Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

L'acquiescenza al testamento (di Francesco Mastroberardino)


L’Autore indaga il significato dell’acquiescenza al testamento, strumento pratico dall’impiego non inusuale, del quale, tuttavia, sono incerte le fondamenta giuridiche. Un atto che, di regola, e per mere ragioni di utilità, viene suggerito da professionisti del diritto, senza tenere conto delle conseguenze che ne possono derivare. L’Autore si sofferma, inoltre, sui punti di contatto, che l’acquiescenza al testamento condivide con alcuni istituti giuridici, quali l’accettazione tacita di eredità, la rinunzia all’azione di riduzione, la conferma, o volontaria esecuzione, di disposizioni testamentarie nulle, e sulle relative differenze, non di rado, e incautamente, tenute in scarsa considerazione.

The acquiescence to the will

The Author examines the meaning of acquiescence to the will, a practical and recurring instrument, whose legal foundations are undefinied. This act is normally reccomended by legal experts in view of its useful applications without taking its consequences into account. Furthermore, the Author analyses the points of convergence, and its differences, frequently ignored, between acquiescence to the will and legal institutes such as the implicit acceptance of inheritance, waiver to the Italian “azione di riduzione”, as well as the confirmation, or voluntary execution, of void testamentary dispositions.

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Francesco Mastroberardino - L’acquiescenza al testamento

SOMMARIO:

1. L’acquiescenza al testamento: fattispecie dai tratti sbiaditi. - 2. La funzione pratica dell’acquiescenza al testamento. - 3. Alcune considerazioni circa la natura giuridica. - 4. Critica alla qualificazione dell’acquiescenza quale mero fatto giuridico. Il rilievo rivestito dall’elemento volontaristico. - 5. Profili relativi alla trascrizione dell’atto di acquiescenza. - 6. Ulteriori tratti di disciplina. - 7. Considerazioni conclusive.


1. L’acquiescenza al testamento: fattispecie dai tratti sbiaditi.

La riflessione sull’acquiescenza al testamento muove da un contesto giuridico piuttosto incerto, e, per questo motivo, particolarmente bisognoso di un chiaro inquadramento, specie in considerazione del diffuso ausilio pratico, al quale è asservita codesta fattispecie. Questa, all’apparenza, ben potrebbe mostrarsi anodina, incapace di incidere, in alcun modo, nella sfera dei diritti dell’acquiescente, o di altri, anche indirettamente coinvolti; epperò, nella sostanza, si rivela per la propria sostanza di strumento in grado di ingenerare effetti giuridici rilevanti, dalle tinte differenti, a seconda delle sfumature lessicali, e dell’effettivo contenuto, asserviti al suo impiego.

Non è infrequente, in virtù di prassi professionali piuttosto consolidate, l’impiego di codesto peculiare, e indefinito, atto di acquiescenza, in vero estraneo all’architettura giuridica allestita dal Codice civile vigente. Tale strumento, di regola, viene suggerito con lo scòpo di definire gli assetti successorî mortis causa, dipendenti da un determinato testamento, specie per le ipotesi in cui esso si discosti da alcuni dei principî scolpiti nel Libro secondo del Codice civile. Ciò può avvenire, a modo di esempio, in presenza di una lesione della quota di eredità riservata a un legittimario, ai sensi degli artt. 536 ss. cod. civ., oppure al cospetto di una causa di invalidità, formale, o sostanziale, della scheda testamentaria[1]. Tale strumento giuridico - e, prima ancóra, di prosaico uso pratico - vanta un’origine che può essere ricondotta, per larga parte, all’ars notariae, servitasi di tale espediente, al fine di fronteggiare esigenze concrete, vicine a necessità economico-giuridiche, ma, spesso, dimentico delle esigenze morali che vi si rannodano, di certo non meno importanti. Si badi, tali necessità, dal carattere assai vario, paiono spesso intrecciarsi l’una con l’altra, quale vicendevole giustificazione, tanto che, talvolta, diviene assai arduo distinguerle.

È d’uopo rilevare come la giurisprudenza, benché ripetutamente chiamata a pronunciarsi su vicende inerenti ad atti di acquiescenza, si sia soffermata, soltanto di rado, sulla fattispecie in esame, mostrando maggiore attenzione per le conseguenze di contorno, capaci di derivarne[2]. In ogni caso, gli esiti raggiunti, nient’affatto soddisfacenti, non hanno dimostrato attenzione per le incerte fondamenta giuridiche, alla base dell’atto di acquiescenza.

Del pari, la dottrina non ha riservato pressoché alcun interesse nei riguardi dell’acquiescenza al testamento[3], atto che, se osservato pel tramite delle lenti del Diritto privato, non trova conforto nell’assetto ordinamentale vigente. Ebbene, nonostante la scarsa fortuna che la letteratura giuridica, nel tempo, ha riservato a codesta opaca figura, questa non può continuare a essere trascurata. A tal proposito, pare utile soffermarsi sul rilievo effettivo che l’acquiescenza assume nell’esistenza quotidiana, e, al contempo, riflettere sul significato che serba, in virtù dell’ausilio di espressioni, spesso poco considerate, epperò ricche di risvolti giuridici, e in grado di incidere profondamente nell’individualità dei consociati, non soltanto nel settore degli interessi patrimoniali, ma anche nella sfera, degna di non minore considerazione, contraddistinta dagli affetti.

L’acquiescenza, talvolta, viene impropriamente confusa con la così detta tolleranza, istituto giuridico, in vero, desumibile da una sóla, isolata, disposizione di legge dettata in tema di possesso: l’art. 1144 cod. civ. («Atti di tolleranza»). Cionondimeno, i due concetti – acquiescenza e tolleranza – debbono essere tenuti distinti, nonostante i limitati tratti, che paiono accomunarli. In entrambi i casi, infatti, discendono effetti, da ultimo, sfavorevoli al titolare della situazione giuridica soggettiva di riferimento[4], sebbene dipendenti da presupposti nettamente differenti: un comportamento attivo, per l’acquiescenza, e una mera sopportazione, nel caso della tolleranza. Il risultato, per certi versi, può presentare profili affini, dal momento che esso si risolve in un’accettazione di situazioni giuridiche, o di fatto, ingenerate dall’altrui comportamento. Nel caso dell’acquiescenza, tuttavia, come si avrà modo di vedere, a ciò concorre l’intervento attivo dell’acquiescente stesso, capace di determinare conseguenze ulteriori, che, altrimenti, non si verificherebbero affatto.

Se, nel diritto sostanziale, non vi è traccia dell’acquiescenza, differente è il caso del Diritto processuale civile[5], come si può osservare prendendo in considerazione gli artt. 329 («Acquiescenza totale o parziale») e 334 («Impugnazioni incidentali tardive») del Codice di rito vigente, in cui è preclusa la proponibilità di impugnazioni, qualora sia intervenuta l’espressa accettazione della sentenza di riferimento, oppure là dove tale accettazione possa essere desunta da atti incompatibili con l’impugnazione del provvedimento[6]. In sede di processo civile, dunque, il concetto di acquiescenza si sostanzia in un comportamento giuridicamente rilevante, già noto ai giuristi di epoca romana, ma rimasto, in parte, inesplorato[7].

Per di più, l’acquiescenza non è sconosciuta nemmeno al Diritto processuale penale[8], come emerge dal disposto dell’art. 570 cod. proc. pen., contenente un principio valido, anche in questa circostanza, in tema di impugnazioni, che, tuttavia, ne assume per presupposto il significato. In questo caso, infatti, il senso dell’acquiescenza si sostanzia in una tacita accettazione del provvedimento al quale inerisce, che ne preclude ogni successiva contestazione, da parte del medesimo acquiescente.

Non è questa la sede per approfondire le venature che, nelle differenti manifestazioni del diritto, possono segnare l’acquiescenza, figura dal significato tutt’altro che definito, ma capace di prestare i suoi servigî in numerosi àmbiti, anche grazie al contenuto, nei fatti alquanto eterogeneo, che la caratterizza. A tal proposito, si consideri come essa risulti, altresì, in grado di affiorare in settori giuridici diversi da quelli poc’anzi menzionati - in particolare, il Diritto amministrativo, il Diritto del lavoro e il Diritto tributario -, e, anche in questi casi, in assenza di specifiche disposizioni normative[9]. Tutto ciò pare sintomo del fatto che, probabilmente, l’acquiescenza, pur contraddistinta da una conformazione tuttora poco chiara, si offre ai consociati, quanto meno, quale espressione utile, al fine di radunare svariati contegni, rilevanti per l’ordinamento, e in grado di incidere nella sfera giuridica di ognuno, anche se con intensità differente.

 

[1] Per i casi di impiego dell’acquiescenza al testamento, si rinvia, in maniera più approfondita, al successivo § 2.

[2] In particolare, v.: Cass., 13 ottobre 1961, n. 2137, con nota di G. Cassisa, In tema di conferma di disposizioni testamentarie contenute in un olografo falsamente sottoscritto, in Giust. civ., p. 1962 ss.; Trib. Padova, 26 gennaio 2004, in Banca dati Leggi d’Italia; Trib. Novara, 29 dicembre 2006, in www.novaraius.it; Trib. Roma, 22 gennaio 2014, n. 1564, in Banca dati IlSole24ore – Diritto 24.

[3] Tra le non numerose riflessioni in materia, si possono rammentare: F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. VI, Milano, s. d., ma 1962, IX ed., p. 371; A. Bulgarelli, Gli atti «dispositivi» della legittima, in Notariato, 2000, p. 481 ss.; M. F. Hercolani, L’acquiescenza e l’adesione alle disposizioni testamentarie, in Form. not. comm., a cura di G. Petrelli, vol. VII, t. I, Successioni e donazioni. Le successioni per causa di morte, dir. da G. Bonilini, Milano, 2011, p. 241 ss.

[4] Nemmeno la tolleranza rinviene esplicita disciplina, all’interno del sistema giuridico vigente, e, per tale motivo, l’individuazione dei suoi tratti essenziali è lasciata, solo in parte, alla dottrina, mentre la giurisprudenza è giunta a risultati, in genere, maggiormente definiti. In tal senso, v., di recente: Cass., 31 gennaio 2019, n. 2706, in Banca dati De jure; Cass., 3 luglio 2019, n. 17880, in Banca dati De jure.

Si rammenti, altresì, come la contrapposizione tra tolleranza e acquiescenza risulti, talvolta, asservita al fine della definizione di peculiari contegni, tenuti in presenza di un dato rapporto obbligatorio. In tema, v. S. Patti, voce Acquiescenza. Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, p. 1 ss.

[5] A tal proposito, v., fra tutti, E. Minoli - A. Bergomi, voce Acquiescenza (dir. proc. civ.), in Enc. dir., vol. I, Milano, s. d., ma 1958, p. 496 ss.

[6] Nel processo civile è possibile scorgere un’acquiescenza espressa e un’acquiescenza tacita. La medesima acquiescenza può essere, inoltre, totale, ai sensi del primo comma dell’art. 329 cod. proc. civ., oppure parziale, come desumibile dall’art. 329, cpv., cod. proc. civ. Secondo E. Minoli - A. Bergomi, op. cit., p. 497 ss., è, altresì, d’uopo distinguere un’acquiescenza «propria», da una «impropria», e l’elemento di discrimine, in tali ipotesi, sarebbe fornito dalla volontà, o consapevolezza, del soggetto di riferimento. Tale volontà sarebbe, infatti, tipica della sóla acquiescenza propria, mentre mancherebbe nell’acquiescenza impropria. Per questo tema, cfr., diffusamente, l’opera monografica di E. Minoli, L’acquiescenza nel processo civile, Milano, 1942, concentratasi sull’istituto dell’acquiescenza, nel Diritto processuale civile, ma capace di suggerire numerosi spunti, utili anche per le sue differenti manifestazioni, in altri settori del diritto.

[7] Per un’analisi delle fonti romane, dedicate all’acquiescenza nel processo civile, v., di nuovo, E. Minoli, op. cit., p. 1 ss., secondo il quale, in séguito, il concetto di acquiescenza ha trovato pòsto nell’ordinamento giuridico francese, rinvenendo, poi, spazio anche nel Codice di Procedura civile italiano, come attualmente in vigore.

[8] In questo caso, si veda, almeno, C. Massa, voce Acquiescenza (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. I, Milano, s. d., ma 1958, p. 502 ss.

[9] Nel Diritto amministrativo, si discorre di acquiescenza, sia nei confronti di decisioni giurisdizionali, sia nei riguardi di atti amministrativi. Cfr. M. S. Giannini, voce Acquiescenza (dir. amm.), in Enc. dir., vol. I, Milano, s. d., ma 1958, p. 506 ss.

La figura dell’acquiescenza emerge, inoltre, nel Diritto del lavoro, nel caso di accettazione, da parte del lavoratore subordinato, di un provvedimento adottato dal datore di lavoro, e sfavorevole al prestatore medesimo. A tal riguardo, v., nuovamente, S. Patti, op. cit., p. 1.

Si consideri, infine, il Diritto tributario, là dove è fatto riferimento, per maggiore precisione, a una rinuncia all’impugnazione dell’avviso di liquidazione, come desumibile dall’art. 15, D. Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 («Disposizioni in materia di accertamento con adesione e di conciliazione giudiziale»).


2. La funzione pratica dell’acquiescenza al testamento.

La nozione di acquiescenza, per quanto incerta nei suoi lineamenti, nei fatti si propone alla stregua di strumento pratico, elastico, e, apparentemente, utile per affrontare esigenze concrete, tant’è che, spesso, se ne propone l’ausilio, nel tentativo di tacitare, o prevenire, contestazioni relative a una determinata successione ereditaria. Al contempo, per il suo tramite, vengono trascurati profili di indiscutibile rilievo, attinenti alla sfera giuridica e morale dei soggetti coinvolti, spesso inconsapevoli delle conseguenze che ne derivano, oppure, financo, mal consigliati.

Si badi, malgrado possano sembrare affini le rispettive finalità generali, questa fattispecie non può essere affatto confusa con il contratto di transazione (artt. 1965 ss. cod. civ.), dal momento che, per quanto ne risulti dibattuta la natura – mero fatto, atto, o negozio giuridico[1] -, e benché, in alcuni casi, sia possibile scorgere una contrapposizione di interessi tra i soggetti in giuoco, l’acquiescenza, di per sé, conserva la propria struttura unilaterale, che dovrebbe prescindere da ogni eventuale accordo con altri individui, più o meno direttamente interessati.

Le ragioni giustificatrici sottese all’acquiescenza al testamento, in vero, ben potrebbero presentare profili, lato sensu, transattivi, oppure la stessa potrebbe essere, financo, sorretta proprio da una celata transazione. Si pensi, a modo di esempio, all’atto di acquiescenza posto in essere da chi, non considerato nel testamento, abbia, sostanzialmente, ricevuto quanto di spettanza, mentre il de cuius era ancóra in vita, in virtù di liberalità indirette, dalla causa rimasta inespressa. In tali circostanze, si potrebbero prevenire attriti tra i successori del defunto, specie impedendo ogni eventuale contestazione, proveniente proprio da coloro i quali siano stati trascurati nel testamento, perché già soddisfatti, in forza di quelle liberalità, poc’anzi evocate.

Del pari, codesti motivi potrebbero non sussistere, come nel caso (in vero, di dubbia ricorrenza) di un’acquiescenza al testamento portatrice, essa stessa, dell’intento liberale, proveniente da chi abbia, nei fatti, ricevuto meno della propria quota di spettanza, in virtù della successione ereditaria oggetto di discussione. Più probabile è, invece, l’ipotesi in cui il legittimario, leso o pretermesso, decida di prestare acquiescenza, dopo aver ricevuto compensazione delle proprie ragioni, in maniera, per così dire, informale, determinando un disinteressato beneficio, benché soltanto apparente, in capo agli altri interessati alla successione di riferimento.

Si consideri, ancóra, l’ipotesi di un genitore, il quale, spinto da un dovere morale, non intenda fare distinzioni tra i proprî figli, e desideri destinare l’intero suo patrimonio a uno soltanto di essi, in ragione di quanto già dispensato, in vita, all’altro, per la sua costosa educazione. Come è noto, l’art. 742 cod. civ. esclude da collazione le spese sostenute per l’educazione; peraltro, si ritiene che le medesime spese non siano soggette a riduzione[2]. Queste somme, sostenute al fine di adempiere a un obbligo legale – il mantenimento e l’educazione dei figli – non integrano un atto caratterizzato dallo spirito liberale, e non debbono, pertanto, essere oggetto di imputazione ex se, operazione da annoverare tra i presupposti all’esercizio dell’azione di riduzione, ai sensi dell’art. 564, secondo comma, cod. civ. Ebbene, il figlio, non considerato nel testamento, ben potrebbe far valere la qualifica di legittimario, e, in forza di essa, pretendere la sua quota di riserva. Del pari, non sarebbe inverosimile un’acquiescenza al testamento da parte di quest’ultimo, suscitata dal proposito di riconoscere al fratello quanto di spettanza sull’eredità paterna, pur non avendo essi ricevuto, in vita, pari considerazione dal comune genitore, e ciò pel tramite di un atto sorretto da un intento liberale, o, quanto meno, giustificato da un obbligo, ancóra una volta, morale.

