Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

L'art. 169-bis L. fall. fra abuso del diritto e fattispecie (di Letterio Buta)


Il commento muove da una sentenza della Suprema Corte, la quale, per risolvere una controversia inerente a un contratto preliminare di compravendita rimasto inadempiuto e a una domanda di scioglimento dal contratto ‘pendente’ nell’ambito di un concordato preventivo, ha fatto ricorso alle clausole generali di buona fede e di abuso del diritto. Nel testo si esamina il percorso logico seguito dalla Cassazione, analizzando le norme che disciplinano il diritto di sciogliersi dai contratti non ancora eseguiti. Il tentativo è quello di prospettare una soluzione giuridica della controversia che si fondi sulle categorie della fattispecie e dell’analogia.

Article 169-bis L. fall. between abuse of rights and case

In the context of an arrangement with creditors, asked to resolve a dispute relating to an unfulfilled  preliminary sale contract and the subsequent request for termination, the Supreme Court invoked  the general clauses of good faith and abuse of rights.  The essay examines the logical path followed by the Supreme Court, analyzing the rules governing the right to early terminate a not-yet executed contract. The attempt is to propose a legal solution to the dispute based on the categories of case (fattispecie) and analogy.

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Letterio Buta - L’art. 169-bis L. fall. fra abuso del diritto e fattispecie

SOMMARIO:

1. Introduzione. - 2. L’abuso del diritto e il concordato preventivo. - 3. Lo scioglimento dai contratti pendenti ex art. 169-bis della Legge fallimentare. - 4. La condotta ‘abusiva’ e la teoria della doppia rilevanza. - 5. Il ‘criterio’ dell’analogia.


1. Introduzione.

Muoviamo da una sentenza della Suprema Corte (Cass. civ., Sez. I, Sent., 23-11-2020, n. 26568), la quale si è trovata a dover giudicare una controversia inerente a una domanda di scioglimento dai contratti ‘pendenti’, ex art. 169-bis L. fall., nell’ambito di un concordato preventivo.

Il caso riguardava l’istanza di scioglimento da un contratto preliminare di compravendita in forza del quale, prima del deposito del ricorso ex art. 161 L. fall., il promissario acquirente aveva già versato l'intero prezzo, senza però che il promittente venditore avesse a sua volta trasferito la proprietà del bene. Il contraente in bonis aveva successivamente agito in giudizio ex art. 2932 c.c. (non trascrivendo, però, la domanda prima che il debitore iscrivesse il concordato), per essere poi immesso nel possesso dell’immobile. Pur con l’opposizione del promissario acquirente, il Tribunale di Pescara ha dato ingresso al giudizio di omologazione e, in seguito, ha autorizzato lo scioglimento, determinando l’indennizzo dovuto, ex comma II dell’art. 169-bis L. fall., nella misura del prezzo versato, dal momento che il trasferimento della proprietà non si era perfezionato, e destinato ad essere soddisfatto nella misura del 15%, a causa della ‘falcidia’ concordataria.

La Suprema Corte, adita dopo che la Corte d’Appello dell’Aquila aveva respinto il reclamo ex art. 183 L. fall., ha accolto una delle censure mosse dal ricorrente. Secondo la Corte il debitore, pur avendo agito nel rispetto ‘formale’ delle norme sul concordato, si sarebbe servito di questo strumento in modo illegittimo; così abusando del proprio diritto per fini “ultronei e dilatori” in violazione della buona fede contrattuale e del principio costituzionale di solidarietà.


2. L’abuso del diritto e il concordato preventivo.

Il concetto di abuso del diritto assume un ruolo centrale nel dibattito giuridico contemporaneo[1]. Esso appare quale criterio usato dalle Corti per risolvere un numero sempre maggiore di controversie; come pure fonte di intensa discussione dottrinale intorno all’inesausto tema delle clausole generali[2].

Sul piano linguistico, Il termine abuso indica “un uso cattivo, eccessivo, smodato[3]: la valutazione riguardante una misura necessita sempre di un metro[4] e, quindi, di un termine di paragone[5]; la domanda da porsi sembra allora essere: una condotta si definisce abusiva rispetto a cosa? La risposta al quesito potrebbe trovarsi nella distinzione, elaborata in letteratura[6], tra buona fede e abuso del diritto: in una sintesi, che rischia la semplificazione[7], la differenza[8] riposerebbe in ciò: che la prima riguarderebbe le modalità di esercizio del diritto; il secondo, lo scopo per il quale il diritto è esercitato. “L’abuso opererebbe sul piano del controllo di ragionevolezza dell’esercizio delle situazioni giuridiche soggettive, mentre alla clausola di buona fede sarebbe rimessa la verifica del comportamento delle parti del rapporto o del contratto, nella prospettiva della lealtà e della solidarietà”[9].

Il concetto di abuso parrebbe, allora, legato a doppio filo con quello di potere, quale capacità del singolo di compiere atti giuridici in grado di produrre determinati effetti[10]: cioè creare modificare o estinguere situazioni giuridiche. L’abuso troverebbe spazio proprio nell’esercizio di un diritto per uno scopo diverso da quello per il quale il potere era stato conferito.

Il lessico dell’abuso sembra ricalcare le categorie e i termini che nel diritto pubblico sono occupati dall’eccesso di potere. Non è possibile in questa sede mettere in luce tutte le analogie riscontrabili tra il linguaggio dell’abuso del diritto e quello dell’eccesso di potere[11]: sia sufficiente affermare che quest’ultimo viene definito come vizio che “sanziona l’atto che non si attiene all’interesse pubblico come indicato dal legislatore[12]. Una dottrina[13] in particolare, pur negando una sovrapposizione tra le figure, sembra rintracciare le affinità che sussistono tra il concetto di eccesso di potere e le clausole generali, arrivando a chiedersi “se sia possibile omologare le due categorie o sostituire l’eccesso di potere con le clausole generali”; e afferma, inoltre, che da quest’ultimo “si ricava il principio per cui il potere esercitato con l’attività viziata è difforme dalle norme attributive dello stesso; è un principio talmente generico che il suo contenuto è stabilito di volta in volta dal giudice sulla base di principi generali quali la ragionevolezza, la proporzionalità, ecc., che devono anch’essi essere integrati dall’interprete”[14]. A ben vedere, quest’ultima sembra essere esattamente la caratteristica principale dell’abuso, in quanto anch’esso sarebbe “ricavabile attraverso un sindacato ex post, fondato sulle motivazioni sottese all’esercizio di una prerogativa formalmente spettante al titolare”[15]. Insomma, anche nella logica dell’abuso parrebbero annidarsi alcune caratteristiche del détournement de pouvoir[16]: fondato, infatti, su una valutazione di tipo teleologico, l’abuso “come tale collegato alla deviazione dell’esercizio del diritto da uno scopo o finalità intrinseca al contenuto di un diritto, corre il rischio di portare alla vera e propria funzionalizzazione del diritto, di guisa che il concetto di abuso si possa confondere inevitabilmente con l’eccesso del diritto”[17].

Mentre sembra comprensibile, da un punto di vista logico, attribuire a un’autorità pubblica[18], la quale deve perseguire istituzionalmente l’interesse comune, l’obbligo di non abusare di quei poteri che possiede per garantire, appunto, un bene pubblico; più difficile appare imputare a un privato che, soprattutto nell’ambito degli scambi commerciali, è, invece, vòlto al raggiungimento di scopi egoistici, l’obbligo di perseguire un fine altruistico[19], in assenza di una specifica norma che lo stabilisca[20]: il bilanciamento tra autonomia privata ed esigenze di giustizia sociale ed equità degli scambi comporta maggiori problemi interpretativi[21]. Nel contesto del diritto dei privati, l’abuso assume un connotato, per così dire, relazionale: troverebbe spazio quando la sfera di interesse del singolo interferisca con quella altrui; così definito, l’abuso parrebbe, però, avvicinarsi all’illecito[22]: come quest’ultimo, infatti, si qualifica tale all’esito di un giudizio comparativo, a posteriori, delle situazioni giuridiche soggettive in conflitto; anche l’ingiustizia del danno “discende da un bilanciamento di interessi contrapposti volto a verificare se tra i diritti in conflitto ve ne sia uno che sia stato esercitato abusivamente e dunque abbia trasformato il comportamento formalmente iure del danneggiante in un comportamento sostanzialmente non iure, oltre che contra ius”[23].

