Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

L'art. 169-bis L. fall. fra abuso del diritto e fattispecie (di Letterio Buta)


Il commento muove da una sentenza della Suprema Corte, la quale, per risolvere una controversia inerente a un contratto preliminare di compravendita rimasto inadempiuto e a una domanda di scioglimento dal contratto ‘pendente’ nell’ambito di un concordato preventivo, ha fatto ricorso alle clausole generali di buona fede e di abuso del diritto. Nel testo si esamina il percorso logico seguito dalla Cassazione, analizzando le norme che disciplinano il diritto di sciogliersi dai contratti non ancora eseguiti. Il tentativo è quello di prospettare una soluzione giuridica della controversia che si fondi sulle categorie della fattispecie e dell’analogia.

Article 169-bis L. fall. between abuse of rights and case

In the context of an arrangement with creditors, asked to resolve a dispute relating to an unfulfilled  preliminary sale contract and the subsequent request for termination, the Supreme Court invoked  the general clauses of good faith and abuse of rights.  The essay examines the logical path followed by the Supreme Court, analyzing the rules governing the right to early terminate a not-yet executed contract. The attempt is to propose a legal solution to the dispute based on the categories of case (fattispecie) and analogy.

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Letterio Buta - L’art. 169-bis L. fall. fra abuso del diritto e fattispecie

SOMMARIO:

1. Introduzione. - 2. L’abuso del diritto e il concordato preventivo. - 3. Lo scioglimento dai contratti pendenti ex art. 169-bis della Legge fallimentare. - 4. La condotta ‘abusiva’ e la teoria della doppia rilevanza. - 5. Il ‘criterio’ dell’analogia.


1. Introduzione.

Muoviamo da una sentenza della Suprema Corte (Cass. civ., Sez. I, Sent., 23-11-2020, n. 26568), la quale si è trovata a dover giudicare una controversia inerente a una domanda di scioglimento dai contratti ‘pendenti’, ex art. 169-bis L. fall., nell’ambito di un concordato preventivo. Il caso riguardava l’istanza di scioglimento da un contratto preliminare di compravendita in forza del quale, prima del deposito del ricorso ex art. 161 L. fall., il promissario acquirente aveva già versato l'intero prezzo, senza però che il promittente venditore avesse a sua volta trasferito la proprietà del bene. Il contraente in bonis aveva successivamente agito in giudizio ex art. 2932 c.c. (non trascrivendo, però, la domanda prima che il debitore iscrivesse il concordato), per essere poi immesso nel possesso dell’immobile. Pur con l’opposizione del promissario acquirente, il Tribunale di Pescara ha dato ingresso al giudizio di omologazione e, in seguito, ha autorizzato lo scioglimento, determinando l’indennizzo dovuto, ex comma II dell’art. 169-bis L. fall., nella misura del prezzo versato, dal momento che il trasferimento della proprietà non si era perfezionato, e destinato ad essere soddisfatto nella misura del 15%, a causa della ‘falcidia’ concordataria. La Suprema Corte, adita dopo che la Corte d’Appello dell’Aquila aveva respinto il reclamo ex art. 183 L. fall., ha accolto una delle censure mosse dal ricorrente. Secondo la Corte il debitore, pur avendo agito nel rispetto ‘formale’ delle norme sul concordato, si sarebbe servito di questo strumento in modo illegittimo; così abusando del proprio diritto per fini “ultronei e dilatori” in violazione della buona fede contrattuale e del principio costituzionale di solidarietà.


2. L’abuso del diritto e il concordato preventivo.

Il concetto di abuso del diritto assume un ruolo centrale nel dibattito giuridico contemporaneo[1]. Esso appare quale criterio usato dalle Corti per risolvere un numero sempre maggiore di controversie; come pure fonte di intensa discussione dottrinale intorno all’inesausto tema delle clausole generali[2]. Sul piano linguistico, Il termine abuso indica “un uso cattivo, eccessivo, smodato”[3]: la valutazione riguardante una misura necessita sempre di un metro[4] e, quindi, di un termine di paragone[5]; la domanda da porsi sembra allora essere: una condotta si definisce abusiva rispetto a cosa? La risposta al quesito potrebbe trovarsi nella distinzione, elaborata in letteratura[6], tra buona fede e abuso del diritto: in una sintesi, che rischia la semplificazione[7], la differenza[8] riposerebbe in ciò: che la prima riguarderebbe le modalità di esercizio del diritto; il secondo, lo scopo per il quale il diritto è esercitato. “L’abuso opererebbe sul piano del controllo di ragionevolezza dell’esercizio delle situazioni giuridiche soggettive, mentre alla clausola di buona fede sarebbe rimessa la verifica del comportamento delle parti del rapporto o del contratto, nella prospettiva della lealtà e della solidarietà”[9]. Il concetto di abuso parrebbe, allora, legato a doppio filo con quello di potere, quale capacità del singolo di compiere atti giuridici in grado di produrre determinati effetti[10]: cioè creare modificare o estinguere situazioni giuridiche. L’abuso troverebbe spazio proprio nell’esercizio di un diritto per uno scopo diverso da quello per il quale il potere era stato conferito. Il lessico dell’abuso sembra ricalcare le categorie e i termini che nel diritto pubblico sono occupati dall’eccesso di potere. Non è possibile in questa sede mettere in luce tutte le analogie riscontrabili tra il linguaggio dell’abuso del diritto e quello dell’eccesso di potere[11]: sia sufficiente affermare che quest’ultimo viene definito come vizio che “sanziona l’atto che non si attiene all’interesse pubblico come indicato dal legislatore”[12]. Una dottrina[13] in particolare, pur negando una sovrapposizione tra le figure, sembra rintracciare le affinità che sussistono tra il concetto di eccesso di potere e le clausole generali, arrivando a chiedersi “se sia possibile omologare le due categorie [continua ..]