Ebbene, nonostante questa peculiare funzione, suscitata, su tutto, da necessità contingenti, è opportuno notare come, talvolta, l’ausilio dell’acquiescenza al testamento ecceda l’effettiva volontà di chi se ne serva. In alcuni casi, infatti, il suo impiego dipende unicamente dal suggerimento di un professionista del diritto – di solito, l’avvocato, o il notaio –, nel tentativo di risolvere e prevenire controversie, relative a una determinata successione mortis causa. Talvolta, sono esigenze di certezza (e di utilità) care, in primis, allo stesso professionista, a sollecitare l’ausilio di codesto strumento, per molti versi atipico[3], che, altrimenti, difficilmente avrebbe trovato diffusione. La stessa acquiescenza, inoltre, è spesso degradata a semplice strumento veicolante istituti giuridici (questi, lo si vedrà, tipici), senza che ai medesimi si aggiunga alcun profilo di specialità. Ebbene, in simili ipotesi, è difficile giustificare l’impiego dell’acquiescenza, in luogo degli strumenti tradizionalmente conosciuti dal Diritto civile, ma sovente trascurati, o, financo, dimenticati, al cospetto di una consuetudine che, per quanto consolidata, non presenta basi giuridiche sicure.

L’acquiescenza al testamento ha origini antiche, difficili da scovare, e si è distinta per la capacità di tramandarsi in virtù di una prassi tollerata dalla giurisprudenza. Questo strumento si è rivelato, comunque, bisognoso dell’ausilio del professionista del diritto, per garantire la produzione di effetti immediatamente fruibili, ed evitare di essere, ogni volta, soggetto allo scrutinio del giudice, determinante esiti, peraltro, spesso, incerti. Si badi, un ausilio non necessariamente conveniente, giacché determinante l’abbandono di mezzi tipici, senza apparente giustificazione, e con la frequente conseguenza di una inevitabile, e complessa, opera interpretativa. Un sostegno, inoltre, che deve essere in grado di tradurne, quanto meno, gli effetti, in una forma conosciuta dall’ordinamento giuridico vigente.

Questa peculiare fattispecie si risolve in uno strumento, tutt’al più, socialmente tipizzato, anche se, non per questo, meritevole di minore considerazione. Ciononostante, la dottrina, salvo alcuni interventi, oltremodo circoscritti[4], non ha reputato necessario approfondire codesto strumento, preferendo dedicare la propria attenzione agli istituti giuridici che, solitamente, esso è in grado di celare, e, di conseguenza, alle pieghe che, in concreto, ne discendono.

Se, nei fatti, l’acquiescenza al testamento permette di risolvere impasse contingenti, se ne rinviene l’impiego in presenza di presupposti differenti, e piuttosto eterogenei. In primo luogo, codesta acquiescenza può essere evocata nell’ipotesi di un testamento, o precedenti donazioni, in grado di definire un assetto ereditario dimentico, in tutto o in parte, della quota di eredità riservata ai legittimarî[5]. In tali casi, essa può determinare una rinunzia all’azione di riduzione, sì generata da un’espressa manifestazione di volontà – si pensi alla sottoscrizione di un atto notarile di acquiescenza -, ma che, più propriamente, deve essere reputata alla stregua di una rinunzia tacita – o, meglio, implicita[6] – all’ausilio del medesimo strumento, a patto che sia possibile scorgere la volontà di dismettere tale diritto. Il legittimario leso nei suoi diritti, prestando acquiescenza al testamento, anche alla luce di precedenti donazioni, può, quindi, manifestare l’intento di rispettare le ultime volontà dell’ereditando, privandosi della facoltà di esercitare ogni eventuale azione contraria[7]. In tale eventualità, si deve riconoscere un rilievo, per così dire, attivo all’acquiescenza al testamento, risultante nell’effettiva rinunzia a un diritto – in questo caso, il diritto di esercitare l’azione di riduzione –, siccome non pare esatto paragonare tale attività alla passiva sopportazione delle ultime volontà del defunto[8].

Del pari, il medesimo strumento viene impiegato, nella prassi, in presenza di disposizioni testamentarie viziate da cause di invalidità. In questo caso, codesto strumento pare impiegato al fine di determinare una conferma[9], rilevante ai sensi dell’art. 590 cod. civ.[10], nella sua peculiare forma di volontaria esecuzione di disposizioni testamentarie nulle (asservibile, secondo l’opinione prevalente, anche all’ipotesi di disposizioni annullabili)[11], ovvero di una fattispecie che pare rivestire significato, là dove proveniente da chi, in mancanza di quella specifica scheda testamentaria, sarebbe chiamato per legge[12]. Certo, non si creda che, al cospetto di un atto di acquiescenza, avente a oggetto un testamento affetto da una causa di nullità, o di annullabilità, quest’ultimo debba considerarsi, giocoforza, confermato, siccome l’istituto, racchiuso nell’art. 590 cod. civ., esige, per la sua configurazione, un duplice elemento soggettivo. La lettera dell’art. 590 cod. civ. richiede, infatti, la conoscenza della causa di invalidità, in capo a chi abbia confermato, o dato esecuzione, al testamento in oggetto, che deve accompagnarsi alla manifestazione di volontà, per quanto possibile esplicita, di porre rimedio al medesimo vizio[13]. Tale requisito soggettivo non risulta, necessariamente, integrato, in presenza dell’acquiescenza, atto che, pertanto, non è in grado di determinare, in ogni caso, la sanatoria del negozio.

Ancóra, l’acquiescenza al testamento, posta in essere da parte del successibile, testamentario o legittimo, potrebbe considerarsi (seppur con grandi riserve, come presto approfondite) sufficiente, al fine di determinare l’acquisto della qualità di erede, e ciò in virtù di un’accettazione di eredità, a prima vista, tacita, ma che, per certi versi, potrebbe, financo, considerarsi espressa, benché sorretta da espressioni nient’affatto usuali.

In termini più generali, codesto strumento, calato nella materia del Diritto ereditario, può determinare, a seconda delle circostanze, un ampio spettro di conseguenze giuridiche, le quali debbono essere indagate singolarmente, specie al cospetto dell’effettiva volontà dell’acquiescente. Da queste prime considerazioni, emerge, facilmente, l’elasticità per la quale pare caratterizzarsi l’acquiescenza, vaga nei suoi tratti essenziali, ma asservita a esigenze differenti, e che riesce a intrecciarsi con numerosi profili del diritto, quali, tra gli altri, quelli afferenti al regime della trascrizione, come disciplinata nel Libro sesto del Codice civile. Eppure, a una simile versatilità, si contrappongono gli assai consistenti dubbî interpretativi, che ne discendono, spesso non confortati da giustificazioni convincenti, al cospetto del necessario bilanciamento degli interessi giuridico-economici, e morali, capaci di stagliarsi sul suo sfondo.

 

[1] Cfr., infra, §§ 3 e 4.

[2] V., in questo senso, G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2020, X ed., p. 205.

[3] Si badi, occorre cautela nell’impiego del termine “atipico”, con riferimento alla fattispecie in esame, specie là dove si intenda ricondurla, quanto alla relativa natura giuridica, alla categoria degli atti giuridici in senso stretto. A tal proposito, v., infra, § 4.

[4] V., in tal senso, i riferimenti bibliografici contenuti, supra, nella nota 3.

[5] Nel ricco approfondimento dottrinale, circa i diritti dei legittimarî, si vedano, quanto meno: L. Ferri, Dei legittimari. Art. 536-564, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1981, II ed.; G. Cattaneo, La vocazione necessaria e la vocazione legittima, in Tratt. dir. priv., dir. da P. Rescigno, vol. 5, Successioni, t. I, Torino, 1997, p. 433 ss.; L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, in Tratt. dir. civ. e comm., già dir. da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, Milano, 2000, IV ed., p. 43 ss.; A. Tullio, L’intangibilità dei diritti di riserva. Il divieto di pesi e condizioni, in Tratt. dir. delle successioni e donazioni, dir. da G. Bonilini, vol. III, La successione legittima, Milano, 2009, p. 447 ss. Di recente, v. l’ampia, importante, monografia di V. BARBA, La successione dei legittimari, Napoli, s. d., ma 2020.

Cfr., in maniera critica, per una riforma della disciplina incisa negli artt. 536 ss. cod. civ., G. Bonilini, Sulla possibile riforma della successione necessaria, in Tratt. dir. delle successioni e donazioni, dir. da G. Bonilini, vol. III, La successione legittima, Milano, 2009, p. 729 ss.

Con riferimento, invece, all’azione di riduzione, v.: F. S. Azzariti, G. Martinez, G. Azzariti, Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 1979, VII ed., p. 247 ss.; F. Moncalvo, Sulla natura giuridica dell’azione di riduzione, in Familia, 2004, p. 177 ss.; A. Tullio, L’azione di riduzione. L’imputazione ex se, in Tratt. dir. delle successioni e donazioni, dir. da G. Bonilini, vol. III, La successione legittima, Milano, 2009, p. 533 ss.; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 198 ss. Per il periodo di vigenza del Codice civile del 1865, cfr., infine: E. Betti, Appunti di diritto civile, Milano, s.d., ma 1929 (rist. Napoli, 2017), p. 509 ss.; R. De Ruggiero, Istituzioni di diritto civile, vol. III, Diritti di obbligazione. Diritto ereditario, Messina, s. d., ma VI ed., p. 639 ss.

[6] Rimane particolarmente chiara, in questo àmbito, l’analisi proposta da G. Giampiccolo, Note sul comportamento concludente, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, p. 778 ss.

Secondo R. Sacco, voce Negozio giuridico, in Dig. disc. priv. Sez. civ., agg. I, Torino, s. d., ma 2014, p. 470, inoltre, «quando parliamo di dichiarazione implicita, una dichiarazione espressa è ben presente nella scena. Semplicemente, al significato esplicitato dalla dichiarazione viene ad aggiungersi un secondo significato, credibile perché logicamente inferibile dal primo in modo univoco. Ad es.: Tizio, inserendo nel testamento la clausola risolutoria di un legato, dice implicitamente che vuol lasciare quel legato a quella persona».

[7] La legittimità della rinunzia all’azione di riduzione è facilmente desumibile dal dettato normativo, giacché essa può essere scorta nel divieto, opposto al suo impiego, dall’art. 557, cpv., cod. civ., per il solo caso in cui il donante risulti ancóra in vita. Diversamente, ovvero a séguito della morte del donante, la rinunzia a tale strumento è, sostanzialmente, libera, tant’è che questa può manifestarsi, in forma espressa, oppure in maniera tacita, proprio come pare avvenire in presenza di un atto di acquiescenza al testamento.

In dottrina, per la rinunzia tacita all’azione di riduzione, v., in particolare: L. Mengoni, op. cit., p. 335 ss.; A. Palazzo, Le successioni, Milano, 2000, II ed., I, p. 572 ss.; A. Natale, Le rinunzia a diritti ereditarii: formalismo e revocabilità, in Fam. pers. succ., 2007, p. 327 ss.; M. Cinque, Rinuncia tacita all’azione di riduzione e conflitti tra figli e nuovo coniuge del de cuius, in Nuova giur. civ. comm., 2009, p. 559 ss.; A. Tullio, L’intangibilità dei diritti di riserva. Il divieto di pesi e condizioni, cit., p. 562 ss.; A. Buccelli, Dei legittimari. Artt. 536-564, in Cod. Civ. Comm., fond. da P. Schlesinger e dir. da F. D. Busnelli, Milano, 2012, p. 591 ss.

[8] Non sembra, quindi, condivisibile l’opinione di F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. VI, cit., p. 371, secondo il quale: «se […] si tratti di legittimario pretermesso, l’acquiescenza può condurre alla prescrizione del diritto di agire in riduzione, per il fatto che l’interessato non provveda a esercitare, in termine utile (decennio dall’apertura della successione), il proprio diritto». Così concludendo, infatti, l’acquiescenza risulterebbe degradata a mera modalità di espressione dell’istituto generale della prescrizione, scolpito negli artt. 2946 ss. cod. civ., ma in contrasto con la sua disciplina, che esige l’inerzia del titolare del diritto in questione, in maniera confliggente con la sostanza dell’acquiescenza.

[9] Per l’istituto generale della conferma dell’atto nullo, v.: G. Giacobbe, voce Convalida (dir. priv.), in Enc. dir., vol. X, Milano, s. d., ma 1962, p. 479 ss.; F. Gazzoni, L’attribuzione patrimoniale mediante conferma, Milano, 1974; R. Tommasini, voce Nullità (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XXVIII, Milano, s. d., ma 1978, p. 892 ss.; G. B. Ferri, Convalida, conferma e sanatoria del negozio giuridico, in Dig. disc. priv. Sez. civ., vol. IV, Torino, s. d., ma 1989, p. 335 ss.

[10] Al fine di approfondire, invece, il peculiare istituto della conferma, ed esecuzione volontaria, di disposizioni testamentarie nulle, v., ex multis: G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Milano, 1954 (rist. Napoli, 2010), p. 209 ss.; G. Gabrielli, L’oggetto della conferma ex art. 590 c.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 1964, p. 1366 ss.; R. Caprioli, La conferma delle disposizioni testamentarie e delle donazioni nulle, Napoli, 1985.

Per la manualistica, cfr., in maniera assai chiara, G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 377 ss.

[11] Secondo la dottrina prevalente, l’istituto racchiuso nell’art. 590 cod. civ. può essere impiegato anche in presenza di cause di annullabilità del testamento. A tal proposito, v., per tutti, G. Stolfi, Appunti sull’art. 590 c.c., in Giur. it., 1977, I, 2, c. 357 ss. Nel medesimo senso, v., in giurisprudenza: App. Milano, 5 aprile 1974, in Giur. it., 1975, I, 2, c. 718 ss.; Cass., 11 agosto 1980, in Foro it., 1981, I, p. 435 ss.

Per un’opinione contraria, cfr., invece, F. Gazzoni, L’attribuzione patrimoniale mediante conferma, cit., p. 313 ss.

[12] Così, ancóra, F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. VI, cit., p. 371.

[13] Secondo G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 379, la conferma, là dove espressa mediante un atto formale, deve presentare i requisiti indicati, dall’art. 1444 cod. civ., riguardo alla convalida del contratto annullabile, vale a dire: menzione della disposizione testamentaria invalida; indicazione del motivo di invalidità; dichiarazione dell’intento di procedere alla conferma.

Cfr., inoltre, F. Gazzoni, L’attribuzione patrimoniale mediante conferma, cit., pp. 96 e 296 ss., tenendo, comunque, presente la rammentata contrarietà di tale Autore, nei confronti dell’applicazione dell’art. 590 cod. civ. al testamento annullabile. Approfondendo codesta opinione, sarebbe chiara l’inapplicabilità dell’art. 1444 cod. civ. alla peculiare ipotesi di volontaria esecuzione di disposizioni testamentarie, nulle o annullabili.

Per la giurisprudenza, v., altresì, Cass., 13 luglio 2017, n. 17392, in Banca dati Foro it.


3. Alcune considerazioni circa la natura giuridica.

Dinnanzi a tinte così sbiadite, incapaci di segnare, con tratto sicuro, i contorni dell’acquiescenza al testamento, è necessario riflettere sulla natura giuridica di tale fattispecie, evidentemente trascurata dal Legislatore, quanto meno nella materia del Diritto civile, ma che, nell’esperienza quotidiana, ha ricevuto una tipizzazione di matrice consuetudinaria, o, per così dire, sociale. Al fine di individuare la qualificazione giuridica, maggiormente in grado di adeguarsi ai lineamenti dell’acquiescenza - strumento idoneo a determinare conseguenze, nei fatti, alquanto eterogenee - occorre riprendere, brevemente, la discussione che ha, a lungo, impegnato la dottrina, affaticatasi nella ricerca di un criterio utile al fine della distinzione tra fatto e atto giuridico[1]. Non è questo il luogo deputato ad approfondire, nel dettaglio, simili temi, da sempre cari alla teoria generale del diritto, eppure, questi non possono essere trascurati in toto, ai fini della presente indagine.

