dei giudici, la gravità dell'inadempimento ha il significato tecnico ad esso riconducibile[5] ma assume il ruolo di strumento di misurazione della correttezza della reazione nell'ambito di un giudizio di proporzionalità anche quando due reciproci inadempimenti si pongano a confronto[6].

Più specificamente, il vaglio giurisprudenziale di buona fede applicato all'eccezione d'inadempimento, specie allorché due pretesi inadempimenti si contrappongano, si appunta su tre elementi, quello cronologico, quello di causalità e quello di proporzionalità[7].

Quanto al criterio di proporzionalità, esso dev’essere ulteriormente circoscritto, delimitato e definito alla luce delle peculiarità concrete del caso[8].

L'equazione tra la gravità dell'inadempimento e la mancanza di buona fede dell'eccipiente è stata contestata dalla dottrina[9] con varie argomentazioni[10] tra cui merita menzione la diversità di funzione dettata per la gravità di cui all'articolo 1455 c.c. e la buona fede ex articolo 1460, comma secondo, c.c. La prima destinata a qualificare la serietà di un inadempimento in vista di un rimedio drastico e definitivo quale quello risolutorio, la seconda destinata a correggere possibili abusi di un rimedio dilatorio (o con effetti dilatori[11], se si preferisce); la prima funzionale alla risoluzione che presuppone un inadempimento "di non scarso rilievo", la seconda che si applica anche se vi fosse un mancato adempimento o un inadempimento non imputabile. La buona fede è comparazione di interessi[12], l'importanza dell'adempimento è valutata alla stregua dell'interesse del solo creditore[13]. Da ciò consegue secondo la maggioranza degli autori che sarebbe ben possibile un'eccezione conforme a buona fede per paralizzare un inadempimento lieve[14] e, viceversa, la violazione della buona fede pur in presenza di un inadempimento grave[15].

Non mancano, invero, decisioni dei giudici, anche di legittimità, che abbiano provato a disancorare la valutazione della buona fede dal rigido schematismo gravità/non gravità dell'inadempimento. In particolare, in una recente decisione, la Suprema Corte ha esplicitamente escluso che un inadempimento valutato di scarsa importanza potesse, per ciò stesso, colorare di buona fede l'esercizio dell'eccezione d'inadempimento da parte della controparte[16]. La decisione ha fatto da precedente ad una ancor più recente decisione della Suprema Corte che più dettagliatamente ha sviluppato le differenziazioni concettuali tra la nozione di gravità dell'inadempimento nell'ambito della valutazione dei presupposti della risoluzione e quella di buona fede come limite estrinseco dell'esercizio del potere di cui all'articolo 1460 c.c.[17] e ne ha valorizzato la portata facendo leva sul carattere definitivo e radicale della risoluzione in contrapposizione alla natura dilatoria, conservativa dell'eccezione d'inadempimento[18].

In altra occasione i giudici di legittimità hanno fatto riferimento all'"uso normale del diritto" (in contrapposizione all'abuso in cui si sostanzierebbe la violazione della buona fede) disatteso dall'eccipiente nei casi in cui l'eccezione non sia "rimedio necessario a tutelare l'interesse essenziale perseguito con la conclusione del contratto"[19]. Altrimenti detto, con formula meno circonvoluta, è in buona fede l'eccipiente che ricorra all'exceptio inadimpleti contractus quando "...rappresenti il solo mezzo che il contraente ha a disposizione per realizzare lo scopo che egli intendeva raggiungere stipulando il contratto"[20].

Altre volte ancora, la valutazione complessiva del comportamento di buona fede ha interessato l'atteggiamento globalmente tenuto da una delle parti del contratto anche prima e dopo l'esecuzione del contratto, al di là della mera valutazione circa la gravità o meno dell'inadempimento altrui. Piace citare in proposito una decisione in materia di assicurazione[21] e, in particolare, circa l'applicazione dell'articolo 1901 c.c. che, com'è noto dispone la sospensione della copertura assicurativa sino all'avvenuto pagamento del premio. I giudici di legittimità, prendono spunto dalla "consolidata giurisprudenza secondo cui "in tema di assicurazione, l'art. 1901 c.c., comma 2, il quale prevede la sospensione della garanzia per effetto del mancato pagamento del premio alle scadenze convenute - costituisce applicazione dell'istituto generale dell'eccezione d'inadempimento, di cui all'art. 1460 c.c.” e, ne inferiscono che “In applicazione di esso [l’istituto dell’eccezione d’inadempimento], deve, pertanto, negarsi all'assicuratore la facoltà di rifiutare la garanzia assicurativa ove ciò sia contrario a buona fede, come nel caso in cui l'assicuratore medesimo abbia, sia pure tacitamente, manifestato la volontà di rinunciare alla sospensione, ad esempio tramite ricognizione del diritto all'indennizzo ovvero accettazione del versamento tardivo del premio senza effettuazione di riserve nonostante la conoscenza del pregresso verificarsi del sinistro (Cfr. Cassazione sezione lavoro n. 15407 del 2 dicembre 2000 e Cassazione civile sezione terza n. 13344 del 19 luglio 2004).

La censura del venire contra factum proprium sembra ispirare anche la giurisprudenza che nega al locatario che non abbia denunziato i vizi del bene locato all'atto della stipulazione del contratto di potersene avvalere ai fini dell'opponibilità dell'eccezione d'inadempimento[22] mentre altra decisione[23] ha ritenuto che un inadempimento grave che non incida sulla prestazione in rapporto di diretta corrispettività non legittimi l'esercizio dell'eccezione d'inadempimento[24].

È presto, cionondimeno, per sostenere che la giurisprudenza si sia decisamente mossa verso nuovi e più rigorosi approdi in tema di giudizio di buona fede ché nella maggioranza dei casi essa rimane persistentemente ancorata al criterio di equivalenza tra scarsa importanza dell'inadempimento e buona fede o gravità dell'inadempimento e mancanza di buona fede[25][26].

 

[1] Cass. civ. 6 agosto 1999, n. 8481, in Mass. Giur. It. 1999: "La facoltà del compratore di sospendere il pagamento del prezzo, a norma dell'articolo 1482 c.c., costituendo un'applicazione alla compravendita del principio generale inadimplenti non est adimplendum di cui all'art. 1460 c.c. postula non la sola esistenza del diritto reale di godimento in favore di terzi ma che la sospensione del pagamento non sia contraria alla buona fede e di conseguenza il compratore non può avvalersi di tale facoltà, per la carenza di tale estremo, quando l'inadempienza contestata al venditore non sia grave". Nella giurisprudenza di merito, Trib. Bari, 27 ottobre 2006, in DeJure; Trib. Monza, 4 settembre 2006, in DeJure..

[2] Cass. civ., sez. lavoro, 7 novembre 2005, n. 21479, in Mass. Giur. It., 2005 e Lavoro nella giur. 2006, 6, 600.

[3] Trib. Catania, sez. V, 30 luglio 2020, (massima redazionale One Legale): “In tema di locazioni e misure anti-Covid, deve ritenersi che l’art. 91 del d.l. n. 18 del 2020 convertito nella l. n. 27 del 2020 (secondo cui "il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c. della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse ritardati o omessi pagamenti") incida nella valutazione della gravità dell'inadempimento del conduttore in relazione alla domanda di risoluzione del contratto”. Anche la sentenza del Tribunale di La Spezia del 15 dicembre 2020, n. 617 ha escluso la gravità dell’inadempimento ex articolo 1455 c.c. invocando in proposito l’applicazione dell’articolo 91 del d.l. 18/2020 pure con riferimento alle obbligazioni pecuniarie e anche dove l’attività, fonte di reddito del debitore, non fosse stata specifico oggetto di provvedimenti restrittivi (in tal senso anche Trib. Bologna 4 giugno 2020 e Trib. Venezia 30 agosto 2020, tutte sentenze rinvenibili su One Legale).  In generale, l’emergenza nazionale seguita alla diffusione del cd. Coronavirus ha portato all’adozione di misure straordinarie di settore con stravolgimento dei principi più elementari del diritto dei contratti. In questo senso basti pensare all’articolo 5 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76 (convertito con modificazioni dalla L. 11 settembre 2020, n. 120) che reca, nella rubrica legis un richiamo espresso (anche se non del tutto originale) relativo alle misure urgenti per la semplificazione e per l’incentivazione degli investimenti pubblici e privati nella difficile congiuntura economica determinata (da ultimo anche) dall’emergenza pandemica, che interviene sul codice degli appalti pubblici (d.lgs. 50/2016) sia pure in via di deroga necessariamente temporanea e fino al 31 dicembre 2021, stabilendo al comma 6 che: “le parti non possono invocare l’inadempimento della controparte o di altri soggetti per sospendere l’esecuzione dei lavori di realizzazione dell’opera ovvero le prestazioni connesse alla tempestiva realizzazione dell’opera”. Si tratta di un divieto che, come intuibile, colpisce il solo soggetto privato, ad onta dell’apparente paritario riferimento alle parti del contratto, limitando le possibili sospensioni delle opere appaltate ai soli casi contemplati dal comma 1 del medesimo articolo.  

[4] Cass. civ. 5 marzo 1988, n. 2294, in Mass. Giur. It., 1998: "nell'eseguire l'indagine sulla buona fede della parte che abbia sollevato l'eccezione d'inadempimento a norma dell'articolo 1460 c.c., il giudice deve procedere ad una valutazione comparativa delle reciproche inadempienze delle parti e, conseguentemente, quando l'inadempimento della controparte risulti di lieve entità, deve ritenere contrario a buona fede il rifiuto ad adempiere opposto dalla prima, costituendo soltanto un mezzo con cui tende pretestuosamente a mascherare la propria inadempienza, anziché uno strumento di tutela del proprio diritto". Cass. civ. 18 maggio 1988, n. 3465, in Mass. Giur. It., "Con riguardo all'eccezione di inadempimento ai sensi dell'articolo 1460 c.c., il giudice deve valutare se costituisca strumento per la tutela del proprio diritto ovvero mezzo per mascherare il proprio inadempimento, assumendo a tale fine rilevanza il fatto che la giustificazione del rifiuto o del ritardo nell'adempiere sia resa nota alla controparte soltanto in occasione del giudizio e non, come la correttezza e la buona fede imporrebbero, durante l'esecuzione del contratto". Nella giurisprudenza di merito v. App. Napoli, 1 marzo 2006, in DeJure.

[5] Al contrario, alcune pronunce espressamente si riferiscono all'articolo 1455 c.c. Cass. civ. 5 marzo 1984, in Mass. Giur. It., 1984; Cass. civ. 3 luglio 2000, n. 8880, in Riv. not., 2001, 242, con nota di Casu. Trib. Trento, 12 ottobre 1984, in Giur. merito, 1985, p. 812.

[6] Cass. civ. 7 marzo 2001, n. 3341, cit. "L'exceptio non rite adimpleti contractus di cui all'art. 1460 c.c., postula la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, da valutare non in rapporto alla rappresentazione soggettiva che le parti se ne facciano, ma in relazione all'oggettiva proporzione degli inadempimenti stessi riguardata con riferimento all'intero equilibrio del contratto e alla buona fede; ne consegue che il conduttore, qualora abbia continuato a godere dell'immobile, per quanto lo stesso presentasse vizi, non può sospendere l'intera sua prestazione consistente nel pagamento del canone di locazione, perché così mancherebbe la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, potendo giustificarsi soltanto una riduzione del canone proporzionata all'entità del mancato godimento, applicandosi, per analogia, i principi dettati dall'art. 1584 c.c.". Cass. civ. 7 gennaio 2004, n. 58, "In tema di responsabilità contrattuale, l'"exceptio non rite adimpleti contractus" di cui all'art. 1460, secondo comma, c.c., postula la proporzionalità in relazione all'inadempimento della controparte, da valutarsi non già in rapporto alla rappresentazione soggettiva della parte bensì in termini oggettivi, con riferimento all'intero equilibrio del contratto ed alla buona fede".

[7] Sacco, op. cit., p. 646. Cass. civ. 22 gennaio 2000, n. 699, in Mass. Giur. It., 2000: "Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando una delle parti giustifica il proprio inadempimento con l'inadempimento dell'altra ai sensi dell'art. 1460 c.c., occorre procedere alla valutazione comparativa del comportamento dei contraenti con riferimento non solo all'elemento cronologico delle rispettive inadempienze, ma altresì ai rapporti di causalità e proporzionalità delle stesse rispetto alla funzione economico-sociale del contratto al fine di stabilire se effettivamente il comportamento di una parte giustifichi il rifiuto dell'altra di eseguire la prestazione dovuta, tenendo presente il principio che quando l'inadempimento di una parte non sia grave, il rifiuto dell'altra non è di buona fede e quindi non è giustificato". Cass. civ. 12 agosto 2010, n. 18633 (ined.); Cass. civ. 9 giugno 2010, n. 13894 (con riferimento ai criteri di causalità, proporzionalità e cronologico); Trib. Milano, 28 dicembre 2007, in Lavoro nella giur., 2008, 6, 634. Circa il criterio di proporzionalità, Cass. civ. 6 settembre 2012, in One Legale, ha specificato che il giudice debba soppesare gli inadempimenti reciproci tra di essi ma in relazione “alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse”.

[8] Cass. civ. 29 gennaio 2021, n. 2154: “Per stabilire in concreto, dunque, se l’eccezione d’inadempimento sia stata sollevata in buona fede oppure no, è altrettanto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che il giudice di merito deve verificare “se la condotta della parte inadempiente, avuto riguardo all’incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto, abbia influito sull’equilibrio sinallagmatico dello stesso, in rapporto all’interesse perseguito dalla parte, e perciò abbia legittimato, causalmente e proporzionalmente, la sospensione dell’inadempimento dell’altra parte (Cass. 04/02/2007 n. 2720; v. anche Cass. 10/11/2003, n. 16822). Ebbene, non vi è alcun dato positivo né ragione logica o sistematica che impongano di adottare, con riferimento al contratto di locazione, una interpretazione diversa ovvero una versione per così dire più limitata di tale strumento di autotutela e dei relativi presupposti.”.

[9] Sacco, loc. ult. cit.: "A noi pare chiaro che le garanzie operano a tutela di tutte quante le frazioni del diritto, senza escludere le quote minime di esso, dato che l'eccezione in esame ha natura di una garanzia in senso lato". Zana, La regola della buona fede nell'eccezione d'inadempimento, cit., p. 1385. Dalmartello, op. cit., p. 358, nota 4; Persico, op. cit., p. 17 e s. A favore dell'orientamento preponderante in giurisprudenza, invece, Cubeddu, L'importanza dell'inadempimento, Torino, 1995.

[10] Oltre alle argomentazioni ricordate nel testo Bianca, op. ult. cit., p.902, ha sottolineato il caso particolare riguardante l'individuazione nella compravendita di cose generiche in cui al compratore è consentito di non procedere all'individuazione indipendentemente dalla gravità dei vizi e dei difetti di qualità della merce.

[11] Porrari, op. cit., p. 637.

[12] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 32-33. Secondo Bianca, op. ult. cit., p. 905-6, più precisamente la buona fede impone alla parte che, almeno in questo caso, esercita un potere discrezionale (diritto potestativo) di utilizzarlo salvaguardando l'interesse altrui senza compromettere il proprio o senza distoglierlo dal fine cui esso è destinato. L'illustre Autore non si limita ad una enunciazione teorica ma individua quattro categorie o tipi di comportamenti contrari a buona fede che qui si riassumono sinteticamente: a) l'eccezione è opposta nei casi di prestazione inesatta ma non più rimediabile (salvo, da parte dell'inadempiente, l'offerta di risarcimento del danno per equivalente); b) l'eccezione opposta produce effetti pregiudizievoli a carico del debitore, ulteriori rispetto a quelli che risulterebbero dalla semplice sospensione del contratto; c) l'eccezione con effetto estintivo dell'obbligazione dell'eccipiente a fronte di un inadempimento di scarsa importanza; d) l'eccezione sospende prestazioni che sono essenziali a preservare interessi o valori fondamentali della persona (integrità fisica e morale, salute, sicurezza etc.). Il caso sub d), benché non specificamente oggetto della decisione commentata (Cass. civ. 14 febbraio 2008, in Danno e resp., n. 8, 2011, p. 1102 con nota di A.M. Benedetti, Quando basta (ancora) il codice civile. Utenti, pubblici servizi e diritto delle obbligazioni) si è astrattamente posto per un’interruzione del servizio idrico da parte di un Comune a danno di un utente che pure aveva provveduto al pagamento del relativo canone d’uso, in quanto la Suprema Corte ha ritenuto che il rapporto tra l’utente del servizio idrico e l’ente erogatore era da ritenersi assoggettato alla normativa di diritto privato e l’atto di sospensione dovesse conseguentemente qualificarsi come eccezione d’inadempimento e non come provvedimento amministrativo. Il commento di A. M. Benedetti sostiene che il controllo di buona fede debba essere condotto anche in considerazioni del potere contrattuale di ciascuna parte dovendosi differentemente apprezzare il rifiuto del soggetto forte rispetto a quello della parte debole. In questo modo, giustamente ci sembra, si dia ingresso ad elementi soggettivi, quasi di status, che tuttavia hanno un sostrato oggettivo o, se si preferisce, oggettivizzato dalla dimensione economica dei rapporti di massa.

[13] Bigliazzi Geri, loc. ult. cit.

[14] Bianca, op. ult. cit., mirabilmente nell'articolare la tipologia di casi di esercizio abusivo dell'eccezione d'inadempimento considera il caso, già sintetizzato infra sub c) alla nota 171, in cui l'esercizio del rimedio in parola abbia effetto estintivo - per decorso del termine essenziale ai sensi dell'articolo 1457, comma secondo, c.c., o per violazione di un'obbligazione negativa - dell'obbligazione dell'eccipiente in presenza di un inadempimento non grave (art. 1455 c.c.) della controparte.

[15] Realmonte, op. cit., p. 230. Anche in giurisprudenza si registrano casi di questo genere, come, ad esempio, sul tema della mancata consegna del certificato di abitabilità al compratore da parte del venditore che, quale inadempimento di un contratto preliminare di vendita, pur non potendo dar luogo a risoluzione del contratto e pur nel rispetto delle norme igienico-sanitarie e urbanistiche, comunque legittima la proposizione di un'eccezione d'inadempimento con conseguente legittimo rifiuto di stipulare il contratto definitivo (Cass. civ. 24 giugno 2010, n. 15313; Cass. civ., 3 luglio 2000, n. 8880, in Riv. not., 2001, p. 243).

