Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

L'acquiescenza al testamento (di Francesco Mastroberardino)


L’Autore indaga il significato dell’acquiescenza al testamento, strumento pratico dall’impiego non inusuale, del quale, tuttavia, sono incerte le fondamenta giuridiche. Un atto che, di regola, e per mere ragioni di utilità, viene suggerito da professionisti del diritto, senza tenere conto delle conseguenze che ne possono derivare. L’Autore si sofferma, inoltre, sui punti di contatto, che l’acquiescenza al testamento condivide con alcuni istituti giuridici, quali l’accettazione tacita di eredità, la rinunzia all’azione di riduzione, la conferma, o volontaria esecuzione, di disposizioni testamentarie nulle, e sulle relative differenze, non di rado, e incautamente, tenute in scarsa considerazione.

The acquiescence to the will

The Author examines the meaning of acquiescence to the will, a practical and recurring instrument, whose legal foundations are undefinied. This act is normally reccomended by legal experts in view of its useful applications without taking its consequences into account. Furthermore, the Author analyses the points of convergence, and its differences, frequently ignored, between acquiescence to the will and legal institutes such as the implicit acceptance of inheritance, waiver to the Italian “azione di riduzione”, as well as the confirmation, or voluntary execution, of void testamentary dispositions.

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Francesco Mastroberardino - L’acquiescenza al testamento

SOMMARIO:

1. L’acquiescenza al testamento: fattispecie dai tratti sbiaditi. - 2. La funzione pratica dell’acquiescenza al testamento. - 3. Alcune considerazioni circa la natura giuridica. - 4. Critica alla qualificazione dell’acquiescenza quale mero fatto giuridico. Il rilievo rivestito dall’elemento volontaristico. - 5. Profili relativi alla trascrizione dell’atto di acquiescenza. - 6. Ulteriori tratti di disciplina. - 7. Considerazioni conclusive.


1. L’acquiescenza al testamento: fattispecie dai tratti sbiaditi.

La riflessione sull’acquiescenza al testamento muove da un contesto giuridico piuttosto incerto, e, per questo motivo, particolarmente bisognoso di un chiaro inquadramento, specie in considerazione del diffuso ausilio pratico, al quale è asservita codesta fattispecie. Questa, all’apparenza, ben potrebbe mostrarsi anodina, incapace di incidere, in alcun modo, nella sfera dei diritti dell’acquiescente, o di altri, anche indirettamente coinvolti; epperò, nella sostanza, si rivela per la propria sostanza di strumento in grado di ingenerare effetti giuridici rilevanti, dalle tinte differenti, a seconda delle sfumature lessicali, e dell’effettivo contenuto, asserviti al suo impiego. Non è infrequente, in virtù di prassi professionali piuttosto consolidate, l’impiego di codesto peculiare, e indefinito, atto di acquiescenza, in vero estraneo all’architettura giuridica allestita dal Codice civile vigente. Tale strumento, di regola, viene suggerito con lo scòpo di definire gli assetti successorî mortis causa, dipendenti da un determinato testamento, specie per le ipotesi in cui esso si discosti da alcuni dei principî scolpiti nel Libro secondo del Codice civile. Ciò può avvenire, a modo di esempio, in presenza di una lesione della quota di eredità riservata a un legittimario, ai sensi degli artt. 536 ss. cod. civ., oppure al cospetto di una causa di invalidità, formale, o sostanziale, della scheda testamentaria[1]. Tale strumento giuridico - e, prima ancóra, di prosaico uso pratico - vanta un’origine che può essere ricondotta, per larga parte, all’ars notariae, servitasi di tale espediente, al fine di fronteggiare esigenze concrete, vicine a necessità economico-giuridiche, ma, spesso, dimentico delle esigenze morali che vi si rannodano, di certo non meno importanti. Si badi, tali necessità, dal carattere assai vario, paiono spesso intrecciarsi l’una con l’altra, quale vicendevole giustificazione, tanto che, talvolta, diviene assai arduo distinguerle. È d’uopo rilevare come la giurisprudenza, benché ripetutamente chiamata a pronunciarsi su vicende inerenti ad atti di acquiescenza, si sia soffermata, soltanto di rado, sulla fattispecie in esame, mostrando maggiore attenzione per le conseguenze di contorno, capaci di derivarne[2]. In ogni caso, gli esiti raggiunti, nient’affatto [continua ..]