Non a caso, è a tale confronto che gli esigui contributi dedicati al tema dell’acquiescenza al testamento hanno fatto riferimento, al fine di caratterizzarne i tratti essenziali[2]. In particolare, ne è stata proposta la sussunzione entro i confini della categoria dei fatti giuridici[3], per le motivazioni che saranno presto approfondite. Ciononostante, la stessa definizione di fatto giuridico non trova spazio nel dettato normativo, tant’è che di esso è stata proposta una duplice qualificazione, senza, tuttavia, riuscire a individuare il criterio principe, utile a ritrarre ogni circostanza. Secondo una particolare opinione, deve intendersi, per fatto giuridico, tutto ciò che, al lume di una norma giuridica, determina effetti rilevanti per il diritto. Da altra prospettiva, la qualifica in esame non può prescindere dal confronto proprio del fatto con l’atto giuridico, al punto che debbono essere considerati fatti giuridici tutti «i fenomeni temporali che non sono attività volontarie dell’uomo»[4], e che, quindi, non possono essere considerati atti giuridici.

Diversamente, l’atto giuridico, che si presenta quale peculiare specificazione del fatto giuridico, si connota, essenzialmente, per l’elemento volontaristico, o, meglio, esso viene individuato in quel comportamento umano, al quale l’ordinamento riconosce rilievo, in ragione della sua volontarietà e consapevolezza[5].

Si consideri, inoltre, il negozio giuridico, ovvero quell’ulteriore precisazione dell’atto (e quindi, a sua volta, del fatto) giuridico, figura che potrebbe essere evocata anche dinnanzi all’acquiescenza al testamento[6]. Il negozio giuridico, categoria dommatica che, talvolta, è arduo distinguere dall’atto giuridico, si rivela in quella manifestazione di volontà, enunciante gli effetti perseguiti dal dichiarante, e alla quale l’ordinamento riconduce conseguenze giuridiche conformi al risultato voluto, purché contraddistinta da finalità meritevoli di tutela, e rispettose del dettato normativo[7]. In sintesi, il negozio giuridico si presenta quale autoregolamento di interessi privati, offerto ai consociati alla luce della, assai ampia, autonomia custodita nell’art. 1322 cod. civ. Principio, quest’ultimo, in vero testualmente riferito alla materia contrattuale[8], eppure, rammentando il mancato accoglimento, da parte dell’ordinamento giuridico vigente, della nozione di negozio giuridico, prevale l’opinione secondo la quale la medesima autonomia manifestata dall’art. 1322 cod. civ., fermi i dovuti accorgimenti del caso, pare poter essere estesa, più in generale, anche all’àmbito definito dal negozio giuridico[9].

Si tratta, pertanto, di concetti – fatto, e atto giuridico, quest’ultimo anche nella sua peculiare specificazione di negozio giuridico – che si presentano alla stregua di fondamenta, sulle quali regge l’intera struttura del Diritto privato vigente, capaci di intrecciarsi, inevitabilmente, l’un l’altra, e che trovano, nella rispettiva essenza, gli elementi in grado di determinarne una vicendevole qualifica. Si potrebbe, financo, affermare come la definizione di fatto giuridico non avrebbe ragion d’essere, in assenza della determinazione dell’atto giuridico.

Ebbene, accostando la figura dell’acquiescenza ai concetti di fatto e atto giuridico, parte della dottrina, lo si rammenta, ha ritenuto codesto strumento pratico più vicino all’insieme definito dal fatto giuridico[10], sulla scorta di alcune considerazioni. In particolare, in presenza di un’acquiescenza al testamento, ci si troverebbe al cospetto di comportamenti, dai quali discendono effetti rilevanti per l’ordinamento, ma che prescindono dalla volontà dell’agente. O, meglio, tale intento ben potrebbe esistere, ma la sua presenza, nei fatti, sarebbe indifferente, nella prospettiva della concreta efficacia dell’acquiescenza stessa, al punto che le conseguenze da essa dipendenti si realizzerebbero in ogni caso, anche in assenza di tale volontà. Se, per un verso, è facile notare gli effetti generati dall’atto di acquiescenza (come, peraltro, emerge dalla costante prassi, anche relativa agli adempimenti pubblicitarî che ne discendono, come presto approfonditi[11]), per altro verso, secondo codesta impostazione, l’elemento soggettivo non sarebbe in grado di qualificarne l’essenza. Non sarebbe, infatti, possibile scorgere l’intento, da parte dell’agente, di raggiungere proprio quei risultati, enunciati nella relativa manifestazione di volontà, la quale si presenta alla stregua di mero presupposto di fatto, al fine della produzione degli effetti rammentati.

Seguendo il solco segnato da simili considerazioni, alla base dell’acquiescenza, e del rilievo che alla medesima viene riservato, non vi sarebbe null’altro, se non un’esigenza di tutela dell’altrui affidamento, siccome il comportamento dell’acquiescente non sarebbe sufficiente, in sé, a determinare quelle conseguenze che, invece, tale strumento di fatto provoca[12]. L’acquiescenza a un determinato testamento, più o meno esplicita, ben potrebbe indirizzare il comportamento altrui per i sentieri della buona fede, in virtù della consapevole accettazione, da parte dell’acquiescente medesimo, di quelle peculiari conseguenze, spesso a lui sfavorevoli, e determinanti la dismissione del potere di impugnare il testamento.

Un altro possibile risvolto, anch’esso legato ai profili della buona fede, capace di insorgere nell’altrui persona, e che sembrerebbe suggerire la qualificazione dell’acquiescenza quale mero fatto giuridico, potrebbe essere osservato nell’eventuale inversione dell’onere probatorio, in sede di processo civile, determinato dall’espressa acquiescenza a un dato testamento. Come è noto, l’art. 2697 cod. civ. impone, a chiunque voglia far valere un diritto in giudizio, la prova dei fatti pòsti a suo fondamento[13]. Si pensi, quindi, al caso di una controversia ereditaria instaurata tra i successori legittimi del testatore, e chi, a modo di esempio, pur chiamato in forza di testamento, non rientri nel novero dei legittimarî, ed eventualmente nemmeno in quello dei successibili ex lege. Là dove quest’ultimo esiga il rispetto delle volontà del testatore, eventualmente viziate da una causa di invalidità, o determinanti una lesione dei diritti di legittima, in simili ipotesi potrebbe essere il legittimario, o il successore legittimo, che abbia prestato acquiescenza al testamento, a dover dimostrare, in prima battuta, le sue ragioni, fornendo la prova del fatto che, attraverso tale atto, non ha inteso (rectius, determinato) affatto la conferma della scheda testamentaria viziata, oppure, a seconda dei casi, che non ha implicitamente rinunziato al suo diritto di agire in riduzione. L’esistenza di un atto di acquiescenza potrebbe determinare una situazione, di fatto, paragonabile a una presunzione, benché relativa, consistente nell’avvenuta accettazione delle ultime volontà del defunto, nella maniera in cui esse sono state confezionate, e, quindi, mantenendo salve eventuali attribuzioni eccedenti la quota disponibile, oppure viziate da cause di invalidità.

Epperò, una simile considerazione, riservata all’acquiescenza al testamento, si fonda su di un presupposto: il necessario intervento del giudice, chiamato a valutare il significato del comportamento tenuto dall’acquiescente, e, soprattutto, a bilanciare gli interessi in giuoco, con ciò, di fatto, negando rilievo all’immediata efficacia del contegno tenuto dall’agente, e concentrandosi sulle conseguenze che, per l’ordinamento giuridico, da questo dipendono[14]. Certo, l’affidamento ingenerato nei terzi deve essere ben tenuto in considerazione, ma la qualificazione dell’acquiescenza, alla stregua di mero fatto giuridico, pare muovere da presupposti non adeguati alle circostanze, e tali da condurre a una soluzione non del tutto convincente, anche se coerente con il suo punto di partenza.

È, sì, vero che, talvolta, l’acquiescenza al testamento prescinde dalla volontà dell’agente, o, meglio, è vero che i suoi effetti non corrispondono, in ogni caso, a quelli voluti, ma ciò non significa che la medesima volontà non assuma alcun rilievo, nella prospettiva della classificazione di codesto peculiare strumento. Piuttosto, si avrà modo di approfondirlo, in assenza di una volontà rilevante, dovrebbe, più propriamente, discorrersi di una semplice cifra di stile, incapace di determinare conseguenze degne di nota, e non in grado di reggere il nome di acquiescenza, con il significato che, nella più diffusa considerazione, ne discende.

 

[1] Nella letteratura occupatasi della definizione, e dell’approfondimento, del fatto giuridico, impossibile da richiamare, in questa sede, in maniera compiuta, v., almeno: F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1954, p. 87 ss.; R. Scognamiglio, Fatto giuridico e fattispecie complessa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, p. 331 ss.; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. it., dir. da F. Vassalli, Torino, 1960, II ed. (rist. Napoli, 2002), p. 7 ss.; C. Maiorca, voce Fatto giuridico – Fattispecie, in Noviss. Dig. it., VII, Torino, 1961, p. 111 ss.; A. Falzea, voce Fatto giuridico, in Enc. dir., vol. XVI, Milano, s. d., ma 1967, p. 941 ss.; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. I, cit., p. 443 ss.; R. Sacco, voce Fatto giuridico, in Dig. disc. priv. Sez. civ., Torino, s. d., ma 2010, p. 610 ss.

Per un adeguato approfondimento, circa il dibattito dottrinale sviluppatosi attorno all’atto giuridico, cfr.: Santi Romano, voce Atti e negozi giuridici, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947, p. 3 ss.; M. Trimarchi, Atto giuridico e negozio giuridico, Milano, 1940; E. Betti, voce Atti giuridici, in Noviss. Dig. it., Torino, 1958, p. 1505 ss.; R. Scognamiglio, voce Atto giuridico, in Enc. forense, I, Milano, 1958, p. 589 ss.; F. Santoro-Passarelli, voce Atto giuridico, in Enc. dir., vol. IV, Milano, s. d., ma 1959, p. 941 ss.; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. I, cit., p. 453 ss.

[2] Così, di nuovo: A. Bulgarelli, op. cit., p. 482; M. F. Hercolani, op. cit., p. 242.

[3] A. Bulgarelli, op. cit., p. 482.

[4] Così, A. Falzea, op. cit., p. 942, secondo il quale, pertanto, è fatto giuridico tutto ciò che non è ascrivibile alla categoria dell’atto giuridico.

[5] In tal senso, v., per tutti, F. Santoro-Passarelli, voce Atto giuridico, cit., p. 203. Per una ulteriore qualificazione, volta a distinguere atto e negozio giuridico, cfr., ibidem, p. 205 ss.

Secondo F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. I, cit., p. 453, «in senso largo, si intende per atto giuridico (testualmente: 1324, 1334 e 1703), un atto umano, compiuto consapevolmente e volontariamente, da un soggetto (di regola, capace di agire), dal quale scaturiscono effetti giuridici, poiché il soggetto, compiendolo, intende determinare un risultato; e tale risultato è preso in considerazione dal diritto».

[6] Cfr. il successivo § 4.

[7] Nella ricca letteratura dedicata al negozio giuridico, v., almeno: V. Scialoja, Negozi giuridici, Roma, 1938, IV rist.; Aur. Candian, Intorno alla teoria del negozio giuridico, in Temi, 1947, p. 92 ss.; G. Stolfi, Teoria del negozio giuridico, Padova, 1947 (rist. 1961); R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1950; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., p. 108 ss.; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit.; L. Cariota Ferrara, Definizione del negozio giuridico come esercizio di un diritto o di una facoltà o di un potere, in Riv. dir. civ., 1961, I, p. 321 ss.; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. I, cit., p. 460 ss.; G. Mirabelli, voce Negozio giuridico (teoria del), in Enc. dir., vol. XXVIII, Milano, s. d., ma 1978, p. 1 ss.; G. B. Ferri, voce Negozio giuridico, in Dig. disc. priv. Sez. civ., vol. IV, Torino, s. d., ma 1995, p. 61 ss.; F. Galgano, Il negozio giuridico, in Tratt. comm. dir. civ. e comm., già dir. da A. Cicu e F. Messineo e continuato da L. Mengoni, Milano, 2002, II ed.; R. Sacco, voce Negozio giuridico, cit., p. 452 ss.

[8] Si rammenti, peraltro, il rinvio operato dall’art. 1324 cod. civ., che estende l’applicazione delle regole, dettate per i contratti, anche agli atti unilaterali tra vivi, aventi contenuto patrimoniale.

[9] Con l’inclusione, pertanto, dei negozî giuridici unilaterali, anche se con alcune accortezze, che saranno, infra, approfondite, ai §§ 6 e 7.

[10] Così, ancóra, A. Bulgarelli, op. cit., p. 482. Sembra propendere per le medesime conclusioni anche M. F. Hercolani, op. cit., p. 242.

[11] Con riferimento al regime della trascrizione, v., infra, § 5.

[12] Non pare inutile rammentare codesti eterogenei effetti, dei quali, tuttavia, rimane dubbia la consistenza: accettazione di eredità, rinunzia all’azione di riduzione, conferma di disposizioni testamentarie nulle.

[13] Al fine di approfondire codesto principio, v., quanto meno, L. P. Comoglio, Art. 2697 – Onere della prova, in Comm. cod. civ., dir. da E. Gabrielli, Della tutela dei diritti. Artt. 2643-2783 ter, a cura di G. Bonilini e A. Chizzini, Torino, 2016, p. 291 ss.

[14] A. Bulgarelli, op. cit., p. 482.


4. Critica alla qualificazione dell’acquiescenza quale mero fatto giuridico. Il rilievo rivestito dall’elemento volontaristico.

L’inquadramento, dell’acquiescenza al testamento, nell’insieme dei meri fatti giuridici è determinato da un presupposto, che, tuttavia, non pare risolutivo ai fini di codesta opera esegetica. Talvolta, in presenza di una determinata dichiarazione, o di un comportamento concludente, veicolati nella forma dell’acquiescenza, possono prodursi conseguenze diverse, e, all’apparenza, non coerenti con l’intenzione esternata. Epperò, il difetto di corrispondenza tra l’intento, così come manifestato, e gli effetti giuridici prodotti, non sembra, da solo, in grado di relegare l’acquiescenza al testamento nella categoria dei fatti giuridici, giacché, in questo modo, sembrerebbe limitato il significato che tale strumento riveste nella prassi.

Per di più, non si tratterebbe affatto di una verità assoluta, siccome non è infrequente la coincidenza tra quanto voluto, e quanto effettivamente verificatosi in virtù dell’acquiescenza stessa; di tale circostanza può essere testimone la conseguente trascrizione[1]. Si dovrebbe, inoltre, dubitare della correttezza di una trascrizione che si distanzî, del tutto, dall’intento dell’acquiescente, al punto che ben potrebbero scorgersi profili di responsabilità in capo al professionista, che, in concreto, se ne sia fatto carico, ignorando, o addirittura prevaricando, le reali intenzioni dell’agente[2].

Codesta circostanza, vale a dire l’apparente incoerenza tra presupposto di fatto, e conseguenze giuridiche prodotte, sembra, più propriamente, sintomo dell’atipicità, ed elasticità, per le quali si contraddistingue l’acquiescenza al testamento. Al cospetto di questo strumento, e là dove si rendesse necessaria una sua effettiva interpretazione, non pare possibile trascurare l’elemento della volontà, tant’è che, nei casi di maggiore dubbio, il giudice è tenuto proprio a individuare l’intento, che ha mosso l’acquiescente, nell’accettazione delle disposizioni testamentarie oggetto di indagine. Certo, quell’elasticità, che caratterizza la fattispecie in esame, non può essere affatto considerata, da ogni prospettiva, un pregio, e anzi, talvolta, essa si rivela il principale difetto dell’acquiescenza, tanto da impedirne un’analisi sicura e valida pressoché in ogni circostanza, specie in un terreno così scivoloso.

In alcuni casi, nell’impiego dell’acquiescenza, non sembra inverosimile scorgere gli echi dell’abuso, ascrivibili al professionista, che ne abbia suggerito l’ausilio, al fine di prevenire controversie, e, soprattutto, fornire al cliente una soluzione apparentemente giuridica, ma che si rivela, principalmente, morale, in momenti di profonda debolezza. Dovrebbe essere proprio la fragilità di chi ha, da poco, perso un affetto, a suggerire seria riflessione nell’impiego dell’acquiescenza, il cui utilizzo, spesso, si dimostra oltremodo disinvolto, e noncurante dei significativi risvolti giuridici, che essa è in grado di determinare.