[16] Cass. civ. 26 gennaio 2006, n. 1690, in Impresa, 2006, 7-8, 1177: "Non incorre in alcuna contraddizione il giudice di merito che apprezzi un comportamento di inadempimento come contrario a buona fede ai fini di giustificare un'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. e poi lo consideri di scarsa importanza ai fini di un'azione di risoluzione del contratto per inadempimento. Infatti, i due piani di valutazione sono del tutto diversi. Ai fini della valutazione prevista dall'art. 1460 c.c., l'inadempimento della parte viene valutato solo nell'ottica della realizzazione del sinallagma contrattuale, al fine di considerarlo o meno giustificato in dipendenza dell'inadempimento dell'altra. Tale valutazione si esprime in un confronto tra i due inadempimenti e non nell'oggettiva valutazione di ciascuno di essi e può risolversi negativamente sia per il fatto che le prestazioni corrispettive inadempiute dovessero eseguirsi in tempi diversi (art. 1460, primo comma. c.c.), sia perché uno degli inadempimenti non appaia conforme a buona fede. Il piano di valutazione supposto dall'art. 1455 c.c. in relazione alla non scarsa importanza dell'inadempimento quale fatto giustificativo della risoluzione del contratto è, invece, del tutto diverso, giacché non è funzionale all'apprezzamento della realizzazione del sinallagma contrattuale ma del suo scioglimento e l'inadempimento viene valutato non comparativamente alla condotta dell'altra parte, bensì nel suo significato oggettivo di impedimento alla realizzazione del sinallagma stesso".

[17] Il riferimento è a Cass. civ. 13 febbraio 2008, n. 3472, in Gianniti, Bonamassa, Grande (a cura di) Sentenze scelte in materia civile e penale, Torino, 2008. di cui si riporta ampio stralcio concernente la questione in esame"...il riferimento alla scarsa importanza dell'inadempimento dell'appaltatore compiuto dalla Corte territoriale per giustificare l'accoglimento della domanda di pagamento del corrispettivo è non solo giuridicamente inesatto, ma altresì fuorviante. La nozione relativa all'importanza dell'inadempimento è infatti impiegata dall'art. 1455 c.c., esclusivamente come limite alla domanda di risoluzione del contratto e non già a quella volta ad ottenere il suo adempimento, differenza che ben si spiega con l'esigenza di prevedere, in qualche modo limitandola, l'operatività del rimedio della risoluzione soltanto nei casi in cui il comportamento di una parte produca un effettivo pregiudizio all'interesse della parte non inadempiente, alterando il c.d. sinallagma funzionale, atteso che la relativa azione è diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale, vale a dire a costituire un effetto diverso e contrapposto rispetto a quello della sua esecuzione, che ha già ricevuto un assetto di interessi ben definito tramite il regolamento contrattuale.

La diversità delle due situazioni domanda di risoluzione, da un lato, domanda di adempimento, dall'altro si misura del resto agevolmente proprio dal confronto tra l'art. 1455 c.c., e l'art. 1460 c.c., laddove quest'ultimo, nel disciplinare la facoltà del contraente di rifiutare l'adempimento in ragione dell'inadempimento della controparte, richiede che tale rifiuto, per essere legittimo, non debba essere contrario a buona fede, criterio qui da intendersi come buona fede in senso oggettivo in relazione al generale principio dell'esecuzione del contratto secondo buona fede (art. 1375 c.c.) e che si differenzia dalla nozione di non scarsa importanza dell'inadempimento di cui all'art. 1455 c.c., dal momento che esso tende a salvaguardare l'interesse positivo all'esatto adempimento del contratto con il solo limite costituito dal mero pretesto o abuso. La parte, pertanto, può legittimamente rifiutare di adempiere invocando l'inadempimento della controparte non quando esso riveste una certa gravità, ma purché il suo rifiuto non sia contrario a buona fede. La gravità dell'inadempimento, come si è già rilevato, è infatti un presupposto specificatamente previsto dalla legge per la risoluzione del contratto e trova la ragione della sua previsione proprio nella radicalità e definitività di tale rimedio. L'eccezione di inadempimento è invece attivabile nel caso di inesattezza qualitativa o quantitativa della prestazione pur se tale differenza non sia tale da giustificare la risoluzione del contratto, atteso che l'esercizio di questo mezzo di autotutela incide soltanto sull'esecuzione contrattuale, sospendendola temporaneamente. Con la conseguenza, quindi, sul piano delle garanzie contrattuali, che l'interesse all'adempimento, da intendersi qui come interesse all'esatto adempimento, è tutelato, in conformità al principio della efficacia vincolante del contratto (art. 1372 c.c.), in maniera più intensa rispetto all'interesse alla risoluzione del contratto, non incontrando esso il limite, più rigoroso, della non scarsa importanza, ma soltanto quello della buona fede in senso oggettivo. Il che non significa che la non scarsa importanza dell'inadempimento non possa integrare una di quelle situazioni in presenza delle quali il rifiuto di adempiere possa considerarsi contrario a buona fede, ma evidenzia come i due concetti non siano tra loro identificabili e che, pertanto, una tale affermazione non possa porsi in termini assoluti. Considerazione, questa, che toglie ogni persuasività al richiamo operato dalla sentenza de qua alla circostanza che la giurisprudenza abbia operato talvolta la sovrapposizione di tali criteri (cfr. la massima della sentenza di questa Corte n. 669 del 2000, riportata dalla sentenza de qua) al fine di escludere la legittimità dell'eccezione di inadempimento a fronte di difformità trascurabili".

[18] Secondo il Sapone, Exceptio non rite adimpleti contractus e gravità dell'inadempimento, in Giur. merito, 2009, 3, p. 589 e ss., poiché la funzione dell'eccezione d'inadempimento ha carattere non solo conservativo, difensivo ma anche compulsivo, in quanto può spingere la controparte alla correzione dell'adempimento inesatto o all'adempimento tout court l'equazione tra gravità e mancanza di buona fede rischia di frustrare lo scopo propulsivo dell'eccezione, scopo che legittimerebbe, a fortiori, secondo l'Autore, persino una sproporzione tra l'inadempimento e l'eccezione d'inadempimento. A questa generale conclusione farebbero eccezione, sempre nell'opinione dell'Autore, i contratti di durata (benché sia addotto ad esempio dal Sapone il solo contratto di lavoro subordinato) nei quali, la prestazione rifiutata dall'eccipiente non sarebbe più recuperabile (si pensi appunto all'astensione dal lavoro del prestatore di lavoro che si ritenga leso da un inadempimento del datore di lavoro) con l'effetto di produrre una perdita di utilità irreversibile il cui sacrificio esigerebbe che l'eccipiente risponda solo ad un inadempimento grave.

[19] Cass. civ. 21 febbraio 1983, n. 1308, in Giust. civ., 1983, I, p. 2379, con nota di Costanza, Buona fede ed eccezione di inadempimento. Nella controversia decisa, l'acquirente di un immobile ipotecato che aveva opposto il proprio rifiuto a pagare il prezzo nelle mani del creditore ipotecario con il consenso del venditore e del creditore stesso e la Corte ha ritenuto che il rifiuto dovesse considerarsi di buona fede o meno in ragione del fatto se le modalità di pagamento individuate fossero o meno idonee a estinguere l'ipoteca e liberare l'immobile. L'affermazione secondo cui la buona fede consiste nell'uso normale del diritto è considerata sostanzialmente pleonastica da Bianca, op. ult. cit., in quanto generica come, secondo l'illustre Autore, anche la diversa teoria che riconduce la buona fede all'uso del dell'eccezione in coerenza con l'interesse contrattuale perseguito dal contratto.

[20] Costanza, Buona fede ed eccezione di inadempimento, cit., p. 2389. In questo senso anche Sardo, op. cit., p. 455.

[21] Cass. civ. 19 dicembre 2006, n. 27132, in Mass. Giur. It., 2006 e Contratti, 2007, 6, p. 579; v. anche Cass. civ. 11 giugno 2010, n. 14065.

[22] Cass. civ. 6 agosto 2010, n. 18337 (inedita).

[23] Cass. civ. 8 aprile 2010, n. 8369 (inedita).

[24] Non può ritenersi di per sé una forma di venire contra factum proprium la proposizione giudiziale dell’eccezione, non sollevata in fase stragiudiziale. Un’interessante e recente ordinanza della Cassazione, già sopra citata (Cass. civ. 18 agosto 2020, n. 17214), ha precisato che la parte inadempiente che eccepisca in giudizio l’inadempimento altrui a propria scusante, non abbia l’onere di previamente sollevare l’eccezione in fase stragiudiziale tantomeno in modo formale attraverso diffide o contestazioni, sia pure generiche, dell’inadempimento della controparte. Anche in questo caso, però, saranno le circostanze concrete rimesse alla valutazione del giudice di merito, salvi i profili rilevanti ex articolo 360, primo comma, n. 5, c.p.c., a orientare l’interprete verificando se in concreto l’esperimento dell’eccezione sia solo strumentale e quindi essenzialmente contraria a buona fede il che tuttavia non si traduce nell’inammissibilità dell’eccezione ma solo nella sua inefficacia ossia nell’inidoneità dell’eccezione a giustificare l’inadempimento o a ritardarlo.  

[25] V. Cass. civ., 8 gennaio 2010, n. 74, in Dir. e giust., 2010, con nota di Izzo.

[26] Tuttavia, nel senso di ancorare la ponderazione dell’eccezione a parametri diversi e ulteriori rispetto alla gravità dell’inadempimento si segnala Cass. civ. sez. lavoro del 07 maggio 2013, n. 10553, secondo cui. “il requisito della buona fede previsto dall'art. 1460 c.c., comma 2 per la proposizione dell'eccezione inadimplenti non est adimplendum sussiste quando tale rifiuto sia stato determinato non solo da un inadempimento grave, ma anche da motivi corrispondenti agli obblighi di correttezza che l'art. 1175 c.c. impone alle parti in relazione alla natura del contratto e alle finalità da questo perseguite (cfr. Cass. cit. ed ivi n. 4743/1998)”. È opportuno aggiungere che, però, il richiamo alla correttezza contenuto nella decisione, unito a quello circa la gravità dell’inadempimento, appare scarno e incerto quanto al rilievo autonomo del parametro della correttezza ex articolo 1175 c.c.


8. Onere della prova.

Il panorama giurisprudenziale antecedente l'ormai famoso arresto delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 30 ottobre 2001, n. 13533[1] era composto di due orientamenti in ordine al tema generale del riparto dell'onere della prova ex articolo 2697 c.c. rapportato ai due rimedi che l'articolo 1453 c.c. contempla in ipotesi di inadempimento.

Il primo orientamento chiede al creditore di provare l'inadempimento del contratto solo quando è domandata la risoluzione mentre la richiesta di adempimento può essere sorretta dalla sola e semplice statuizione dell'esistenza della fonte dell'obbligo della controparte e, quindi, del diritto del creditore a ricevere la prestazione. L'orientamento avverso, invece, in forza dell'identità dei presupposti delle due azioni (risoluzione e adempimento), entrambe con fonte nel titolo, fonte del diritto azionato, riteneva possibile e doverosa una soluzione omogenea che imponesse al creditore solo di provare l'esistenza del titolo salvo l'onere del debitore, appunto, di dover provare il fatto estintivo eccepito in difesa. Al fine le Sezioni Unite privilegiano il secondo orientamento (definito minoritario) per due ragioni o, se si vuole, nella nomenclatura della Suprema Corte, due principi convergenti, quello di "prossimità della prova" e quello di "persistenza della prova". Il primo, desumibile dall'articolo 2697 c.c., secondo il quale il diritto sorto si presume esistente sin quando non venga data prova di un fatto contrario di natura estintiva così dimostrata la nascita di un diritto di credito, l'inadempimento si presume se l'attore ne faccia allegazione; il secondo principio, quello della "vicinanza o prossimità della prova" tende a gravare dell'onere probatorio il soggetto che debba dare prova di un fatto positivo, piuttosto che di un fatto negativo e il soggetto che in un inevitabile condizione di asimmetria informativa disponga verosimilmente di maggiori mezzi probatori o affronti un minor costo per procurarseli.

In questa sede poco interessa e poco è opportuno diffondersi in un'analisi approfondita e dettagliata dell'argomentazione giuridica e logica trasfusa dalle Sezioni Unite nella decisione citata se non per intendere quali conclusioni essa ne tragga in materia di eccezione d'inadempimento e di onere della prova a carico dell'eccipiente, trascrivendo direttamente i passi salienti, in merito, dell'arresto: "Eguale criterio di riparto dell'onere della prova [s'intende quello sostenuto dall'orientamento minoritario accolto appunto dalle Sezioni Unite] deve ritenersi applicabile nel caso in cui il debitore, convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno da inadempimento si avvalga dell'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 c.c. per paralizzare la pretesa dell'attore. In tale eventualità i ruoli saranno invertiti. Chi formula l'eccezione può limitarsi ad allegare l'altrui inadempimento: sarà la controparte a dover neutralizzare l'eccezione, dimostrando il proprio adempimento o la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione a suo carico (in tal senso. sent. n. 3099/87; n- 13445/92; n. 3232/98) (...) Le richiamate esigenze di omogeneità del regime probatorio inducono ad estendere anche nell'ipotesi dell'inesatto adempimento il principio della sufficienza dell'allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni) gravando anche in tale eventualità sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento. Appare artificiosa la ricostruzione della vicenda secondo la quale il creditore che lamenta un inadempimento inesatto manifesterebbe, per implicito la volontà di ammettere l'avvenuto adempimento. In realtà, il creditore esprime una ben precisa ed unica doglianza, incentrata sulla non conformità del comportamento del debitore al programma negoziale, ed in ragione di questa chiede tutela, domandando l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento. D'altra parte la diversa consistenza dell'inadempimento totale e dell'inadempimento inesatto non può giustificare il diverso regime probatorio. In entrambi i casi il creditore deduce che l'altro contraente non è stato fedele al contratto. Non è ragionevole ritenere sufficiente l'allegazione per l'inadempimento totale (massima espressione di infedeltà al contratto) e pretendere dal creditore la prova del fatto negativo dell'inesattezza se è dedotto soltanto un inadempimento inesatto o parziale (più ridotta manifestazione di infedeltà al contratto). In entrambi i casi la pretesa del creditore si fonda sull'allegazione di un inadempimento alla quale il debitore dovrà contrapporre la prova del fatto estintivo costituito dall'esatto adempimento".

Quindi, in coerenza con la tesi espressa e con l'esigenza di omogeneità di soluzione, esigenza cui è sotteso il bisogno di certezza del diritto, anche a scapito di alcune semplificazioni[2] o di potenziali abusi[3], il soggetto eccipiente l'inadempimento o l'inesatto adempimento della controparte dovrà limitarsi ad allegarlo[4]. La direzione indicata dalla nota pronuncia in tema di onere della prova in ambito contrattuale appare seguita in tema di eccezione di inadempimento contrattuale anche dalla successiva giurisprudenza della Corte di Cassazione[5].

E' intuitivo quali conseguenze possa comportare la soluzione fatta propria dalle Sezioni Unite nel riferito pronunciamento quando si ponga mente ai seguenti casi: in tema di appalto, il committente che voglia resistere alla richiesta di pagamento del corrispettivo dell'opera denuncerebbe la difformità della stessa rispetto al progetto sollevando un'exceptio non rite adimpleti contractus e l'appaltatore avrà in carico l'onere di provare che l'opera, al contrario, è stata realizzata e realizzata conformemente al progetto[6] oppure al caso del consumatore che, acquistato un bene di consumo, invochi la difformità ai sensi dell'articolo 129 del Decreto Legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (noto come "Codice del Consumo") per costringere il venditore all'ardua prova che il bene fosse, in realtà, conforme ai sensi del predetto articolo 129 del Codice del Consumo[7].

Al di là dei numerosi rilievi critici formulati in dottrina, la decisione ha ben assolto il suo compito di nomofilachia assumendo la guida di un filone giurisprudenziale ormai costante[8] e conforme nel senso che "Eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ex articolo 1460 c.c. risultando in tal caso invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione. Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento, gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento".[9]

Le notazioni critiche non sono però del tutto disattese in quanto manifestano un disagio reale nell'applicare la troppo rigida formulazione della giurisprudenza delle Sezioni Unite, disagio di cui è già consapevole la giurisprudenza di merito[10].

 

[1] La decisione è stata in più riviste pubblicata e ampiamente commentata ma in questa sede valga solo un richiamo ad alcuni commenti in cui peraltro si potrà agevolmente trovar traccia di ulteriori, numerose pubblicazioni di commento. Corriere giur. 2001, p. 1565 con nota di Mariconda, Inadempimento e onere della prova: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro; Contr. 2002, p. 113 con nota di Carnevali Inadempimento e onere della prova, Nuova giur. civ. comm., 2002, I, p. 349 con nota di Meoli Risoluzione per inadempimento e onere della prova, Riv. dir. civ., 2002, II, p. 7907 (s.m.) con nota di Villa, Onere della prova, inadempimento e criteri di razionalità economica; nonché gli articoli di Visintini, Studi in onore di Piero Schlesinger, II, Milano, 2004, p. 1701 e ss.; Scarpa, Responsabilità contrattuale e onere della prova: l'incertezza probatoria rientra tra i rischi della prestazione, in Giur. merito, 2007, 1, p. 248.

[2] Semplificazioni che contraddicono, a nostro avviso, proprio il principio di "prossimità della prova" poiché, se il convenuto eccepisce l'inesatto adempimento, ammette per ciò stesso di aver ricevuto una prestazione per cui gli sarà più agevole provare cosa non abbia ricevuto (Addis, op. cit., p. 458, nota 116). L'argomento è rigettato dalla Corte sia negando che il creditore ammetta alcunché lamentando il pregiudizio sofferto sia riaffermando superiori esigenze di uniformità del riparto dell'onere della prova in caso di inadempimento totale e parziale. Per contro, la contraddizione tra il "principio di vicinanza della prova" e l'onere della prova posto a carico dell'esatto adempimento del debitore cui venga eccepito il parziale inadempimento è al cuore della decisione del T.A.R. Campania, sez. Napoli, 22 marzo 2002, n. 1614, in Foro Amm. TAR, 2002, III, p. 1671, con nota di Elefante, Giudizio amministrativo ed onere della prova dell'inadempimento, che ritiene, invece, l'onere della prova posto a carico dell'eccipiente in caso di exceptio non rite adimpleti contractus compatibile con la sentenza 13533/2001 delle Sezioni Unite proprio in quanto conforme al "principio di vicinanza della prova" da quella decisione enunciato. Bianca, Inadempimento delle obbligazioni, cit., p. 176, ritiene che l'adempimento parziale comporti una parziale insussistenza del "principio di persistenza".

[3] Di cui è menzione in Mariconda, Inadempimento e onere della prova: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro, cit., p. 712; l'Autore, peraltro molto critico verso la decisione delle Sezioni Unite, paventa la possibilità che una rigida applicazione del criterio penalizzi il creditore inadempiente a vantaggio della parte che avendo pur ricevuto la prestazione, si limita ad eccepirne la correttezza senza fornire alcuna prova.

[4] Il riparto dell'onere della prova così inteso dalle Sezioni Unite in tema di exceptio non rite adimpleti contractus è difforme dall'opinione della dottrina prevalente, rappresentata in ciò da Realmonte, op. cit., p. 236.

[5] Cass. civ. 15 aprile 2014, n. 8736 e ancora più di recente Cass. civ. 29 gennaio 2021, n. 2154 che richiama la già citata decisione delle sezioni unite del 2001 per censurare una decisione della Corte di Appello di Roma che dichiarava la risoluzione per inadempimento di un contratto di locazione. La corte d’Appello di Roma, rovesciando la decisione di primo grado, aveva ritenuto che il conduttore di un immobile che aveva sospeso il pagamento del canone ex articolo 15460 c.c. non aveva dato prova della pretesa inidoneità del locale allo svolgimento dell’attività commerciale in quanto sprovvisto del cambio di destinazione d’uso e della agibilità. La Suprema Corte ha quindi ritenuto erronea la distribuzione dell’onere probatorio effettuata dai giudici di merito in quanto, a fronte dell’eccezione di inadempimento del conduttore, il locatore era tenuto a: “dimostrare di avere correttamente e pienamente adempiuto all’obbligo di rendere l’immobile locato pienamente idoneo all’uso pattuito”.