2. La funzione pratica dell’acquiescenza al testamento.

La nozione di acquiescenza, per quanto incerta nei suoi lineamenti, nei fatti si propone alla stregua di strumento pratico, elastico, e, apparentemente, utile per affrontare esigenze concrete, tant’è che, spesso, se ne propone l’ausilio, nel tentativo di tacitare, o prevenire, contestazioni relative a una determinata successione ereditaria. Al contempo, per il suo tramite, vengono trascurati profili di indiscutibile rilievo, attinenti alla sfera giuridica e morale dei soggetti coinvolti, spesso inconsapevoli delle conseguenze che ne derivano, oppure, financo, mal consigliati. Si badi, malgrado possano sembrare affini le rispettive finalità generali, questa fattispecie non può essere affatto confusa con il contratto di transazione (artt. 1965 ss. cod. civ.), dal momento che, per quanto ne risulti dibattuta la natura – mero fatto, atto, o negozio giuridico[1] -, e benché, in alcuni casi, sia possibile scorgere una contrapposizione di interessi tra i soggetti in giuoco, l’acquiescenza, di per sé, conserva la propria struttura unilaterale, che dovrebbe prescindere da ogni eventuale accordo con altri individui, più o meno direttamente interessati. Le ragioni giustificatrici sottese all’acquiescenza al testamento, in vero, ben potrebbero presentare profili, lato sensu, transattivi, oppure la stessa potrebbe essere, financo, sorretta proprio da una celata transazione. Si pensi, a modo di esempio, all’atto di acquiescenza posto in essere da chi, non considerato nel testamento, abbia, sostanzialmente, ricevuto quanto di spettanza, mentre il de cuius era ancóra in vita, in virtù di liberalità indirette, dalla causa rimasta inespressa. In tali circostanze, si potrebbero prevenire attriti tra i successori del defunto, specie impedendo ogni eventuale contestazione, proveniente proprio da coloro i quali siano stati trascurati nel testamento, perché già soddisfatti, in forza di quelle liberalità, poc’anzi evocate. Del pari, codesti motivi potrebbero non sussistere, come nel caso (in vero, di dubbia ricorrenza) di un’acquiescenza al testamento portatrice, essa stessa, dell’intento liberale, proveniente da chi abbia, nei fatti, ricevuto meno della propria quota di spettanza, in virtù della successione ereditaria oggetto di discussione. Più probabile è, invece, l’ipotesi in cui il legittimario, leso o [continua ..]


3. Alcune considerazioni circa la natura giuridica.

Dinnanzi a tinte così sbiadite, incapaci di segnare, con tratto sicuro, i contorni dell’acquiescenza al testamento, è necessario riflettere sulla natura giuridica di tale fattispecie, evidentemente trascurata dal Legislatore, quanto meno nella materia del Diritto civile, ma che, nell’esperienza quotidiana, ha ricevuto una tipizzazione di matrice consuetudinaria, o, per così dire, sociale. Al fine di individuare la qualificazione giuridica, maggiormente in grado di adeguarsi ai lineamenti dell’acquiescenza - strumento idoneo a determinare conseguenze, nei fatti, alquanto eterogenee - occorre riprendere, brevemente, la discussione che ha, a lungo, impegnato la dottrina, affaticatasi nella ricerca di un criterio utile al fine della distinzione tra fatto e atto giuridico[1]. Non è questo il luogo deputato ad approfondire, nel dettaglio, simili temi, da sempre cari alla teoria generale del diritto, eppure, questi non possono essere trascurati in toto, ai fini della presente indagine. Non a caso, è a tale confronto che gli esigui contributi dedicati al tema dell’acquiescenza al testamento hanno fatto riferimento, al fine di caratterizzarne i tratti essenziali[2]. In particolare, ne è stata proposta la sussunzione entro i confini della categoria dei fatti giuridici[3], per le motivazioni che saranno presto approfondite. Ciononostante, la stessa definizione di fatto giuridico non trova spazio nel dettato normativo, tant’è che di esso è stata proposta una duplice qualificazione, senza, tuttavia, riuscire a individuare il criterio principe, utile a ritrarre ogni circostanza. Secondo una particolare opinione, deve intendersi, per fatto giuridico, tutto ciò che, al lume di una norma giuridica, determina effetti rilevanti per il diritto. Da altra prospettiva, la qualifica in esame non può prescindere dal confronto proprio del fatto con l’atto giuridico, al punto che debbono essere considerati fatti giuridici tutti «i fenomeni temporali che non sono attività volontarie dell’uomo»[4], e che, quindi, non possono essere considerati atti giuridici. Diversamente, l’atto giuridico, che si presenta quale peculiare specificazione del fatto giuridico, si connota, essenzialmente, per l’elemento volontaristico, o, meglio, esso viene individuato in quel comportamento umano, al quale l’ordinamento riconosce rilievo, in ragione della [continua ..]