Negli ultimi anni la crisi di impresa e, in particolare, lo strumento del concordato preventivo hanno rappresentato oggetto di riflessione sul tema dell’incontro tra libertà contrattuale e occasione di abusi. In linea, infatti, con altre riforme di derivazione comunitaria[24], il Legislatore ha modificato la disciplina della Legge fallimentare del 1942, cercando di favorire soluzioni negoziali della crisi e depotenziando gli interventi, di legittimità e di merito, del giudice.

La procedura, disciplinata dall’art. 161 L. fall., oggi sembra esibire due momenti[25]: l’uno, ancora sottoposto al vaglio dell’autorità giudiziaria, in cui il debitore propone la domanda per l’ammissione con ricorso al Tribunale del luogo in cui l’impresa ha la propria sede principale; l’altro, di natura contrattuale, in cui il debitore presenta il piano, contenente la proposta, e in cui si rapporta esclusivamente con i creditori: quest’ultima si oggettiva in una sorta di “offerta formulata dal debitore ai propri creditori per il soddisfacimento del loro credito, mentre il piano[26] rappresenta la modalità con cui il debitore si propone di riuscire a realizzare la proposta formulata[27].

Così delineata, la disciplina del concordato preventivo assume una veste “contrattualizzata”[28]; gli aspetti contrattuali della procedura andrebbero rintracciati in una serie di ulteriori elementi quali: il fatto che vi siano spesso trattative preliminari al raggiungimento di un accordo tra debitore e creditori; il fatto di aver concesso alle parti ampio margine di “contrattazione” del piano, senza particolari vincoli di contenuto “ […] l’aver demandato la verifica di convenienza in via esclusiva all’altra parte che oggi si presume interessata ad un soddisfacimento in senso ampio [..]; l’aver investito il giudice del più alto e nobile ruolo di controllore della legalità del processo e di solutore di conflitti, in posizione di perfetta terzietà perché liberato dalla legittimazione all’iniziativa del processo di fallimento nonché dalle valutazioni e dalla conduzione di questioni prettamente economiche […][29].

Fase giudiziale e fase contrattuale sembrano convivere e intrecciarsi nel medesimo istituto. Se il fine della procedura è quello di soddisfare al meglio il ceto creditorio, l’occasione dello ‘sviamento’ da questo scopo si rinverrebbe, secondo parte della dottrina,[30] proprio nella natura contrattuale del concordato: sia il debitore, che il creditore possono perseguire, attraverso una serie di condotte che la procedura concorsuale consente, scopi che contrastino con il fine per cui lo strumento del concordato è stato istituito.

Il giudice sarebbe chiamato, quindi, ex post, ad usare la categoria dell’abuso del diritto per ottenere il “riequilibrio fra contestuali e potenziali vicende di contrapposti diritti esercitati da soggetti in conflitto [..], mostrando di selezionare quale compatibile con un’accettabile ragione redistributiva di tipo patrimoniale solo quel diritto che non produca un sacrificio eccedente lo scopo utilitaristico che l’istituto persegue, cioè il soddisfacimento dei creditori”[31].

Invero, considerare unico scopo della procedura la miglior soddisfazione possibile del ceto creditorio, pare riduttivo. Se di interessi sottesi alla disciplina si vuole parlare, non può escludersi quello del debitore a non vedere compromesso se stesso o la propria impresa, al punto da essere costretto a una liquidazione giudiziale[32].

 

[1] Negli ultimi anni copiosa è stata la bibliografia in tema di abuso del diritto; a titolo esemplificativo, se ne richiama una parte: F. Galgano, Abuso del diritto. L’arbitrario recesso ad nutum della banca, 1998, in Contr. Impr., pp. 18 ss.; Id, Qui iure suo abutitur neminem laedit?, ivi, 2011, pp. 311 ss.; G. Visintini (a cura di), L’abuso del diritto, Napoli, 2016; S. Patti, Abuso del diritto, in Enc. dir., agg., Milano, 1998, pp. 1 ss.; M. Messina, L’abuso del diritto, Napoli, 2004; G. Pino, L’abuso del diritto tra teoria e dogmatica (precauzioni per l’uso), in Eguaglianza, ragionevolezza e logica giuridica, a cura di G. Maniaci, Milano, 2006, pp. 115 ss; C. Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano, 2007; R. Natoli, Abuso del diritto e abuso di dipendenza economica, in Contratti, 2010, pp. 524 ss.; V. Velluzzi (a cura di), L’abuso del diritto. Teoria, storia e ambiti disciplinari, Pisa, 2012; A. Astone, Il divieto di abuso del diritto. Diritto scritto e diritto vivente, Milano, 2017.

[2] A tal proposito sia concesso rimandare, su tutti, a G. Alpa, La certezza del diritto nell’età dell’incertezza, Napoli, 2006; a P. Grossi, Sull’odierna fattualità del diritto, in Giust. civ., 1/2014, pp. 11 ss.; e a M. Barcellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolazione teleologicamente orientata del traffico giuridico, in Riv. dir. civ., 2/2014, pp. 467 ss.

[3] In treccani.it.

[4] In questo caso viene da pensare che il metro per misurare un utilizzo buono del diritto si oggettivi nei principii che permeano l’ordinamento giuridico, quali la ragionevolezza, la solidarietà, l’eguaglianza, la proporzionalità; ovvero, anche, principii ricavati dall’esperienza e dalla società: al riguardo, vengono in soccorso le parole di M. Barcellona, op. ult. cit., p. 472: “[..]quando l’abuso sia concepito in modo estroverso, e cioè come correzione delle soluzioni positive dei conflitti sulla base di sistemi di regole e valori extra-normativi: giacché in tal caso l’enunciazione di questa figura sta proprio a significare che il diritto soggettivo deve arretrare dai suoi ordinari confini giuridici quante volte altri sistemi di regole e valori (etici, politici, sociali, ecc.) ne determinino diversamente i limiti”.

[5] Per un approfondimento sul tema della necessità logica del concetto di ‘relazione’, come fondamento gnoseologico e ontologico, si vedano le riflessioni di A. Stella, Struttura originaria in Severino e mediazione in Hegel: una riflessione sul concetto di relazione, in Rivista di filosofia neo-scolastica, 4/2014, pp. 751 ss.

È necessario, da un punto di vista logico, distinguere un uso corretto da un uso scorretto, per individuare il discrimen che dà vita alla categoria di abuso.

[6] Si fa riferimento, in particolare, ad A. Astone, Il divieto di abuso del diritto, cit., pp. 21 ss. e ad A. D’Angelo, Rapporti tra buona fede e abuso del diritto, in G. Visintini (a cura di), L’abuso del diritto, cit., pp. 59 ss.

[7] Una parte della dottrina critica la distinzione tra abuso del diritto e buona fede; considerando il primo sostanzialmente sovrapponibile alla seconda; in tal senso si veda A. D’Angelo, op. ult. cit, pp. 59 ss.

[8] A favore della distinzione tra le due clausole generali sembra stagliarsi la voce di C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, pp. 108 ss.

[9] A. Astone, Il divieto di abuso del diritto, cit., p. 26.

[10] Impossibile non fare riferimento alla critica svolta da Natalino Irti, il quale mette in guardia dall’intrusione di elementi psicologici nell’ambito dell’idea di potere: egli sostiene infatti che “le teorie del potere sembrano richiamarsi, con diversità di svolgimenti e di tono, ad un comune criterio: cioè, alla risoluzione del nesso obiettivo di fattispecie ed effetto in termini di possibilità del soggetto […]. Le teorie in esame rifiutano l’omogeneità che la norma stabilisce tra le diverse fattispecie, tutte accomunate nella funzione di fonti ed effetti giuridici, e perciò, al fine di isolare le fattispecie dipendenti dalla volontà umana, immaginano che esse costituiscano esercizio di una possibilità, energia, o forza, conferita ai soggetti” N. Irti, Introduzione allo studio del diritto privato, Padova, 1990, cit., p. 40.

[11] Inutile precisare che le affinità siano strettamente concettuali e legate al concetto di potere. Non si vuole in questa sede sovrapporre categorie che ricoprono funzioni assai diverse.

[12] Così A. Angeletti, L’eccesso di potere e la violazione delle clausole generali, in Giur. It., 5/2012, pp. 1213 ss.