[6] Ciò che conclude proprio Cass. civ. 20 gennaio 2010, n. 936, in Guida al dir. 2010, 8, p. 74 (s.m.) ponendo a carico dell'appaltatore l'onere della prova della regolarità dell'opera di cui il committente aveva denunciato i vizi avvalendosi dell'eccezione d'inadempimento.

[7] Gli esempi sono tratti da Scarpa, Responsabilità contrattuale e onere della prova: l'incertezza probatoria rientra tra i rischi della prestazione, in Giur. merito, 2007, 1, p. 248 e ss. In casi come questi - come anche in casi di fornitura di servizi o prestazione professionali - è stato detto che l’adozione del criterio di riparto accolto dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, in tema di inadempimento parziale, comporterebbe che "i costi della prova tendono all'infinito" (Porreca, Logica e onere della prova nell'ipotesi di adempimento contrattuale viziato: riaffiorano i dubbi nella giurisprudenza di merito, in Resp. civ. e prev., 2008, 5, p. 1140 commento a Trib. Bologna 21 maggio 2007) se addossati al debitore.

[8] Cass. civ. 15 novembre 2002, n. 16092 in Guida al diritto, 2003, 6, p. 62; T.A.R. Calabria, 17 luglio 2003, n. 2347 in Ragiusan. 2004, 239/240, 377; Cass. civ. 12 aprile 2006, n. 8615, in Mass. Giur. It., 2006; Cass. civ. 13 giugno 2006, n. 13674, in Mass. Giur. Civ., 2006; Cass. civ. 10 aprile 2008, n. 9439 in Contratti, 2008, 8-9, p. 826; Cass. civ. 12 febbraio 2010, n. 3373, in Guida al dir., 2010, 16, p. 83; Tribunale Busto Arsizio, 1 giuno 2010.

[9] In tal senso è la giurisprudenza costante che ripete il principio pedissequamente nelle seguenti decisioni: ci si riferisce a Cass. civ. 24/07/2018, n. 19549 (dove si trovano citate: Cass. civ. n. 826 del 2015; Cass. civ. n. 15659 del 2011; Cass. civ. n. 3373 del 2010; Cass. civ. n. 15677 del 2009; Cass. civ. n. 1743 del 2007; Cass. civ. n. 13674 del 2006).

[10] v. infra Trib. Bologna 21 maggio 2007, cit. in nota 192 e T.A.R. Campania, cit., in nota 187.


9. Modificazioni soggettive del rapporto obbligatorio ed eccezione d’inadempimento.

A mo’ di completamento dell’illustrazione della tematica dell’eccezione d’inadempimento è utile far cenno al tema della legittimazione alla proposizione dell’eccezione nelle ipotesi in cui si verifichi un mutamento soggettivo del rapporto obbligatorio, dal lato attivo o passivo.

Il campo delle modificazioni soggettive del lato attivo, escludendo i casi di novazione soggettiva, comprende essenzialmente la cessione dei crediti (articoli 1260 e ss.).

È discusso infatti se e quali eccezioni possa proporre il debitore ceduto nei confronti del cessionario del credito poiché, a differenza di quanto espressamente statuito in sede di modificazioni soggettive dal lato passivo[1], manca, in questo caso una specifica disciplina.

In linea generale, il principio accolto in giurisprudenza è che il rapporto tra cedente e ceduto non può considerarsi dal momento della cessione e perciò stesso come travolto e il ceduto ha dunque facoltà di tutelarsi anche nei confronti del cessionario qualora avesse avuto ragione di opporre eccezioni nei confronti del cedente[2].

Dunque, non solo le eccezioni che attengono alla fonte del credito (nullità, annullabilità) o quelle attinenti alle forme di circolazione del credito ma anche quelle attinenti allo sviluppo e alla dimensione esecutiva del rapporto sinallagmatico (se tale rapporto sia sussistente nel caso concreto), a fatti estintivi o modificativi del rapporto obbligatorio e, potrebbe ben dirsi a fortiori, le eccezioni legittimanti la sospensione dell’esecuzione della prestazione, si ritengono comprese nella concreta e definita applicazione del principio[3].

Ne consegue che il debitore ceduto potrà opporre al cessionario l’eccezione d’inadempimento o di inesatto adempimento sempre che l’eccezione abbia ad oggetto circostanze anteriori all’intervenuta accettazione, notifica o, in mancanza di accettazione o notifica, anche in caso di conoscenza effettiva da parte del terzo[4].

In tema di espromissione, l’articolo 1272, terzo comma, c.c., prevede che l’espromittente possa opporre al creditore le eccezioni che avrebbe potuto opporgli il debitore originario “se non sono personali a quest’ultimo e non derivino da fatti successivi all’espromissione”. Tralasciando - perché inappropriato da svolgersi in questa sede – l’ampio dibattito sulla natura successoria dell’espromissione[5], basti, in questa sede, rilevare che l’interpretazione della dottrina prevalente consiste nel dedurre dalla lettura della norma testé citata che sono opponibili dall’espromittente all’espromissario le sole eccezioni che, non basate su fatti o circostanze accadute dopo l’espromissione, non siano personali al debitore originario[6].

Interpretando la congiunzione che termina il primo alinea del comma 3 dell’articolo 1272 c.c. come prescrizione della ricorrenza congiuntiva di entrambi i requisiti di esclusione delle eccezioni opponibili, altra dottrina[7] conclude che non sia opponibile dall’espromittente all’espromissario l’eccezione non personale basata su fatti sopravvenuti al mutamento soggettivo del debitore e, per contro, sia possibile all’espromittente opporre all’espromissario sia quelle eccezioni non personali che non si basino su fatti sopravvenuti all’espromissione sia quelle eccezioni che, pur basate su fatti sopravvenuti all’espromissione, non siano personali al debitore originario[8].

In merito, è opportuno notare che l’eccezione d’inadempimento come anche l’eccezione di sospensione ex articolo 1461 c.c., in quanto eccezioni personali[9], potrebbero proprio sorgere sia da eventi anteriori sia da fatti posteriori all’espromissione.

In tema di delegazione passiva, si ritiene sulla base dell’articolo 1271 c.c., che il delegato possa opporre al delegatario le sole eccezioni attinenti al rapporto con quest’ultimo (compensazione, incapacità di agire al momento dell’assunzione dell’obbligo, etc.) ma che, salvo diversa pattuizione, né le eccezioni attinenti il rapporto di provvista (ossia quello originario tra delegante e delegato) né quelle attinenti al rapporto di valuta (ossia quello intercorrente tra delegante e delegatario). Conseguentemente, salvo, si ripete, il caso di delegazione titolata, il delegato non potrà eccepire l’inadempimento del delegante[10] ma nemmeno l’eventuale inadempimento del delegatario nei suoi rapporti con il delegante.

Nel caso di surrogazione, trattandosi di una vicenda successoria vera e propria, si reputa, con il conforto della giurisprudenza, che il debitore possa opporre al terzo surrogato tutte le eccezioni opponibili già prima della surrogazione al creditore originario e che al terzo siano trasferiti tutti i diritti e rimedi, anche conservativi, azioni ed eccezioni inerenti al titolo contrattuale[11] (benché riesca alquanto difficile ipotizzare, nel contesto qui esaminato, la possibilità dell’esercizio dell’eccezione d’inadempimento).

 

[1] v. art. 1271 c.c., in tema di delegazione, articolo 1272, 2° co., in tema di espromissione e 1273, 3° co., in tema di accollo.

[2] I giudici ritengono infatti che il trasferimento della posizione creditoria pone il debitore di fronte ad un nuovo soggetto ma pur sempre in base al rapporto che il debito/credito ha originato con la conseguenza che (Cass. civ. 17 gennaio 2001. n. 575, in Mass. Giur. It., 2001): “A seguito della cessione del credito il debitore ceduto diviene obbligato verso il cessionario allo stesso modo in cui era tale nei confronti del suo creditore originario. Pertanto, potrà opporre al cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente sia quelle attinenti alla validità del titolo costitutivo del credito, sia quelle relative ai fatti modificativi ed estintivi del rapporto anteriore alla cessione od anche posteriori al trasferimento, ma anteriori all’accettazione della cessione o alla sua notifica o alla sua conoscenza di fatto”.

[3] In tal senso, Panuccio, Cessione dei crediti, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, in particolare pp. 864 e 865, dove si tenta una ricostruzione sistematica e una classificazione delle eccezioni opponibili dal ceduto in funzione della natura delle medesime. Bianca, Diritto civile, L’obbligazione. Milano, 1990, p. 572, pur condividendo l’interpretazione del diritto positivo brevemente sintetizzata nel testo, non manca di sottolineare l’assoluta inadeguatezza di una simile soluzione rispetto all’esigenza di una rapida circolazione dei diritti di credito.

[4] Panuccio, Cessione dei crediti, cit., p. 868, secondo il quale il fondamento della distinzione tra la fase anteriore e quella posteriore alla conoscenza della cessione da parte del debitore ceduto, comunque quest’ultimo l’abbia acquisita, consiste nell’evitare possibili collusioni tra cedente e ceduto a tutto danno del cessionario.

[5] Sul quale un contributo utile all’orientamento è offerto da La Porta, L’assunzione del debito altrui, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2009.

[6] In tal senso, Bianca, op. cit., p. 669.

[7] Grassi, L’espromissione, considerazioni sulle eccezioni opponibili dall’espromittente, in Giust. Civ., 2001, p. 389.

[8] Condivide l’esito del processo ermeneutico di questa dottrina, pur criticandone l’iter argomentativo basato sul dato letterale, Maiolo, L’espromissione, in Bosetti (a cura di), Le modificazioni soggettive del rapporto obbligatorio, in Nuova giur. di dir. civ. e comm. fondata da Bigiavi, Diritto delle obbligazioni, diretto da Breccia, Torino, 2010, pp. 553-4 e nota 134 a p. 553.

[9] In tal senso Maiolo, L’espromissione, cit., p. 554 ma anche Grassi, L’espromissione, considerazioni sulle eccezioni opponibili dall’espromittente, cit., pp. 398-403, in particolare, secondo il quale proprio le eccezioni di cui agli articoli 1460 c.c. e 1461 c.c. rientrerebbero tra le eccezioni personali proponibili dall’espromittente verso l’espromissario e che, solo eventualmente, possono originare da fatti anteriori all’espromissione. L’Autore, tuttavia, accede ad una tesi restrittiva circa la natura e il campo d’azione dell’eccezione d’inadempimento (in tutto aderente alla tesi di Grasso, più volte menzionata in questo testo e nelle relative note) che confina l’eccezione d’inadempimento “in senso stretto” ai soli casi di adempimenti simultanei. Pertanto, in coerenza con tale interpretazione restrittiva dell’articolo 1460 c.c., l’Autore annovera i casi di applicazione dell’articolo 1460 c.c. a situazioni diverse dalla tutela del reciproco adempimento simultaneo, tra le eccezioni inerenti all’esigibilità della prestazione e non afferenti alla protezione del sinallagma funzionale e, quindi, in ultima analisi, tra le eccezioni “reali”, sempre proponibili dall’espromittente all’espromissario sia che il fatto originante e giustificativo sorga prima sia che sorga dopo il mutamento soggettivo dal lato passivo.

[10] Bianca, op. ult. cit., p. 646.

[11] Martone, La surrogazione per pagamento, in Bosetti (a cura di), Le modificazioni soggettive del rapporto obbligatorio, in Nuova giur. di dir. civ. e comm. fondata da Bigiavi, Diritto delle obbligazioni, diretto da Breccia, Torino, 2010, p. 417.


B) Mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti. - 1. Elementi comuni propri delle eccezioni dilatorie di cui agli articoli 1460 c.c. e 1461 c.c.

In ragione della partecipazione dell’eccezione di cui all’articolo 1461 c.c. dei caratteri o degli effetti dilatori e quindi della centralità nell’ambito del microsistema degli strumenti dilatori, si afferma che comune ai mezzi di tutela di cui agli artt. 1460 e 1461 c.c. è l'ambito di operatività rappresentato dai contratti con prestazioni corrispettive, condivisa è la natura di eccezione sostanziale o in senso proprio, sempre presente il temperamento che viene, in fase esecutiva, dall'applicazione del parametro di buona fede benché non espressamente richiamato nel testo della norma dell’articolo 1461 c.c. (a differenza di quanto previsto per l'eccezione d'inadempimento), ricorrente in entrambi una funzione di autotutela che offre al debitore che sia al contempo creditore uno strumento, un diritto potestativo con cui paralizzare e cristallizzare una situazione di incertezza, rischio, pericolo per la posizione del creditore-debitore[1].

Gli elementi di consonanza delle due figure di autotutela e il loro compartito fondamento riecheggiano nella giurisprudenza che si spinge ad adoperare il medesimo linguaggio, persino lo stesso brocardo[2] laddove parte della dottrina preferibilmente menziona, quale radice ultima della previsione in oggetto, la clausola "rebus sic stantibus"[3]. 

Ciò che distingue le due figure è proprio la situazione di pericolo che fronteggiano o, per meglio dire, il fenomeno, l'evento, l'accadimento che cagiona la situazione di pericolo da cui il creditore intende difendersi. Nel caso dell'eccezione d'inadempimento, la situazione di rischio per il creditore è rappresentata concretamente da un pregresso inadempimento mentre nel caso dell'eccezione di cui all'articolo 1461 c.c. si oggettiva nel deterioramento della condizione patrimoniale di uno dei contraenti e, quindi, mentre nel primo caso involge un comportamento, nel secondo un "dato di fatto"[4].

Del tutto difforme è altro orientamento dottrinale che vede nell'eccezione d'insolvenza di cui all'articolo 1461 c.c. non un’espressione del principio "inadimplenti non est adimplendum", non una esplicitazione della clausola rebus sic stantibus, non uno strumento contro il pericolo di perdere o di non conseguire la controprestazione in quanto inadempiuta ma avverso il rischio di non poter conseguire in sede esecutiva, sul patrimonio ormai incapiente del debitore l'equivalente di quanto si perderebbe[5]. Si tende a prevenire la mancata realizzazione del credito[6] ragione per cui è in errore, secondo questa ricostruzione, la giurisprudenza consolidata e quella parte di dottrina che unifica le due figure sotto il cappello unitario della difesa contro il pericolo d'inadempimento[7].

In ogni caso, non suscita dubbi, quanto ai presupposti dell'operatività dell'eccezione ai sensi dell'articolo 1461 c.c., la necessaria presenza di un contratto a prestazioni corrispettive (per cui si rinvia a quanto sopra detto in materia di eccezione di inadempimento, 3. Corrispettività ed interdipendenza). In particolare, l'articolo 1461 c.c. è applicabile ai contratti di durata[8], al contratto preliminare, anche per persona da nominare[9] mentre, coerentemente, l'eccezione di sospensione è stata ritenuta non applicabile al contratto di società, ovverosia ai rapporti endosocietari[10].

Vi è stata, specie in passato, incertezza sul se la sospensione del pagamento del premio sia invocabile dall’assicurato in caso di dissesto dell’assicuratore mentre oggi la soluzione positiva pare prevalere[11] né pare messa in discussione.

Quanto all'ordine cronologico delle prestazioni si è osservato che, per sua natura, la sospensione della prestazione potrà essere decisa unicamente dal soggetto tenuto per primo se i termini di adempimento sono scansionati mentre nemmeno pare configurabile potersi avvalere dell’eccezione di sospensione quando vi sia sincronia o contemporaneità tra le prestazioni in quanto abbiano eguale scadenza[12] poiché, in tal caso, è tema di adempimento o inadempimento dell’obbligazione e, quindi, campo di elezione dell’articolo 1460 c.c.[13]

In senso opposto, si è soliti citare una sentenza della Suprema Corte del 1999[14] in cui è rinvenibile l’affermazione (anche nella massima) secondo cui “Il potere di sospensione [ex articolo 1461 c.c.] può esercitarsi anche nel caso di prestazioni con eguale scadenza”. L’affermazione, in realtà, sottoposta ad analisi critica[15], mostra una chiara debolezza d’impianto poiché, partendo dall’assunto, pure diffuso in dottrina, della comune matrice dell’eccezione d’inadempimento e del potere di sospensione (icasticamente raffigurata dalla decisione in commento attraverso una sorta di  apoftegma “inadimplenti non est adimplendum”), giunge quasi a confondere i due rimedi ritenendoli entrambi applicabili in una situazione di pericolo di inadempimento per poi concludere che, in caso di effettivo inadempimento, sarà l’exceptio inadimpleti contractus a determinare l’effetto risolutorio[16].

E’ stato per contro giustamente considerato che i due istituti hanno diversa natura e struttura e diversi presupposti poiché l’articolo 1460 c.c. postula l’inadempimento, l’articolo 1461 c.c. è escluso in caso d’inadempimento operando indipendentemente - ed eventualmente anteriormente - all’exceptio inadimpleti contractus secondo il seguente schema logico-temporale: il contraente tenuto per primo sospende la propria prestazione dilazionandone l’esecuzione e, quindi, pretende la controprestazione alla scadenza dell’obbligazione del contraente tenuto per secondo il quale potrà o adempiere o non adempiere, in quest’ultimo caso legittimando la sollevazione dell’eccezione d’inadempimento (in questa sequenza è stata omessa la variante costituita dalla prestazione della garanzia, di cui appresso si vedrà)[17].

La peculiarità del caso, cui risponde la criticata (in parte qua) massima dei giudici, stava nel collegamento tra contratto preliminare e definitivo, un labirinto dal quale i giudici hanno inteso trarsi d’impaccio con l’affermazione generale secondo cui il potere di sospensione è invocabile anche in caso di prestazioni contemporanee[18]. Ha un peso in questa decisione anche il fatto che il principio consensualistico, quando sia accompagnato dalla consegna da parte del venditore tenuto per primo, non consente oltre di far uso del potere di sospensione, tutt’al più potendosi attivare l’articolo 1186 c.c., per fronteggiare il rischio del possibile fallimento del compratore e, in specie, della revocatoria del pagamento[19][20].

 

[1] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 59. Utilizzando la definizione in senso aristotelico (genus proximum, differentia spoecifica) si potrebbe dire che il genus proximum delle due eccezioni di cui all'articolo 1460 c.c. e all'articolo 1461 c.c., è l'eccezione dilatoria che mira a salvaguardare il contraente dal rischio di controparte (in senso atecnico, ossia non in senso strettamente finanziario), ma la differentia spoecifica sta nel fatto che l'articolo 1460 c.c. presuppone un inadempimento mentre, al contrario, l'articolo 1461 c.c., per definizione, appunto esclude che un inadempimento possa ricorrere, essendo necessario e sufficiente un mutamento in peius delle condizioni patrimoniali di uno dei contraenti.