4. Critica alla qualificazione dell’acquiescenza quale mero fatto giuridico. Il rilievo rivestito dall’elemento volontaristico.

L’inquadramento, dell’acquiescenza al testamento, nell’insieme dei meri fatti giuridici è determinato da un presupposto, che, tuttavia, non pare risolutivo ai fini di codesta opera esegetica. Talvolta, in presenza di una determinata dichiarazione, o di un comportamento concludente, veicolati nella forma dell’acquiescenza, possono prodursi conseguenze diverse, e, all’apparenza, non coerenti con l’intenzione esternata. Epperò, il difetto di corrispondenza tra l’intento, così come manifestato, e gli effetti giuridici prodotti, non sembra, da solo, in grado di relegare l’acquiescenza al testamento nella categoria dei fatti giuridici, giacché, in questo modo, sembrerebbe limitato il significato che tale strumento riveste nella prassi. Per di più, non si tratterebbe affatto di una verità assoluta, siccome non è infrequente la coincidenza tra quanto voluto, e quanto effettivamente verificatosi in virtù dell’acquiescenza stessa; di tale circostanza può essere testimone la conseguente trascrizione[1]. Si dovrebbe, inoltre, dubitare della correttezza di una trascrizione che si distanzî, del tutto, dall’intento dell’acquiescente, al punto che ben potrebbero scorgersi profili di responsabilità in capo al professionista, che, in concreto, se ne sia fatto carico, ignorando, o addirittura prevaricando, le reali intenzioni dell’agente[2]. Codesta circostanza, vale a dire l’apparente incoerenza tra presupposto di fatto, e conseguenze giuridiche prodotte, sembra, più propriamente, sintomo dell’atipicità, ed elasticità, per le quali si contraddistingue l’acquiescenza al testamento. Al cospetto di questo strumento, e là dove si rendesse necessaria una sua effettiva interpretazione, non pare possibile trascurare l’elemento della volontà, tant’è che, nei casi di maggiore dubbio, il giudice è tenuto proprio a individuare l’intento, che ha mosso l’acquiescente, nell’accettazione delle disposizioni testamentarie oggetto di indagine. Certo, quell’elasticità, che caratterizza la fattispecie in esame, non può essere affatto considerata, da ogni prospettiva, un pregio, e anzi, talvolta, essa si rivela il principale difetto dell’acquiescenza, tanto da impedirne un’analisi sicura e valida pressoché in [continua ..]