È necessario precisare che nel testo si fa riferimento alla figura dell’eccesso di potere quale vizio della funzione, così come elaborato da Feliciano Benvenuti: per un approfondire il tema si rinvia a G. Sigismondi, Eccesso di potere e clausole generali. Modelli di sindacato sul potere pubblico e sui poteri privati a confronto., Napoli, 2012, pp. 132 ss.

[13] Si fa riferimento sempre ad A. Angeletti, op. ult. cit., pp. 1213 ss.

[14] Così, ancora, A. Angeletti, op. ult. cit., p. 1219.

[15] A. Astone, op. ult. cit., p. 28.

[16] Bisogna precisare, ancora, che l’eccesso di potere quale vizio di legittimità dell’atto possiede un’origine storica ben precisa che non si vuole e non si deve sovrapporre a quella dell’abuso; per altre notazioni sulle origini dell’eccesso di potere quale vizio dell’atto amministrativo si rinvia ad A. Angeletti, Alle origini della giustizia amministrativa, in Giur. It., 4/2011, pp. 1 ss.

[17] R. Amatore, L’abuso del diritto nelle procedure concorsuali, Milano, 2015, cit., p. 8.

[18] Sempre A. Angeletti, L’eccesso di potere e la violazione delle clausole generali, cit., p. 1215, afferma infatti che “tra i molteplici significati che la parola ‘potere’ riveste, se viene utilizzata unitamente a quella ‘eccesso’ indica una qualche attività attribuibile appunto ad un potere inteso come ‘apparato organico’, utilizzata da questo oltre i limiti previsti dalla legge”.

[19] Al riguardo si vedano le considerazioni di N. Irti, Per una concezione normativa dell’autonomia privata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2/2018, pp. 555 ss.; in cui l’A. mette in risalto le difficoltà dommatiche suscitate dal rapporto diretto tra autonomia privata e solidarietà: “ [..] il concetto di solidarietà (quale che ne sia lo sfondo, laico o religioso), implica sempre due profili: l'esistenza di un « tutto », di un aggregato sociale, e la reciproca dipendenza dei suoi membri. Profili, estranei al negoziato contrattuale, che è il luogo del conflitto, dell'abile avvedutezza, del calcolo economico. L'uomo vi agisce uti pars, e non uti socius. Il nostro ordinamento, mercé il vincolo ai trattati europei, ha accolto la concezione di un mercato aperto; e mercato significa che individui e imprese si trovano in assidua competizione, e sono legittimate a perseguire, non il bene comune, ma il particolare profitto”.

Sul punto significative le parole di G. Sigismondi, op. ult. cit., p. 139: “[..] il carattere necessariamente discrezionale del potere amministrativo, infatti, da un lato pareva costituire un tratto distintivo ineliminabile nel confronto con l’attività dei soggetti privati (caratterizzata normalmente da una situazione di autonomia) e dall’altro sembrava implicare l’esistenza di regole speciali, caratteristiche di tale potere [..]; l’A. continua, poi, in nota “lo stesso Benvenuti, del resto, afferma espressamente che con riguardo all’attività privata, che è libera e soggetta al solo principio di autonomia, non sono facilmente individuabili norme sulla funzione. Il che avvalora l’idea di un’attività amministrativa soggetta a regole speciali in ragione del suo carattere necessariamente discrezionale”.

[20] Per quanto nell’ordinamento siano presenti norme che espressamente sembrano prevedere esercizi ‘abusivi’ del diritto, quali: l’art. 833 c.c., che vieta espressamente gli atti emulativi nell’esercizio della proprietà, la minaccia di far vale un diritto ex art. 1438 c.c., il divieto di concorrenza sleale di cui all’ art. 2598 c.c., il divieto di immissioni eccedenti la normale tollerabilità (art. 844, co. I, c.c.), l’abuso dei poteri del genitore (art. 330. c.c.), l’abuso del creditore pignoratizio e dell’usufruttuario (artt. 2793 e 115 c.c.); la giurisprudenza, come nel caso della sentenza in commento, ormai è approdata al solido convincimento che non sia necessaria una norma: invero, ritiene che l’abuso rappresenti appunto un principio, una clausola a sé stante e auto sufficiente, in grado di fungere da grimaldello per sanzionare ex post le situazioni soggettive ritenute contrarie ai principii che permeano l’ordinamento giuridico e ricavabili dalla Costituzione.

[21] Acuta dottrina ha messo in luce il rapporto dialettico intercorrente tra gli interventi statuali e la libertà economica dei privati, elaborando la figura di mercato come locus artificialis: si fa riferimento a N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 2004.

[22] Si veda V. Planiol, Traité élémentaire de droit civil, Paris, 1931, p. 312 ss.: l’autore reputa che la «formule “usage abusif des droits” est une logomachie, car si j'use de mon droit, mon acte est licite; et quand il est illicite, c'est que je dépasse mon droit et que j'agis sans droit […]; tout acte abusif, par cela seul qu'il est illicite, n'est pas l'exercise d'un droit, et que l'abus de droit ne constitue pas una cátegorie juridique distincte de l'acte illicite».

Sul punto si tornerà in seguito. Sia sufficiente precisare che la dottrina è divisa sulla qualificazione dell’atto abusivo, quale illecito o quale atto invalido.

[23] Così R. Amatore, op. ult. cit., p. 9.

[24] Basti pensare al D.L. 3 maggio 2016, n. 119, rubricato “Disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e concorsuali, nonché a favore degli investitori in banche in liquidazione”, con cui sono stati introdotti nel nostro ordinamento strumenti di tutela privata del credito, quali il c.d. prestito vitalizio ipotecario, il c.d. nuovo patto marciano, regolato dall’art. 48-bis T.U.B.: per un’analisi più approfondita si rimanda a G. D’Amico - S. Pagliantini - F. Piraino - Tiziana Rumi, I nuovi Marciani, Torino, 2017.

Questo tipo di interventi legislativi, a favore della cosiddetta ‘autoregolazione’, sarebbero vòlti al raggiungimento di un maggior grado di ‘efficienza’ dell’ordinamento, spesso a scapito di garanzie e tutele giurisdizionali. L’argomento meriterebbe più ampio respiro; qui non può che rinviarsi a due pregevoli scritti che affrontano il tema: facciamo riferimento a N. Irti, Capitalismo e calcolabilità giuridica, in Un diritto incalcolabile, Torino, 2016; Id., Destino di Nomos, in Elogio del diritto, Milano, 2019.

[25] Nella prassi si è soliti proporre ricorso e piano in un unico atto. A favore di una lettura della norma che esalti la distinzione tra ricorso, da un lato, e piano e proposta, dall’altro, G. Verna, “La relazione professionale che accompagna il piano di concordato preventivo”, in Dir. Fall., 2007/1, pp. 231-232. Vedi anche M. Rubino, Il piano finanziario proposto ai creditori e l’individuazione dei crediti privilegiati”, in AA. VV., Gestione delle procedure concorsuali nella crisi d’impresa, Milano, 2016, pp. 151 ss.

[26] Per quanto riguarda il piano sarebbe da distinguere: “La fattibilità del piano concordatario è uno dei presupposti di ammissibilità della proposta di concordato preventivo e si distingue la fattibilità giuridica da quella economica, soltanto la prima è demandata al sindacato da parte del tribunale, essendo la seconda invece oggetto del voto di convenienza dei creditori”, così in una nota a Trib. Arezzo, 19 dic. 2014, n. 158, L. Vecchione, Le concrete modalità di esecuzione del piano concordatario accettate dai creditori divengono insindacabili perché “contrattualizzate”, in Giustiziacivile.com, 28-10-2015.

[27] M. Rubino, op. ult. cit., pp. 153-154.

[28] Questa sembra essere la lettura operata da L. Abete, La struttura contrattuale del concordato preventivo: riflessioni a latere della sentenza n. 1521/2013 delle Sezioni Unite, in Dir. fall., n. 6, 2013.

[29] Così S. Pacchi, L’abuso del diritto nel concordato preventivo, in Giust. civ., 4/2015, pp. 789 ss.

[30] È la posizione di S. Pacchi, op. ult. cit., pp. 791-792. L’A. cita anche il pensiero di A. Rocco, che nella sua Prefazione a Il concordato nel fallimento e prima del fallimento, Torino, 1902, a proposito dello strumento concordatario scriveva «dal punto di vista pratico ci offre, accanto al beneficio di una soluzione più rapida, più semplice, meno costosa del fallimento dichiarato o imminente, il pericolo di frodi da parte dei debitori di mala fede, e di soprusi da parte dei creditori disonesti o rapaci».