[2] Cass. civ. 24 febbraio 1999, n. 1574, in Giur. It., 2000, p. 737, con nota di Migliore secondo cui l'articolo 1461 c.c. trova fondamento nel principio "inadimplendi non est adimplendum", richiamato anche da Cass. civ. 22 gennaio 1999, n. 602, in Corriere giur. 1999, 3, p. 302; Cass. civ., sez. lavoro, 20 ottobre 2009, n. 22167, in Red. Giust. Civ. Mass. 2009, 10, riconduce entrambi gli istituti al "principio sinallagmatico nell'esecuzione dei contratti a prestazioni corrispettive"

[3] Sacco, Le eccezioni dilatorie, cit., p. 647. Secondo Addis, op. cit., p. 468, la disciplina del mutuo, del mandato di credito e della fideiussione - in cui è sufficiente la notevole difficoltà della restituzione della cosa o del soddisfacimento del credito al fine di provocare l’estinzione o la sospensione della prestazione - potrebbe deporre per un generale principio di tutela del contraente esposto unilateralmente al rischio dell'altrui insolvenza (in quanto ha già effettuato la propria prestazione), dai rischi delle vicende economiche delle proprie controparti e, in tale ambito, dar ragione dei riferimenti dottrinali alla clausola rebus sic stantibus.

[4] Bigliazzi Geri, loc. ult. cit.

[5] In questo senso, con ampiezza di ulteriori riferimenti alla letteratura giuridica in materia, Carboni, Sospensione dell'esecuzione del contratto, corrispettività delle prestazioni e responsabilità patrimoniale, cit., passim. Vedi anche Bianca, Diritto civile, V, cit., p. 355.

[6] Carboni, op. cit., p. 848, efficacemente afferma che “La relazione che l’articolo 1461 c.c. (…) postula è tra entità della controprestazione attesa e capacità del patrimonio del debitore di rispondere, nel senso che soltanto ove questa difetti sarà attuabile la sospensione della prestazione prioritariamente dovuta”. Secondo questo autore la linea di demarcazione dell’operatività del rimedio di cui all’articolo 1461 c.c. rispetto alla decadenza dal beneficio del termine è da ricercarsi proprio nella diversa fase della relazione sinallagmatica in cui interverrebbero che, per l’articolo 1461 c.c., sarebbe limitata ai soli casi di intreccio sinallagmatico non ancora attuato (in particolare a p. 838 e s. e 842 e s.). Di contrario avviso E. Simonetto, I contratti di credito, Padova, 1953, pp. 144 e ss. che non esclude l’invocabilità dell’articolo 1186 c.c. in ipotesi di contratto non sinallagmatico.

[7] Una rigorosa, accurata ed approfondita ricostruzione storico-dogmatica della genealogia delle due eccezioni a partire dalle sistemazioni concettuali dell'800 per finire al processo (sempre in fieri) di unificazione del diritto privato europeo (per cui v. Addis, Le eccezioni dilatorie, cit.,) mostra quanto esse rispondano a esigenze fortemente prossime se non parzialmente sovrapposte. Come vedremo, la differente impostazione teorica - tra chi ritiene che exceptio inadimpleti contractus ed eccezione di insolvenza ex articolo 1461 c.c. siano diverse nei presupposti e negli effetti per cui sono state concepite, rispetto all'opposta tesi che riconosce nei due istituti forti affinità e comunanze - è foriera di conseguenze di non poco conto nelle soluzioni concrete poiché conduce a risultati diametralmente opposti quanto all'applicabilità del rimedio in parola in caso di prestazioni contemporanee o nel caso in cui lo stato di dissesto fosse preesistente alla conclusione del contratto ma sconosciuto all'eccipiente o ancora in caso di aggravamento post-contrattuale del dissesto. Sintomo o precipitato delle incertezze di inquadramento sistematico è anche la pluralità di denominazioni fiorite in dottrina con sfumature di significato differenti correlate alla prospettiva ermeneutica prediletta ("eccezione di sospensione", "eccezione di insolvenza", "eccezione di insicurezza" - anche se quest'ultima ha un significato suo particolare - ed "eccezione di pericolo d'inadempimento"). Le intuizioni e le considerazioni di questo scritto si sono poi ampliate, espanse ed evolute nell’assai pregevole monografia che l’autore ha dedicato al “mutamento” nelle condizioni patrimoniali dei contraenti in cui, in uno con l’esito di un’analisi storico-comparatistica del processo nomogenetico della disposizione in commento, si sottolinea il connotato peculiare e distintivo - rispetto al modello tedesco del § 321 del BGB – e il precipuo legame concettuale  della sospensione dell’esecuzione con l’ambito più radicale della disciplina del rimedio risolutorio icasticamente rappresentato dalla collocazione topografica degli articoli 1460 e 1461 c.c. (ADDIS, . Il “mutamento” nelle condizioni patrimoniali dei contraenti, Milano, 2013, pp. 1-64).       

[8] Cass. civ. 12 ottobre 1957, n. 3768, in Mass. Giur. It., 1957: "La normale cautela della sospensione della prestazione, prevista dall'articolo 1461 c.c. per i contratti a prestazioni corrispettive nel caso del sopravvenire di una situazione tale da porre in pericolo il conseguimento della controprestazione, a causa delle condizioni patrimoniali dell'altro contraente, trova applicazione anche nei contratti di somministrazione". In dottrina, Bigliazzi Geri, op. cit., p. 69.

[9] Cass. civ. 24 febbraio 1999, n. 1574, cit.; Cass. civ. 26 gennaio 1985, n. 402, in Mass. Giur. It., 1985. In tema di contratto preliminare esiste anzi una nutrita giurisprudenza che sarà appresso esaminata.

[10] Trib. Milano, 17 maggio 1990 in Giur. It., 1991, I, 2, p. 932 con nota di Occhino: "Il mutamento delle condizioni patrimoniali della società non giustifica la sospensione dei versamenti da parte dei soci, poiché l'articolo 1461 c.c. è applicabile ai soli contratti con prestazioni corrispettive".

[11] Cass. civ. 16 ottobre 1972, n. 3096, in Giust. Civ. 1973, 1, 464 con nota di Di Amato, Ancora in tema di dissesto dell’assicuratore e tutela dell’assicurato; indirettamente e implicitamente, Cass. civ. 3 dicembre 1993, n. 12011, in Mass. Giur. It., 1993.

[12] Sacco, op. cit., p. 617; Boccalatte, op.cit., p. 31;

[13] Rolfi, Art. 1461 e contratto preliminare, Commento a Cass. civ. 24 febbraio 1999, n. 1574, p. 1265

[14] Cass. civ., 24 febbraio 1999, n. 1574, cit. e nel medesimo senso, Cass. civ. 22 gennaio 1999, n. 602, Corriere giur., 1999, 3, p. 302. e Cass. civ. 15 maggio 2002, in Corriere giur., 2002, 8, p. 993 tutte esaminate funditus da Serioli, Le “sorti magnifiche e progressive” della eccezione d’insicurezza. Saggio di diritto giurisprudenziale, in Addis, Ricerche sull’eccezione di insicurezza, Milano, 2006, p. 23 e ss. La giurisprudenza anteriore, di molto risalente (per la quale si vedano taluni riferimenti in Rolfi, op. cit., p. 1264, note 13 e 16) appare divisa ma prevalentemente orientata in senso difforme.

[15] Da Rolfi, Art. 1461 e contratto preliminare, cit., p. 1261 e ss.

[16] In questo modo attribuendo all’eccezione ex articolo 1460 c.c. un effetto che valica la portata dilatoria del rimedio

[17] Rolfi, op. cit., p. 1266, il quale ha poi modo, nella medesima pagina e oltre, di dimostrare che l’enunciato della Suprema Corte, quanto all’applicabilità dell’articolo 1461 c.c. anche ai casi di prestazioni contemporanee era del tutto superflua ai fini della decisione del caso. Infatti, la questione poneva di fronte il promittente venditore di un albergo e lo stipulante che aveva proceduto ad una electio ex articoli 1401 e ss., in favore di un soggetto terzo ritenuto, in quanto società in accomandita semplice con capitale sociale insignificante, di non sicura solvibilità, che avrebbe dovuto provvedere al pagamento di due terzi del prezzo dell’immobile mediante cambiali e pagare il canone per l’affitto dell’azienda. Il promittente venditore rifiutava di stipulare il contratto definitivo adducendo un mutamento delle condizioni patrimoniali del soggetto nominato il quale non rifiutava di eseguire la prestazione contemplata nel preliminare, anzi insisteva e chiedeva giudizialmente la stipula del contratto definitivo pure argomentando circa la non applicabilità dell’articolo 1461 c.c a prestazioni contemporanee (ossia la mutua prestazione del consenso). Sennonché, la preoccupazione del promittente venditore non investiva la prestazione del consenso ma l’adempimento del contratto definitivo, una volta stipulato, quindi un’”obbligazione futura” (come precisato da Serioli, op. cit., p. 66). Ciò che dimostra, semmai, proprio la differenza cronologica nella posizione delle parti, in cui il promittente venditore è tenuto per primo salvo l’apprezzabile circostanza che, nel caso divisato, come in genere dinanzi alla sequenza preliminare-definitivo o in ogni caso di collegamento contrattuale (parla di collegamento sinallagmatico allargato il Rolfi, op. cit., p. 1267), le obbligazioni si intrecciano per l’intrecciarsi delle fonti contrattuali, superando il modello astratto del contratto corrispettivo tipico che si consuma uno actu, presente alla mente del legislatore del ’42. Il problema è acutizzato dalla tendenza odierna del preliminare ad anticipare la regolamentazione del contratto definitivo.

[18] All’esito di un dettagliato e serrato scrutinio, secondo Serioli, op. cit., p. 78, la sentenza di Cass. civ., 24 febbraio 1999, n. 1574, cit., riposa sull’affermazione dell’inadempimento dello stipulante per aver rifiutato la stipula del definitivo e aver insistito nella nomina di un soggetto ex articolo 1402 c.c., che minacciava il conseguimento della prestazione mentre le residue affermazioni in tema di articolo 1461 c.c. rappresentano una raffazzonata giustapposizione di massime tralatizie.

[19] Cass. civ. 6 novembre 1998, n. 12358, in Studium oecon. 2000, p. 147.

[20] Ricorrendo ad un’analisi dettagliata e puntuale della giurisprudenza (inclusa la decisione sopra menzionata della Cass. n. 1574/1999 di cui alla nota 224) che sembra attenuare la rigidità dei modelli cronologici differenti nell’articolo 1460 c.c. e 1461 c.c., ADDIS, Il “mutamento” nelle condizioni patrimoniali dei contraenti, cit. pp. 107 -116, conclude nel senso che i margini di applicazione dell’eccezione di insicurezza di cui all’articolo 1461 c.c. in relazione all’esecuzione di un contratto preliminare appaiono ridotti alla sola ipotesi in cui “la disponibilità a concludere il definitivo da parte del contraente dissestato non si accompagni ad un’idonea garanzia in ordine al futuro adempimento delle prestazioni in esso dedotte, ipotesi che tuttavia potrebbe ben esulare dal rimedio sospensivo in esame configurandosi piuttosto come inidoneità o incapacità di esecuzione dell’obbligo a contrarre al di là della formale conclusione del contratto.    


2. Mutamento in peius delle condizioni patrimoniali dell’altro contraente.

È questo il presupposto tipico dell’eccezione di sospensione che consente di distinguerla dall’eccezione d’inadempimento.

Tuttavia non vi è molta chiarezza quanto alla esatta individuazione di una nozione concreta del mutamento delle condizioni patrimoniali cui l’articolo 1461 c.c. fa riferimento nella rubrica.

Secondo alcuni il peggioramento della situazione economica dell’altro contraente è da intendersi come insolvenza, quella stessa cui si riferisce l’articolo 1186 c.c., disciplina della decadenza dal beneficio del termine ma non quella di cui all’articolo 5 l. fall.[1]. Ad escludere che il rimedio ex articolo 1461 c.c. si riduca ad essere un’inutile superfetazione normativa, il discrimine tra le due nozioni di insolvenza, secondo questa dottrina, assume i contorni di una differenziazione quantitativa, o, meglio, di graduazione sicché l’insolvenza che provoca decadenza è più intensa e pregnante di quella che legittima la sospensione della prestazione[2].

Di contrario avviso sono coloro che, invece, alla radice, assegnano un diverso contenuto alle due nozioni in base a dove sono collocate le relative norme poiché l’insolvenza di cui all’articolo 1461 c.c. sarebbe un tertium genus rispetto alla nozione fallimentare come a quella che giustifica la decadenza[3].

Anche chi sostiene l’identità, diversamente accentuata, del presupposto dell’insolvenza riflessa nei due articoli, conviene con l’orientamento che configura per gli effetti e per la struttura, due strumenti di tutela che differiscono profondamente con un necessario riflesso sulla gravità del deterioramento presupposto[4].

Infatti, l’articolo 1186 c.c., sul piano strutturale, prescinde da un rapporto a prestazioni corrispettive[5] ed è anzi dettato per un rapporto obbligatorio o per il caso dei cd. contratti bilaterali imperfetti. Ma ancora più evidente è la differenza sul piano degli effetti o degli scopi dei due mezzi di tutela.

Il meccanismo dell’articolo 1186 c.c. consente l’immediata esigibilità del credito ed è quindi misura “satisfattoria” mentre la sospensione dell’esecuzione ha natura “cautelare”[6]. Ulteriore elemento di differenziazione sul piano effettuale - che retroagisce sulla corretta lettura dei presupposti - è nel carattere irreversibile del rimedio di cui all’articolo 1186 c.c. da cui discende l’immediata esigibilità del credito a fronte di una sospensione della prestazione superabile attraverso la prestazione di un’idonea garanzia[7].

Infine, sul piano stesso della fattispecie, nell’articolo 1186 c.c. l’insolvenza manifestatasi vale per ciò sola a determinare l’effetto di decadenza mentre l’articolo 1461 c.c., in quanto rimedio cautelare, si rapporta ad un rischio, il rischio di perdita della controprestazione attraverso il medio dell’”evidente pericolo” per cui è ben possibile dire che l’eccezione di insolvenza è uno schema relazionale in cui dato un mutamento patrimoniale e dato un evidente pericolo di non conseguire la controprestazione, nasce il potere di sospendere l'esecuzione della propria prestazione.

C’è dunque esigenza di valutare un rapporto tra una causa efficiente ed un pericolo concreto. Invero la lettera dell'articolo 1461 c.c. non adopera il termine "depauperamento" o "deterioramento" o "impoverimento" o altro equivalente ma solo richiede che un mutamento delle condizioni economiche vi sia stato, dovendo apprezzare l'interprete in concreto se il fenomeno occorso sia idoneo a incidere sull'aspettativa di soddisfacimento della parte in bonis[8].

La giurisprudenza talvolta parla di una situazione patrimoniale deteriorata in maniera "seria ed irreversibile"[9].

Quanto alla precisa identificazione di cosa sia l'evento di cui all’articolo 1461 c.c. né la dottrina né la giurisprudenza possono dare indicazioni univoche, astratte e predeterminate.

In dottrina si è peraltro sostenuto che l'evento possa anche incidere sulla sostanza o sulla qualità del patrimonio come, ad esempio, nel caso di trasmutazione di un patrimonio immobiliare in patrimonio solo mobiliare, liquido e quindi facilmente occultabile e più difficilmente aggredibile o una temporanea illiquidità, situazioni assimilabili all'eventus damni di cui all'articolato sistema di tutela generica del credito[10].

In giurisprudenza ricorre l'affermazione secondo cui il mutamento rilevante ai fini dell'articolo 1461 c.c. è quello che genera un pericolo attuale ed evidente, non bastando il semplice timore[11] o la sola preoccupazione di perdere la controprestazione, frutto di rappresentazione soggettiva[12].

[13].

È stata ritenuta sufficiente invece a integrare il presupposto dell'articolo 1461 c.c. - dacché se ne desumeva un pericolo serio e concreto di inadempimento - la situazione dell'acquirente di una fornitura di tessuto che non aveva pagato la fornitura precedente, aveva concordato un piano di rientro rateizzato e ritardato il pagamento di un residuo debito.[14].

Nel caso deciso da Cass. civ. 24 febbraio 1999, n. 1574 (analizzato infra sub 1. Elementi comuni propri delle eccezioni dilatorie di cui agli articoli 1460 c.c. e 1461 c.c.), si è già visto come il mutamento soggettivo della controparte sia stato ritenuto idoneo a mettere a repentaglio il conseguimento della controprestazione.

 È da menzionare sotto il profilo del mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore un caso singolare rappresentato dalla sentenza n. 602 del 22 gennaio 1999 della Corte Suprema[15] nella quale l’eccezione di cui all’articolo 1461 c.c. ha deciso di una controversia in cui apparentemente nessun ruolo avrebbe potuto giocare.

Leggendo la motivazione della sola decisione della Suprema Corte se ne ricaverebbe che è sussumibile nel novero dei mutamenti delle condizioni patrimoniali del debitore meritevoli di protezione mediante sospensione, l'esistenza di ipoteche e pignoramenti su di un bene oggetto di preliminare immobiliare come se l'esistenza delle ipoteche e di pignoramenti rendesse attuale ed evidente solo il pericolo di non conseguire la controprestazione[16].

[17].

Più di recente[18] la Cassazione ha deciso il caso di un agente il cui mandato era stato sospeso sulla base del rilievo che lo stesso ("arrestato nei primi giorni del mese di marzo del 1998" "per associazione per delinquere", con ampia diffusione della notizia nella stampa, "nell'ambito di un'inchiesta (...) relativa ad operazioni internazionali di riciclaggio di titoli" e poi sottoposto ad obbligo di dimora) "era nell'impossibilità di adempiere il mandato affidatogli ed inoltre il clamore suscitato dalla vicenda in cui era stato coinvolto ledeva fortemente l'immagine della stessa mandante". L'agente contestava l'applicazione del rimedio di cui all'articolo 1461 c.c. per difetto del mutamento in peius delle proprie condizioni patrimoniali.

La Suprema Corte ha ritenuto che già la concreta impossibilità di adempiere al mandato, in forza dei provvedimenti di restrizione della libertà personale, rendesse di per sé legittima la sospensione del mandato, "in virtù del principio del nesso di sinallagmaticità nella esecuzione dei contratti a prestazioni corrispettive, sottostante non solo all'eccezione dilatoria prevista dall'articolo 1461 c.c. (che, comunque, non è stato direttamente applicato dalla Corte di Appello nella fattispecie), ma, tra l'altro, anche all'eccezione di inadempimento di cui all'articolo 1460 c.c.".

Successivamente, la motivazione aggiunge a mo' di corroborazione del ragionamento appena illustrato che: "Infatti anche la ratio di tale ultima norma "deve essere ravvisata nell'esistenza di un pericolo attuale di inadempimento riconducibile alla sfera dell'obbligato e quindi tale da pregiudicare l'equilibrio sinallagmatico del contratto" (v. fra le altre Cass. 12-1-1999 n. 267, Cass. 10-11-2003 n. 16822). Legittimamente, quindi, la sentenza impugnata ha affermato che si è trattato "di una forma di autotutela che non è vietata dall'ordinamento" con la quale "la appellata intese cautelarsi in attesa degli sviluppi della situazione, senza recedere dal contratto, come pure avrebbe potuto a fronte dell'inadempimento dell'altra parte".