Uno strumento, dunque, con il quale si anela al raggiungimento di un certo grado di sicurezza, in vero fondato su esigenze presunte, non necessariamente rispondenti alle reali intenzioni dell’acquiescente, il quale può risultare semplicemente mal consigliato. D’altronde, in virtù di un atto di acquiescenza, per un verso, è possibile prevenire eventuali liti, nei riguardi di un dato testamento, evitando contestazioni future, ma, per altro verso, si producono sicure conseguenze, per certi versi sfavorevoli, nei confronti di chi se ne sia servito. Un soggetto, quest’ultimo, che, così facendo, ha dismesso alcune importanti facoltà, nei confronti di una determinata successione ereditaria. Certo, può essere proprio questa l’intenzione dell’acquiescente, e, in tal caso, non si porrebbero simili problemi; ma ciò non sempre accade.

A ogni modo, quella parte di dottrina, che ha sussunto l’acquiescenza al testamento nella categoria dei fatti giuridici, pare aver mosso da presupposti sbagliati. Codesta impostazione sembra aver osservato l’acquiescenza al testamento in termini rigidi, assoluti, senza considerare le numerose nuances, di cui essa può tingersi. Astrattamente, sarebbe questo il sentiero auspicabile per il corretto studio della fattispecie; strada che, tuttavia, si rivela insoddisfacente in concreto, perché incapace di abbracciare l’ampio spettro di situazioni di fatto, riconducibili all’esercizio dell’acquiescenza al testamento. Tale strumento va, dunque, osservato tenendo bene a mente l’eterogenea pluralità di effetti, che da esso possono protendersi, e che ne suggeriscono una scomposizione ai minimi termini, attenta ad alcuni peculiari profili.

Se è vero che l’acquiescenza, talvolta, prescinde dall’esplicita volontà dell’agente di determinare proprio quegli effetti, che in concreto ne discendono, è altrettanto vero come ciò non avvenga in ogni circostanza. In aggiunta, non si può negare rilievo al fatto che l’atto di acquiescenza debba, in realtà, essere sempre sorretto dalla volontà dell’agente, salvo il caso in cui, in esso, sia possibile scorgere una semplice espressione di stile[3], non riconducibile nemmeno alla categoria del fatto giuridico, perché priva di quel significato, di cui, finora, si è tentata un’indagine. Sono, questi, tuttavia, casi eccezionali, in cui la dichiarazione di acquiescenza al testamento non nasconde alcunché, risolvendosi in una mera formula, ripetuta acriticamente, come talvolta accade in sede di pubblicazione di un testamento olografo.

Ebbene, pur accogliendo il rilievo secondo il quale, non sempre, l’intento dell’acquiescente mira alle conseguenze che, su di esso, si ripercuotono, non si può negare come tale volontà si distingua, comunque, quale tratto caratteristico di questa fattispecie, giacché, in sua assenza, o nell’ipotesi di sua totale irrilevanza, dovrebbe concludersi, ancóra una volta, nel senso della natura di mera cifra stilistica, e, quindi, di figura non ascrivibile nemmeno alla categoria del fatto giuridico. Chi reputa l’acquiescenza un semplice fatto giuridico[4], sembra negarne, semplicemente, la riconducibilità nell’insieme dei negozî giuridici, quale autoregolamento di interessi privati, dimenticando che la medesima figura del negozio giuridico è, a sua volta, niente meno che una specificazione dell’atto giuridico.

Talvolta, l’acquiescente intende raggiungere proprio quegli esiti, che si verificano in concreto. Altre volte, alla volontà di rispettare un determinato testamento, per come esso si presenta, debbono ricollegarsi conseguenze ulteriori, non necessariamente volute dall’agente, ma, non per questo, avulse dall’intento che ne ha mosso lo spirito. Potrebbe, pertanto, ritenersi che, tenendo ferma la necessaria presenza di una volontà tesa alla produzione di determinati effetti, a questa si accompagni una volontà implicita, e prodromica (a modo di esempio, l’acquisto della qualità di erede), giacché, in sua assenza, non sarebbe configurabile alcuna conseguenza. A ogni modo, volontà e consapevolezza si elevano a tratto caratteristico, in grado di contrassegnare, in codesta fattispecie, quanto meno, i lineamenti dell’atto giuridico[5], ché, senza un’azione volontaria e consapevole non potrebbe esservi effettiva acquiescenza, e non potrebbero determinarsi ripercussioni degne di rilievo, nella sfera dell’acquiescente. Una volontà, in questo caso, diretta a cristallizzare i desiderî del testatore, dandovi attuazione, e dismettendo qualsivoglia potere di impugnazione, nei confronti della scheda testamentaria.

Scendendo più nel dettaglio, in alcuni casi l’acquiescenza sembrerebbe riconducibile alla figura del negozio giuridico, peculiare specificazione dell’insieme definito dall’atto giuridico. Nella maggioranza dei casi, invece, è d’uopo concludere per la natura di atto giuridico in senso stretto, vale a dire quella categoria, di approfondimento dottrinale, che pare essere stata trascurata da chi ha ricondotto, perentoriamente, il peculiare istituto in esame alla species del fatto giuridico[6]. A differenza del negozio giuridico, nell’atto giuridico stricto sensu (di cui, per giunta, è tutt’altro che pacifica la definizione[7]) quella consapevolezza, e volontarietà, già tipiche dell’atto giuridico, rimangono, in parte, confinate al comportamento tenuto dall’agente, mentre sbiadiscono, al cospetto degli effetti prodotti[8], pur tipizzati dalla legge. Questi, infatti, si realizzano, non tanto in maniera difforme dalla volontà dell’agente, quanto, piuttosto, a prescindere dalla medesima[9]. La volontà, presupposto dell’atto, rimane estranea alla sua struttura. In presenza di un atto di acquiescenza, ci si potrebbe trovare al cospetto di una peculiare forma di atto giuridico in senso stretto, ove, appurato il rilievo della volontà dell’agente, e la consapevole accettazione dell’altrui testamento, nella forma e sostanza in cui esso si presenta, si determinano effetti tipici, pur in mancanza di un atto tipico[10]. Lo si è già rammentato, una atipicità apparente, che trova, invece, conforto nella considerazione sociale, che ne è derivata, e che ha determinato la sussunzione della stessa acquiescenza, quanto meno per gli effetti da essa dipendenti, in àmbiti normativi già definiti[11].

Seguendo codesto sentiero, l’acquiescenza non potrebbe essere considerata un autoregolamento di interessi privati[12], fonte cosciente e diretta degli effetti giuridici che da essa dipendono, precludendo, pertanto, la sua sussunzione tra i negozî giuridici, come individuati dall’opinione prevalente in dottrina. Ci si troverebbe al cospetto di un «mero presupposto di effetti giuridici», e non quel peculiare «autoregolamento impegnativo», caratteristico del negozio giuridico[13]. I suoi effetti sono, comunque, definiti dall’ordinamento, e di ciò ne è testimone la conseguente possibilità di trascrizione, pur limitata ad alcune, peculiari, ipotesi. In virtù della trascrizione, infatti, l’acquiescenza diviene veicolo (innominato, per l’ordinamento giuridico vigente) di strumenti tipici, e impiegato per consolidare l’efficacia di un dato testamento, con l’accoglimento della sua portata.

Così, a modo di esempio, il legittimario leso nei suoi diritti di riserva, prestando acquiescenza al testamento, può rinunziare, implicitamente[14], all’azione di riduzione, a lui spettante, in forza degli artt. 553 ss. cod. civ. Del pari, il soggetto legittimato a far valere una causa di invalidità del testamento, è in grado di dismettere tale facoltà, ai sensi dell’art. 590 cod. civ. In entrambe le ipotesi - come anche nel caso di semplice pubblicazione di testamento - e in presenza di delazione ereditaria, potrebbero delinearsi, altresì, i contorni di un’accettazione tacita dell’eredità (art. 476 cod. civ.), anche se i dubbî al riguardo sono tutt’altro che inconsistenti.

Certo, in queste ipotesi si propone, spesso, un interrogativo di fondo, vale a dire quale sia il motivo capace di suggerire l’impiego dell’acquiescenza, in luogo di altri istituti giuridici, già definiti dal dettato normativo, o dall’interpretazione offerta da dottrina e giurisprudenza, senza che sia possibile scorgere alcuna aggiunta rispetto a essi. Istituti giuridici, questi ultimi, dei quali vengono ripresi, generalmente in maniera acritica, i tratti essenziali, e determinanti i medesimi effetti auspicati per il tramite dell’acquiescenza, la quale rimane senza apparente giustificazione. Proprio per tale motivo, l’asservimento di tale strumento alle necessità del singolo rimane, sovente, privo di ragioni condivisibili, o, quanto meno, chiare.

A ogni modo, occorre esaminare ulteriormente la proposta classificazione all’interno degli atti giuridici in senso stretto, siccome, secondo una diffusa opinione dottrinale, sembrerebbe doversi propendere per la tipicità di tale categoria[15]. Qualora si accogliesse una simile conclusione, sarebbe alquanto dubbia la sussunzione dell’acquiescenza entro i confini segnati per gli atti giuridici stricto sensu, giacché questa fattispecie si propone per un’essenza tutt’altro tipica, non soltanto nella forma. Per un verso, accogliendo la necessaria tipicità degli atti giuridici in senso stretto, la figura dell’acquiescenza al testamento sarebbe, giocoforza, svilita a mera modalità di manifestazione di uno di quei negozî giuridici che, solitamente, vengono chiamati in causa, per gli effetti dipendenti dal suo impiego[16]. Così facendo, si negherebbe rilievo al preteso accoglimento delle ultime volontà del testatore, ovvero quel tratto caratterizzante l’acquiescenza, anche per come questa si è affermata nella prassi, e per come è stata esaminata dalla giurisprudenza.

Per altro verso, occorre rilevare l’assenza, nel Codice civile vigente, di un’esplicita qualificazione, e della conseguente elencazione, degli atti giuridici in senso stretto, come, del pari, manca un aperto divieto nei confronti degli atti unilaterali atipici, a differenza di quanto statuito, dall’art. 1987 cod. civ., nei confronti delle promesse unilaterali atipiche. Cionondimeno, pare difficile negare la tipicità degli effetti ingenerati da codesto peculiare atto, che si intende qualificare “giuridico in senso stretto”, e ciò a prescindere dalle modalità concrete nelle quali vengono prodotti[17]. Si badi, non si intendono abbattere le colonne del tempio, insinuando il germe della specialità in una materia così ampia, quale quella relativa all’atto giuridico. A muovere, è il semplice desiderio di scovare le disposizioni normative applicabili a una figura così particolare, come quella definita dall’atto di acquiescenza al testamento.

Ebbene, anche qualora si rifiutasse, per gli atti giuridici stricto sensu, quel principio di autonomia scolpito, per il contratto, nell’art. 1322 cod. civ., ed esteso, in virtù dell’art. 1324 cod. civ., agli atti giuridici unilaterali tra vivi, aventi contenuto patrimoniale[18], si potrebbe ugualmente considerare l’acquiescenza alla stregua di strumento utile a sorreggere atti e negozî tipici, benché per il tramite di modalità e manifestazioni atipiche. Ciò significa che deponendo, rigidamente, per il numerus clausus degli elementi rientranti in questa categoria, si potrebbe evitare di scomodare un’improbabile, ed eccezionale, deroga a un simile principio, scomponendo l’acquiescenza al testamento nei minimi termini, quale sommatoria di atti tipici, talvolta dotati di natura negoziale. Il minore rilievo, nella prospettiva teorica-generale, che, così, sarebbe riservato all’acquiescenza al testamento, permetterebbe, al contempo, di continuare a riconoscere il significato pratico che essa riveste nella prassi.

Al lume di quanto osservato, e spinti dalla necessità di assumere un criterio interpretativo capace di fregiarsi di una portata, per quanto possibile, generale, e non limitata al singolo caso, pare d’uopo escludere l’ascrizione dell’acquiescenza al testamento alla categoria dei fatti giuridici, per le motivazioni appena proposte, e inerenti, su tutto, alla volontà, e alla consapevolezza, che si riscontrano nel soggetto agente. L’acquiescente, di regola, intende accettare il testamento, e, in generale, la successione ereditaria, per come essa è stata espressamente definita, rispettando le ultime volontà dell’ereditando.

Da altra prospettiva, e decidendo di non limitarsi a considerare l’acquiescenza quale mera sommatoria di altri istituti, che in essa vengono raccolti ed esplicitati, pare possibile ricondurre la sua essenza all’insieme degli atti giuridici in senso stretto. Ciò avverrebbe, naturalmente, a discapito della riconduzione dell’acquiescenza, in ogni circostanza, nella categoria dei negozî giuridici. Non sempre, infatti, è possibile scorgervi quella volontà, diretta alla produzione degli effetti ricercati, o quell’autoregolamento di interessi privati, che, secondo lo scolio interpretativo consolidatosi attorno a codesta figura, sarebbero caratteristici del solo negozio giuridico[19]. Sovente, lo spirito, che muove l’acquiescente, si fonda sulla necessità, su tutto morale, di rispettare determinate disposizioni testamentarie, esigenza dalla quale derivano risultati giuridici dalle fattezze differenti, anche alla luce dei diversi presupposti, dai quali prendono avvio.

Nulla esclude che talune, forse numerose, ipotesi di acquiescenza possano essere reputate fattispecie negoziali, in quanto effettivi atti di autonomia privata, con i quali il privato regola, liberamente, i proprî interessi, al fine della produzione degli effetti sperati[20]. In tali eventualità, l’acquiescenza potrebbe essere reputata alla stregua di un fenomeno, non già degno di autonoma considerazione, bensì mera forma asservita all’ausilio di altri strumenti negoziali, che trovano, in essa, il veicolo per manifestarsi a terzi. Si potrebbe, altresì, considerare l’atto di acquiescenza quale sommatoria di negozî giuridici, capace di manifestare, in maniera assai sintetica, il complesso insieme di intenzioni dell’acquiescente, nei riguardi di un dato testamento. Le espressioni, ampie e, in vero, piuttosto generiche, asservite all’impiego dell’acquiescenza ben potrebbero, infatti, serbare, e conseguentemente manifestare, l’effettivo intento di rispettare integralmente le altrui ultime volontà, siano esse inficiate da cause di invalidità, o lesive di taluni dei diritti spettanti all’acquiescente.

Per altro verso, e a prescindere dall’effettiva volontà del dichiarante, è difficile negare che, in presenza dell’atto di acquiescenza, si possano, in ogni caso, verificare alcune conseguenze, già compiutamente definite dalla legge, e al cospetto delle quali l’atto di acquiescenza – da intendersi, ora, quale atto giuridico in senso stretto – è condizione necessaria e sufficiente per il loro prodursi. Si badi, il timore riservato nei confronti dell’atipicità degli atti unilaterali sbiadisce in presenza di ciò che, servendosi di una riflessione già proposta in dottrina, non influisce nell’altrui persona[21]. A ben vedere, i profili derivanti dall’acquiescenza coinvolgono direttamente il solo soggetto agente, che regola e definisce situazioni giuridiche incerte, inerenti ai profili di sua competenza, attribuendo loro stabilità, e precludendosi, per il futuro, la possibilità di comportamenti contrarî a quanto già manifestato. Non vi è, infatti, alcuna intrusione nella sfera giuridica degli altri soggetti interessati alla successione di riferimento, siccome, tutt’al più, sarà possibile scorgere un mero contatto empirico, piuttosto che giuridico[22]. Potranno, infatti, prodursi effetti, capaci di incidere nell’altrui persona, soltanto in maniera indiretta.

Simili considerazioni, senz’altro più vicine alle finalità proprie della teoria generale del diritto, sono, in vero, utili anche nell’indagine concreta dedicata all’acquiescenza al testamento, giacché la sua classificazione all’interno di un determinato insieme, piuttosto che di un altro, ha sicuro e immediato rilievo, anche nell’individuazione della disciplina applicabile. Si pensi, a modo di esempio, al diverso significato che assumerebbero la volontà, e la capacità di agire, dell’acquiescente, nel caso in cui l’acquiescenza sia reputata un atto giuridico in senso stretto, piuttosto che un fatto, o un negozio giuridico.

 

[1] Cfr., infra, § 5.

[2] Si veda, inoltre, infra, § 7, circa la possibilità che l’atto di acquiescenza, in tali casi, possa essere viziato da errore, risultando, pertanto, annullabile.