[31] Questo il pensiero di M. Ferro, L’abuso del concordato preventivo, in G. Minutoli (a cura di), Crisi di impresa ed economia criminale, Milano, 2011, p. 206.

[32] Si dice che con gli ultimi interventi legislativi abbiamo assistito a una modificazione delle procedure concorsuali che, da prettamente esecutive che erano, sarebbero divenute negoziali, anche per favorire il debitore in crisi e per meglio garantire il patrimonio aziendale da situazioni di debito: va ricordato, infatti, che il debitore che accede al concordato conserva il potere di gestione del proprio patrimonio; tra gli altri, S. Pacchi, L’abuso, cit., p. 789.


3. Lo scioglimento dai contratti pendenti ex art. 169-bis della Legge fallimentare.

Nella sentenza in commento, la categoria dell’abuso parrebbe attagliarsi all’art. 169-bis L. fall.; il quale permette al debitore, sia prima, che dopo il decreto di apertura del concordato, di chiedere lo scioglimento dai contratti pendenti.

La prima questione interpretativa che i giudici hanno dovuto affrontare è stata quella della difficile qualificazione di contratto pendente ai sensi dell’art. 169-bis della Legge fallimentare. L’interpretazione letterale della norma, nella sua formulazione originaria, si discostava dal tenore dell’art. 72 L. fall., il quale espressamente definisce pendenti, e quindi passibili di scioglimento, quei contratti ancora “ineseguiti o non compiutamente eseguiti da entrambe le parti”. Il testo dell’art. 169-bis, allora, poteva far propendere per una lettura estensiva del concetto di pendenza, per differenziare il sistema del concordato preventivo da quello del fallimento: si riteneva, infatti, che la locuzione “in corso di esecuzione” potesse riferirsi anche ai contratti eseguiti da una sola delle parti[1].

Per evitare ulteriori incongruenze interpretative, la norma è stata riformata dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito dalla l. 6 agosto 2015, n. 13, in modo da equiparare la fattispecie del concordato a quella del fallimento[2].

Ancorché il fatto si fosse verificato nel tempo in cui era vigente la normativa ante riforma, gli Ermellini sembrano sposare un’interpretazione restrittiva della norma e giudicano scorretto[3] non considerare eseguito un contratto a prestazioni corrispettive, “ove uno dei contraenti abbia adempiuto la propria prestazione quantomeno quella da ritenersi principale[4] nel sinallagma contrattuale”.

Nel caso di specie, quindi, il contratto di compravendita non doveva reputarsi più pendente, giacché – pagando il prezzo - una delle parti aveva già eseguito la propria prestazione principale.

Se da un lato, nel riformare la decisione della Corte d’Appello dell’Aquila, la Suprema Corte sembra rifarsi a un paradigma interpretativo della disposizione della Legge fallimentare, dall’altro, a sostegno del proprio convincimento, invoca la teoria dell’abuso del diritto.

Ad una prima analisi, l’art. 169-bis parrebbe suscitare il problema dell’abuso. Questo perché l’istanza di sciogliersi dai contratti pendenti può divenire motivo di conflitto fra diversi interessi contrapposti: quello “del contraente in bonis a vedere regolarmente eseguito il rapporto negoziale in essere con il contraente concordatario; l’interesse dei creditori concorsuali a non vedere pregiudicati i propri diritti in dipendenza dell’esecuzione d’un rapporto negoziale in costanza di procedura; l’interesse del contraente concordatario a dare completa esecuzione al piano sottoposto all’approvazione dei creditori ed all’omologazione del Tribunale senza subire le conseguenze, soprattutto economiche, d’un rapporto negoziale in essere[5]. Se ruolo del giudice sia quello di ricomporre interessi, ovvero di applicare la Legge, è tema spinoso e di non facile analisi in poche pagine[6]: in ogni caso, verrebbe da dire, sostenuti da acuta dottrina, che sono le norme ad essere, sempre, un precipitato di interessi contrapposti[7].

Secondo la Cassazione, nel momento del giudizio di ammissibilità del piano di concordato, il giudice avrebbe dovuto operare un bilanciamento tra l’interesse del debitore allo scioglimento dai contratti pendenti e quello del contraente in bonis a non rimanere pregiudicato dalla procedura concordataria, per tutelare “l'interesse pubblicistico al regolare svolgimento, oltre che al buon esito, della procedura concorsuale[8].

L’abuso sarebbe da rintracciare nella condotta del debitore, il quale avrebbe fatto ricorso allo strumento concordatario per fini ultronei, dilatori, opportunistici: il promittente venditore, infatti, si sarebbe servito della domanda di concordato e, in particolare, della disposizione di cui all’art. 169-bis L. fall. proprio per non trasferire la proprietà del bene al promittente acquirente e per sciogliersi dal contratto prima di adempiere la propria prestazione. La lesione della sfera giuridica del contraente in bonis si sostanzierebbe nell’inserimento dell’immobile nell’attivo concordatario, che gli garantirebbe soltanto il diritto a un indennizzo pari all’importo versato, “falcidiato” dell’85%.

Ecco allora delinearsi la “fattispecie” dell’abuso: il debitore, pur esercitando “formalmente”, in modo legittimo, il proprio diritto di proporre istanza di concordato e di chiedere lo scioglimento dai contratti pendenti, agirebbe non iure perché toccherebbe la sfera giuridica di un altro soggetto. Così delineato, però, lo schema dell’abuso, ancora una volta, sembra risolversi in illecito. La condotta del debitore, provocando un danno ingiusto, si colora di un qualche grado di colpevolezza e diviene, quindi, illecita[9].

 

[1] Una parte della dottrina adduceva infatti che nel concordato preventivo sarebbero definibili ‘contratti pendenti’, non solo i contratti bilaterali ineseguiti o parzialmente eseguiti da entrambe le parti, ma anche quelli unilaterali con obbligazioni da una sola delle parti, così A. Dolmetta, Concordato preventivo e contratti “pendenti” (in margine alle modifiche portate all’art. 169 bis l.fall. dal D.L. n. 83/2015), in Fall., 4/2016, p. 400: “[..] per scriminare tra contratti bilateralmente ineseguiti e contratti unilateralmente ineseguiti occorrerebbe dimostrare che l’esigenza sostanziale, che presiede alla disposizione dell’art. 169 bis qui in discorso, si ponga solo per la prima ipotesi e non anche per la seconda. Cosa, quest’ultima, che nessuno, almeno per quanto risulta, ha mai tentato di fare e che, a me pare, non avrebbe alcun senso andare a saggiare. Nei fatti, ben può capitare che a risultare determinante per il buon esito di un concordato sia proprio la sospensione o lo scioglimento di un contratto alla cui esecuzione manchi, in tutto o in parte, la prestazione del debitore che presenta la relativa domanda”; ma anche M. Fabiani, Per una lettura costruttiva della disciplina dei contratti pendenti nel concordato preventivo, in www.ilcaso.it; B. Inzitari, I contratti in corso di esecuzione nel concordato: l’art. 169 bis l.fall., in IlFallimentarista.it.

[2] Contra, acuta dottrina faceva notare che non vi fosse una reale equiparazione anche post riforma del 2015: sostiene, infatti, A. Dolmetta, op. ult. cit., p. 398, che “sostituire “contratti in corso di esecuzione” con “contratti non interamente eseguiti” appare assai significativo, se dalla relativa formula normativa si lascia fuori - secondo quanto per l’appunto è accaduto - proprio il segmento “da entrambe le parti”: che è quanto propriamente connota, all’opposto, la frase normativa fatta propria dall’art. 72. A tutto voler concedere, insomma, sul piano oggettivo il problema della fattispecie assunta a presupposto del potere di sospensione e/o di scioglimento si trova allo stesso punto in cui era prima dell’intervento legislativo del 2015”.

[3] L’interpretazione pare conforme ad altri recenti arresti della Cassazione. Ex multiis, Cass. civ. Sez. I, Sent., 15-06-2020, n. 11524, in CED: “avendo la banca esaurito la propria prestazione (quantomeno principale) con l'effettuazione della anticipazione, ne consegue l'inapplicabilità della L. Fall., art. 169 bis, alle singole operazioni di anticipazione ancora in corso”.