Anche in questo caso, come si vede, l'articolo 1461 c.c., pure considerato nell'ambito della motivazione, appare del tutto inconferente[19] ed il giudice correttamente qualifica la sospensione del mandato come legittimo esercizio dell'eccezione d'inadempimento. Solo che poi nel tentativo di dare corpo, con una superflua digressione teorica, al proprio ragionamento (in realtà già conchiuso con la constatazione che l'inadempimento di un contratto consente alla parte fedele di sospendere l'esecuzione della propria prestazione) i giudici di legittimità avvertono l'esigenza di precisare che "anche la ratio" dell'articolo 1460 c.c.[20] è nel "pericolo attuale di inadempimento" con ciò omettendo, anzi contraddicendo quanto appena constatato, ossia che un inadempimento dovesse ritenersi già consumato da parte dell'agente[21].

È dubbio se possa confluire nella nozione di pericolo attuale ed evidente, quello consistente nella possibile revocatoria connessa al dissesto della controparte[22].

L'inadempimento in pericolo deve comunque essere tale da incidere sostanzialmente sull'interesse del creditore al conseguimento dell'esatta prestazione poiché non basterebbe che il pericolo pregiudicasse l'adempimento atteso in misura marginale o inidonea a divenire inadempimento, sia pure parziale. In questo senso si è ritenuto che la "non scarsa importanza dell'inadempimento in relazione all'interesse dell'altra parte costituisce un elemento integrante della fattispecie dalla quale scaturisce il diritto della medesima di sospendere la propria prestazione"[23].

È stata ritenuta fonte di legittimazione della sospensione ex articolo 1461 c.c., la dichiarazione scritta della controparte di non voler adempiere al contratto[24]

Quanto al momento in cui deve verificarsi il mutamento di cui all'articolo 1461 c.c., è unanime il consenso in dottrina sul fatto che il deterioramento delle condizioni patrimoniali di una parte verificatosi successivamente alla conclusione del contratto, legittimi l'altro contraente all'uso del potere di sospensione del contratto[25].

Un primo orientamento dottrinale ritiene, però, che solo ed unicamente un mutamento concreto, materialmente percepibile e valutabile delle condizioni patrimoniali comunque successivo al perfezionamento del contratto possa autorizzare il contraente in bonis alla sospensione[26].

La giurisprudenza praticamente unanime e la dottrina prevalente ritengono invece che il mutamento possa anche consistere in un aggravamento della situazione economica del debitore[27] ovvero in un dissesto, preesistenti al contratto che assuma la consistenza del mutamento ex articolo 1461 c.c. dopo la conclusione del contratto ma pure quando il dissesto diventa noto all'altro contraente solo posteriormente all'assunzione del vincolo contrattuale[28].

La tesi più rigorosa poggia, oltre che sulla stretta interpretazione del dato letterale che richiede il mutamento, da intendersi come cambiamento materiale, concreto e fisico (benché anche solo qualitativo) delle condizioni patrimoniali, altresì sul convincimento che la parte che ignorava lo stato d'insolvenza, venendone a conoscenza solo in un momento successivo, possa chiedere l'annullamento del contratto per errore[29].

Condizione necessaria della soluzione ermeneutica che ammette l'applicazione dell'articolo 1461 c.c. - cd. "mutamento gnoseologico" - è che il soggetto in bonis che solleva l'eccezione di sospensione, ovviamente, non fosse a conoscenza della situazione di dissesto[30][31] e che tale ignoranza non fosse colpevole[32]. Anche la giurisprudenza più recente sembra consentire la sospensione dell'esecuzione del contratto alla parte che della modificazione, anche non sopravvenuta al contratto, "sia venuto a conoscenza successivamente" non avendola conosciuta o potuta conoscere con la normale diligenza[33]. Quest’ultima affermazione, frutto di una superficiale massimazione[34], ha suscitato più di qualche motivata preoccupazione per l’implicito corollario secondo cui il contraente avrebbe l’onere di indagare approfonditamente sulle condizioni patrimoniali della controparte, circostanza che invece è da ritenere del tutto eccezionale, circoscritta a situazioni in cui emergano o siano già noti alcuni indici di rischio, e in cui hanno influenza anche la natura, l’importanza dell’affare, la natura delle parti, la rapidità dei commerci, l’esistenza di obblighi informativi e di altri fattori peculiari di natura extragiuridica ma certo non suscettibile di automatica generalizzazione né tali da assurgere ad onere di attiva ricognizione delle condizioni reddituali/patrimoniali dell’altro contraente.[35]

Alcune sentenze del giudice di legittimità sembrano aver esteso l'applicazione dell'articolo 1461 c.c. anche ai casi in cui non sia riconoscibile alcun mutamento della situazione patrimoniale del contraente in condizioni critiche, perfettamente note al contraente in bonis, il quale può sospendere la prestazione solo perché il pericolo di inadempimento è avvertito in sede di esecuzione del contratto[36].

Il riconoscimento, anche da parte dei giudici, che per mutamento rilevante ai sensi dell'articolo 1461 c.c., debba intendersi anche il possibile aggravamento delle condizioni dissestate del patrimonio del debitore, ha portato la dottrina ad ammettere, specularmente, la rilevanza dei cambiamenti in melius delle condizioni patrimoniali della parte in difficoltà economica[37].

Al contraente in condizioni di dissesto economico è consentito prevenire o eliminare il presupposto fattuale di esercizio del potere di sospensione offrendo idonea garanzia[38]. Si ritiene che qualsiasi tipo di garanzia valga allo scopo (reale o personale, propria o di terzi) purché idonea[39].

La costituzione della garanzia è qualificata in dottrina come onere o come obbligo. In quest'ultimo caso, è stato obiettato, il potere di sospensione dovrebbe intendersi come sanzione per la violazione di un obbligo[40]. La maggioranza degli Autori propende, comunque, per la qualificazione come onere[41]. Accanto all'offerta di un'idonea garanzia, il contraente che voglia evitare o precludere l'esercizio del potere di sospensione da parte del contraente in bonis potrebbe adempiere anticipatamente. Le opinioni divergono però quanto agli effetti di tale adempimento od offerta di adempimento anticipata in quanto una prima tesi[42] afferma che il creditore potrebbe egualmente rifiutare la prestazione se vi fosse un termine a suo favore (ai sensi dell'articolo 1206 c.c., non spendibile in caso di idonea garanzia). Invece, altra opinione[43] stima necessario, in ogni caso, un controllo condotto alla stregua della buona fede per cui, anche l'adempimento o l'offerta di adempimento anticipati potrebbero avere effetto estintivo del potere di sospensione se il rifiuto dell'adempimento opposto dal contraente in bonis fosse contra bonam fidem.

 

[1] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 61.

[2] Di qui il corollario che, poiché nel più vi è il meno, è nella discrezione del contraente in bonis, in una situazione di insolvenza ex articolo 1186 c.c., di voler solo sospendere la propria prestazione e non di voler richiedere immediatamente quella che gli è dovuta.

[3] Sacco, op. cit., p. 648 ad avviso del quale il mutamento di cui all’articolo 1461 c.c. “non si identifica né con la situazione di decozione che dà luogo al fallimento, né con l’insolvenza di cui all’articolo 1186 c.c. che dà luogo alla decadenza del debitore dal termine. Un'analogia intercorre, se mai, fra la circostanza contemplata nell'art. 1461, e quella considerata nell'art. 29013".

[4] Di Majo, Termine (dir. priv.), in Enc. Dir., XLIV, Milano, 1992, p. 219; Carboni, op. cit., p. 841-846, secondo cui la differenza del piano su cui operano i due rimedi impedisce “l’applicazione ad una fattispecie, della regola dettata per l’altra, anche nel caso in cui nelle due ipotesi, fosse analoga l’intensità delle intervenute modifiche patrimoniali”.  

[5] Addis, op. cit., p. 465; Boccalatte, p. 39, fa riferimento ai contratti in cui una parte ha adempiuto e sia rimasta creditore senza essere più debitore o ai contratti con obbligazioni di una sola parte.

[6] Carboni, op. cit., p. 845 che riecheggia le parole di Di Majo, Termine (dir. priv.), in Enc. Dir., XLIV, Milano, 1992, p. 219 (“rimedio cautelare” il 1461 c.c. e “misura satisfattiva (e non meramente cautelare)” l’articolo 1186 c.c.); Addis, op. cit., p. 465, parla di “effetto estintivo” ed “effetto sospensivo”. In giurisprudenza si esprime in questo senso tracciando una chiara distinzione tra le due norme, Cass. civ. 13 luglio 1991, n. 7805, in Mass. Giur. It., 1991: "La clausola contrattuale che nel solo caso di mancato pagamento, anche parziale, del prezzo di precedenti forniture attribuisca al venditore la facoltà di recedere dal contratto, o di sospendere l'esecuzione dello stesso, con diritto al risarcimento del danno, rientra tra le clausole cosiddette onerose, richiedenti l'approvazione specifica per iscritto (art. 1341, secondo co., c.c.), non essendo riconducibile né alla fattispecie dello stato di insolvenza che, a norma dell'art. 1186 c.c., autorizza il creditore ad esigere immediatamente la prestazione (essendo per ciò necessaria una situazione di dissesto economico, sia pure temporaneo, la quale renda verosimile l'impossibilità da parte del debitore di far fronte ai propri impegni), né alla facoltà cautelare attribuita al creditore dall'art. 1461 c.c. per cui non è sufficiente la mera insoddisfazione di debiti alla loro scadenza, in quanto, in assenza di un dimostrato pericolo attuale ed evidente di perdere la controprestazione, tale situazione debitoria, di per sè considerata, se può giustificare la previsione di un futuro pericolo di conseguire la controprestazione, non legittima il contraente in bonis a sospendere la prestazione da lui dovuta".

[7] L’osservazione è in ADDIS, Il “mutamento” nelle condizioni patrimoniali dei contraenti, cit. p. 85 e s. Acutamente l’autore osserva che ai fini del “conseguimento” della prestazione, secondo il lemma di cui all’articolo 1461 c.c., l’excipiens potrebbe accompagnare la sospensione dell’esecuzione della propria prestazione al rifiuto di ricevere quella della controparte ex artt. 1206 e 1220 del codice civile, quando le condizioni finanziarie di questa si siano deteriorate al punto di vedere minacciata la possibilità di una revocatoria fallimentare, qualora si tratti, in tutta evidenza, di soggetto assoggettabile a fallimento (p. 86).   

[8] In tal senso, può essere utile citare il caso deciso da Cass. civ., 9 febbraio 2011, n. 3173 (in OneLegale): i promittenti acquirenti di un immobile per il quale era stato stabilito il pagamento rateale del prezzo, nell’apprendere dell’esistenza di un sostanzioso debito dei coniugi promittenti venditori nei confronti di un terzo, hanno chiesto chiarimenti ai promittenti venditori senza riceverne risposta. Successivamente, dinanzi alla sospensione del versamento della rata, i promittenti venditori dichiaravano la risoluzione del contratto cui seguiva azione dei promittenti acquirenti ex articolo 2932 c.c. per l’esecuzione coattiva del contratto definitivo. La decisione ha considerato giustificata la sospensione dei pagamenti ex articolo 1461 c.c. - sebbene legata all’esistenza di un debito dei promittenti venditori appresa solo dopo la conclusione del contratto preliminare – in ragione del pericolo del pignoramento (che in effetti poi interveniva) ma anche in ragione del rifiuto dei venditori di addivenire a una soluzione negoziata del problema, consistente nel pagamento del  prezzo  mediante l’accollo da parte dei promittenti acquirenti del debito della parte venditrice verso il terzo creditore. Tecnicamente, il patrimonio dei promittenti venditori, considerando il debito verso un terzo, da un lato e il credito verso i promittenti acquirenti dall’altro, non poteva dirsi dissestato né, tantomeno, mutato quantitativamente ma l’intreccio delle posizioni, la trasformazione del bene immobile in liquidità e l’effetto paralizzante del pignoramento, era tale da mettere comunque in pericolo per i compratori il conseguimento dell’oggetto della prestazione, più precisamente i giudici hanno menzionato l’esistenza di un pericolo di evizione. In proposito però, non si può mancare di ricordare la disciplina specifica dedicata dal codice sostanziale all’evizione in materia di compravendita, pacificamente ritenuta applicabile anche ai contratti preliminari (artt. 1481 e 1482 c.c.) che al presupposto del mutamento delle condizioni patrimoniali non fa alcun cenno.  Nella nota a sentenza di VENTURELLI, Contratto preliminare, pericolo di revocatoria e «mutamento» delle condizioni patrimoniali in Obbligazioni e Contratti, n. 4, 1 aprile 2011, p. 260 e ss., non si manca di sottolineare acutamente che, stante l’inesistenza almeno in un primo momento, di una fase esecutiva per la riscossione del credito da parte del terzo e l’offerta dei promissari venditori di anticipare la stipulazione del contratto definitivo in guisa da realizzare prontamente con la trascrizione un acquisto opponibile al terzo creditore, rifiutata dai promittenti acquirenti, il reale pericolo paventato doveva ritenersi nella specie, quello di una possibile revocatoria da parte del creditore. L’Autore aggiunge quindi che, se così inteso, il pericolo contro cui è predisposto il rimedio dell’eccezione di insicurezza dell’articolo 1461 c.c. abbraccia tutti i casi in cui l’effettivo conseguimento della prestazione si possa rivelare obiettivamente incerta nel tempo per l’effetto di impugnazioni anche successive. È intuibile il rischio cui si esporrebbe qualsiasi contraente se l’eccezione in commento si ritenesse estensibile anche alle ipotesi di pericolo della stabilità giuridica di un acquisto a meno che, come richiesto dall’articolo 1461 c.c., accanto a tale pericolo non si dimostri l’effettivo mutamento delle condizioni patrimoniali della controparte, circostanza trascurata nel caso esaminato.  

[9] Cass. civ. 15 febbraio 2002, n. 7060, cit.; App. Roma, 2 ottobre 2008 (inedita).

[10] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 64.

[11] Come ammetteva sia pure sotto forma di "ragionevole timore", per contro, la giurisprudenza meno recente, v. Cass. civ. 20 marzo 1961, n. 627, in Giust. Civ. mass., 1961, 255.

[12] Cass. civ. 3 dicembre 1993, n. 12011, cit., ha escluso il potere di un assicurato di sospendere il pagamento del premio assicurativo nonostante la "legittima preoccupazione" in questi suscitata dalla pubblicazione di un articolo di giornale specializzato in materia finanziaria che aveva dato notizia di un'ispezione Isvap condotta sulla compagnia assicuratrice in ragione della notevole esposizione debitoria di questa verso gli assicurati. La preoccupazione dell'assicurato era stata accresciuta dal silenzio della compagnia ad una lettera con cui il cliente dell'assicurazione chiedeva notizie sull'esito dell'ispezione e sulle ragioni di una mancata rettifica sulla stampa.

[13] Tuttavia, un pericolo attuale ed evidente è stato escluso nel caso in cui la controparte del soggetto in bonis non aveva onorato alcuni debiti alla scadenza. In tal senso Cass. civ. 4 agosto 1988, n. 4835, in Mass. Giur. It., 1988. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza d'appello con la quale era stata escluso il legittimo esercizio del potere di sospensione applicato ad acconti sul prezzo dovuti in base al preliminare, rilevando che le istanze di fallimento nei confronti del venditore erano state promosse dopo l'esercizio dell'eccezione e che le procedure esecutive promosse, benché riguardanti debiti precedenti, non riguardavano l'immobile oggetto della vendita.

[14] Cass. civ. 20 febbraio 2008, n. 4320, in Mass. Giur. It., 2008, e in Obbl. e contr., 2010, 5, p. 363, con nota critica di Venturelli, Cessione del credito e "mutamento" delle condizioni patrimoniali del debitore. Inoltre, nel caso descritto, non ha influito sul lecito esercizio del potere di sospensione la circostanza che il creditore avesse acconsentito a ricevere il pagamento mediante incasso dei crediti del debitore. Questa circostanza, ad avviso della Cassazione, non solo non era influente sulla situazione di "compromissione oggettiva della situazione patrimoniale" che prescinde, dunque, dalla colpa del debitore, ma dimostrava vieppiù le condizioni di difficoltà economica dell'azienda acquirente. Ad avviso dell'Autore della nota la decisione allarga significativamente l'ambito di operatività dell'articolo 1461 c.c. per aver valutato la capacità di adempimento dei terzi debitori ai fini della verifica dei presupposti dell'articolo in questione. Più in particolare, ad esito di una puntuale analisi della decisione, la Cassazione avrebbe sostanzialmente disatteso la netta distinzione tra inadempimento e pericolo d'inadempimento, pure proclamata in tutta chiarezza dai giudici, poiché ha effettivamente fondato la propria decisione sul pericolo di inadempimenti futuri ingenerato nel creditore, fornitore dei tessuti, da una serie di inadempimenti pregressi del debitore, situazione che avrebbe potuto trovare diretta tutela, nell'opinione del Commentatore, in un'applicazione analogica dell'articolo 71, lettera b) della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni. In ultima analisi, anche in questo caso, è l'epilogo del ragionamento dell'Autore, si constata l'esistenza di una sorta di "terra di nessuno", di zona grigia in cui il pericolo d'inadempimento non discende da un vero e proprio mutamento in peius della situazione patrimoniale né da un inadempimento rilevante ex articolo 1460 c.c. e in cui quindi entrambi i rimedi codicistici lasciano insoddisfatto l'interprete.    

[15] Cass. civ. 22 gennaio 1999, n. 602, cit.; per una ricostruzione dell’intera vicenda giudiziale v. Serioli, op. cit., in particolare Sezione Prima, pp. 23-49.

[16] Le situazioni di fatto che sono alla base della controversia decisa avrebbero deposto o per una risoluzione per inadempimento da parte del venditore o l'applicazione del rimedio di cui all'articolo 1482 c.c., certo non dell'articolo 1461 c.c. che solo regola il pericolo d'inadempimento dovuto al mutamento delle condizioni economiche del debitore. Eppure la pronuncia in esame giunge ad applicare l'articolo 1461 c.c. mediante un processo tortuoso secondo cui l'esistenza di un diritto reale altrui e di un pignoramento mostrano come il venditore si trovi in una situazione debitoria rischiosa per il creditore e sotto il profilo patrimoniale e sotto l'aspetto concreto e particolare del rischio di evizione. Per giunta, all'articolo 1461 c.c. viene attribuito un effetto risolutorio che giammai possiede. Si ricava, per contro, dall'analisi puntuale fattane in dottrina  (SERIOLI, op. cit., pp. 23-49 in cui si mostra l'opportunità di seguire, mai come in questo caso, il percorso di tutto il procedimento a partire dalla prima decisione di merito) che l'articolo 1461 c.c., è qui adoperato dai giudici come unico strumento disponibile per assicurare giustizia sostanziale in una situazione in cui i rimedi appropriati erano stati falcidiati dal divieto di proposizione di nuove domande in appello ex articolo 345 c.p.c.