[3] Come già anticipato, stante il rifiuto della sussunzione dell’acquiescenza nell’insieme dei contratti, non è corretto, appieno, il rinvio alle così dette clausole di stile, figure che, in questo caso, potrebbero essere, quanto meno, evocate. A ogni modo, tenendo a mente le dovute distanze, che separano i temi in esame, pare, comunque, utile rammentare la riflessione sviluppatasi proprio attorno alle clausole di stile. Così, v., ex multis: G. Cavalieri, Le clausole di stile, in Giur. it., 1957, I, 2, c. 939 ss.; F. Messineo, Considerazioni sulle clausole contrattuali di stile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, p. 27 ss.; G. Bonilini, Le clausole contrattuali c.d. di stile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1979, p. 1190 ss.; A. De Cupis, Vizio della volontà e clausole di stile, in Giur. it., IV, 1987, c. 320 ss.; S. Pardini, Le clausole di stile nei negozi mortis causa, in Riv. not., 1989, p. 1101 ss.

Per un ampio contributo recente, cfr. T. Bonamini, Premesse al contratto e clausole di stile, Napoli, 2017.

[4] In questo senso, v., ancóra, A. Bulgarelli, op. cit., p. 482.

[5] V., nel medesimo senso, E. Minoli, op. cit., p. 49.

[6] M. F. Hercolani, op. cit., p. 242, apre proprio a questa possibilità, senza, tuttavia, prendere posizione apertamente.

[7] Si consideri che, secondo F. Santoro-Passarelli, voce Atto giuridico, cit., p. 205, gli atti giuridici in senso stretto sono tutti gli atti giuridici diversi dai negozî, senza che sia possibile scorgere, al loro interno, un’ulteriore classificazione.

[8] Per una chiara, e sintetica, definizione di atto giuridico in senso stretto, v. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2019, XIX ed., p. 84 ss.

[9] Secondo V. Roppo, Il contratto, Milano, 2011, II ed., p. 69, «il negozio è manifestazione di volontà diretta a produrre effetti giuridici conformi alla volontà stessa. A contrariis, sono atti non negoziali gli atti non volontari; e inoltre gli atti volontari in cui la volontà non è diretta a produrre conformi effetti giuridici, o comunque in cui gli effetti si producono a prescindere dalla volontà stessa: l’atto funziona come semplice presupposto fattuale, cui si ricollegano gli effetti stabiliti dalla legge in totale indipendenza dal se e dal come tali effetti corrispondano alle rappresentazioni e alla volontà dell’autore».

Secondo la più recente interpretazione, inoltre, il negozio giuridico si caratterizzerebbe, su tutto, per l’autonomia di cui è dotato, da intendersi quale autoregolamento di interessi tra privati, ovvero un regolamento impegnativo, per il quale «già la sua fattispecie, prima ancora che il suo effetto, prescrive un regolamento impegnativo, il quale, rafforzato che sia dalla sanzione del diritto, è destinato ad assorgere a precetto giuridico. In altre parole la fattispecie a cui si ricollegano gli effetti giuridici contiene un precetto dell'autonomia privata il cui riconoscimento da parte dell'ordinamento giuridico configura essenzialmente un fenomeno di recezione. Tutto ciò non si riscontra invece nell'atto non negoziale, nel quale l'autonomia privata è limitata alla scelta del mezzo offerto dalla legge, cioè della fattispecie legale». Così, sinteticamente, P. Cisiano, voce Atto giuridico, in Dig. disc. priv. Sez. civ., agg. I, Torino, s. d., ma 2003, p. 151.

Cfr., infine, M. Segni, Autonomia privata e valutazione legale tipica, Padova, 1972, p. 124, il quale afferma che: «si avrà […] un autoregolamento di interessi quando il comportamento, per produrre effetti giuridici, deve necessariamente essere sorretto da una siffatta valutazione. Quando invece la legge ricolleghi determinate conseguenze a un atto volontario, senza richiedere però che una tale volizione sia necessariamente presente, il contegno esulerà dall’ambito dell’autonomia privata, e sarà perciò riconducibile alla categoria dell’atto in senso stretto».

[10] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 84 e 86, afferma la necessaria tipicità, non soltanto degli effetti giuridici, bensì anche degli stessi atti giuridici in senso stretto. Nel medesimo senso, v., quanto meno, A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, a cura di G. Trabucchi, Padova, 2019, XLIX ed., p. 103 ss. A tal proposito, v., infra, in questo paragrafo.

[11] Pur riferita alla materia contrattuale, è sempre convincente la profonda analisi offerta da R. Sacco, Autonomia contrattuale e tipi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1966, p. 785 ss. In particolare, rammentato il superamento, a opera del Codice civile del 1942, della dicotomia «contratti nominati-innominati», alla quale è stata preferita quella dei «contratti appartenenti-non appartenenti ai tipi che hanno una disciplina particolare», rimane assai utile il riferimento a quei contratti tipizzati socialmente, o di matrice giurisprudenziale, riflessione che pare suscettibile di agevole estensione anche al, più ampio, àmbito definito dal concetto di negozio giuridico.

[12] Così, di nuovo, P. Cisiano, op. cit., p. 151.

[13] È questa la posizione di F. Santoro-Passarelli, voce Atto giuridico, cit., p. 207, con riferimento alla distinzione tra atto giuridico, e atto di autonomia privata.

[14] Non si tratta, propriamente, di rinunzia tacita, dal momento che vi è, pur sempre, una manifestazione di volontà. Epperò, tale rinunzia non è espressa, ma può essere desunta dal contegno, e dalle dichiarazioni, dell’agente, tanto da determinare una fattispecie, per l’appunto, implicita, piuttosto che tacita.

[15] Cfr., supra, nota 46.

[16] Questi, lo si rammenta ancóra una volta, possono essere così individuati, non certo senza dubbî: accettazione di eredità, rinunzia all’azione di riduzione, conferma, o volontaria esecuzione, di disposizioni testamentarie nulle. Si tratta, peraltro, di istituti giuridici capaci di manifestarsi in diverse forme, e che non richiedono affatto una dichiarazione espressa in tal senso, potendo essere desunti, implicitamente, anche da un complessivo contegno.

[17] Secondo F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 86, dovrebbe riconoscersi un vincolo inscindibile tra la tipicità degli atti giuridici in senso stretto e gli effetti che da essi possono scaturire.

[18] Circa tale profilo, v., infra, § 6.

[19] Secondo E. Betti, voce Negozio giuridico, in Enc. it. scienza, lettere ed arti, vol. XXIV, Roma, s.d., ma 1934, p. 505 ss., carattere generale del negozio giuridico «è la conformità degli effetti giuridici dell’atto alla coscienza che di solito lo accompagna e alla volontà che normalmente lo determina».

[20] Così, v. F. Santoro-Passarelli, voce Atto giuridico, cit., p. 206 e 208 ss., là dove è precisato che, a seconda delle circostanze, taluni atti possono assumere la natura di atto giuridico in senso stretto, oppure quella di negozio giuridico. Secondo codesta, illustre, opinione, l’elemento distintivo, per ipotesi assai simili tra loro, coinciderebbe con la dispositività dell’atto di riferimento, tant’è che, in presenza di tale tratto caratteristico, si dovrebbe concludere per la natura negoziale di tale atto, mentre, in sua assenza, per quella di atto giuridico in senso stretto.

[21] V., in particolare, V. Roppo, op. cit., p. 27 ss., il quale propone una distinzione tra atti unilaterali “intrusivi”, e “non intrusivi”.

[22] L’accettazione di eredità da parte di un chiamato può precludere, ad altri, l’assunzione della qualità di erede, ma ciò rileva da una prospettiva unicamente di fatto, impedendo la delazione ereditaria, nei confronti dei soggetti diversi dall’accettante. Per tale motivo, secondo V. Roppo, op. cit., p. 28, l’accettazione di eredità deve, comunque, essere considerata per la sua caratteristica di atto giuridico “non intrusivo”.


5. Profili relativi alla trascrizione dell’atto di acquiescenza.

Esaminata la possibile natura giuridica dell’atto di acquiescenza al testamento, anche alla luce delle ragioni pratiche, che ne suggeriscono l’impiego, quelle medesime ragioni, a loro volta, si rannodano a esigenze di certezza dei rapporti giuridici, e, in particolare, all’opportunità di trascrivere l’acquiescenza, per gli effetti che ne discendono. Secondo l’opinione tradizionale, il regime della trascrizione si fonda sulla tassatività dei casi in cui essa può essere impiegata, come pare desumibile dagli artt. 2643 ss. cod. civ. Codesto principio, in vero, è stato messo in dubbio dalla più recente dottrina[1], maggiormente incline al riferimento a una tipicità, piuttosto che tassatività, delle ipotesi di trascrizione.

Senza addentrarsi ulteriormente in tali profili, si presenta l’opportunità per alcuni spunti di riflessione, considerato che, appurate le incertezze interpretative, in relazione alla vera natura giuridica dell’acquiescenza al testamento, è, altresì, necessario rilevare come, nella prassi, questo atto venga effettivamente trascritto, e, all’apparenza, senza problemi di sorta[2]. Si badi, la semplice acquiescenza non pare in grado di reggere la trascrizione, ma ne può essere comunque soggetta, a guisa di veicolo, utile al fine di dare pubblicità a taluni effetti, che da essa dipendono. Effetti che, pertanto, compenetrano l’essenza dell’atto di acquiescenza, e ne puntellano l’impiego pratico.

È stato rilevato[3] come l’acquiescenza, di per sé, non possa considerarsi atto trascrivibile, in quanto non espressamente prevista dalla legge tra gli atti passibili di trascrizione, e non rientrante nel relativo elenco, custodito nel Libro sesto del Codice civile[4]. Nondimeno, nella prassi, dall’acquiescenza dipendono diverse possibilità di trascrizione, dovute ai molteplici effetti che possono scaturirne. Si badi, se anche si deponesse in senso contrario alla trascrizione dell’atto di acquiescenza, non se ne potrebbe, comunque, negare l’esistenza, la quale si dimostrerebbe, a ogni modo, foriera di conseguenze rilevanti per l’ordinamento giuridico vigente. Sono proprio tali effetti, dunque, ad assumere interesse, nella prospettiva della trascrizione, anche se, talvolta, non è agevole distinguere le reali intenzioni di chi abbia prestato acquiescenza a un determinato testamento. E così, a tale difficoltà si accompagna l’interrogativo circa l’adempimento pubblicitario più adeguato, e che sarebbe auspicabile impiegare, al cospetto di tale fattispecie.

Sovente, l’acquiescenza si accompagna alla pubblicazione del testamento, al quale inerisce, per consolidarne gli effetti, unitamente alla trascrizione del relativo verbale. Ciò avviene, a modo di esempio, là dove il testamento stesso determini un acquisto, a titolo di legato, rilevante ai sensi del combinato disposto degli artt. 2648 e 2643 cod. civ., oppure qualora lo si accompagni a una espressa accettazione di eredità, la quale, per giunta, nel caso di accettazione con beneficio di inventario, non richiede, ai fini della trascrizione, la presenza di beni immobili all’interno dell’asse ereditario[5]. In tale ipotesi, in mancanza di una chiara intenzione al riguardo, la trascrizione del verbale di pubblicazione del testamento, pur comprendente la relativa acquiescenza, potrebbe non essere sorretta da circostanze differenti, rispetto all’acquisto mortis causa, precludendo ulteriori adempimenti pubblicitarî. La dichiarazione di acquiescenza, contenuta in tale atto, anche se trascritto, rivelerebbe, nella sostanza, la propria natura di mera formula di stile, insuscettibile di trascrizione autonoma, e incapace di ingenerare effetti di sòrta.

Alla medesima conclusione si potrebbe giungere, lo si riconosceva poc’anzi, nell’ipotesi in cui l’acquiescenza al testamento si accompagni all’accettazione espressa di eredità. Ebbene, anche in tale eventualità, e in assenza di intenzioni ulteriori, diverse dall’acquisto ereditario, la dichiarazione di acquiescenza non rivestirebbe alcun significato proprio, risolvendosi, ancóra una volta, in una semplice cifra stilistica, incapace di determinare autonome conseguenze. Eppure, deve essere rilevato come, nella maggioranza dei casi, l’atto di acquiescenza si appoggi proprio alla pubblicazione del testamento, o all’accettazione di eredità, giovandosi della loro portata, al fine di produrre i peculiari effetti, auspicati da chi ne suggerisce l’impiego, e a questi intrinsecamente correlati, ché, altrimenti, codesta fattispecie non avrebbe ragione di esistere, nemmeno apparente.

Ebbene, il legame dell’acquiescenza, con gli istituti giuridici richiamati in sede di sua trascrizione, in alcuni casi si rivela assai incerto. Secondo una prassi, in vero non molto diffusa, l’acquiescenza al testamento sarebbe, infatti, in grado di determinare, autonomamente, l’accettazione tacita (o financo espressa) dell’eredità alla quale inerisce[6]. Ciò avverrebbe, là dove l’acquiescenza stessa provenga da un soggetto chiamato per legge, o per testamento, che manifesti l’intenzione di rispettare le ultime volontà del testatore, così accogliendo, secondo questa peculiare opinione, la delazione ereditaria.

Si badi, la compresenza di delazione ereditaria e atto di acquiescenza al testamento, non sembrano, di per sé, sufficienti a determinare l’acquisto ereditario, permettendo la trascrizione del relativo atto, a guisa di accettazione di eredità. In taluni casi, l’acquiescenza si sostanzia in una semplice previsione stilistica, non sorretta da alcun intento ulteriore, rispetto a quello relativo alla pubblicazione del testamento al quale si accompagna. In altri casi, invece, non è affatto chiaro l’intento dell’acquiescente. A ogni modo, volendo scorgere uno di quegli atti, che presuppongono la volontà di accettare, e che l’agente «non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede», integranti accettazione tacita, ai sensi dell’art. 476 cod. civ.[7], sarebbe necessaria una profonda, e, per certi versi, piuttosto ardita, opera di interpretazione, giacché la manifestazione della volontà di rispettare un dato testamento non sembra determinare, giocoforza, l’acquisto ereditario. Pare, infatti, tutt’altro che agevole rilevare tale circostanza nella semplice acquiescenza al testamento, vale a dire un atto, spesso, dal significato neutro, che non viene spontaneamente impiegato dal comune consociato, e che, nonostante le sue antiche radici, non sembra trovare spazio nella coscienza collettiva. Si tratta, piuttosto, di uno strumento imbastito, e suggerito, da chi dovrebbe essere provvisto di particolari competenze giuridiche; soggetti che, proprio per tale motivo, dovrebbero preferire strumenti tipici, capaci di esprimere, senza incertezze, le intenzioni dell’interessato, e di reggere le conseguenze che ne derivano.

L’acquiescenza al testamento può, pertanto, risultare utile, al fine di manifestare, in maniera formale, il rispetto delle altrui volontà, senza che ciò determini - rectius: senza che ciò sia in grado di determinare - alcuna accettazione di eredità, nemmeno in forza del rammentato art. 476 cod. civ. Altro è la dichiarazione di acquiescenza, e altro è la volontà di accettare l’eredità. L’atto di acquiescenza, infatti, può essere impiegato anche da colui il quale non risulti chiamato all’eredità[8], ma che intenda esprimere, in maniera solenne, la propria adesione a un dato testamento, dismettendo ogni eventuale pretesa nei suoi confronti. È lo stesso tenore letterale dell’art. 476 cod. civ. a dimostrare l’incompatibilità dell’acquiescenza al testamento, con l’istituto giuridico dell’accettazione tacita dell’eredità, giacché, altrimenti, dovrebbe concludersi per una legittimazione attiva spettante soltanto ai destinatarî della delazione ereditaria. Al contrario, la prassi (in questo frangente, senza dubbio condivisibile) ammette l’acquiescenza anche da parte di altri soggetti, escludendo la riconducibilità dello strumento in esame all’ampio insieme di atti tratteggiato dall’art. 476 cod. civ., e determinanti accettazione tacita di eredità.