[4] Un ulteriore problema interpretativo potrebbe riguardare la distinzione tra la prestazione principale e quella accessoria: il giudice, analizzando il testo del contratto, dovrebbe trarre la soluzione attraverso i canoni ermeneutici di cui agli art. 1362 ss. del Codice civile. Molto spesso, però, per dare soluzione giuridica al caso, l’interprete sembra farsi guidare dalla ricerca della causa cosiddetta “concreta” del contratto.

Nel caso di specie, trattandosi di contratto preliminare di compravendita, è il Codice civile all’art. 1476 a indicare obbligazione principale del venditore far acquistare la proprietà della cosa al compratore.

[5] Così L. Jeantet, in R. Amatore – L. Jeantet, Il nuovo concordato preventivo, Milano, 2016, p. 84.

[6] Per un quadro generale delle posizioni della dottrina sul punto si rimanda a un recente saggio di B. Montanari, La figura del giurista al tempo del ‘post-pensiero’, in Eur. Dir. Priv., 2/2020, pp. 423 ss.

[7] È questo l’insegnamento di N. Irti, Introduzione allo studio del diritto privato, cit., p. 12: “La valutazione della realtà sociale e degli interessi in conflitto sta prima della norma; e si traduce nella scelta di effetti giuridici, che lo studioso considera come un dato esterno e che si limita a conoscere ed a costruire. Noi non rispondiamo alla domanda sul quia, ma alla domanda sul quomodo”.

[8] Il controllo giudiziale, nell’ambito del concordato preventivo, pare limitarsi al rispetto della legalità della procedura; quanto al merito, il giudice potrebbe operare soltanto in caso di “manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati”: così I. L. Nocera, Analisi civilistica degli accordi di ristrutturazione dei debiti, Torino, 2017, p. 28.

[9] Contra F. Galgano, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, cit., p. 37. L’A. ritiene l’atto abusivo invalido, quindi “destinato ad essere privato di effetti” e non illecito. Viene da chiedersi, però, come possa una fonte geneticamente valida subire delle modificazioni successive; per di più ad opera di una condotta conforme al modello descritto dalla fonte stessa.

Contra anche C. Castronovo, Eclissi, cit., p. 111, nt. 50: “Se già sul piano linguistico abuso è qualificazione di una condotta e sul piano normativo ingiustizia è qualificazione del danno, non è facile capire come la seconda possa convertirsi nel primo”. Varrebbe rilevare, però, che illecito non è solo il danno ingiusto, ma anche una condotta dolosa o colposa che cagioni quest’ultimo: la condotta (quantomeno colposa) e il danno sono entrambi elementi della fattispecie abusiva, come dell’illecito. L’A. reputa che l’abuso abbia una struttura monistica “che si risolve completamente nell’apprezzamento in sé della condotta del titolare del diritto”. Ma, dalla visuale degli effetti, l’abuso sembra rilevare e come condotta (dolosa o colposa) e quale lesione della sfera giuridica altrui e quindi quale ‘fonte’ di responsabilità.


4. La condotta ‘abusiva’ e la teoria della doppia rilevanza.

La sentenza in commento appare poco chiara riguardo alla qualificazione soggettiva della condotta del debitore: da una parte, infatti, la Cassazione ritiene che il promittente venditore abbia “procrastinato dolosamente la stipula del contratto definitivo”, evocando, quindi, il dolo come elemento soggettivo; dall’altra ritiene che egli abbia violato l’obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede, ex art. 1375 del Codice civile. Ma i piani, del dolo e della buona fede in executivis, non sono sovrapponibili: quest’ultima, infatti, lungi dal riguardare una situazione psicologica del contraente, impone “a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere da specifici obblighi contrattuali[1].

Sembra che la Cassazione confonda i piani del dolo e della buona fede in senso oggettivo; e poi quelli della buona fede e dell’abuso: può risultare emblematico un passaggio della sentenza in cui la Suprema Corte, prima, rileva il contrasto della condotta del debitore con l’art. 1375 c.c.; successivamente, a fortiori, come se le figure fossero equivalenti, invoca anche la figura dell’abuso, il quale, così descritto, assume le sembianze di una ‘superfetazione’: confondendo quest’ultimo con l’esecuzione del contratto secondo buona fede, si rischia, infatti, di invocare principii quando vi sono fattispecie applicabili, valide ed efficaci[2].

Nel ragionamento si innesta, poi, un ulteriore dubbio: come può la condotta del debitore essere conforme allo schema formale previsto da una norma (la quale, è bene ripeterlo, è il prodotto di un “conflitto” di interessi[3] e non la fonte di un bilanciamento che si svolga a posteriori) e allo stesso tempo inficiare la sfera giuridica altrui?

Sotto la lente della rilevanza giuridica l’agire iure del debitore significa agire secondo il modello descritto dalla fonte: “esercitare è tenere la condotta conforme al diritto[4]. Dovrebbe dirsi, a rigore, che ogni diritto è la propria fonte[5]: il soggetto potrà tenere o non tenere la condotta conforme al modello, ma (e qui è il punto cruciale) il comportamento futuro è già approvato dalla norma come meritevole di tutela. Il carattere abusivo non potrà essere ricercato nella qualifica della condotta del soggetto che ha agito rispettando lo schema formale imposto dalla fattispecie: “nessun abuso sarà pensabile dal di dentro, ossia svolgendo il giudizio di conformità tra condotta e diritto[6], ma andrà rintracciato all’esterno, in altra e diversa fonte[7].

Il giudizio di riprovevolezza-abusività si dovrà necessariamente fondare su un altro modello (o titolo), onde evitare di cadere nel vuoto giuridico dell’irrilevanza[8].

Viene allora in rilievo la teoria della “doppia rilevanza”: se l’esercizio del diritto si pone nello schema descritto dalla fonte è rilevante ed efficace, “solo che, dinanzi ad esso, si staglia altra rilevanza ed efficacia, secondo un diverso e parimenti applicabile schema formale[9]. Non sarà allora una questione di conflitto tra fonti, bensì tra effetti[10]. Usando come laboratorio il caso prospettato nella sentenza in commento: il debitore esercita il proprio diritto di chiedere di sciogliersi da un contratto pendente, conformemente a una fonte valida (art. 169-bis L. fall.); allo stesso tempo, però, lede l’interesse del contraente in bonis, procrastinando dolosamente l’esecuzione del contratto, e può divenire responsabile di illecito[11] (artt. 1440 e 2043 c.c.). La condotta del debitore risulta rilevante secondo due fonti, entrambe valide: sarà il giudice, allora, a valutare eventuali compatibilità o conflitti tra gli effetti che scaturiscono dalla condotta del promittente venditore, in un giudizio combinatorio che si deve svolgere necessariamente ex post[12]. La prevalenza della pretesa del debitore di liberarsi dal peso del contratto e la pretesa del creditore a vederlo eseguito dipenderà dalla disciplina degli effetti “i quali si avvicendano e combinano proprio in ragione della contemporanea validità delle rispettive fonti[13].

Il profilo teleologico, che sarebbe proprio della “fattispecie” abusiva, “positivamente” ricostruito, si traduce, così, in una forma di rilevanza co-testuale[14].

L’abuso si mostra allora quale non-argomento: se nemmeno il dolo è in grado di rendere invalida una fonte (il contatto continua a spiegare i propri effetti; può essere soltanto titolo di risarcimento se si verifica un danno) come può invalidarla la mala fede[15]? Ovvero, meglio, come può la buona fede essere criterio di interpretazione restrittiva della norma, cioè escludere un caso (l’esercizio del diritto di scioglimento) dal ‘dominio’ della fattispecie?

L’abuso sembra qui celare una valutazione assiologica di ingiustizia: il giudice avverte come scorretto e ingiusto che il concordato sottragga al promittente acquirente il bene che egli ha pagato. Sul piano individuale si potrebbe anche convenire sul senso d’ingiustizia. Se però si trascorre al piano collettivo, il concordato ripete la disciplina delle procedure concorsuali, nell’interesse della massa. Sotto questa luce, l’interesse dei creditori potrebbe ben prevalere su quello del singolo. More solito, il versante politico-giuridico del bilanciamento appare in sé tecnicamente insufficiente; occorre scendere alla sistematica normativa co-testuale.

 

[1] Così C.M. Bianca, Diritto civile. Il contratto, Milano, 2000, p. 505.