In breve, l'articolo 1461 c.c. ha quindi svolto la funzione di un escamotage "a fin di bene" e non se ne può ricavare che il rischio di evizione o la violazione dell'obbligo del venditore di trasferire il bene, libero da pesi e oneri possa tutelarsi mediante il ricorso al potere di sospensione

[17] Serioli, op. cit., p. 49: "Il caso giurisprudenziale esaminato consente soltanto di evidenziare una singolare "potenzialità processuale", se ci si consente l'espressione, dell'art. 1461 cod. civ. Da un vago e in sé irrilevante richiamo di tale disposizione, l'ambiguità delle domande proposte nell'atto di appello e la volontà dei giudici di fornire una soluzione equitativamente condivisibile hanno consentito all'art. 1461 cod. civ. di "recuperare" in corso di causa domande ed eccezioni, non proposte nei termini stabiliti, che presentano solo qualche attinenza con una situazione di dissesto patrimoniale"..

[18] Cass. civ., sez. lavoro, 20 0ttobre 2009, n. 22167, in Red. Giust. Civ., Mass. 2009, 10.

[19] Questo pare potersi desumere dalla lettura della motivazione della sentenza di legittimità indotta a pronunciarsi sull'applicabilità della norma dal ricorrente nonostante la Corte d'Appello non avesse, dell'articolo in parola, fatto espressa applicazione.

[20] L'uso della congiunzione “anche” lascia intendere che l'enunciata ratio dell'articolo 1460 c.c. sottenda all'articolo 1461 c.c.

[21] Né varrebbe contestare, come già visto infra nel testo sub) Eccezione di inadempimento. 5. Inadempimento., che si potrebbe trattare d'inadempimento non imputabile o di impossibilità sopravvenuta, ammesso che simili argomentazioni siano sostenibili, poiché nel primo caso, l'imputabilità sarebbe irrilevante ai fini dell'opponibilità dell'eccezione d'inadempimento mentre l'impossibilità sopravvenuta consentirebbe la risoluzione e non renderebbe certo contra bonam fidem l'esercizio dell’exceptio.

[22] Favorevole, Trib. Milano, 23 gennaio 2009 (inedita).

[23] Cass. civ. 19 aprile 1996, n. 3713, in Giust. Civ., 1997, I, 7791, con nota di Manna, Osservazioni in tema di risoluzione del contratto di appalto. Questa decisione è stata in parte censurata da Carboni, op. cit., p. 851-2, nota 47, in quanto perpetua, sia pure in diverso ambito, l'orientamento criticabile della giurisprudenza in materia di eccezione d'inadempimento nel correlare automaticamente buona fede e scarsa importanza dell'inadempimento.

[24] Cass. civ., 19 aprile 1996, n. 3713, cit.; la decisione è stata criticata in quanto la dichiarazione di non voler adempiere equivarrebbe a certezza del futuro inadempimento (e non a semplice pericolo d'inadempimento) peraltro non causata da mutamento in peius delle condizioni patrimoniali, e quindi il giudice avrebbe dovuto far applicazione dell'articolo 1460 c.c. (Carboni, op. cit., p. 847, nota 42). Nel medesimo senso e, per così dire "ante litteram", Bigliazzi Geri, locc. cit., supra in note 147 e 152. Si veda inoltre infra quanto detto in tema di Eccezione di inadempimento. 6. Ordine cronologico delle prestazioni.

[25] Venturelli, Sospensione dell'esecuzione da parte del monopolista legale, in Obbl. e Contr. 2, Ottobre 2005, p. 126, commento a Cass. civ., Sez. Unite, 23 gennaio 2004, n. 1232;

[26] Sacco, op. cit., p. 647: "La giurisprudenza - in modo arbitrario - ha prontamente equiparato alla sopravvenuta insolvibilità del debitore l'insolvibilità originaria incognita alla controparte". Roppo, Il contratto, cit., p. 991

[27] Si osserva tuttavia che tale aggravamento, per rilevare ai fini dell’articolo 1461 c.c., dovrebbe essere conseguenza o di nuovi fattori causali per l’avanti sconosciuti o il precipitato imprevedibile della situazione di criticità, già manifesta o comunque nota all’atto della stipulazione del contratto; per contro il rimedio non sarebbe disponibile al contraente in bonis che, consapevole dello stato di dissesto, sospenda la prestazione dinanzi ad un aggravamento delle condizioni economiche della controparte che sia sviluppo ineludibile della situazione originariamente nota. (ADDIS, Il “mutamento” nelle condizioni patrimoniali dei contraenti, cit. p. 222 e s.).

[28] In giurisprudenza, si vedano Cass. civ., 9 febbraio 2011, n. 3173; Cass. civ. 20 febbraio 2008, n. 4320, cit.; Cass. civ. 15 febbraio 2002, n. 7060, cit.; Cass. civ. 24 febbraio 1999, n. 1574, cit.; Cass. civ. 22 gennaio 1999, n. 602, cit. App. Roma, 2 ottobre 2008, cit. In dottrina si mostrano favorevoli Rolfi, p. 1261; Massone, Mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti, in Nuova Giur. comm., 1990, II, 47. Bigliazzi Geri, op. cit., p. 66; Addis, op. cit.,

[29] E più precisamente invocando l'articolo 1439 c.c., per l'errore provocato o gli articoli 1429 e ss. c.c. per l'errore spontaneo, Sacco, op. cit., p. 648; Massone, op. cit., p. 127. Contra Addis, op. cit, p. 474 e ss. (in particolare nota 152), nonché in Il “mutamento” nelle condizioni patrimoniali dei contraenti, cit. in particolare p. 260 e s., che afferma l'infondatezza dell'argomento letterale invocato dalla tesi opposta in quanto la deliberata omissione di un riferimento al momento dell'insorgenza del mutamento era atta a dare ingresso ai precedenti giurisprudenziali nei quali, invece, si consentiva proprio la possibilità di sospensione del contratto da parte del contraente in bonis che, avendo creduto alla solvibilità della controparte, scopra solo in seguito, al momento di effettuare la propria prestazione che la situazione economica dell'altro contraente potrebbe precludergli la soddisfazione del proprio interesse ad ottenere la controprestazione; il mutamento, inteso sul piano gnoseologico, andrebbe dunque interpretato come “manifestazione dello stato di dissesto” che diverrebbe così oggetto potenziale di apprensione psichica.

[30] Addis, Le eccezioni dilatorie, cit., p. 470 che ritiene equivalente il caso in cui il soggetto in bonis conosceva il dissesto ma ha ignorato, dopo la conclusione del contratto, l'aggravamento del dissesto.

[31] SACCO, op. cit., p. 682 e s. e altri autori (come il TAMPONI, op. cit., p. 1784) contestano all’illustrato orientamento giurisprudenziale sul cd. “mutamento gnoseologico” di adattare lo strumento dell’articolo 1461 c.c. a situazioni tipicamente riconducibili alla figura dell’errore e di trascurare il dato testuale del “mutamento” che implicherebbe, al contrario, un’obiettiva alterazione delle condizioni patrimoniali del contraente dissestato intervenuta dopo la stipulazione del contratto.

[32] Addis, op. ult. cit., p. 471, l'Autore argomenta come l'esigenza di tutela dell'affidamento del contraente in bonis per il "mutamento gnoseologico" - che Egli definisce piuttosto come "manifestazione dello stato di dissesto", ossia come apprensione psichica e consapevolezza di un fenomeno, indipendentemente dall'esistenza di un effettivo mutamento materiale - non può giungere sino al punto di deresponsabilizzare la parte "sana" del contratto a tutto svantaggio del principio di vincolatività del contratto e della sua forza di legge, ragion per cui la "manifestazione dello stato di dissesto" è tutelata dall'articolo 1461 c.c. a condizione che l'ignoranza del contraente in bonis sia incolpevole, configurandosi un rimedio che, sulla scorta della dottrina tedesca, egli definisce "eccezione d'insicurezza". Contra. Rolfi, op. cit., p. 1262, il quale, guidato da più argomentazioni, pratiche e teoriche, conclude per l'operatività dell'articolo 1461 c.c. sulla base del solo fattore oggettivo del mutamento, prescindendo da ogni stato soggettivo e che il limite contro eventuali abusi dell'articolo 1461 c.c. può essere rappresentato da un comportamento viziato da colpa grave del contraente in bonis, letto alla luce del principio di buona fede; secondo Bigliazzi Geri, il contraente in bonis che esegua la prestazione nonostante sia consapevole dello stato di dissesto della controparte, rinuncia tacitamente ad avvalersi della sospensione.    

[33] Cass. civ., 20 febbraio 2008, n. 4320.

[34]Sul punto VENTURELLI, Cessione del credito e mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore, in Obbligazioni e contratti, 2010, p. 365 e s. ha rilevato che la massima della decisione sembra lasciare trasparire un argomento secondario come decisivo laddove nel caso esaminato dalla decisione in commento, il contraente in condizioni patrimoniali deteriorate aveva offerto idonea garanzia così fugando ogni dubbio sulla doverosità dell’adempimento sospeso dal contraente in bonis. 

[35]VENTURELLI, Cessione del credito e mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore, in Obbligazioni e contratti, 2010, p. 365 e s.

[36] Cass. civ., sez. un., 23 gennaio 2004, n. 1232, cit. e Cass. civ. 20 febbraio 2008, n. 4320, cit. criticate da Venturelli, rispettivamente in Sospensione dell'esecuzione da parte del monopolista legale, in Obbl. e Contr. 2, Ottobre 2005, p. 126 e Id., Cessione del credito e "mutamento" delle condizioni patrimoniali del debitore, cit., p. 363 e ss., poiché, nella sostanza, applicano una definizione di fatto coincidente con l'eccezione d'insicurezza, così come concepita dalla dottrina italiana (Addis), sulla scorta di quella tedesca, ad una situazione in cui manca uno dei presupposti della medesima, ossia il mutamento delle condizioni patrimoniali o la "manifestazione dello stato di dissesto" ovvero, rovesciando in positivo quest'affermazione, applicano l'eccezione di sospensione a qualunque situazione di pericolo, come strumento ex post di riequilibrio del contratto. Critiche, forse mitigabili, solo nei confronti di Cass. civ. 23 gennaio 2004, n. 1232, cit., dove l'esigenza di conciliare l'obbligo del monopolista con la tutela di questi in sede fallimentare rendeva spiegabile, in termini pratici, la maggiore ampiezza del raggio d'azione del potere di sospensione.

[37] In tal senso, Sacco, op. cit., p. 648; Contra Carboni, op. cit., p. 858-9, secondo il quale, il solo modo legittimo offerto dall'ordinamento per manifestare il miglioramento sopravvenuto è quello di offrire idonea garanzia.

[38] Cass. civ. 21 marzo 1983, n. 1990, in Mass. Giur. It., 1983: "Qualora per le mutate condizioni patrimoniali di un contraente si verifichi una situazione di pericolo per il conseguimento della prestazione da parte del contraente in bonis, questi, mentre a norma dell'art. 1461 c.c. è legittimato a sospendere e rifiutare la prestazione da lui dovuta, salvo che gli sia offerta idonea garanzia, la quale ha la funzione di ristabilire l'equilibrio tra le parti circa l'affidamento da esse fatto sul buon esito del contratto, può dopo la scadenza del termine per l'adempimento dell'altra parte, chiedere altresì la risoluzione del contratto".

[39] Carboni, op. cit., p. 860, nota 66.

[40] Barbiera, Garanzia del credito e autonomia privata, Napoli, 1971, p. 28;

[41] Bigliazzi Geri, op. ult. cit., p. 76 e, in giurisprudenza, Cass. civ., 29 ottobre 1971, n. 3035, in Giur. It., I, 1, c. 856.

[42] Boccalatte, op. cit., p. 382.

[43] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 79.


3. Buona fede.

Nonostante che l'articolo 1460 c.c. non richiami la buona fede come condizione di opponibilità o, alternativamente, fattore integrativo o presupposto della fattispecie dell'eccezione di sospensione, non si riscontrano opinioni che contestino l'applicazione di questa clausola generale al rimedio in esame.

Alla buona fede suole farsi capo per giustificare una serie di obblighi di comunicazione e di informazione attinenti all'esercizio del potere di sospensione o di fatti estintivi o impeditivi dello stesso. Ad esempio, è sulla buona fede che poggiano le argomentazioni di coloro che pongono a carico del contraente in bonis, che intenda avvalersi del rimedio, di darne comunicazione[1].

La scarsa giurisprudenza sembra, per converso, contraria ad un onere di avviso per l'esercizio del potere di sospensione da parte del contraente in bonis: "La sospensione dell'esecuzione della prestazione contrattuale, nei casi in cui è consentita dall'articolo 1461 c.c., non richiede per la sua validità alcuna previa comunicazione o dichiarazione alla controparte, né è necessario che la relativa decisione sia adottata prima della scadenza del termine previsto per l'adempimento"[2].

Alla buona fede dovrebbero poi ricollegarsi anche gli oneri di comunicazione in caso di miglioramento delle condizioni patrimoniali, sopravvenuto ad un precedente depauperamento o comunque a un mutamento[3].

Si è pure ritenuto che la contrarietà a buona fede sia motivo dell'inopponibilità dell'eccezione di sospensione quando l'inadempimento prospettico sia di scarsa importanza.

 

[1] Roppo, op. cit., p. 991; Boccalatte, op. cit., p. 36; Tamponi, La risoluzione per inadempimento, in I contratti in generale, (a cura di) Gabrielli, in Tratt. dei Contratti, Rescigno, Torino, 1999; giungono allo stesso risultato, senza evocare espressamente l'obbligo di buona fede, coloro che, come Donisi, Il contratto di assicurazione e l'articolo 1461 c.c., in Dir. e giur., 1967, p. 683, nota 10, correlano l'onere di avvisare il "contraente dissestato" con il diritto di questi di prestare garanzia ma anche Venturelli, Monopolio legale e "mutamento" delle condizioni patrimoniali dei contraenti in Addis, Ricerche sull’eccezione di insicurezza, cit., p. 136. Contra Bigliazzi Geri, op. cit., p. 73, ritiene che non sia possibile dare una soluzione assoluta ed univoca al problema poiché in base allo stesso principio di buona fede, applicato alle circostanze, l'onere di avviso a carico dell'eccipiente potrebbe essere escluso.

[2] Cass. civ. 10 agosto 2007, n. 17632, in Contr., 2008, 2, p. 166.

[3] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 80, considera scorretto il comportamento del soggetto in condizioni di dissesto le cui condizioni economiche si fossero medio tempore meglio assestate che, non informandone la controparte, domandi la risoluzione del contratto per inadempimento del contraente in bonis non informato e inconsapevole.


4. La giurisprudenza in tema di obbligo a contrarre del monopolista e l’articolo 1461 c.c.

Merita un'attenzione particolare, per quanto qui interessa ed omettendo, dunque, gli aspetti di marca prettamente fallimentaristica, la questione dell'applicazione dell'articolo 1461 c.c. ai contratti con prestazioni corrispettive conclusi con il monopolista di diritto che, com'è noto, è tenuto, in forza dell'articolo 2597 c.c. e della propria posizione particolare a contrattare con chiunque ne richieda le prestazioni e, per giunta, rispettando la parità di trattamento[1].

Il tema origina in sede fallimentare al momento in cui il curatore esperisce azione revocatoria ex articolo 67, l. fall., per recuperare i pagamenti ricevuti dal monopolista (in genere fornitore di servizi pubblici essenziali) nell'anno (oggi semestre) precedente la dichiarazione di fallimento. Il monopolista, d'altro canto, quand'anche conoscesse le condizioni patrimoniali dissestate, critiche, persino irreversibili dell'altro contraente, non avrebbe potuto opporsi alla conclusione del contratto in quanto obbligato a contrarre per legge (articolo 2597 c.c.).

Sul punto si pronunciano in conflitto tra di esse diverse decisioni della Corte di Cassazione. Alcune pronunce, argomentando che il monopolista è obbligato a contrarre e che non può, nemmeno in fase esecutiva, avvalersi dell'articolo 1461 c.c., ne traggono la conclusione che esso  non possa consapevolmente accettare il rischio dell'insolvenza e, quindi, debba essere esentato dalla revocatoria[2][3]. Altre addivengono alla soluzione opposta, sostenendo che l'obbligo del monopolista concerne solo il momento della contrazione del vincolo contrattuale e non quello dell'esecuzione del contratto per cui non ricorrerebbero gli estremi per una disapplicazione dei rimedi sinallagmatici né dell'esenzione da revocatoria[4]. Quest'ultimo filone casistico non tiene conto né consente al monopolista di rifiutare il pagamento del contraente in decozione e lo condanna a riattivare il servizio. Nel 1998, le Sezioni Unite[5] compongono il contrasto affermando che, nei casi in cui il debitore (fallito) abbia pagato tempestivamente, il rifiuto della prestazione da parte del monopolista non sia possibile perché, ancora una volta, manca la possibilità di una scelta consapevole, ed è inapplicabile l'articolo 1461 c.c. con l'esito di derogare alla revocatoria ex articolo 67, l. fall.; mentre, avvalendosi dell'articolo 1460 c.c., gli sarebbe possibile l'exceptio inadimpleti contractus per il caso di inadempimento (anche nel caso di ritardo).

Richiamate a pronunciarsi sulla questione, le Sezioni Unite[6] hanno infine disarticolato la motivazione della differenziazione tra le due eccezioni dilatorie e riaffermato, nel segno della unitarietà del momento esecutivo del contratto sinallagmatico, l'utilizzabilità dei rimedi cautelari di cui agli articoli 1460 c.c. e 1461 c.c. anche da parte del monopolista, stante l'operatività dell'articolo 2597 c.c. nel solo momento genetico del contratto e non nella fase esecutiva, di attuazione del programma contrattuale[7][8].

Volendo ora appuntare l'interesse sulle asserzioni ed i ragionamenti giurisprudenziali che, nell'ambito di questo confronto dialettico, ineriscono specificamente alla misura di autotutela in esame, è utile osservare che le Sezioni Unite stabiliscono che tra l'articolo 1460 c.c. e l'articolo 1461 c.c. non esiste un'identità di presupposti ma un'identità funzionale, di carattere cautelare, conservativa; che l'eccezione di sospensione (come quella d'inadempimento) è rimedio a valenza generale, applicabile a tutti i contratti con quegli adattamenti che saranno richiesti da particolari casi, come quello del monopolista nel quale un allargamento alla fase di esecuzione come momento in cui si possa manifestare il pericolo di perdere la controprestazione, indipendentemente dalla consapevolezza dello stato di dissesto, trova giustificazione nella doverosità della stipula del contratto che non può "trasmodare nell'obbligo di esporsi ad erogazioni destinate a rimanere senza corrispettivo"[9]; che il miglioramento sopravvenuto estingue il diritto potestativo di sospendere il contratto[10].

Alla luce di quanto sopra sintetizzato ci pare interessante concludere il discorso sulla questione in oggetto accennando ad un caso, a nostro avviso, interessante di interesse giurisprudenziale concernente l'articolo 1461 c.c. e il rifiuto di contrarre di un monopolista di fatto[11].

Un'agenzia di viaggi ha concluso un contratto di agenzia con una nota associazione di vettori aerei (conglobante circa il 94% dei vettori mondiali) per l'emissione di biglietti di cui incassa il corrispettivo presso la clientela, quale custode o depositante nell'interesse dell'associazione, cui poi trasferisce mensilmente l'importo. L'associazione provvede a smistare gli incassi fra le compagnie aeree detraendo le commissioni delle agenzie.