Per altro verso, l’acquiescenza al testamento, pur non determinando, recta via, accettazione di eredità, può affiancarsi a quest’ultima, e, in tal caso, occorrerà indagare l’effettiva portata di una simile dichiarazione. Ebbene, in questa eventualità, all’acquiescenza al testamento occorrerebbe riservare un significato ulteriore, rispetto all’acquisto ereditario, dalla portata quanto mai incerta. Nel caso in cui, nell’acquiescenza al testamento, si dovesse scorgere un’accettazione di eredità, tale atto dovrebbe, presumibilmente, serbare una volontà ulteriore, giacché, altrimenti, non si dimostrerebbe portatore di alcun significato autonomo. Qualora, infatti, l’acquisto ereditario fosse l’unico effetto ingenerato da tale atto, ci si troverebbe, più propriamente, al cospetto di una vera e propria accettazione espressa di eredità, compiuta per il semplice tramite di espressioni inconsuete - acquiescenza alle disposizioni testamentarie -, differenti da quelle suggerite dal Codice civile - accettazione dell’eredità -, ma determinanti il medesimo risultato: l’acquisto della qualità di erede.

È per tali motivi, che, frequentemente, l’acquiescenza nasconde, nei fatti, finalità, e conseguenze, differenti, dalla sagoma, per certi versi, meno confusa. Tra queste, ben può rientrare la rinunzia all’azione di riduzione, la quale, talvolta, è oggetto di autonoma trascrizione. Nonostante l’assenza di disposizioni di legge capaci di giustificarne l’utilizzo, particolari esigenze, in parte condivisibili, hanno suggerito all’Amministrazione finanziaria il rispetto di tale prassi[9]. Un simile adempimento pubblicitario è, comunque, lasciato all’apprezzamento del singolo, e pare, su tutto, sorretto dall’intento di agevolare la circolazione dei beni immobili pervenuti per donazione, o per testamento, nel tentativo di garantirne, almeno in parte, il valore di mercato.

Si badi, codesto peculiare caso di trascrizione, non confortato dalla lettera del Codice civile[10], ma, al contempo, da quest’ultimo nient’affatto vietato, determina un’ipotesi di semplice pubblicità-notizia, in mancanza della quale non possono punto discendere conseguenze sfavorevoli per i soggetti coinvolti. Sono mere ragioni di opportunità, e di maggiore stabilità dei rapporti giuridici, a suggerire la trascrizione dell’azione di riduzione, adempimento pubblicitario di cui, altrimenti, si dovrebbe dubitare. Al cospetto di una rinunzia all’azione di riduzione, non si verificherebbe, infatti, alcun acquisto a causa di morte, come richiesto dall’art. 2648 cod. civ., ovvero la disposizione serbante le principali norme, che governano la trascrizione, in presenza di una successione ereditaria[11].

Un interrogativo, quello relativo alla trascrizione dell’azione di riduzione, che presenta profili, al contempo, teorici e pratici. È stato, peraltro, sostenuto come il suo impiego debba reputarsi ammesso, soltanto accogliendo un particolare giudizio, circa la stessa natura giuridica della successione necessaria (artt. 536 ss. cod. civ.). In particolare, si dovrebbe concordare con la risalente opinione, ormai superata, secondo la quale, all’apertura della successione, il legittimario (pretermesso, e rinunziante all’azione di riduzione) dovrebbe reputarsi comunque destinatario di una delazione, nella quota a lui riconosciuta dalla legge[12]. Ed è proprio per questi motivi, di stretto diritto, che sono assai consistenti i dubbî che avvolgono la trascrizione della rinunzia all’azione di riduzione, fattispecie, comunque, non meramente episodica, nonostante, in molti casi, incapace di determinare quella certezza perseguita per il suo tramite. Codesta rinunzia, di fatti, ben potrebbe provenire soltanto da alcuni dei soggetti legittimati all’esercizio della relativa azione, come individuati dall’art. 557 cod. civ.[13]; a tale rinunzia, inoltre, potrebbero sopravvenire uno, o più, legittimarî, determinando, così, un negozio dall’efficacia, nei fatti, claudicante.

Non è inutile, da ultimo, rammentare le ombre che si stagliano attorno all’eventuale trascrizione della conferma di disposizioni testamentarie nulle, racchiusa nell’art. 590 cod. civ., vale a dire l’ultima delle concrete possibilità pubblicitarie offerte dall’atto di acquiescenza al testamento. Al pari della rinunzia all’azione di riduzione, manca una disposizione normativa a ciò dedicata, e, pur ammettendone la legittimità – conclusione, anche in questo caso, accolta dalla prassi –, rimane incerto il suo fondamento. Questo dipende, infatti, dalla natura giuridica da riservare alla vicenda confirmatoria descritta dall’art. 590 cod. civ.: autonoma attribuzione patrimoniale, dal carattere inter vivos, oppure atto determinante sanatoria[14]. Nel primo caso, la norma di riferimento sarebbe quella offerta nell’art. 2645 cod. civ., mentre, nell’altra ipotesi, occorrerebbe appoggiarsi ai principî custoditi dall’art. 2648 cod. civ.

È da un quadro normativo e consuetudinario così particolareggiato, che deve desumersi come la semplice acquiescenza al testamento, allontanata dalle finalità perseguite pel suo tramite, non possa essere reputata degna di trascrizione, sibbene ciò non ne suggerisca l’inesistenza, e nemmeno la sua inefficacia. Se l’acquiescenza non fosse rilevante per l’ordinamento, il suo utilizzo non sarebbe in grado di determinare alcuna conseguenza, nemmeno in termini di mera trascrizione. Per questi motivi, pur tenendo a mente le riserve, relative alla trascrizione di tali fattispecie (in particolare: la trascrizione della rinunzia all’azione di riduzione, e della conferma di disposizioni testamentarie nulle), pare chiaro come l’atto di acquiescenza al testamento possa essere trascritto, su tutto, in virtù degli effetti che da esso vengono ingenerati, capaci di giustificarne l’impiego, e in questo strumento rinvenienti il veicolo pratico, in grado di reggerne la trascrizione.

 

[1] A tal riguardo, si veda la chiara sintesi offerta da R. Triola, Art. 2643 – Atti soggetti a trascrizione, in Comm. cod. civ., dir. da E. Gabrielli, Della tutela dei diritti. Artt. 2643 – 2783 ter, a cura di G. Bonilini e A. Chizzini, Torino, 2016, p. 5 ss. Cfr., altresì: G. Petrelli, L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare. Trascrizioni, annotazioni, cancellazioni: dalla “tassatività” alla “tipicità”, Napoli, 2009; A. Bizzarro, Sul superamento del principio di tassatività della trascrizione, in Rass. dir. civ., 2010, p. 918 ss.

[2] Tale possibilità è stata confermata, tra gli altri, da un provvedimento dell’Agenzia delle Entrate: la Circolare n. 128, del 2 maggio 1995, che ha precisato le modalità pratiche, e i relativi codici, con i quali è concesso trascrivere l’acquiescenza al testamento, nelle forme che saranno presto esaminate. Un contributo di tal genere, non fornisce affatto basi giuridiche sicure, ma si rivela utile nel riconoscimento pratico di taluni strumenti impiegati, assai frequentemente, nella prassi negoziale.

[3] Cfr., di nuovo, la Circolare n. 128/1995 dell’Agenzia delle Entrate, e, in particolare, quanto precisato al § 5.7.

[4] Per una critica a tale impostazione, v., nuovamente, i riferimenti bibliografici svolti, supra, nota 59.

[5] Come è noto, il capoverso dell’art. 484 cod. civ. impone, in presenza di accettazione di eredità con beneficio di inventario, la sua trascrizione «presso l’ufficio dei registri immobiliari del luogo in cui si è aperta la successione». Nell’ipotesi in cui l’accettazione in esame comporti, altresì, l’acquisto di alcuni dei diritti enunciati dall’art. 2643 cod. civ., e, precisamente, secondo quanto racchiuso nei relativi nn. 1, 2 e 4, occorrerà procedere a una seconda trascrizione, ai sensi dell’art. 2648 cod. civ., presso l’ufficio dei registri immobiliari del luogo in cui si trovano gli immobili.

[6] La già rammentata Circolare n. 128/1995 annovera, tra i codici che possono essere impiegati al fine della trascrizione dell’acquiescenza, quello relativo all’accettazione tacita (cod. 303), e quello per l’accettazione espressa di eredità (cod. 302).

[7] In tal senso si è, peraltro, pronunciato l’Ufficio studi del Consiglio Nazionale del Notariato, in data 14 maggio 2009, in risposta al Quesito n. 214-2009/C, pel tramite un documento, di certo non in grado di orientare l’opinione dottrinale, ma che si dovrebbe presentare quale utile riferimento pratico, nelle esitazioni della professione. Nel contributo in esame, la categoria notarile ha affermato l’opportunità (se non, addirittura, la necessità) di procedere con la trascrizione dell’accettazione tacita di eredità (art. 476 cod. civ.), in virtù dell’atto di acquiescenza, là dove esso provenga da un legittimario leso nelle sue ragioni. Ne rimarrebbe esclusa l’acquiescenza al testamento derivante da un legittimario pretermesso, in quanto soggetto non destinatario della delazione ereditaria. Ebbene, nella risposta al quesito in esame, l’atto di acquiescenza viene, per l’appunto, dipinto quale fattispecie «che presuppone necessariamente la volontà di accettare da parte del legittimario leso», con la precisazione che, in tal caso, «il chiamato ha il diritto di compiere un simile atto proprio in virtù della delazione in suo favore alla successione di cui si tratta». Epperò, lo si ripete, tali conclusioni non paiono persuasive, quanto meno per due ordini di motivi. In primo luogo, non è sempre possibile scorgere, nell’acquiescenza al testamento, quel quid ulteriore, consistente nella volontà di accettare l’eredità. Tale ultima circostanza è richiesta dall’art. 476 cod. civ., eppure, in questo caso, si deve fare riferimento a un (meno specifico) intento: il rispetto delle ultime volontà del testatore, che non pare in grado di escludere una eventuale rinunzia all’eredità, da parte dell’acquiescente.

In secondo luogo, così facendo, si determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento, tra la posizione del legittimario pretermesso, e quella del legittimario che risulti semplicemente leso nelle sue ragioni, in virtù, non tanto di effettive differenze, in relazione all’attività giuridica svolta, bensì, semplicemente, in ragione della presenza della delazione ereditaria, circostanza che, nel caso del legittimario pretermesso, è soltanto potenziale. Si badi, con ciò deve essere, comunque, tenuta ferma l’opinione, tuttora maggioritaria, e assai condivisibile, che scorge la delazione ereditaria, nei confronti del legittimario pretermesso, soltanto a séguito del vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, posizione per la quale si rinvia a: F. Santoro-Passarelli, Dei legittimari, in Comm. cod. civ., dir. da M. D’Amelio e E. Finzi, Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, Firenze, 1941, p. 272; L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte, vol. I, Parte generale, t. II, Le specie. I soggetti, Napoli, s. d., ma 1977 (rist. Napoli, 2011), p. 176 ss.; L. Mengoni, op. cit., p. 43 ss. (cfr., inoltre, più sinteticamente, G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2015, IV ed. a cura di A. Ferrucci e C. Ferrentino, t. I, p. 398 ss.; per un’opinione contraria, v., invece, A. Cicu, Le successioni. Parte generale. Successione legittima e dei legittimari. Testamento, Milano, 1947, p. 218 ss.).

Pertanto, la semplice, ed effettiva, presenza della vocazione ereditaria non pare in grado di incidere, in maniera così profonda, nelle differenti posizioni, che può assumere il legittimario pretermesso, o semplicemente leso, giacché, in entrambi i casi, le intenzioni del legittimario potrebbero risultare coincidenti, a prescindere dall’attualità della delazione ereditaria.

[8] Ci si figuri, ancóra una volta, l’acquiescenza proveniente da un legittimario pretermesso.

[9] Tenendo ancóra a mente il circoscritto significato giuridico rivestito dal provvedimento in esame, cfr., di nuovo, la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 128/1995, e, in particolare, il § 5.7.

[10] Altro è, invece, la trascrizione della domanda di riduzione di donazioni, e disposizioni testamentarie, concessa dall’art. 2652, n. 8, cod. civ.

[11] All’art. 2648 cod. civ., che, a sua volta, si appoggia all’art. 2643 cod. civ., si affiancano, altresì, gli artt. 2660 ss. cod. civ., serbanti le modalità concrete per l’esecuzione di codeste ipotesi di trascrizione.

[12] Per un’efficace sintesi delle principali opinioni, circa la posizione giuridica del legittimario, v., per tutti, G. Capozzi, op. cit., t. I, p. 393 ss.

[13] Si consideri che, secondo l’opinione prevalente in dottrina, l’azione di riduzione può essere esercitata anche da parte dei creditori del legittimario, in virtù dell’istituto della legittimazione surrogatoria (art. 2900 cod. civ.). V., in tal senso: F. Santoro-Passarelli, Dei legittimari, cit., p. 305; L. Ferri, Dei legittimari. Art. 536-564, cit., p. 200; G. Tamburrino, voce Successione necessaria (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XLIII, Milano, s. d., ma 1990, p. 1369; G. Cattaneo, La vocazione necessaria e la vocazione legittima, in Tratt. dir. priv., dir. da P. Rescigno, vol. 5, Successioni, t. I, Torino, 1997, II ed., p. 461; V. Carbone, Riduzione delle donazioni e delle disposizioni testamentarie lesive della legittima, in Dig. disc. priv. – Sez. civ., vol. XVII, Torino, 1998, p. 619; F. Festi, Art. 557 – Soggetti che possono chiedere la riduzione, in Comm. cod. civ., dir. da E. Gabrielli, Delle Successioni. Artt. 456-564, a cura di V. Cuffaro e F. Delfini, Torino, 2009, p. 654; A. Tullio, L’azione di riduzione. L’imputazione ex se, in Tratt. dir. delle successioni e donazioni, dir. da G. Bonilini, vol. III, La successione legittima, Milano, 2009, p. 551.

Per la giurisprudenza, cfr., invece: Cass., 30 ottobre 1959, n 3208, in Foro it., 1960, I, c. 797 ss.; Trib. Parma, 27 aprile 1974, in Giur. it., 1975, I, 2, c. 350; Trib. Cagliari, 14 febbraio 2002, con nota di M. Perreca, Considerazioni minime sugli strumenti di tutela dei creditori del legittimario verso la rinunzia tacita alla legittima, in Riv. giur. sarda, 2003, p. 321 ss.; Trib. Lucca, 2 luglio 2007, n. 864, in Banca dati De Jure; Trib. Savona, 23 marzo 2019, in Banca dati De Jure.

Sia concesso, infine, il rinvio alla recente Cass., 20 giugno 2019, n. 16623, con nota di F. Mastroberardino, L’esercizio in surrogatoria dell’azione di riduzione. Legittimazione tacita o riconoscimento indiretto?, in Fam. e dir., 2020, p. 12 ss.

[14] Un’attenta analisi dedicata ai profili della trascrizione della conferma, o volontaria esecuzione, di disposizioni testamentarie nulle è offerta da F. Gazzoni, La trascrizione degli atti e delle sentenze, in Tratt. della trascrizione, dir. da E. Gabrielli e F. Gazzoni, vol. I, t. II, Torino, 2012, p. 339 ss.


6. Ulteriori tratti di disciplina.

Ricollegandosi alla pretesa, e incerta, natura giuridica dell’acquiescenza al testamento, la quale pare doversi includere nell’insieme degli atti giuridici in senso stretto, è d’uopo caratterizzarne ulteriormente i profili, giacché, da tale operazione, dipendono conseguenze nient’affatto trascurabili. Scostandosi, per il momento, dai problemi legati all’eventuale atipicità dell’atto giuridico in senso stretto, si nota come la forma dell’atto di acquiescenza risulti, sostanzialmente, libera, salvo quanto richiesto per la sua eventuale trascrizione[1]. L’acquiescenza è reputata titolo idoneo ai fini della trascrizione, ça va sans dire, là dove espressa in forma di atto pubblico, oppure di scrittura privata con sottoscrizione autenticata (art. 2657 cod. civ.). Soltanto in tali eventualità è possibile dare pubblicità ai risultati giuridici conseguiti per il suo tramite.

A ulteriore fondamento di codesta libertà formale, eccezion fatta per le rammentate esigenze pubblicitarie, si può notare come, in parallelo, l’acquiescenza al testamento sia in grado di determinare taluni effetti, tipici di atti per i quali non sono richiesti particolari requisiti di forma. Secondo il Codice civile vigente, infatti, l’accettazione di eredità (in questo caso, tacita), la rinunzia all’azione di riduzione, e la conferma di disposizioni testamentarie nulle possono essere manifestate anche per il tramite di modalità alternative a quella espressa, tanto da potersi adeguare a strutture differenti, quali, per l’appunto, l’acquiescenza al testamento.