Nel caso di specie, non riesce di collocare la buona fede nell’esecuzione del contratto: dal momento che il promittente venditore non ha eseguito del tutto la propria prestazione principale, egli è inadempiente, ex art. 1218 c.c.; non si è in presenza di una situazione di slealtà o lesione di legittimi affidamenti, né di obblighi accessori di salvaguardia; tanto è vero che il contraente in bonis avrebbe potuto agire per la risoluzione del contratto, ex art. 1453 c.c., anche dopo l’istanza di apertura del concordato. Come spiega bene L. Nivarra, nella ‘voce’ Esecuzione del contratto, in Enc. dir., Il contratto, Milano, 2021, p. 535, il concetto di esecuzione secondo buona fede include “tutte quelle ipotesi nelle quali le parti svolgono un’attività, che pur non essendo immediatamente finalizzata a concretizzare il programma negoziale, in vario modo a quest’ultimo si collega”.

[2] Ci si chiede con M. Orlandi, Introduzione alla logica giuridica, Bologna, 2021, p. 189: “[..] potrebbe il giudice-giurista abbandonare il semantema della fattispecie, per «applicare» direttamente un semantema senza fattispecie? E, segnatamente, potrebbe egli applicare direttamente il principio (c.d. Drittwirkung), scritto nella o ricavabile dalla legge gerarchicamente superiore della Costituzione e degli atti equiparati, ignorando le altre fattispecie?”.

Sulla auspicabile distinzione tra gli ambiti di operatività delle categorie dell’abuso e della buona fede, v. ancora C. Castronovo, Eclissi, cit., p. 108: “[…] tra abuso e buona fede si produce una congestione, un sovrapporsi di figure, che vanno invece distinte [..] la buona fede ha un ambito di applicazione suo proprio, all’interno del quale l’abuso del diritto non è in grado di aggiungere nulla.

[3] L’interesse cosiddetto ‘sotteso’ all’art. 169-bis, a dire il vero, è proprio quello di permettere al debitore in crisi di sciogliersi da contratti estremamente onerosi e di difficile attuazione: sul punto le attente riflessioni di A. Mussa, La sospensione dei contratti in corso di esecuzione nel concordato con riserva: profili critici, in Ilfallimentarista.it, fasc. 19 ottobre 2015, Nota a: Tribunale Treviso, 24 febbraio 2015, sez. II, la quale sostiene che “ le disposizioni di legge citate (artt. 168 e 169-bis l. fall.) sono volte a tutelare l’imprenditore intenzionato a raggiungere una soluzione concordataria e per la quale è necessaria la cristallizzazione della situazione debitoria, funzionale a garantire da aggressioni o interventi esterni l’integrità del patrimonio destinato all’attuazione dello strumento concordatario”.

Dello stesso avviso, seppur da un punto di vista differente, le attente riflessioni di A. Dolmetta, op ult. cit., p. 401, nt. 26, il quale mette in luce come l’”interesse” del contraente in bonis sia già tutelato dalla norma attraverso la corresponsione dell’indennizzo: “a proposito di questa tesi della valutazione comparativa, sembrano importanti due ordini di osservazioni. Il primo è molto semplice: nel contesto dello strumento prefigurato dall’art. 169 bis l’interesse del contraente in bonis è considerato solo sotto il profilo dell’indennizzo dovutogli. Non anche altrimenti (: Trib. Cassino 29 ottobre 2014, in ilcaso.it: “il riconoscimento al terzo contraente di un indennizzo … costituisce una forma di bilanciamento dei contrapposti interessi”). Più articolato si manifesta il secondo rilievo. Nell’ambito della norma dell’art. 169 bis a contare - con riferimento alla sospensione e/o scioglimento dei contratti pendenti - è non tanto (e direttamente) il risultato, quanto piuttosto le modalità caratteristiche dell’azione volta al perseguimento di quel risultato. Il discorso di questa norma, cioè, si pone a monte, nel senso che riguarda gli strumenti: non quindi il “migliore soddisfacimento dei creditori”, bensì il rapporto tra l’azienda del debitore concordatario, o comunque il compendio patrimoniale ivi implicato, e il contratto di cui si vorrebbe predicare sospensione e/o scioglimento”.

[4] M. Orlandi, Contro l’abuso del diritto, in Nuova giurisprudenza civile commentata, parte seconda, 2010, p. 130. L’autore afferma che l’abuso del diritto non sia altro dal difetto del diritto, poiché “titolarità ed esercizio sono concetti complementari.

[5] Da segnalare le notazioni sul concetto giuridico di fonte di M. Orlandi, Introduzione alla logica giuridica, cit., p. 54, il quale sostiene che: “Il concetto di predicato non può andare disgiunto dal predicante, cioè dalla descrizione delle qualifiche, allo stesso modo che nessuna qualifica è pensabile fuori dalla propria fonte, cioè dalla propria oggettiva posizione e descrizione; in tanto posso affermare che Tizio deve a Caio la somma X entro il termine Y, in quanto apprendo la descrizione di queste qualifiche dalla fonte del rapporto (ad esempio, dal testo della legge o del contratto). Sembra emergere la debolezza delle metafore dell’appartenenza e della causalità, secondo cui l’obbligo «ha» una fonte, o «discende» da una fonte; mentre si direbbe, a rigore, come l’obbligo – e così il diritto, e ogni altra situazione che si reputi rilevante – sia la propria fonte, e interamente si risolva nella propria disciplina, nelle concrete e singolari modalità del contegno recate dalla fonte”.

[6] M. Orlandi, Contro l’abuso del diritto, cit., p. 137.

[7] “[..] conforme al modello, la condotta esige un altro e diverso giudizio di riprovazione”, così M. Orlandi, op. ult. cit., p. 137. L’A. in altro scritto, M. Orlandi, La categoria dell’obbligazione ridotta, in Giustizia civile, 3/2019, pp. 467 ss., chiarisce il rapporto tra fonte, modello e titolo: “Il titolo, in altre parole, non sta nel fatto in sé, ma nel modello applicabile al futuro (ché, per i normativisti, non sarà altro dalla fattispecie), ossia nel significato tratto dalle fonti materiali”.

[8] Per maggiori riferimenti alla teoria c.d. dell’irrilevanza si vedano ora le pagine di M. Orlandi, Introduzione, cit., pp. 248 ss.: “O il comportamento è conforme alla fattispecie; oppure esso è difforme. Il comportamento abusivo appare qui per definizione difforme, ossia né sussumibile né assimilabile alla fattispecie. Sotto questa luce, esso si rivela semplicemente irrilevante, siccome non previsto: il comportamento abusivo è un caso non previsto”.

[9] Così, M. Orlandi, Contro l’abuso, cit. p. 136.

[10] Non è possibile, nell’economia di queste pagine, delineare in modo organico una rassegna su concetti come quelli di rilevanza, fonte, statuto giuridico, i quali meriterebbero ben più ampio respiro e per un’attenta analisi dei quali si rimanda a M. Orlandi, Introduzione, cit., passim.

È necessario chiarire, però, almeno il senso con cui si fa riferimento al concetto di rilevanza: nel testo, infatti, si intende rilevanza non solo come “giudizio di conformità fatto-fattispecie” (rilevanza cosiddetta statica o tassonomica); quest’ultima, infatti, va valutata nella dinamica della causalità giuridica: “sotto tale angolatura, non basta la mera classificazione, ma è necessario stabilire la rilevanza condizionale o causale della fattispecie, rispetto alla quale si svolge il giudizio conformativo. Ad esempio, il fatto è illecito non già perché è conforme alla fattispecie «fatto colposo o doloso» ma perché la fattispecie nella quale esso è sussunto è causa dell’obbligazione risarcitoria […]. Il caso non rileva siccome tassonomicamente sussumibile in una fattispecie; ma solo se sussumibile nella fattispecie normativa, ossia se esso valga come causa di effetti giuridici”: così, M. Orlandi, Introduzione, cit., pp. 168-169.

[11] Si rimanda ancora a M. Orlandi, Contro l’abuso, cit., p. 138: “L’abuso finisce allora per risolversi nella qualifica dell’illiceità dell’atto di esercizio; il quale atto – in ragione di altra specifica fonte – implicherà l’effetto risarcitorio”.

[12] Sul punto M. Orlandi, Introduzione, cit., p. 253: “La logica giuridica suscita una diversa domanda. Non già: «È il comportamento X abusivo»? bensì: «Quali effetti discendono dal comportamento X?»”.

[13] M. Orlandi, Contro l’abuso, cit., pp. 136-137.