Orbene, accade che l'agenzia di viaggi concede dilazioni alla propria clientela (in violazione del contratto di agenzia con l'associazione) e, a causa del mancato pagamento da parte della clientela illegittimamente affidata, tarda il versamento di una mensilità riferita ai biglietti emessi.

L'associazione, dopo un sollecito e una contestazione d'inadempimento, recede dal contratto e domanda ai fideiussori dell'agenzia, il pagamento della mensilità dovuta. L'agenzia ricorre al giudice con rimedio cautelare d'urgenza e, tra gli altri motivi di ricorso con cui domanda di impedire l'escussione delle garanzie, censura il recesso dell'associazione, ritenuto abusivo, in quanto effettuato da un monopolista di fatto tenuto, comunque, all'obbligo a contrarre di cui all'articolo 2597 c.c.

Il giudice respinge l'argomento con quest'affermazione che testualmente si riporta "E' noto infatti che il monopolista può paralizzare la pretesa alla prestazione dell'utente, in relazione, all'inadempimento dello stesso (Cass. civ., sez. un., 11/11/1998, n. 11350, in Foro. Amm., 2000, 1633) e che in favore dell'imprenditore che somministri beni o presti servizi in regime di monopolio, trovano applicazione, in assenza di espressa deroga, non solo l'art. 1460 c.c., sull'eccezione d'inadempimento, ma anche l'art. 1461 c.c., sulla facoltà di sospendere l'esecuzione della prestazione dovuta quando sussista un evidente pericolo di non ricevere il corrispettivo in ragione delle condizioni patrimoniali dell'altro contraente, trattandosi di previsioni compatibili con l'obbligo, posto dall'articolo 2597 c.c., di contrattare e di osservare parità di trattamento (Cass. civ., sez. unite, 23/01/2004, n. 1232, in Impresa, 2004, 492; Arch. Civ., 2004, 1324; CED Cassazione, 2004) che non è contraddetto dunque neppure dal rifiuto di contrarre con un soggetto che già si sia mostrato inadempiente e che, con il suo inadempimento, abbia determinato la risoluzione del contratto precedentemente in essere tra le parti".[12]

Dalla lettura della motivazione parrebbe, a meno di non voler confinare le formule ripetitive mutuate dalla massimazione delle decisioni della Suprema Corte a "trattatello teorico"[13], che l'articolo 1461 c.c. (anziché l'articolo 1460 c.c., che pare solo evocato) giustificherebbe, in virtù di precedenti inadempimenti (e non per un pericolo attuale ed evidente di perdere la controprestazione), il futuro rifiuto di contrarre del monopolista di fatto (e non di diritto)[14].

 

[1] Un'analisi puntuale, approfondita e ricca di riferimenti giurisprudenziali e dottrinali dell'intera tematica alla luce di una riflessione generale sull'eccezione di sospensione, sulla funzione dell'azione revocatoria e sulla connessa nozione di consapevole accettazione del rischio, è in Venturelli, Monopolio legale e "mutamento" delle condizioni patrimoniali dei contraenti in Addis, Ricerche sull’eccezione di insicurezza, cit., p. 103 e ss.

[2] Cass. civ., 6 aprile 1990, n. 2913, in Giur. it., 1990, I, 1, 1237 e ss. con nota di Cavaliere, Brevi note in tema di revocatoria fallimentare dei pagamenti effettuati nei confronti di imprese creditrici che operano in regime di monopolio legale; in Foro. It., 1991, I, 852 e ss., con nota di Mazzia, Commoda e incommoda del monopolista: due sentenze in apparente contrasto. Cass. civ., 30 maggio 1990, n, 5051, in Corriere giur., 1990, 1108 e ss. con nota di V. Carbone, Il monopolista e la revocatoria fallimentare, in Giust. civ., 1991, I, 384 e ss., con nota di Lo Cascio, Ancora un'altra esenzione dall'azione revocatoria fallimentare; Cass. 10 gennaio 1991, n. 186, in Foro.it., 1991, I, 1821 e ss., con nota di Fabiani.

[3] In senso critico, ADDIS, Il “mutamento” nelle condizioni patrimoniali dei contraenti, cit. p. 209 e ss. che correttamente sottolinea come il richiamo alla fonte legale dell’obbligazione del monopolista escluda in radice la sinallagmaticità del vincolo contrattuale con l’effetto che dinanzi ad un regolamento legale non sarebbe possibile nemmeno lo scioglimento. È semmai l’obbligo del monopolista di assicurare la parità di trattamento ad imporre al monopolista di assicurare l’economicità della gestione in funzione della erogazione universale del servizio che verrebbe meno se il monopolista non avesse a propria disposizione gli strumenti di reazione predisposti dall’ordinamento a fronte del pericolo di inadempimenti o di inadempimenti veri e propri.  

[4] Cass. civ. 21 aprile 1993, n. 4712, in Fallimento 1993, p. 728 e ss., con nota di Giacalone, Il monopolista legale tra par condicio creditorum e parità di trattamento dei consumatori; in Nuova giur. comm., 1994, I, 221 e ss., con nota di Ponti. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Milano, 9 novembre 1998, in Fallimento, 1999, p. 927 e ss., con nota di Pettarin e Ponti, Inapplicabilità della revocatoria fallimentare ai pagamenti del legal-monopolista.

[5] Cass. civ., Sez. Unite 11 novembre 1998, n. 11350, in Giust. civ., 1998, I, 3024 e ss., con nota di Lo Cascio, La revocatoria fallimentare dei pagamenti in favore del legal monopolista: le Sezioni Unite risolvono il conflitto?; in Giur. It., 1999, p. 97 e ss., con nota di Bertolotti, Le Sezioni Unite si pronunciano sul rapporto tra l'art. 2597 c.c. e l'art. 67 legge fallimentare: prime note a margine di un problema controverso; in Corriere giur., 1999, p. 317 e ss., con nota di Tarzia, La "doverosità della prestazione" del monopolista legale e la revocatoria dei pagamenti: intervengono le Sezioni Unite.

[6] Cass. civ., Sez. Unite, 23 gennaio 2004, n. 1232, in Giur. it., 2004, p. 1000 e ss., con nota di Bertolotti, Monopolio legale e fallimento: le Sezioni Unite "virano" di 180 gradi; in Corriere giur., 2004, p. 1028 e ss., con nota di Tarzia, Ancora sulla soggezione o meno del monopolista legale alla revoca fallimentare dei pagamenti: le Sezioni Unite cambiano idea; in Giust. civ., 2005, I, p. 1091, con nota di Menti, Le Sezioni Unite ci ripensano: revocabili i pagamenti al monopolista legale; in Giust. civ., 2005, I, p.1091 ss., con nota di Faustini, Le sezioni unite intervengono (nuovamente) a sanare il contrasto giurisprudenziale in materia di revocatoria fallimentare dei pagamenti ricevuti.

[7] Faustini, Le sezioni unite intervengono (nuovamente) a sanare il contrasto giurisprudenziale in materia di revocatoria fallimentare dei pagamenti ricevuti, cit., p. 1098

[8] Pur condividendo l’esito della decisione delle Sezioni Unite che poggia sulla separazione tra il momento genetico, vincolato per legge, e quello esecutivo dove opererebbe in pieno la sinallagmaticità dell’intreccio delle prestazioni, è stato notato che al medesimo risultato sia possibile pervenire con differente percorso logico-argomentativo vale a dire sostenendo che l’obbligo a contrarre del monopolista di cui all’articolo 2597 c.c. non può essere inteso come mero obbligo formalistico di elaborare una proposta contrattuale ma piuttosto come obbligo di conformare l’attività imprenditoriale secondo criteri di economicità e di universalità che assicurino la parità di trattamento, che traligna in principio di ragionevolezza nella misura in cui il trattamento di situazioni identiche dev’essere identico coì come differenziato dove le situazioni sono diverse sino al rifiuto della stipula del contratto con soggetti in condizioni di dissesto (ADDIS, Il “mutamento” nelle condizioni patrimoniali dei contraenti, cit. pp. 212-214).   

[9] Cass. civ. Sez. Unite, 23 gennaio 2004, n. 1232, cit. La flessibilità mostrata dalle Sezioni Unite nell'individuazione del momento in cui interverrebbe il mutamento in peius, talmente ampia da eliminare persino una parvenza di mutamento, è comprensibile nell'ambito della particolare natura della formazione ed esecuzione del contratto del monopolista (in tal senso Addis, op. cit., p. 485, "Le particolari circostanze nelle quali il principio è affermato inducono però a limitarne l'operatività al solo contratto stipulato dal legal-monopolista"); tuttavia, non sono mancate le legittime preoccupazioni della dottrina (Venturelli, op. ult. cit., p. 145) che ha sollevato il "sospetto di una valenza universale" del richiamo - da parte della pronuncia appena citata - all'eccezione di sospensione come rimedio per il pericolo d'insolvenza, anche fuori dalla contrattualistica del monopolista di diritto. Sospetto, a quanto pare, fondato, a giudicare dalla disamina svolta dallo stesso Autore sulla decisione di Cass. civ. 20 febbraio 2008, n. 4320, cit., (Venturelli, Cessione del credito e "mutamento" delle condizioni patrimoniali del debitore.)

[10] L'obiter dictum delle Sezioni Unite, comunque argomento della motivazione, tra gli altri, ha scarso significato pratico nel caso specifico, come ammettono esse stesse ("L'improbabilità di tali ultime evenienze [il miglioramento delle condizioni economiche tra il momento della stipulazione e quello dell'esecuzione del contratto] non consentirebbe comunque un'estensione dell'art. 2597 c.c., oltre i confini segnati dalla sua lettera e dalla sua ratio, fino ad attribuirgli portata eccettuativa della regola dell'art. 1461 c.c....") ma potenziale applicazione in altri.

[11] Trib. Perugia, 10 ottobre 2009 (ord.) (inedita).

[12] Il principio appare affermato indirettamente come argomento rafforzativo per corroborare la tesi dell’ammissibilità del rimedio risolutorio per i contratti del monopolista da Cass. civ. 20 dicembre 2007, n. 26977 (“deve escludersi, ancora, che l'art. 1453 c.c., sia inapplicabile qualora la parte adempiente operi in regime di monopolio, atteso che se in favore dell'imprenditore che somministri beni o presti servizi in regime di monopolio legale, trovano applicazione, in assenza di espressa deroga, non solo l'art. 1460 c.c., sull'eccezione di inadempimento, ma anche l'art. 1461 c.c., sulla facoltà di sospendere l'esecuzione della prestazione dovuta quando sussista un evidente pericolo di non ricevere il corrispettivo in ragione delle condizioni patrimoniali dell'altro contraente, trattandosi di previsioni compatibili con l'obbligo, posto dall'art. 2597 c.c., di contrattare e di osservare parità di trattamento (Cass. civ., Sez. Unite, 23 gennaio 2004, n. 1232) a maggiore ragione sono applicabili le altre disposizioni in tema di inadempimento contrattuale;”

[13] Serioli, op. cit., p. 78, che così, citando il Gorla, stigmatizza l'abuso di obiter dicta. In effetti, il brano della decisione citato nel testo riporta letteralmente passi di noti commentari giurisprudenziali che, però, vengono maldestramente giustapposti a un caso concreto ben differente.

[14] Si ricorda che in materia di obbligo a contrarre ex articolo 2597 c.c., l'orientamento giurisprudenziale è netto nell'escludere l'applicazione della norma alle situazioni di monopolio di fatto mentre la dottrina di mostra in grande prevalenza, favorevole all'interpretazione estensiva dell'articolo 2597 c.c. in modo da ricomprendervi anche le situazioni di monopolio di fatto (Per una ricognizione sintetica ma esauriente delle opinioni dottrinali in merito v. Osti, L'obbligo legale a contrarre, in Diritto civile, diretto da Lipari e Rescigno, coordinato da Zoppini, Vol. III, Le obbligazioni, II, Il contratto in generale, Milano, 2009, p. 726-733.


C) Solve et repete. - 1. Natura e funzione della clausola “solve et repete”.

L'introduzione dell'attuale articolo 1462 nel codice civile è stata preceduta da un serrato ed intenso dibattito[1]. Ancora sino a poco tempo fa esisteva un vivace confronto dottrinale sulla legittimità ed opportunità di una clausola solve et repete che nel recente passato ha portato persino la Corte Costituzionale a doversi pronunciare sulla compatibilità della previsione normativa di cui all'articolo 1462 c.c. con la carta fondamentale[2].

La posizione più critica e severa nei confronti della clausola ritiene infatti, in buona sostanza, che essa dia ingresso, sotto le formali spoglie dell'autonomia privata, ad uno squilibrio del sinallagma contrattuale, esattamente contrapposto ai rimedi di riequilibrio sinallagmatico sanciti negli articoli che immediatamente precedono (artt. 1460 e 1461 c.c.). Secondo quest'orientamento l'articolo 1462 c.c. è posto a tutela di un solo contraente, quello più forte[3], in grado di imporre contrattualmente la propria volontà all'altro e, intanto può dirsi coerente con l'equilibrio che deve connotare i rapporti contrattuali con prestazioni corrispettive in quanto è temperato dal controllo di cui al comma secondo della medesima disposizione[4].

Diversamente, altri autori[5], danno valenza positiva ad un rimedio teso a bloccare la capacità dilatoria dei rimedi di riequilibrio del contratto, ossia il potenziale abusivo delle eccezioni dilatorie e della domanda di risoluzione formulata nel giudizio promosso per l'adempimento[6]. Con la clausola legittimata dall'articolo 1462 c.c., la parte rinuncia ad avvalersi di un rimedio dilatorio o, per meglio dire, rinuncia temporaneamente o subordinatamente all'adempimento, evitando nelle more dell'accertamento giudiziale il pregiudizio del creditore a cui favore la clausola è disposta[7].

La stessa Corte Costituzionale[8] ha confermato la legittimità del rimedio in quanto espressione di autonomia privata, diretta a prevenire squilibri del sinallagma a danno, spesso, di soggetti che, nella pratica corrente degli affari, hanno provveduto per primi all'adempimento (locatore, venditore, fornitore), contro comportamenti illeciti mascherati dall'uso pretestuoso, defatigatorio, cavilloso di mezzi di autotutela o tutela giudiziaria. Essa ha inoltre considerato la legittimità dell'articolo 1462 c.c. alla luce del controllo giudiziario, comunque assicurato dal secondo comma del medesimo articolo e chiarificato che, operando la clausola sul piano sostanziale (benché con effetti di natura processuale), non sono invocabili i motivi che hanno indotto alla declaratoria di illegittimità costituzionale del solve et repete fiscale confliggente con l'articolo 24 Cost.

Il tema dell'opportunità della previsione di cui all'articolo 1462 c.c. da un punto di vista di politica legislativa (giustamente posto con forza in passato) ovvero di coerenza sistematica, è oggi grandemente scemato di importanza in ragione, non solo delle limitazioni che, per via interpretativa, subisce l'utilizzo del rimedio ma, soprattutto, perché, alla luce della normativa consumeristica oggi vigente, può ben dirsi che la clausola "solve et repete" sia oggi stata bandita nei rapporti di consumo di massa dove tradizionalmente si confrontano soggetti deboli e soggetti forti cui, in ultima analisi, lo strumento del patto di cui all'articolo 1462 c.c. è sostanzialmente sottratto[9].

In giurisprudenza è corrente l'affermazione circa il fatto che lo strumento giuridico di cui all'articolo 1462 c.c. sia un'eccezione sostanziale[10]. Con ciò intendendo che il suo esercizio non è di ostacolo alla instaurazione di un procedimento giurisdizionale ma solo importa la previa soddisfazione della pretesa creditoria rispetto alla disamina delle eccezioni del debitore che comunque saranno esaminate nell'ambito del medesimo giudizio[11]. Da ciò discende anche che, nel rispetto dei termini e delle decadenze processuali, è consentito al debitore cui sia stata opposto il solve di adempiere nel corso del procedimento e avanzare domanda riconvenzionale (nello stesso giudizio o separatamente) per la ripetizione dell'indebito quando l'eccezione paralizzata dal solve dovesse ritenersi fondata[12]. La ricostruzione dell'istituto in questi termini ha motivato la Corte Costituzionale a ritenere l'articolo 1462 c.c. del tutto compatibile con una piena tutela del diritto alla tutela giurisdizionale.

In dottrina, invece, si dibatte sulla natura sostanziale o processuale del rimedio assegnando però all'aggettivo "sostanziale" un senso diverso da quello corrente in dottrina di eccezione che non determina un difetto di giurisdizione. Escluso questo significato del termine, per eccezione sostanziale dovrebbe intendersi che la clausola consista in una rinuncia ad avvalersi dell'eccezione di inadempimento con l'effetto di consentire al creditore inadempiente di chiedere l'adempimento e l'esecuzione pur in presenza di un inadempimento del creditore provato in modo certo e in forza di mezzi istruttori acquisiti o di facile acquisizione. Le eccezioni dilatorie sono mezzi di tutela perfettamente disponibili e, come tali, perfettamente rinunciabili[13].

Di contro, la dottrina prevalente ritiene che la clausola abbia solo l'effetto, essenzialmente operante a livello processuale, di accantonare l'esame delle eccezioni dilatorie da parte del giudice tant'è che il giudice medesimo potrebbe diversamente determinarsi ad esaminare immediatamente le eccezioni paralizzate ed acquisire subito i necessari mezzi istruttori sempre che, è evidente, sussistano i presupposti del comma secondo dell'articolo 1462 c.c. Alla tesi della natura sostanziale della clausola di indifferibilità pure si oppone che l'ordinamento non consente una rinuncia preventiva a un diritto non ancora sorto e che il solve del contraente protetto dalla clausola può ben venire dopo la proposizione sul piano sostanziale di un'eccezione dilatoria da parte dell'altro contraente il quale, però, in forza del patto ex articolo 1462 c.c. non potrà farlo valere in sede giudiziale se non dopo l'adempimento (sempre che il giudice non ritenga di sospendere la condanna ex articolo 1462 c.c., secondo comma)[14].

 

[1] Per il quale valga un richiamo alla bibliografia citata da Addis, Le eccezioni dilatorie, cit., p. 489, nota (174).

[2] C. Cost., 12 novembre 1974, n. 256, in Foro. it., 1974, I, c. 3261; e in Giur. It., 1975, I, 1, c. 1178.

[3] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 88, che definisce la clausola "espressione di un liberismo economico ancien régime".

[4] Bigliazzi Geri, loc.ult.cit.; Lucchi, Patto o clausola del solve et repete, in Digesto, 4^ ed., Torino, XVIII, 1998, p. 587.

[5] Sacco, op. cit., p. 649, che noma il patto in parola come "clausola ostativa" o "clausola d'indifferibilità";

[6] Sacco, loc. ult. cit., e Dalmartello, Solve et repete (patto o clausola del), in Noviss. dig. it., XVII, Torino, 1970, p. 854.

[7] Non ci sembra si possa obiettare che l'abuso delle eccezioni dilatorie sia già corretto dal controllo di buona fede poiché esso presuppone un accertamento giudiziale che la "clausola ostativa" ha proprio lo scopo di rinviare alla fase successiva all'adempimento.