Certo, è difficile individuare la disciplina di legge applicabile a codesto peculiare strumento, specie ove si reputi corretta la sua sussunzione nell’insieme degli atti giuridici stricto sensu. Questa categoria, infatti, contraddistinta per una genesi meramente dottrinale, non è affatto definita dal Codice civile del 1942, con la conseguenza che non risulta agevole individuare le norme capaci di governarne l’esistenza. A tal riguardo, sono state proposte alcune considerazioni, provenienti dalla migliore dottrina, e che qui possono essere, soltanto brevemente, rammentate[2], pur nella consapevolezza della loro incapacità di giungere a soluzioni univoche, o, quanto meno, ampiamente condivise.

Da un lato, si potrebbe sostenere come le norme dettate per i contratti possano essere applicate, direttamente, anche agli atti giuridici in senso stretto, in virtù del rinvio operato dall’art. 1324 cod. civ. La cui norma, infatti, premesso il necessario giudizio di compatibilità che deve coinvolgere il caso concreto[3], esplicita l’estensione della normativa contrattuale anche agli «atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale», senza distinguere tra atti negoziali, e atti non negoziali. Avverso tale posizione, vi è chi ha sostenuto come l’art. 1324 cod. civ., in vero, possa essere applicato ai soli negozî unilaterali, escludendo gli atti giuridici non negoziali[4], come sembrerebbe, financo, confermato dai Lavori preparatorî al Codice civile[5]. Da altro lato, e in presenza di eadem ratio, è stato affermato il necessario ausilio del procedimento analogico[6], utile al fine di colmare il vuoto legislativo, caratterizzante la disciplina dell’atto giuridico in senso stretto. Ancóra, secondo un’altra illustre opinione, sarebbe opportuno appoggiarsi alle regole dettate per l’atto illecito, da intendersi, in primis, quale atto giuridico in senso stretto, pur tenendo ferme le differenti conseguenze dipendenti dalla conclusione di un atto, in questo caso, lecito[7].

Simili considerazioni, fondate su presupposti assai differenti, mirano, da ultimo, al medesimo risultato: inquadrare la disciplina di legge, nei fatti, applicabile agli atti giuridici unilaterali, e, in particolare, agli atti giuridici in senso stretto. Pare, dunque, d’uopo accogliere un criterio fondato sulla valutazione della fattispecie, caso per caso, e che, in assenza di specifiche previsioni, si dimostri capace di indicare la disciplina maggiormente in grado di adeguarsi a ipotesi indefinite, proprio come avviene in presenza di un atto dai tratti, quanto meno, insoliti, quale è l’acquiescenza al testamento. In concreto, potrebbe risultare applicabile, per numerosi aspetti, proprio la normativa dettata per i contratti (e, più in generale, per i negozî giuridici), ma non senza una preventiva analisi della fattispecie.

Appoggiandosi ad ulteriori e necessarie classificazioni, per così dire, di sistema, è d’uopo domandarsi se, in questa ipotesi, ci si trovi al cospetto di un atto dalla natura inter vivos – tra i presupposti, peraltro, per l’applicazione dell’art. 1324 cod. civ. -, oppure mortis causa. Si badi, non si può, specie in questa circostanza, fare affidamento su di una definizione fondata unicamente sulla contrapposizione delle categorie giuridiche in esame - atti inter vivos, e atti mortis causa - siccome una descrizione meramente comparativa non sembra capace di offrire l’ausilio necessario in simili frangenti. Per di più, occorre rilevare come la valutazione di tali insiemi non corra sui medesimi binarî, non potendo rimanere ancorata a un vicendevole confronto[8], che si dimostrerebbe incapace di cogliere tutte le sfumature, che ne riempiono i contorni.

A ogni modo, dinnanzi a un simile interrogativo, la sfuggevole, indocile, essenza, per la quale si caratterizza l’acquiescenza al testamento, si manifesta, ancóra una volta, al lume dell’eterogeneo contenuto del quale può fregiarsi. Da una prima indagine, è facile rilevare come l’acquiescenza trovi sicura origine in una determinata successione ereditaria. Approfondendone il significato, tuttavia, ciò non è sufficiente a farla rientrare tra gli atti mortis causa. In questo caso, l’evento morte non si eleva a causa giustificatrice dell’acquiescenza stessa, e nemmeno a suo elemento funzionale, mostrandosi nelle vesti di semplice condizione di fatto, necessaria per il suo impiego. In altri termini, non vi è una sistemazione di rapporti giuridici, relativi a una determinata persona, per il tempo successivo alla sua scomparsa, bensì, semplicemente, l’accoglimento delle altrui, ultime, volontà, da parte dei successibili, siano essi chiamati in forza di legge, o per testamento. A essere disciplinati sono, per lo più, i profili giuridici di codesti soggetti, interessati alla successione ereditaria, e che si conformano alle volontà del testatore, rafforzandone la stabilità. Tutto ciò pare chiaro, in particolar modo, nel momento in cui è possibile scorgere, in tale atto, un’accettazione tacita di eredità, oppure una rinunzia all’azione di riduzione. Per questi motivi, la scomparsa della persona degrada a mero presupposto, determinante un atto dal carattere sì inter vivos, epperò connesso alla (altrui) morte[9].

Da altra prospettiva, si potrebbe affermare come nemmeno questa conclusione possa valere in termini assoluti. Si consideri, infatti, l’eventualità di un’acquiescenza determinante la conferma, ai sensi dell’art. 590 cod. civ., di un testamento nullo. Ebbene, pur nelle difficoltà che, di per sé, si incontrano nella caratterizzazione della vicenda confirmatoria di disposizioni testamentarie nulle[10], non si può trascurare l’accessorietà che, al cospetto del testamento al quale essa si appoggia, potrebbe riempirne i lineamenti. Da una simile accessorietà, capace di attribuire maggiore stabilità e certezza alla successione ereditaria di riferimento, potrebbero derivare sfumature mortis causa anche per l’atto di acquiescenza, se considerato quale semplice completamento del negozio di ultima volontà, e sua successiva integrazione.

Un simile tratto, tuttavia, potrebbe tingere in maniera chiara la fattispecie, soltanto là dove questa non sia in grado di produrre ulteriori effetti, come poc’anzi rammentati, in quanto, a modo di esempio, posta in essere da colui il quale non sia legittimato all’esercizio dell’azione di riduzione, secondo il disposto dell’art. 564 cod. civ. Cionondimeno, anche al cospetto di simili considerazioni, sembrerebbe preponderante l’essenza inter vivos dell’atto in oggetto, comunque privo di quella caratteristica funzionale, tesa alla sistemazione di assetti ereditarî, che è tipica degli atti mortis causa, rimanendo, al contempo, legata all’evento morte: la scomparsa, in questo caso, di un soggetto diverso dall’agente.

Approfondendone ulteriormente le pieghe, si deve rilevare come l’acquiescenza fatichi ad adeguarsi al caso in cui, successivamente al suo impiego, vengano scoperte ulteriori disposizioni testamentarie. A tal proposito, è ragionevole affermare come tale strumento possa dispiegare i proprî effetti, soltanto per il testamento al quale esso faccia riferimento. Quegli elementi - volontà e coscienza - capaci di contraddistinguere l’atto di acquiescenza al testamento, perderebbero ogni significato, qualora si accettasse l’estensione della sua portata anche a disposizioni testamentarie non ancóra conosciute dall’agente. Così concludendo, inoltre, l’acquiescenza dovrebbe essere relegata nell’insieme dei fatti giuridici, secondo la definizione che, in dottrina, ne è, comunemente, proposta[11], rifiutando, quindi, la natura di atto giuridico, come sinora indagata. Epperò, sembra difficile giustificare, sul piano logico, prima ancóra che giuridico, l’estensione degli effetti di un atto di acquiescenza a un testamento scoperto in un momento successivo, che non poteva essere affatto conosciuto dallo stesso acquiescente.

Volgendosi, di nuovo, all’ausilio pratico offerto dall’acquiescenza al testamento, si deve concludere come, a tale atto, si possano ricondurre chiari connotati fiscali. Codesta fattispecie, infatti, si presenta agli interpreti, non soltanto per il rilievo civilistico che la contraddistingue, ma anche per i profili di Diritto tributario che ne discendono, niente affatto secondarî[12]. A differenza di quanto, sinora, indagato, nella materia tributaria paiono esservi minori dubbî, circa la qualificazione dell’acquiescenza, e l’individuazione della disciplina a essa applicabile. Tralasciando, ora, la sua eventuale trascrizione[13], pare, infatti, corretto considerare l’acquiescenza al testamento alla stregua di quegli atti «non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale», con la conseguenza che, nel caso in cui sia impiegata la forma dell’atto pubblico, o della scrittura privata con sottoscrizione autenticata, questa sarà soggetta all’imposta di registro in misura fissa, ai sensi dell’art. 11 della Tariffa I, Parte I, allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 («Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro»).

Certo, dall’acquiescenza al testamento derivano tratti capaci di lambire gli interessi patrimoniali dell’agente, il quale acquista la qualità di erede, oppure si preclude la facoltà di impugnarlo, servendosi delle possibilità offerte dagli artt. 553 ss. e 590 cod. civ. Epperò, il significato dell’atto di acquiescenza rimane intrinsecamente legato alla sistemazione, e al consolidamento, di un’altrui successione ereditaria, non essendovi alcun trasferimento di diritto, pagamento di somme, o assunzione di obbligazioni per atto inter vivos. O, meglio, taluni di questi effetti possono prodursi (si pensi ai diritti acquistati in virtù di quell’accettazione tacita di eredità, che, secondo una discutibile interpretazione, può dipendere dall’atto di acquiescenza), ma essi derivano, giocoforza, dalla successione ereditaria alla quale ineriscono, non già, direttamente, dall’acquiescenza.

Nulla esclude, ovviamente, una differente volontà, siccome, in presenza di un corrispettivo, anche soltanto promesso, oppure contestualmente versato, si dovrebbe configurare una diversa imposizione tributaria, in termini di proporzionalità, rispetto al corrispettivo concordato. In questo peculiare caso, tuttavia, si dovrebbe riconsiderare la natura giuridica da attribuire all’acquiescenza al testamento, siccome quell’accordo, alla base del corrispettivo, e termine di definizione dell’imposizione tributaria, ne precluderebbe la sussunzione tra gli atti giuridici unilaterali, come sinora indagata[14], alla luce della sua maggiore affinità con gli istituti della transazione, della rinunzia onerosa all’azione di riduzione, o degli accordi di reintegrazione di legittima (art. 43, D. Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, «Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni»)[15].

 

[1] Cfr., supra, § 5.

[2] Per una sintetica, ma assai chiara, analisi delle posizioni della dottrina classica, relative alla disciplina dell’atto giuridico in senso stretto, v., ancóra una volta, F. Santoro-Passarelli, voce Atto giuridico, cit., p. 211 ss.

[3] È evidente come talune disposizioni dettate per i contratti, e implicanti, giocoforza, una pluralità di parti (si pensi, a modo di esempio, alla disciplina delle trattative precontrattuali, delle condizioni generali di contratto, nonché alle ipotesi di recesso e risoluzione del contratto), non possano essere affatto impiegate per la definizione degli atti giuridici unilaterali, ivi inclusi gli atti giuridici stricto sensu, quale potrebbe essere considerata l’acquiescenza al testamento.

[4] Si tenga presente come il generico riferimento, operato dall’art. 1324 cod. civ., non distingua tra atti negoziali e atti non negoziali, giacché il Codice civile del 1942 non ha, apertamente, accolto la categoria del negozio giuridico. Per un approfondimento in tema, v., fra tutti, F. Galgano, voce Negozio giuridico (dottrine gen.), in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, s. d., ma 1977, p. 932 ss.

[5] V., in tal senso, F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 87, e, ivi, la casistica riportata, con i relativi riferimenti giurisprudenziali. Si rammenti, altresì, come gli artt. 1321 ss. cod. civ., tra i quali può essere, agevolmente, annoverato proprio l’art. 1324 cod. civ., regolino il contratto, vale a dire una delle principali fattispecie negoziali, che possono essere rinvenute nell’ordinamento giuridico vigente. Circostanza, quest’ultima, che potrebbe determinare la valida esclusione degli atti giuridici in senso stretto dal rinvio operato dall’art. 1324 cod. civ. L’opinione in esame, in vero, è ben più risalente, ed è stata oggetto, a sua volta, di aspre critiche. A tal proposito, si rammenti la posizione assunta da G. Mirabelli, L’atto non negoziale nel diritto privato italiano, Napoli, 1955, passim, e, in particolare, p. 35 ss., il quale ha preso spunto da alcuni indizî offerti dal Codice civile. Tra questi: l’art. 1703 cod. civ., che, nel suo riferimento agli “atti giuridici”, non può essere limitato ai soli atti negoziali (si pensi, a modo di esempio, al così detto mandato post mortem exequendum, il quale, secondo l’opinione prevalente, può essere reputato valido, soltanto se avente a oggetto il compimento di meri atti materiali), nonché l’art. 1334 cod. civ., applicabile anche alle semplici dichiarazioni di scienza.

[6] R. Sacco, voce Negozio giuridico, cit., p. 459.

[7] Così, F. Santoro-Passarelli, voce Atto giuridico, cit., p. 211 ss.

[8] Continua a brillare, per chiarezza, l’insegnamento di G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, cit., p. 41, secondo il quale «atto mortis causa è quello che ha per funzione sua propria di regolare rapporti e situazioni che vengono a formarsi in via originaria con la morte del soggetto o che dalla sua morte traggono comunque una loro autonoma qualificazione», e, ibidem, p. 52: «atto mortis causa è infatti l’atto che ha a proprio contenuto la disciplina di una situazione post mortem; e qui l’elemento a cui si guarda è quello oggettivo-funzionale. Il termine inter vivos, invece, vuol chiaramente esprimere l’idea di una relazione intersoggettiva, di una situazione giuridica che in senso lato collega, o interessa correlativamente, più persone (viventi)».

Cfr., altresì: R. De Ruggiero, Istituzioni di diritto civile, vol. I, Introduzione e parte generale. Diritto delle persone, Messina, s. d., ma VI ed., p. 233; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 310; A. Trabucchi, op. cit., p. 121.

[9] V., per una definizione, e un approfondimento, dei cosiddetti “negozî connessi alla morte”, G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 29 ss.

[10] Si veda, di nuovo, R. Caprioli, op. cit., p. 7 ss. Cfr., altresì, G. F. Basini, Conferma ed esecuzione volontaria in caso di disposizioni testamentarie nulle (art. 590 c.c.), in Cod. comm. succ. e don., a cura di G. Bonilini e M. Confortini, Torino, 2011, II ed., p. 559 ss., capace di delineare una felice sintesi – alla quale si fa ampio rinvio, per un migliore approfondimento del tema in oggetto - delle opinioni dottrinali, circa la natura giuridica da attribuire alla conferma di disposizioni testamentarie nulle. In particolare, sono degne di nota: la contrapposizione tra la qualifica di negozio giuridico, e quella di atto giuridico in senso stretto; l’individuazione di una ipotesi di sanatoria dell’atto di ultima volontà; la considerazione della conferma, ex art. 590 cod. civ., quale negozio giuridico autonomo, determinante una attribuzione distinta da quella operata in forza del testamento; l’individuazione di una causa di preclusione dell’azione di nullità; il semplice adempimento di un’obbligazione naturale.

[11] V., supra, nota 23, e, ivi, i riferimenti bibliografici. Fra gli Autori richiamati, si rammenti, quanto meno, R. Sacco, voce Fatto giuridico, cit., p. 610 ss.

[12] Si considerino, ora, i risvolti tributarî dipendenti dall’acquiescenza al testamento, da tenere ben distinti dalla figura dell’acquiescenza conosciuta, autonomamente, nel Diritto tributario, e già rammentata alla nota 9.

[13] Come è noto, gli adempimenti pubblicitarî dipendenti dalla trascrizione di un determinato atto rilevano ai fini dell’imposta di bollo, per la quale è prevista una maggiorazione, come precisato nella Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642 («Disciplina dell’imposta di bollo»), nonché con riferimento all’imposta, e alla tassa, ipotecaria. Queste, infatti, risultano dovute soltanto nel caso in cui si proceda alla trascrizione dell’atto, ai sensi del D. Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347 («Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale»).

[14] A tal proposito, cfr. M. V. Cernigliaro Dini, Acquiescenza a disposizioni testamentarie lesive dei diritti dei legittimari: imposta di successione o imposta di registro?, nota a Comm. trib. centrale, sez. XXVII, 15 gennaio 1990, n. 191, in Boll. trib., 1990, p. 1767 ss. Si badi, le considerazioni ivi proposte, circa la natura giuridica dell’acquiescenza, si intrecciano, inscindibilmente, ai profili tributarî della medesima, che, tuttavia, percorrono sentieri differenti rispetto a quelli previsti per la materia civilistica, e, pertanto, non pienamente condivisibili, ai fini della presente indagine.