[14] Occorre richiamare M. Orlandi, op. ult. cit., pp. 129-130: “Questa metodica dell’intendere giuridico nega potersi una norma ricavare contro il semantico, ossia a prescindere dalla legge della codificazione e della sistematica co-testuale. La fissazione del confine, inteso come campo di significazione o sussunzione primaria della fattispecie, dipende in primis dai modi della codificazione, ossia dalla tecnica con cui è fissato il significato degli enunciati vigenti. [..] Il significato si raggiungerebbe attraverso un processo lineare, per gradi o stadî di avanzamento. Ne discende che il ricorso al profilo teleologico risulterebbe meramente eventuale e inopponibile alla codificazione tecnica, testuale e co-testuale”.

[15] La questione dell’abuso come forma di irrilevanza si risolve in ciò: se la buona fede possa essere o meno criterio di interpretazione restrittiva della fonte, se cioè essa sia in grado di rendere impossibile l’applicazione della fattispecie “diritto di sciogliersi dai contratti pendenti” alla condotta X.


5. Il ‘criterio’ dell’analogia.

Resta in ogni caso irrisolta una questione: nell’ipotesi in cui la condotta del debitore non sia qualificabile come dolosa, che ne è della lesione alla sfera giuridica del contraente in bonis? È possibile prospettare una soluzione al problema giuridico senza dover scomodare i principii costituzionali e la buona fede. È necessario, infatti, valutare prima se sia possibile estrarre un significato dalle norme prossime al caso, “vagliando connessioni sistematiche e nessi analogici[1].

La lesione della parte che ha dato completa esecuzione al contratto è un rischio che l’art. 169-bis non elimina mai: astrattamente il debitore in ‘crisi’, dopo aver ricevuto la controprestazione, potrebbe sempre presentare domanda di concordato e istanza di scioglimento da quel contratto che deve ancora eseguire. Di fronte a questa ‘ingiustizia’, il giudice si staglia quale figura di controllo e di argine[2].

Sulla rilevanza dell’autorizzazione giudiziale allo scioglimento, quale elemento della fattispecie di cui all’art. 169-bis L. fall., la dottrina pare divisa: vi è infatti chi, accentuando la componente contrattuale e il ruolo svolto dai creditori, rinviene nell’intervento del giudice un mero controllo di legittimità e nello scioglimento una sorta di “recesso autorizzato[3]; altri, invece, respingendo la distinzione tra controllo di merito e di legittimità, reputa che la disposizione concordataria lasci al giudice uno spazio occupato dalla “clausola generale della c.d. giusta causa”[4]: il ricorrere della quale diverrebbe condizione necessaria per lo scioglimento del contratto.

Ma il criterio in base al quale autorizzare o meno lo scioglimento è indicato dalla norma ed è quello della pendenza. Nel caso in questione, il contratto risulta del tutto eseguito da una sola delle parti, il promissario acquirente, che ha già versato l’intero prezzo del bene; si insinua allora il dilemma interpretativo: si può considerare pendente un contratto già eseguito da uno dei contraenti?

Quello che viene affrontato come un problema di abuso si rivela invece un problema di lacuna. Mentre, infatti, l’art. 72 L. fall. definisce espressamente ‘pendente’ il contratto non eseguito “da entrambe le parti”, quest’ultima locuzione manca nell’art. 169-bis. Il silenzio della norma, non pare, però, esprimere un divieto; esso allora può qualificarsi come un nulla; ossia, appunto, come una lacuna[5]. L’identità di ratio[6] tra le due norme, la prossimità semantica e la vicinanza sistematica[7], parrebbero implicare l’effetto teleologicamente assimilabile[8]: così da estendere “l’effetto della norma con medesima ratio (art. 72 L. fall.) al caso regolato dalla norma silente (art. 169-bis L. fall.)”[9].

Un’interpretazione restrittiva del concetto di pendenza sembra coerente, tra l’altro, con il principio generale che regola i contratti, che è quello stabilito dall’art. 1372 del Codice civile, e con l’art. 1406 c.c., che disciplina la cessione del contratto; quest’ultima norma sembra prevedere, anche nell’interpretazione della Cassazione (Cass. civ., Sent., 22 gennaio 2010, n. 1204), che non si possa cedere un contratto a un terzo se vi sia stata esecuzione ex uno latere. Infatti, nel decidere per l’impossibilità della cessione di un contratto preliminare di vendita, in forza del quale una delle parti aveva già versato l’intero prezzo, la Suprema Corte ha statuito che “occorre che le prestazioni poste a carico delle parti non siano state interamente eseguite, giacché in tal caso non è possibile la successione di un soggetto a un altro nel medesimo rapporto che caratterizza la cessione del contratto; nell'ipotesi in cui sia stato già eseguita alcuna delle prestazioni a carico delle parti, potrebbe semmai verificarsi la cessione del credito”. L’opportunità di sciogliere un contratto, ancor più che cederlo, quando uno dei contraenti abbia già eseguito completamente la propria obbligazione, sembra violare il nesso di reciprocità posto a fondamento di ogni contratto a prestazioni corrispettive[10].

A seguito dell’assimilazione si dirà che, pure nel concordato, il rapporto contrattuale non può qualificarsi ‘in corso di esecuzione’ anche se soltanto una delle parti ha già eseguito interamente la propria prestazione.

Il criterio attraverso il quale il giudice avrebbe potuto dare risposta a “un’esigenza di giustizia” sembra essere quello dell’analogia: il ricorso a clausole generali e principii costituzionali, è preceduto[11]dalle norme simili in cui si svolge una vicinanza tale da rendere possibile la sussunzione o l’assimilazione del caso alla fattispecie concreta[12].

È necessario soffermarsi anche sulle ultime parole del comma I dell’art. 72 L. fall.: quest’ultimo statuisce che il curatore può decidere di sciogliersi dal contratto (se ricorrono le condizioni che abbiamo analizzato in precedenza), “salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto”.

Per quanto il termine “salvo che” possa suscitare l’idea di contrasto con qualcosa che precede, risulta evidente che, coerentemente con tutto il primo comma, anche questa parte che regola i contratti ad effetti reali impone, perché possa esservi pendenza, e quindi diritto di scioglimento, un’inesecuzione bilaterale[13]; perché il lemma possa avere senso logico, bisogna reputare compresa nella fattispecie anche l’ipotesi speculare: quella in cui non vi sia stato trasferimento, ma sia stato già pagato il prezzo; proprio come previsto nell’ambito della cessione del contratto, ex art. 1406 del Codice civile[14].

Poiché il caso in esame riguarda un preliminare di compravendita rimasto inadempiuto da una sola delle parti, la quale non ha trasferito la proprietà dell’immobile, risulta opportuno domandarsi se l’interpretazione analogica possa riguardare l’ultima parte del comma I dell’art. 72 L. fall.; l’ipotesi è percorribile soltanto se, come proposto in letteratura[15], si assegni al preliminare la forza di “comando negoziale già prodotto[16]. Così elaborato, quest’ultimo non è più “mero contratto che obbliga a contrarre, ma fonte degli effetti e dei diritti ed obblighi finali”[17]: in particolare, dottrina e giurisprudenza hanno iniziato a rintracciare nel preliminare di compravendita “un’efficacia reale differita[18]; se si considerasse oggetto del preliminare l’effetto traslativo del bene, “in quanto chi ha assunto l’impegno di contrarre è responsabile nei confronti dell’altra parte degli effetti sostanziali del contratto quale programmato[19], potrebbe essere l’ultimo frammento del comma I dell’art. 72 L. fall. a costituire oggetto di analogia[20].

 

[1] M. Orlandi, Introduzione, cit., p. 244.

[2] Risulta utile ripetere che nell’ambito del concordato preventivo il controllo relativo al merito della proposta spetta ai creditori: per un’analisi più approfondita si rinvia a I. L. Nocera, Analisi civilistica, cit., pp. 27 ss. e 48 ss.

[3] Così definito da M. Fabiani, Concordato preventivo, in Comm. cod. civ. e cod. coll., Scialoja - Branca – Galgano (a cura di), Bologna, 2014, p. 493, nt. 4. Posizione questa che è stata avallata anche da parte della giurisprudenza: “rilevato che la norma non indica un criterio in base al quale parametrare questo genere di autorizzazioni potendosi anche ritenere che si tratti di una mera presa d’atto di un diritto potestativo del debitore che sceglie di sciogliersi da un determinato rapporto giuridico nell’ambito di un proprio disegno imprenditoriale [..]”, Trib. di Salerno, Sez. III, 25 ottobre 2012, in ilcaso.it; “Non sembra superabile l’impasse in cui versa l’esercizio del potere autorizzatorio, nel senso che, una volta eseguito uno scrutinio di legittimità in ordine ai presupposti di accesso all’istituto […] nessun effettivo accertamento di merito sembra trovare ulteriore spazio”, Trib. di Pistoia, Sez. fall., 9 luglio 2013, in ilcaso.it.