[8] C. Cost., 12 novembre 1974, n. 256, cit.; il giudice delle leggi fu chiamato a pronunciarsi da un'ordinanza del Trib. Milano, 15 giugno 1972, in Giur. it., 1973, I, 2, 783 e ss., con nota adesiva di Vitucci, Clausola "solve et repete", principio d'uguaglianza (ed autonomia contrattuale) nell'ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale dell'art. 1462 cod. civ., incoraggiata dalla precedente pronuncia della Corte Costituzionale con la quale era stata accertata l'illegittimità costituzionale del "solve et repete" in campo tributario per violazione dell'articolo 24 Cost. In realtà, la decisione in materia tributaria riguardava un istituto di diritto tributario con tutt'altri presupposti e ambito di operatività e di natura eminentemente processuale.

[9] A.M. Benedetti, L'eccezione di inadempimento del (e contro il) contraente debole, in Obbl. e contr., agosto-settembre 2010, p. 566 e ss., in particolare, p. 568 :"Il rischio art. 1462 c.c., per il consumatore, è inesistente: la legge protegge il suo interesse a ricorrere all'eccezione di inadempimento [nel testo, non correttamente, "adempimento"] in tutte le sue forme, senza che possano essergli opposte eventuali limitazioni contenute, ad esempio, nelle condizioni generali di contratto predisposte dal professionista o in altre clausole fatte sottoscrivere al consumatore all'atto della conclusione del contratto che, nella sostanza, rappresentino rinunzie del consumatore a servirsi dell'eccezione di inadempimento (o dell'eccezione sospensiva regolata dall'articolo 1461 c.c.)".

[10] Cass. civ. 27 febbraio 1995, n. 2227, in Corriere giur., 1995, 7, p. 835, con nota di Frangini; Cass. civ. 14 dicembre 1994, in Mass. Giur. It., 1994; Cass. civ. 26 gennaio 1994, in Mass. Giur. It., 1994; C. Cost., 12 novembre 1974, n. 256, cit.

[11] Lucchi, op. cit., p. 588 ben sintetizza questo connotato della clausola in esame "la clausola consente le eccezioni, semplicemente differendole, e la normativa processuale permette il loro esame nel medesimo processo, che potrà dar luogo a due sentenze, una non definitiva, di condanna del debitore, l'altra, definitiva, che si pronuncerà sulle eccezioni da lui proposte".

[12] Cass. civ., 14 dicembre 1994, n. 10697, cit. Dello stesso parere la dottrina, v. Bigliazzi Geri, op. cit., p. 107.

[13] Sacco, op. cit., p. 649-650

[14] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 106; Lucchi, op. cit., p. 596.


2. Ambito di applicazione.

Sono espressamente escluse dal novero delle eccezioni paralizzabili dalla clausola ostativa, quelle di nullità, annullabilità e rescissione. L'esclusione delle eccezioni appena citate ha fondamento nel fatto che esse attengono a vizi genetici del contratto, incidenti sulla stessa esistenza del vincolo contrattuale di cui si pretende la tutela in sede processuale[1].

Si ritiene comunemente in dottrina che la clausola non osti alla proposizione di eccezioni estintive, come l'eccezione di pagamento e quelle di novazione, estinzione, compensazione, remissione, confusione, e impossibilità sopravvenuta[2].

Inoltre, si ritiene che il solve sia legittimamente utilizzabile contro la domanda riconvenzionale di risoluzione perciocché, sebbene si tratti di azione e non di eccezione, essa mira a realizzare lo stesso risultato di un'eccezione riconvenzionale, quest'ultima pure temporaneamente sospesa dal solve (v. infra, nota 269)[3] e il medesimo ragionamento dovrebbe trovare applicazione ai casi di azione ed eccezione di risoluzione per impossibilità sopravvenuta. Diversa la soluzione per il caso di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta poiché, a differenza della rescissione per lesione ultra dimidium, la prima non riguarderebbe il momento genetico e la validità del contratto ma il solo squilibrio in fase esecutiva, come dimostrato dalla possibilità della reductio ad equitatem.[4]

In generale, dunque, la clausola non opera quando si tratti di eccezioni che non afferiscano all'inadempimento ovvero al rapporto sinallagmatico.

Ne consegue che il campo di elezione della clausola in commento è proprio quello stesso in cui operano le eccezioni che essa tipicamente è idonea a differire. l'eccezione di inadempimento e quella di sospensione o di insolvenza di cui all'articolo 1461 c.c.[5]

Eppure, non si è mancato di contestare le incongruenze, i pericoli, i paradossi cui condurrebbe l'applicazione del patto in discorso, proprio in caso di mutamento in peius delle condizioni patrimoniali del contraente a favore del quale il detto patto sia previsto. Infatti, di fronte al rischio di perdere la controprestazione, il contraente in bonis dovrebbe pur sempre cedere al solve e prestare quanto previsto nel contratto, salvo conseguire una ripetizione che in questo caso non sarebbe possibile[6].

In giurisprudenza è accolta l'interpretazione restrittiva della clausola secondo cui il patto "solve et repete" non vale a paralizzare temporaneamente l'eccezione d'inadempimento, exceptio inadimpleti contractus, ma solo l'eccezione di parziale inadempimento ossia l'exceptio non rite adimpleti contractus[7].

L'orientamento giurisprudenziale è stato avversato dalla dottrina prevalente che ha contestato sia l'assoluta inidoneità della distinzione meramente "descrittiva"[8] tra exceptio inadimpleti contractus ed exceptio non rite adimpleti contractus a fondare un difetto di operatività della clausola, sia la difficoltà di limitare per via interpretativa la possibilità per l'autonomia privata di consentire alla clausola ostativa di frapporsi temporalmente all'esame dell'eccezione d'inadempimento anche quando questo sia totale[9].

In ambito consumeristico, come già visto prima (cfr. infra nota 66), si ritiene ormai del tutto consunto ogni spazio d'intervento della clausola solve et repete poiché le eccezioni dilatorie proposte dal consumatore non sono differibili (ovviamente non è vero il contrario quanto alle eccezioni proposte dal professionista, seppure l'ipotesi di una clausola solve et repete a favore del consumatore fosse immaginabile nella realtà). In proposito, l'articolo 33, co. 2, lett. r, del Codice del Consumo considera vessatoria la clausola che escluda o limiti la proponibilità dell'eccezione d'inadempimento ma, per diverse vie, si arriva a riconoscere vessatorio qualsiasi ostacolo alla piena realizzazione della tutela del consumatore nell'ambito del rapporto sinallagmatico[10]. Fuori dal campo specifico della tutela del consumatore, la clausola continua a rivestire comunque il carattere della vessatorietà, ai sensi dell'articolo 1341 c.c.[11].

Il più frequente campo di emersione della clausola in parola è oggi, oltre al tradizionale inserimento nei contratti di locazione, quello delle garanzie personali, fideiussione cosiddetta a prima richiesta e contratto autonomo di garanzia[12]. L'adozione della clausola "solve et repete" è comune alle due forme di garanzia personale appena citate, solo che, mentre nel caso della fidejussione a prima richiesta la clausola arricchisce il contenuto di una garanzia, pur sempre accessoria, di una tutela rafforzativa, nel contratto autonomo di garanzia ha piuttosto lo scopo di sottolineare l'astrattezza dell'obbligazione di garanzia rispetto all'obbligazione garantita[13].

Fuori dal campo di applicazione della clausola di cui all'articolo 1462 c.c. sono senza dubbio le eccezioni processuali attinenti la valida costituzione del rapporto processuale (eccezione di d'incompetenza, di difetto di giurisdizione, di difetto di legittimazione) perché la clausola non è diretta a differire il processo in sé considerato ma solo l'esame delle eccezioni connesse al collegamento sinallagmatico dei contratti a prestazioni corrispettive. Del resto, l'opinione diversa condurrebbe il giudice a pronunciare condanna prima ancora di conoscere della propria competenza o della propria giurisdizione e quindi della validità del processo stesso[14] e, quindi, a legittimare i profili di incostituzionalità sollevati dinanzi al giudice (violazione dell'articolo 24 Cost.) delle leggi ma da questo esclusi proprio in ragione dell'inidoneità del patto a creare un difetto di giurisdizione[15].

Inoltre, a stretto rigore, comunque le eccezioni o le domande[16] differibili sono proposte e proponibili da parte del soggetto contro cui è opposto il solve per consentire al giudice, quantomeno, di vagliare l'eventuale sussistenza dei "gravi motivi" di cui al comma 2 dell'articolo 1462 c.c.[17].

 

[1] Secondo Bigliazzi Geri, op. cit., p. 90, nota (2), non è la comune natura delle tre eccezioni a giustificarne la menzione nell'articolo ma la gravità dei motivi che sono alla base delle tre eccezioni. Secondo Dalmartello, op. cit., p. 848, le tre eccezioni in parola sono tutte assieme menzionate in quanto tutte "travolgono il contratto" e i suoi effetti, inclusa la clausola solve et repete.

[2] Lucchi, op. cit., p. 589; Dalmartello, op. cit., p. 848 vi include la prescrizione, la transazione e il giudicato (articolo 2909 c.c.).

[3] Dalmartello, op. cit., p. 849, secondo il quale operano fuori dall'ambito di applicazione della clausola anche le eccezioni di estinzione del rapporto dovute a diffida ad adempiere, dichiarazione di avvalersi della clausola risolutiva espressa e scadenza del termine essenziale. La giurisprudenza non risulta si sia pronunciata sul punto benché sia usa far riferimento alla clausola come ad uno strumento operante "sul piano dell'adempimento" (Cass. civ. 27 febbraio 1995, n. 2777, in Mass. Giur. Civ., 1995, p. 455). Contra Miraglia, "Solve et repete", in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. 1260 c.c.

[4] Cass. civ. 5 ottobre 1976, n. 3272, in Foro. It., 1976, I, c. 2626.

[5] Realmonte, op. cit., p. 222 e 238, il quale argomenta in tal senso anche in ragione della collocazione della norma, a contatto proprio con la disciplina delle eccezioni dilatorie di cui, per così dire, rappresenterebbe il contraltare.

[6] Dalmartello, op. cit., p. 850, specialmente nota 2, secondo il quale l'ipotesi di insolvenza costituirebbe ex se un "grave motivo" ai sensi dell'articolo 1462, comma 2; Bigliazzi Geri, op. cit., p. 93 ritiene che il ragionamento sia replicabile anche per il caso di inadempimento rilevante ai sensi dell'articolo 1460 c.c., anch'esso suscettibile di essere qualificato come "grave motivo" ai sensi del comma 2 dell'articolo 1462 c.c. Secondo Addis, Le eccezioni dilatorie, cit. p. 491, nei casi di più grave pericolo se non di certezza della perdita della controprestazione, ai sensi dell'articolo 1461 c.c., senz'altro sono integrati i "gravi motivi" di cui al secondo comma dell'articolo 1462 c.c.

[7] Cass. civ. 3 dicembre 1981, n. 6406, in Foro It., 1982, I, con nota di Di Paola seguita da Cass. civ. 16 luglio 1994, n. 6697, in Mass. Giur. It., 1994 che si legano ad autorevole dottrina dei tempi meno recenti (Dalmartello, op. cit., p. 851-853). Nella giurisprudenza di merito si veda Trib. Roma, 14 settembre 2009, in Pluris:"La clausola solve et repete (art. 1462 c.c.) non ha l'efficacia di paralizzare in toto l'exceptio inadimpleti contractus ma resta operante nell'ambito della cd. exceptio non rite adimpleti contractus, sicché essa non incide sulla possibilità di far valere la mancata esecuzione totale o parziale della prestazione ma impedisce di opporre soltanto l'inesatto adempimento. Compete alla parte in cui favore è posta il potere di sollevare la relativa eccezione (cosicché essa non può essere rilevata d'ufficio): ratio di tale norma è quella di assicurare il soddisfacimento della pretesa del creditore, senza il ritardo imposto dall'esame delle eccezioni del convenuto. La giurisprudenza ha sottolineato che tale clausola, pur avendo un'indubbia portata processuale, non può essere considerata un presupposto processuale, la cui mancanza impedisce l'instaurazione di un regolare rapporto processuale (come è evidenziato sia dalla sua collocazione nel codice civile, sia dagli interessi che essa mira a tutelare): di conseguenza, non solo il mancato adempimento può essere rimosso anche nel corso del processo, ma in tale ipotesi in cui sia avvenuto il soddisfacimento della prestazione in corso di causa, il giudice potrà altresì esaminare l'eccezione o la domanda riconvenzionale proposta dal contraente gravato ex art. 1462 c.c.".

[8] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 98, che, in altro punto dell'opera citata (p. 18, nota 3) sostiene che la differenza tra le due formule può tutt'al più assumere significato in sede probatoria poiché l'inesatto adempimento è pur sempre adempimento e nessuna differenziazione di disciplina, tanto più se conduce a soluzioni diametralmente opposte, se ne può trarre.

[9] Lucchi, op. cit., p. 590: "Nulla impedisce peraltro all'autonomia privata di dilatare l'efficacia della clausola [ex articolo 1462 c.c.] all'exceptio inadimpleti contractus". Contro l'atteggiamento restrittivo della giurisprudenza citata, v. anche Bianca, Diritto civile V, cit., p. 359.

[10] Addis, op. cit., p. 490, ritiene che l'esplicito riferimento all'eccezione d'inadempimento contenuto nell'articolo in realtà "copra l'intera area delle tutele sinallagmatiche di natura dilatoria. Padovini, Clausole vessatorie nei contratti con i consumatori in Il codice civile Commentario diretto da P. Schlesinger a cura di ALPA e PATTI, Milano 2003. p. 578 e ss. ritiene che l'eccezione di sospensione sia coperta, invece, dalla lettera t) dell'articolo 33, comma 2 del Codice del Consumo. Di questa medesima opinione è anche Minervini, I contratti dei consumatori, in Roppo, Trattato del contratto, IV, Rimedi – 1, a cura di Gentili, p. 587, secondo cui l’articolo 33, co. 2, lett. t), sub II, “riecheggia palesemente il disposto dell’articolo 1341 c.c. ed anzi ingloba in una più ampia categoria la clausola considerata nel precedente punto r). Tuttavia, sarebbe riduttivo considerare il riequilibrio normativo così introdotto come limitato al solo ambito dei rapporti tra il professionista e il consumatore, senza cogliere l'influenza che queste innovazioni del diritto comune esercitano sia in altri ambiti normativi definiti (es. subfornitura, affiliazione commerciale etc.) sia nell'elaborazione di nuovi paradigmi o principi fondati sulla lesione della parità contrattuale di portata generale (Barenghi, I contratti dei consumatori, in Diritto civile, diretto da Lipari e Rescigno, coordinato da Zoppini, Vol. III, Le obbligazioni, II, Il contratto in generale, Milano, 2009, p. 110 e ss., in particolare p. 157 -158.

[11] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 89.

[12] Cass. civ. 21 febbraio 2008, n. 4446, in Mass. Giur. It., 2008.

[13] Cass. civ. 12 dicembre 2005, n. 27333, in Mass. Giur. It., 2005; l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sul tema con una decisione che ricostruisce funditus la questione della differenziazione delle varie tipologie di garanzia personali rafforzate o astratte, variamente graduate, tenendo in conto la diacronia degli interventi giurisprudenziali e dai commenti dottrinali (Cass. civ., sez. unite, 18 febbraio 2010, n. 3947 in Dir. e Gius., 2010, 0, p. 159, con nota di Milizia, Negozi pattizi: le clausole "a prima richiesta e senza eccezioni" sono un contratto (atipico) autonomo di garanzia e non una fideiussione) ha confermato l'aspetto plurisemantico della clausola "a prima richiesta" o "a semplice richiesta" che, a seconda del contesto, assume varia coloritura tipologica e funzionale, dalla semplice inversione dell'onere probatorio, alla determinazione di un effetto "solve et repete" ancora inscritto nell'ambito del tipo fideiussorio, sino alla separazione del diritto all'adempimento dell'obbligazione di pagamento del garante rispetto all'obbligazione sottostante (nel che consiste appunto l'autonomia del Garantievertrag).

[14] Lucchi, op. cit., p. 593

[15] C. Cost., 12 novembre 1974, n. 256, cit.

[16] Lucchi, op. cit., p. 592, sostiene che l'opponibilità della clausola ostativa per le domande riconvenzionali debba valere altresì per le domande poste in via principale altrimenti agevolandosi l'uso sapiente di tali domande da parte del contraente contro cui la clausola opererebbe.

[17] Lucchi, op. cit., p. 592.


3. Sospensione della condanna e “gravi motivi”.

A temperare il rischio di abusi variamente identificati dalla dottrina rivenienti dall'operatività concreta della clausola, l'articolo 1462, secondo comma, consente al giudice di sospendere la condanna, effetto del solve, se sussistano "gravi motivi", eventualmente dietro presentazione di una cauzione da parte del soggetto contro cui il patto è fatto valere.

L'identificazione dei "gravi motivi" che sono presupposto della sospensione della condanna non può avvenire in astratto ma deve essere il frutto di un esame delle concrete circostanze del caso, valutate alla luce dell'applicazione di un criterio di buona fede[1].

Sinteticamente si può precisare che "gravi motivi" sussistano sia nel caso in cui appaia che le difese del convenuto siano fondate o basate su elementi di prova facilmente esperibili o verificabili[2] o, secondo alcuni autori, quando l'opposizione del solve sia frutto di mala fede, ossia di un atteggiamento malizioso[3].

Il criterio della buona fede trova comunque applicazione come strumento di controllo dell'esercizio della facoltà prevista dall'articolo 1462 c.c. potendo operare, ad esempio, come criterio di valutazione dell'opponibilità del solve nel caso in cui vi sia stata una preventiva rinuncia espressa o tacita del soggetto a cui favore la clausola opera[4].

Quanto alla "sospensione della condanna" si reputa che essa sia propriamente una disapplicazione della clausola[5] piuttosto che una vera e propria sospensione[6].

 

[1] Bigliazzi Geri, op. cit., p. 103.

[2] Bianca, op. ult. cit., p. 358 sulla base dell'articolo 1528 c.c., ritenuto un'applicazione specifica del solve et repete nell'ambito della vendita contro documenti.

[3] Miraglia, op. cit., p. 1269

[4] Per contro, proposta domanda di risoluzione non sarà possibile al medesimo soggetto opporre il solve che costituisce manifestazione implicita di una domanda di adempimento, stante il disposto di cui all'articolo 1453, comma 2, c.c. (Bigliazzi Geri, op. cit., p. 108). Di questo avviso, anche la giurisprudenza Cass. civ. Sez. III, 16/11/1993, n. 11284, in Mass. Giur. It., 1993: "La clausola solve et repete non può essere invocata dal contraente a cui favore è stabilita, quando questi chieda la risoluzione del contratto" e più di recente Cass. civ. 18 agosto 2020, n. 17214.

[5] Dalmartello, op. cit., p. 860.

[6] Più dettagliatamente sintetizza gli aspetti processuali concernenti la sospensione ex articolo 1462, secondo comma, c.c. Lucchi, op. cit., pp. 594-595.