5. Profili relativi alla trascrizione dell’atto di acquiescenza.

Esaminata la possibile natura giuridica dell’atto di acquiescenza al testamento, anche alla luce delle ragioni pratiche, che ne suggeriscono l’impiego, quelle medesime ragioni, a loro volta, si rannodano a esigenze di certezza dei rapporti giuridici, e, in particolare, all’opportunità di trascrivere l’acquiescenza, per gli effetti che ne discendono. Secondo l’opinione tradizionale, il regime della trascrizione si fonda sulla tassatività dei casi in cui essa può essere impiegata, come pare desumibile dagli artt. 2643 ss. cod. civ. Codesto principio, in vero, è stato messo in dubbio dalla più recente dottrina[1], maggiormente incline al riferimento a una tipicità, piuttosto che tassatività, delle ipotesi di trascrizione. Senza addentrarsi ulteriormente in tali profili, si presenta l’opportunità per alcuni spunti di riflessione, considerato che, appurate le incertezze interpretative, in relazione alla vera natura giuridica dell’acquiescenza al testamento, è, altresì, necessario rilevare come, nella prassi, questo atto venga effettivamente trascritto, e, all’apparenza, senza problemi di sorta[2]. Si badi, la semplice acquiescenza non pare in grado di reggere la trascrizione, ma ne può essere comunque soggetta, a guisa di veicolo, utile al fine di dare pubblicità a taluni effetti, che da essa dipendono. Effetti che, pertanto, compenetrano l’essenza dell’atto di acquiescenza, e ne puntellano l’impiego pratico. È stato rilevato[3] come l’acquiescenza, di per sé, non possa considerarsi atto trascrivibile, in quanto non espressamente prevista dalla legge tra gli atti passibili di trascrizione, e non rientrante nel relativo elenco, custodito nel Libro sesto del Codice civile[4]. Nondimeno, nella prassi, dall’acquiescenza dipendono diverse possibilità di trascrizione, dovute ai molteplici effetti che possono scaturirne. Si badi, se anche si deponesse in senso contrario alla trascrizione dell’atto di acquiescenza, non se ne potrebbe, comunque, negare l’esistenza, la quale si dimostrerebbe, a ogni modo, foriera di conseguenze rilevanti per l’ordinamento giuridico vigente. Sono proprio tali effetti, dunque, ad assumere interesse, nella prospettiva della trascrizione, anche se, talvolta, non è agevole distinguere le reali intenzioni di chi abbia prestato [continua ..]


6. Ulteriori tratti di disciplina.

Ricollegandosi alla pretesa, e incerta, natura giuridica dell’acquiescenza al testamento, la quale pare doversi includere nell’insieme degli atti giuridici in senso stretto, è d’uopo caratterizzarne ulteriormente i profili, giacché, da tale operazione, dipendono conseguenze nient’affatto trascurabili. Scostandosi, per il momento, dai problemi legati all’eventuale atipicità dell’atto giuridico in senso stretto, si nota come la forma dell’atto di acquiescenza risulti, sostanzialmente, libera, salvo quanto richiesto per la sua eventuale trascrizione[1]. L’acquiescenza è reputata titolo idoneo ai fini della trascrizione, ça va sans dire, là dove espressa in forma di atto pubblico, oppure di scrittura privata con sottoscrizione autenticata (art. 2657 cod. civ.). Soltanto in tali eventualità è possibile dare pubblicità ai risultati giuridici conseguiti per il suo tramite. A ulteriore fondamento di codesta libertà formale, eccezion fatta per le rammentate esigenze pubblicitarie, si può notare come, in parallelo, l’acquiescenza al testamento sia in grado di determinare taluni effetti, tipici di atti per i quali non sono richiesti particolari requisiti di forma. Secondo il Codice civile vigente, infatti, l’accettazione di eredità (in questo caso, tacita), la rinunzia all’azione di riduzione, e la conferma di disposizioni testamentarie nulle possono essere manifestate anche per il tramite di modalità alternative a quella espressa, tanto da potersi adeguare a strutture differenti, quali, per l’appunto, l’acquiescenza al testamento. Certo, è difficile individuare la disciplina di legge applicabile a codesto peculiare strumento, specie ove si reputi corretta la sua sussunzione nell’insieme degli atti giuridici stricto sensu. Questa categoria, infatti, contraddistinta per una genesi meramente dottrinale, non è affatto definita dal Codice civile del 1942, con la conseguenza che non risulta agevole individuare le norme capaci di governarne l’esistenza. A tal riguardo, sono state proposte alcune considerazioni, provenienti dalla migliore dottrina, e che qui possono essere, soltanto brevemente, rammentate[2], pur nella consapevolezza della loro incapacità di giungere a soluzioni univoche, o, quanto meno, ampiamente condivise. Da un lato, si potrebbe sostenere come le [continua ..]


7. Considerazioni conclusive.