[4] Questa la posizione assunta da A. Dolmetta, Concordato preventivo e contratti ‘pendenti’, cit., pp. 401-402. L’Autore ritiene che criterio cui deve ispirarsi il giudice per concedere o meno l’autorizzazione sia l’individuazione di una “giusta causa”: “L’idea della clausola generale, in effetti, può soccorrere per uscire dall’impasse costruito dalle perverse spirali delle nozioni di controllo di merito o invece di legittimità: non v’è dubbio, invero, che in tutti i casi in cui risulta, per legge, determinante la presenza di una situazione ascrivibile a una clausola generale, il giudice è senz’altro tenuto a verificare l’effettiva ricorrenza della medesima nei confronti della fattispecie concreta che è chiamato a valutare”. Per quanto il riferimento alla “giusta causa” si mostri meno ‘evanescente’ dell’appello all’abuso del diritto (verrebbe, infatti, da chiedersi se non sia la prima un concetto giuridico indeterminato), bisogna in ogni caso osservare come il testo della norma non faccia espresso riferimento ad alcun tipo di clausola generale: l’argomento andrebbe recepito, quindi, de iure condendo. Sulla distinzione teorica tra concetto giuridico indeterminato e clausola generale si rimanda C. Castronovo, Responsabilità civile, Milano, 2018, pp. 45 ss., in cui l’A. tratta dell’argomento a proposito dell’ingiustizia del danno.

[5] Per un’analisi del concetto di lacuna e del silenzio come divieto ovvero come nulla si rimanda a M. Orlandi, Introduzione, pp. 189 ss.

[6] La ratio si può ricavare sistematicamente dalle norme generali che regolano i contratti e dalle disposizioni sul fallimento e sul concordato: da un lato abbiamo il contratto che, di regola, ha forza di legge tra le parti e non può essere sciolto se non per mutuo consenso o nei casi espressamente previsti dalla legge (art. 1372 c.c.); dall’altra in ambito concordatario vige il principio della miglior soddisfazione possibile dei creditori e del minor sacrificio per il debitore.

Il principio generale, secondo il quale un contratto deve dirsi eseguito anche se soltanto una delle parti ha adempiuto per intero la propria prestazione, potrebbe ricavarsi anche dall’art. 1406 c.c.: a tal proposito si veda quanto scritto diffusamente nel presente paragrafo.

[7] Nell’art. 72 L. fall. manca l‘autorizzazione giudiziale solo perché la procedura è già gestita dal curatore, il quale decide se subentrare nel contratto o scioglierlo.

[8] Vengono in rilievo le parole di M. Orlandi, op. ult. cit., p. 190: “La lacuna non consiste qui nel difetto tout court di una norma. Manca, non una norma tout court, ma una norma teleologicamente «giusta». La quale distingua, prevedendo effetti diversi per casi dissimili; oppure unifichi, disciplinando allo stesso modo casi teleologicamente (razionalmente) assimilabili”.

[9] Così M. Orlandi, op. ult. cit., p. 191.

[10] È quanto sostenuto da autorevole dottrina proprio in tema di tutela del promissario acquirente: V. Colesanti, Durata del processo e tutela del promissario di vendita immobiliare, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1/2009, p. 101, il quale sostiene che “del resto, ognuno sa che il disposto dell’art. 72 trae la sua origine dalla dottrina del Bonelli, imperniata sul rilievo da accordare al principio del c.d. sinallagma funzionale, che nei rapporti bilaterali non consente di dissolvere il nesso di interdipendenza tra prestazione e controprestazione nel momento dell’esecuzione: il soggetto in bonis non può essere tenuto a quanto da lui dovuto se il contrapposto suo diritto vien piegato alla falcidia fallimentare”. L’A. mette in luce (ivi pp. 101-102) la distinzione tra l’art. 72 e l’art. 75 L. fall., considerando quest’ultima norma eccezionale: “ […] per considerare la vicenda come ancora pendente da ambo i lati, il legislatore ha dovuto dettare una norma specifica, derogatrice dell’altrimenti regola generale che postula l’inesecuzione da entrambe le parti. Ma pare allora chiaro che quante volte una disciplina apposita e derogatrice non ci sia, non possa che riprendere valenza la regola generale [...]”.

[11] Prima di uscire dalla “prigione semantica”, il giudice deve vagliare tutte le ipotesi possibili di soluzione logicamente e testualmente coerenti. Vengono alla mente le evocative parole di N. Irti, , Riconoscersi nella parola. Saggio giuridico., Napoli, 2020, p. 36: “L’anti-intellettualismo sospinge verso la ‘vita’, la ‘realtà’, l’’esperienza’, ma codesta concretezza e immediatezza non esprime né può esprimere, diritto, il quale implica un pensiero ordinante, un complesso di schemi e forme regolatrici”.

[12] M. Orlandi, op. ult. cit., pp. 244-245.

[13] La lettera della norma parrebbe far pensare all’inutilità di quel ‘salvo che’, il quale testualmente non si pone in contrasto con l’ipotesi di scioglimento prevista dal comma I dell’art. 72 L. fall. per tutti gli altri contratti. La superfluità, che non si tramuta mai in contraddizione, in questo caso pare rafforzare l’idea che il legislatore abbia voluto elaborare un concetto di pendenza bilanciato sugli inadempimenti di ambo le parti.

[14] Si rimanda a quanto riportato diffusamente in questo paragrafo. Il parallelismo tra l’art. 1406 c.c. e l’art. 72 L. fall. viene notato anche da L. Cattani, Trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c. e successivo fallimento del promittente venditore: le Sezioni unite “aggiustano il tiro”, in Giur. comm., 4/2016, pp. 757 ss., il quale appunto mette in luce la “tendenziale corrispondenza tra quanto previsto dall’art. 72, primo comma l. fall., […] e l’art. 1406 c.c.”.

[15] Si fa riferimento alla suggestiva teoria elaborata da L. Montesano in Contratto preliminare e sentenza costitutiva, Napoli, 1953. Sulla scia della dottrina francese, secondo la quale la “promesse de vente vaut vente”, l’A. ‘svaluta’ il ruolo del contratto definitivo riducendolo a “mero presupposto di fatto per la composizione giuridica di un conflitto di interessi già predisposta pienamente definitivamente col contratto preliminare” (Id., op. ult. cit., p. 104).

[16] La definizione è di L. Montesano, op. ult. cit., p. 85. L’A. assegna al contratto definitivo “mera funzione di documentazione” (così A. Chizzini, Tipicità e processo civile, in Jus, 2-3/2020, nt. 54); con esso le parti “si obbligano a confessare in una certa forma l’avvenuta produzione di un negozio” (L. Montesano, ivi, p. 79).

[17] Così F. Gazzoni, Il contratto preliminare, Torino, 2010, p. 21.

[18] Le parole sono di F. Gazzoni, op. ult. cit., p. 24. In tal senso anche un’importante sentenza della Cassazione (S.U. 18 maggio 2006, n. 11624, in Foro it., 2006, I, c. 2009) con cui i giudici hanno ritenuto che il contratto preliminare non possa più essere valutato “come un semplice pactum de contrahendo, ma come un negozio destinato già a realizzare un assetto di interessi prodromico a quello che sarà compiutamente attuato con il definitivo, sicché il suo oggetto è non solo e non tanto un facere, consistente nel manifestare successivamente una volontà rigidamente predeterminata quanto alle parti e al contenuto, ma anche e soprattutto un sia pure futuro dare: la trasmissione della proprietà, che costituisce il risultato pratico avuto di mira dai contraenti”.

[19] Così A. Chizzini, op. ult. cit., p. 339 nt. 54.

[20] Ripetendo il ragionamento svolto in precedenza: si estenderebbe alla norma silente (l’art. 169-bis L. fall.) l’effetto previsto dalla norma con medesima ratio (l’ultima parte dell’art. 72 L. fall., che impedisce al curatore di sciogliersi da un contratto ad effetti reali, se già si è verificato il trasferimento del bene, ovvero, logicamente, se si è già pagato l’intero prezzo).