[15] Codesto strumento negoziale, desumibile dalla norma tributaria racchiusa nel citato art. 43, D. Lgs. n. 346/1990, ben potrebbe mostrare, a un primo esame, elementi di contatto con l’atto di acquiescenza, dal quale, in vero, si distingue notevolmente, per le ragioni sinora approfondite. In ogni caso, per un approfondimento dell’istituto degli accordi di reintegrazione della legittima, v.: F. Salvatore, Accordi di reintegrazione di legittima: accertamento e transazione, in Riv. not., 1996, 211 ss.; A. Genovese, L’accordo di reintegrazione della legittima, in Tratt. dir. delle successioni e donazioni, dir. da G. Bonilini, vol. III, La successione legittima, Milano, 2009, p. 615 ss.


7. Considerazioni conclusive.

La caliginosa coltre, che avvolge l’acquiescenza al testamento, suggerisce alcune conclusioni, forse non risolutive, ma necessarie, al cospetto della notevole incertezza giurisprudenziale in materia, giunta a esiti tutt’altro che soddisfacenti, nell’approfondimento di questo singolare strumento pratico[1]. Giova rimarcarlo: l’impiego dell’acquiescenza è suscitato da esigenze di certezza (e di utilità) care, su tutto, al professionista del diritto, che ne favorisce l’ausilio, le quali possono non coincidere con le reali intenzioni, e le necessità, del dichiarante. Non di rado, a essere trascurato è il particolare coinvolgimento emotivo che, in quel dato momento, può agitare l’acquiescente, il quale ben potrebbe versare in un particolare stato di turbamento, determinato dal recente lutto.

Ebbene, in siffatti casi, non sarebbe inverosimile scorgere i presupposti per l’annullabilità dell’atto, là dove lo si reputi viziato, alla base, dall’errore dell’acquiescente[2], esprimente una volontà che, nei fatti, non risponde a quanto da lui effettivamente serbato, ma influenzata dal mero desiderio di convenienza, riconducibile a chi ne favorisce l’utilizzo indiscriminato, talvolta a guisa di vuota formula stilistica. Uno strumento utile, in particolare, per agevolare la circolazione dei beni aventi provenienza successoria mortis causa, facilitata dalla dismissione del potere di impugnativa, nei confronti di un determinato testamento, ma che può facilmente valicare, e tradire, le intenzioni dell’acquiescente.

La eco determinata dall’eventuale errore si rannoda, ancóra una volta, all’incerta natura dell’acquiescenza al testamento. Come è noto, l’art. 1427 cod. civ. enuclea i vizî del consenso, capaci di determinare l’annullabilità del contratto, mentre manca una disciplina generale dedicata all’annullabilità degli atti unilaterali, eccezion fatta per alcune, isolate, disposizioni[3]. Nondimeno, occorre rammentare quanto disposto dall’art. 1324 cod. civ., e il generale rinvio da esso operato, in forza del quale viene manifestata l’estensione, agli «atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale», delle norme previste per i contratti, tra le quali rientrano quelle relative ai vizî della volontà, la cui disciplina è dettata dagli artt. 1428 ss. cod. civ. Tutto ciò, ovviamente, dovrà essere anticipato dal necessario controllo di compatibilità, delle singole norme, con la struttura, e l’eventuale disciplina, che contraddistingue l’atto unilaterale di riferimento.

Una estensione, quella prevista dall’art. 1324 cod. civ., che può ritenersi valida anche per l’acquiescenza al testamento, soltanto là dove se ne rifiuti la natura di fatto giuridico, siccome, altrimenti, la volontà dell’acquiescente non assumerebbe alcun rilievo. Si badi, l’art. 1324 cod. civ. non distingue affatto tra atti negoziali, e atti non negoziali, ovvero trascurando il profilo capace di insinuare i principali interrogativi, in tema di acquiescenza[4], ma ciò si pone in linea con la circostanza secondo la quale il Codice civile vigente non concede spazio a tale dicotomia, non accogliendo, peraltro, nemmeno la figura del negozio giuridico. Ebbene, escludendo, ancóra una volta, la riconduzione dell’atto di acquiescenza nell’insieme dei fatti giuridici, questa prima prerogativa, relativa al disposto dell’art. 1324 cod. civ., pare integrata.

Quanto, invece, alla sussistenza, anche al cospetto dell’acquiescenza al testamento, degli ulteriori profili richiesti dall’art. 1324 cod. civ., per l’estensione, agli atti unilaterali, della disciplina del contratto, pare piuttosto agevole rispondere[5]. Escludendo la natura di atto mortis causa, in ragione della sua preferibile essenza inter vivos[6], nell’acquiescenza al testamento è, altresì, possibile scorgere il significato patrimoniale, che dipende dal suo impiego: un atto in grado di influire, direttamente, sull’aspettativa, o, financo, sull’effettiva delazione ereditaria, nei confronti di un dato soggetto, con dirette ripercussioni sulla sua sfera economica, oltre che su quella morale.

Ebbene, lo si accennava poc’anzi, la riflessione sull’eventuale vizio, capace di affliggere codesta fattispecie, non può prescindere dalla considerazione relativa alla natura giuridica, che a essa si intende riconoscere. Pertanto, là dove si concludesse per l’ascrizione dell’acquiescenza al testamento nell’insieme degli atti giuridici in senso stretto, si dovrebbe escludere l’applicabilità della disciplina dell’errore, nell’accezione di vizio del consenso (o, meglio, della volontà). Potrebbe, tutt’al più, rilevare il semplice errore nella dichiarazione, il così detto errore ostativo; una dichiarazione, in vero, giammai voluta, perché, a non essere voluto, sarebbe l’intero insieme di effetti giuridici che ne possono discendere. Una vera e propria dissonanza, tra quanto manifestato, e quanto interiormente serbato, determinata, non tanto da una volontà claudicante nella sua formazione, quanto, piuttosto, dalla totale assenza di codesto intento. A non essere voluto sarebbe, pertanto, l’atto in sé, circostanza, forse, in grado di negarne la giuridicità, al punto da suggerire la, pressoché totale, ininfluenza, per l’ordinamento giuridico, della fattispecie, qualora non sorretta dalla volontà del dichiarante.

Differenti debbono essere le considerazioni, qualora si concludesse per la natura di negozio giuridico unilaterale[7]. Ebbene, in tal caso, premessa la chiara estensibilità della disciplina dei vizî del consenso, per le medesime ragioni poc’anzi esposte, e, in particolare, la configurabilità dell’errore (non più ostativo, ma vero e proprio vizio nella formazione della volontà), occorre verificare l’applicabilità all’acquiescenza, quale negozio giuridico unilaterale, delle singole disposizioni dedicate a codesti temi. Sono numerose, infatti, le norme dedicate ai contratti, che mirano a tutelare l’interesse della controparte, fine che non può essere perseguito, in caso di strutture giuridiche unipersonali, incapaci di incidere nella sfera giuridica altrui, se non in maniera indiretta, e limitata a elementi di fatto, proprio come pare verificarsi in presenza di un’acquiescenza a testamento.

I soggetti interessati, mediatamente, da un simile negozio, rimangono terzi, rispetto a esso, nonostante l’affidamento, di cui si possono scorgere i tratti, anche a fronte della dichiarazione di acquiescenza. La riconoscibilità richiesta per l’errore, nella materia contrattuale (art. 1431 cod. civ.), non può, pertanto, rivestire un particolare significato, in presenza di un simile atto[8], considerata la limitata rilevanza, che esso determina in relazione all’altrui affidamento. Con riferimento, invece, all’essenzialità descritta dall’art. 1429 cod. civ., questa ben può essere scorta nella natura del negozio, o, meglio, per evitare sovrapposizioni concettuali, nella reale essenza dello stesso, capace di manifestarsi per gli effetti che è in grado di produrre, e come sinora indagati. Una essenza, spesso, sibillina, capace di prestarsi a molteplici finalità, e di essere ricondotta a fattispecie dai tratti, e risvolti, assai eterogenei.

L’errore, in questo caso, parrebbe travolgere, per intero, l’atto di acquiescenza, non potendosene preservare alcuni effetti, piuttosto che altri. Rammentate le difficoltà interpretative, che si incontrano al cospetto dell’acquiescenza al testamento, sarebbe inutile, e, forse, financo pericoloso, provare a distinguere ciò che doveva intendersi realmente desiderato: gli effetti dipendenti da un simile atto risulterebbero, infatti, ugualmente verificatisi, in virtù di una volontà alterata, alla base, dall’errore. In questo caso, un errore vizio, sorretto da una volontà formatasi in maniera non genuina. Non sarebbe, infatti, inverosimile ritenere che, illustrando all’interessato tutte le possibili conseguenze derivanti da un atto di acquiescenza, tale strumento possa essere accantonato. Ciò non significa concludere nel senso della presenza, in questo caso, di un errore di diritto, ai sensi dell’art. 1429, n. 4, cod. civ., e non significa nemmeno disconoscere l’antico principio, secondo il quale «ignorantia legis non excusat». Codesta ignoranza si rivelerebbe inescusabile, soltanto in presenza di una chiara disciplina di legge, che qui manca del tutto. Al contrario, l’acquiescenza al testamento si contraddistingue proprio per le difficoltà interpretative, che da essa discendono, e per gli interrogativi che pone, con riferimento alle norme applicabili, in virtù delle estensioni interpretative comunemente operate.

Per tutte queste ragioni, unitamente alla caratteristica atipicità, che pare contraddistinguere l’atto di acquiescenza al testamento, sembra opportuno preferire, in suo luogo, l’ausilio degli istituti giuridici da esso soltanto evocati, ma ben conosciuti dall’ordinamento vigente. Non si intende, in tal modo, negare cittadinanza, nell’assetto privatistico vigente, alla possibile emersione social-giurisprudenziale[9] di nuovi tipi negoziali, in ossequio all’ampia autonomia di cui sono dotati i consociati. Eppure, al cospetto del comune impiego dell’acquiescenza al testamento, la sua estraneità a schemi giuridici già definiti non determina, necessariamente, la nascita di un nuovo tipo. Si potrebbe, piuttosto, concludere per un atto dal contenuto, all’apparenza, semplice, ma, se ben osservato, composito, e, spesso, dalla dubbia portata, in ragione dei molteplici effetti che ne possono scaturire. Effetti riconducibili a negozî tipici, richiamati dalla fattispecie in esame, la quale ben potrebbe essere considerata uno strumento veicolante altri atti, ma non mera sommatoria degli stessi. Al cospetto dell’acquiescenza, infatti, si potrebbe riscontrare il rilievo (quanto meno morale), che pare derivarne, tale da esplicitare la volontà di rispettare il testamento al quale inerisce, dismettendo ogni eventuale intenzione contraria. Altro sarebbe, invece, rilevare, concretamente, gli effetti tipici di quegli istituti giuridici, in genere evocati in questo àmbito.

Paiono d’uopo, quindi, alcune conclusioni, utili per il caso in cui ci si accosti a un atto di acquiescenza, anche nell’ipotesi di un suo impiego soltanto evocato. Considerati i dubbî interpretativi dipendenti dall’ausilio dell’acquiescenza al testamento, specie là dove si intenda, in un secondo momento, procedere con la sua trascrizione, sarà d’uopo appoggiarsi, più propriamente, agli strumenti dei quali essa, in realtà, intende servirsi. Pel tramite di istituti tipici, la volontà dell’agente viene, infatti, manifestata in maniera, di regola, inequivoca, e comunque, pur producendo effetti, nella sostanza, equivalenti, questi non necessitano del medesimo sforzo interpretativo, richiesto dinnanzi all’atto di acquiescenza al testamento.

Pertanto, in caso di lesione dei diritti riservati al legittimario, sarà preferibile impiegare la rinunzia all’azione di riduzione. Là dove, invece, in presenza di delazione testamentaria, si intenda rispettare, in toto, le ultime volontà del testatore, alla generica formula di adesione e acquiescenza alle disposizioni testamentarie, dovrà privilegiarsi un’espressa accettazione dell’eredità. Da ultimo, al cospetto di una scheda testamentaria invalida, pare opportuno servirsi dello strumento giuridico della conferma, o volontaria esecuzione, di disposizioni testamentarie nulle (art. 590 cod. civ.), in luogo della vaga, e generica, dichiarazione di acquiescenza, e dismissione del potere di impugnazione, nei confronti del testamento. In presenza di una simile espressione, si potrebbe, peraltro, dubitare della conseguente e reale portata, se priva di ulteriori riferimenti, considerando che, secondo l’opinione prevalente, l’istituto, definito dall’art. 590 cod. civ., esige il rispetto dei medesimi requisiti imposti, dall’art. 1444 cod. civ., riguardo alla convalida del contratto annullabile[10].

Nulla esclude, naturalmente, la volontà di perseguire tutti gli effetti giuridici poc’anzi rammentati: in tal caso, nonostante la migliore sintesi, di regola, offerta dalla formula di acquiescenza al testamento, la maggiore certezza, derivante dall’impiego di strutture negoziali tipiche, suggerisce l’ausilio di queste ultime, in concorso tra loro, e capaci di reggere, con minori incertezze, le eventuali e conseguenti trascrizioni.

 

[1] Cfr., supra, nota 3.

[2] Il concetto di errore è, ora, impiegato in termini, per certi versi, generici, ma che saranno presto approfonditi, e meglio precisati. A ogni modo, con riferimento alla letteratura dedicata all’errore, istituto giuridico definito dagli artt. 1428 ss. cod. civ., v., almeno: F. Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano, 1952, III ed., p. 80 ss.; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., p. 140 ss.; L. Ferri, Errore ostativo e interpretazione del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, p. 1505 ss.; V. Pietrobon, L’errore nella dottrina del negozio giuridico, Padova, 1963; P. Barcellona, voce Errore (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XV, Milano, s. d., ma 1966, p. 246 ss.; C. Rossello, voce Errore nel diritto civile, in Dig. disc. priv. Sez. civ., vol. VII, Torino, s. d., ma 1991, p. 510 ss.; R. Sacco, Volontà, intento, vizi del consenso, in Tratt. dir. priv., dir. da P. Rescigno, vol. 10, Obbligazioni e contratti, t. I, Torino, 1997, p. 143 ss.; C. M. Bianca, Diritto civile, vol. III, Il contratto, Milano, 2019, III ed., p. 601 ss.

[3] Tra queste, è possibile ricordare, in particolare, l’impugnazione dell’accettazione di eredità per violenza, o per dolo (art. 482 cod. civ.), e l’impugnazione dell’accettazione di eredità per errore (art. 483 cod. civ.). Proprio l’art. 483 cod. civ. esclude l’annullabilità dell’accettazione di eredità, in caso di errore, pel tramite, tuttavia, di una norma di stretta applicazione, sorretta dall’intento di evitare che un erede possa liberarsi, agevolmente, di una damnosa hereditas, dopo averla accettata. Secondo V. Pietrobon, op. cit., p. 472, è, comunque, possibile domandare l’annullamento di un’accettazione di eredità, là dove l’errore attenga alla natura del negozio, o all’oggetto dell’accettazione. Si pensi, a tal proposito, a Tizio, il quale risulti chiamato, contemporaneamente, all’eredità di Caio, e di Sempronio, e che accetti l’eredità del primo, mentre intendeva riferirsi a quella del secondo.

[4] A tal proposito, si rinvia, supra, ai §§ 3 e 4.

[5] Una estensione, ovviamente, non indiscriminata, ma che deve essere subordinata, nuovamente, a un attento scrutinio, teso, in primo luogo, ad accertare l’assenza di differenti disposizioni di legge, e, poi, dalla concreta compatibilità della singola norma, con la struttura dell’atto unilaterale alla quale dovrebbe riferirsi.

[6] Cfr., supra, § 6.

[7] A tal proposito, rimangono, tuttora, preziose le riflessioni svolte da V. Pietrobon, op. cit., p. 458 ss., fondate, su tutto, sul concetto di «volizione consapevole», di cui deve potersi fregiare il negozio giuridico unilaterale, al fine dell’estensione della disciplina dedicata all’errore, in tema di contratto.

[8] V. Pietrobon, op. cit., p. 468.

[9] Così, R. Sacco, Autonomia contrattuale e tipi, cit., p. 796.

[10] Cfr., nuovamente, G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 379.