3. Lo scioglimento dai contratti pendenti ex art. 169-bis della Legge fallimentare.

Nella sentenza in commento, la categoria dell’abuso parrebbe attagliarsi all’art. 169-bis L. fall.; il quale permette al debitore, sia prima, che dopo il decreto di apertura del concordato, di chiedere lo scioglimento dai contratti pendenti. La prima questione interpretativa che i giudici hanno dovuto affrontare è stata quella della difficile qualificazione di contratto pendente ai sensi dell’art. 169-bis della Legge fallimentare. L’interpretazione letterale della norma, nella sua formulazione originaria, si discostava dal tenore dell’art. 72 L. fall., il quale espressamente definisce pendenti, e quindi passibili di scioglimento, quei contratti ancora “ineseguiti o non compiutamente eseguiti da entrambe le parti”. Il testo dell’art. 169-bis, allora, poteva far propendere per una lettura estensiva del concetto di pendenza, per differenziare il sistema del concordato preventivo da quello del fallimento: si riteneva, infatti, che la locuzione “in corso di esecuzione” potesse riferirsi anche ai contratti eseguiti da una sola delle parti[1]. Per evitare ulteriori incongruenze interpretative, la norma è stata riformata dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito dalla l. 6 agosto 2015, n. 13, in modo da equiparare la fattispecie del concordato a quella del fallimento[2]. Ancorché il fatto si fosse verificato nel tempo in cui era vigente la normativa ante riforma, gli Ermellini sembrano sposare un’interpretazione restrittiva della norma e giudicano scorretto[3] non considerare eseguito un contratto a prestazioni corrispettive, “ove uno dei contraenti abbia adempiuto la propria prestazione quantomeno quella da ritenersi principale[4] nel sinallagma contrattuale”. Nel caso di specie, quindi, il contratto di compravendita non doveva reputarsi più pendente, giacché – pagando il prezzo - una delle parti aveva già eseguito la propria prestazione principale. Se da un lato, nel riformare la decisione della Corte d’Appello dell’Aquila, la Suprema Corte sembra rifarsi a un paradigma interpretativo della disposizione della Legge fallimentare, dall’altro, a sostegno del proprio convincimento, invoca la teoria dell’abuso del diritto. Ad una prima analisi, l’art. 169-bis parrebbe suscitare il problema dell’abuso. Questo perché l’istanza di sciogliersi dai contratti pendenti può divenire [continua ..]


4. La condotta ‘abusiva’ e la teoria della doppia rilevanza.

La sentenza in commento appare poco chiara riguardo alla qualificazione soggettiva della condotta del debitore: da una parte, infatti, la Cassazione ritiene che il promittente venditore abbia “procrastinato dolosamente la stipula del contratto definitivo”, evocando, quindi, il dolo come elemento soggettivo; dall’altra ritiene che egli abbia violato l’obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede, ex art. 1375 del Codice civile. Ma i piani, del dolo e della buona fede in executivis, non sono sovrapponibili: quest’ultima, infatti, lungi dal riguardare una situazione psicologica del contraente, impone “a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere da specifici obblighi contrattuali”[1]. Sembra che la Cassazione confonda i piani del dolo e della buona fede in senso oggettivo; e poi quelli della buona fede e dell’abuso: può risultare emblematico un passaggio della sentenza in cui la Suprema Corte, prima, rileva il contrasto della condotta del debitore con l’art. 1375 c.c.; successivamente, a fortiori, come se le figure fossero equivalenti, invoca anche la figura dell’abuso, il quale, così descritto, assume le sembianze di una ‘superfetazione’: confondendo quest’ultimo con l’esecuzione del contratto secondo buona fede, si rischia, infatti, di invocare principii quando vi sono fattispecie applicabili, valide ed efficaci[2]. Nel ragionamento si innesta, poi, un ulteriore dubbio: come può la condotta del debitore essere conforme allo schema formale previsto da una norma (la quale, è bene ripeterlo, è il prodotto di un “conflitto” di interessi[3] e non la fonte di un bilanciamento che si svolga a posteriori) e allo stesso tempo inficiare la sfera giuridica altrui? Sotto la lente della rilevanza giuridica l’agire iure del debitore significa agire secondo il modello descritto dalla fonte: “esercitare è tenere la condotta conforme al diritto”[4]. Dovrebbe dirsi, a rigore, che ogni diritto è la propria fonte[5]: il soggetto potrà tenere o non tenere la condotta conforme al modello, ma (e qui è il punto cruciale) il comportamento futuro è già approvato dalla norma come meritevole di tutela. Il carattere abusivo non potrà essere ricercato nella qualifica della condotta del soggetto che ha agito rispettando lo schema [continua ..]


5. Il ‘criterio’ dell’analogia.