Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Falsa demonstratio tra vecchi e nuovi dogmi (di Massimo Zaccheo)


Il saggio indaga il tema della «falsità» della demonstratio e, attraverso un dialogo con la dottrina tedesca e italiana, ne svela gli impieghi in materia testamentaria. L’indagine volge quindi all’analisi della disciplina tedesca e di quella italiana.

The falsa demonstration between old and new dogmas

The essay addresses the issue of the falsa demonstratio and, through a dialogue with German and Italian doctrine, shows its uses in testamentary matters. The study then analyses the German and Italian discipline.

Articoli Correlati: interpretazione del testamento

Massimo Zaccheo - Falsa demonstratio tra vecchi e nuovi dogmi

SOMMARIO:

1. Falsa demonstratio da Bang a Venturelli. - 2. Le origini storiche del principio «falsa demonstratio non nocet». - 3. Dallo stralcio alla sostituzione dell’erronea indicazione. - 4. La disciplina del BGB. - 5. Il diritto italiano.


1. Falsa demonstratio da Bang a Venturelli.

Lo scritto di Bang sulla falsa demonstratio[1], recentemente tradotto in lingua italiana, anche in virtù della sua collocazione editoriale, ha avuto ampia diffusione, tanto da costituire una citazione quasi obbligata per chiunque abbia successivamente affrontato il tema, avuto anche riguardo alle plurime prospettive di analisi che animano il lavoro, il quale non si occupa solo del diritto romano e delle esperienze giuridiche tedesche antecedenti alla codificazione, ma mette altresì a confronto questo millenario dato esperienziale con le più recenti innovazioni correlate all’affermazione della teoria negoziale nel BGB da poco entrato in vigore. In Italia, tuttavia, la conoscenza dell’opera è rimasta limitata proprio alla sua componente romanistica, probabilmente perché solo ad essa ha dedicato attenzione Giuseppe Grosso, il quale, componendo nel 1930 quello che rimane il più attento studio italiano dedicato al principio falsa demonstratio non nocet nel diritto successorio romano, cita l’opera di Bang al solo scopo di procedere ad una sua puntuale demolizione, volta alla riaffermazione di quelle tesi che Bang stesso aveva provato a sua volta a confutare[2]. Gli studiosi italiani che successivamente hanno posto attenzione al tema si sono dunque limitati a riprendere le critiche di Grosso, così da collocare Bang entro il novero di coloro i quali hanno provato infruttuosamente a prospettare una posizione diversa e in quanto tale eccentrica rispetto alla tesi ormai prevalente[3]. Anche autorevoli civilisti hanno richiamato l’opera in esame, valorizzandone tuttavia la parte dedicata al diritto romano piuttosto che quella dedicata al diritto vigente, così da legittimare la convinzione che Bang sarebbe in via esclusiva un romanista o comunque uno storico del diritto, dal quale attingere solo informazioni utili per indagare le origini del tema[4]. Il presente scritto non intende, però, solo segnalare al dibattito civilistico un’opera meritevole di qualche attenzione nel tentativo di offrire una consapevole rappresentazione del complessivo assetto “operazionale” di un istituto che sembra ancor oggi dotato di una significativa potenzialità evolutiva. Di ciò si vorrebbe dar conto anche alla luce della recentissima pubblicazione di uno studio monografico di Alberto Venturelli che, sia pure con esclusivo riguardo al diritto successorio, ha proposto [continua ..]


2. Le origini storiche del principio «falsa demonstratio non nocet».

Il tema indagato da Bang è posto in una zona di confine tra errore e dissenso, così da permettere al lettore di cogliere immediatamente il senso ultimo della ricostruzione, sintetizzabile nell’idea secondo cui la falsa demonstratio è innocua esclusivamente quando l’errore non ha le caratteristiche per divenire causa di invalidità dell’atto negoziale e non sussistono dubbi circa la reale intenzione del dichiarante. È la ben nota posizione di Savigny, riprodotta dai principali pandettisti, i quali trattano della falsa demonstratio nell’ambito dei vizi della volontà, contrapponendola all’errore sull’identità della persona o della cosa (error in persona o in corpore), inteso quale causa di insanabile invalidità. Secondo tale ricostruzione, la falsa denominazione o indicazione (error in nomine o in demonstratione) configurerebbe un «errore improprio», perché, non assumendo rilievo essenziale nell’identificazione degli elementi caratterizzanti la manifestazione di volontà, non potrebbe rivelarsi determinante della stessa così da incidere negativamente sui suoi effetti[1]. Sotto questo profilo, il discostamento di Bang dagli autori che l’hanno preceduto è davvero modesto. Nel § 1 del suo scritto, in cui è offerta una sintetica descrizione del dibattito dottrinale in ordine al significato della parola demonstratio, Bang si limita a ricordare che è rimasto isolato il tentativo di appiattirne la portata sulla generica «dichiarazione» e che può dirsi ormai prevalente tra gli interpreti l’idea secondo cui nel diritto romano si sarebbe attribuito alla demonstratio stessa un connotato di marginalità tale da non incidere sulla validità complessiva dell’atto[2]. L’individuazione della funzione ultima del principio falsa demonstratio non nocet rimane, tuttavia, saldamente affidata ad una mera reiterazione del dogma volontaristico che poco o nulla ha a che vedere con un’analisi storicamente consapevole del diritto romano. Quest’ultimo, essendo da Bang identificato con l’usus modernus Pandectarum, è inteso come un sistema giuridico cristallizzato, nel quale il principio stesso, ancorché con prevalente riferimento al diritto testamentario, sembrerebbe essersi affermato in modo quasi istantaneo e senza alcun contrasto, quale [continua ..]


3. Dallo stralcio alla sostituzione dell’erronea indicazione.

La descrizione operata da Bang può essere più utilmente apprezzata solo se si prende atto che essa, anziché soffermarsi sui passaggi di un’evoluzione storica, fissa esclusivamente il momento finale di quest’ultima, indicando fino a quali conseguenze applicative può spingersi l’accoglimento del dogma volontaristico. Decisiva importanza acquista, a tal stregua, l’analisi delle condizioni che attestino la «falsità» della demonstratio. Su questo elemento, al quale è dedicata l’ultima parte del § 2, Bang entra in conflitto con la dottrina a lui precedente e la sua attenzione si sofferma, in particolare, sulle riflessioni di Eisele, che per primo aveva provato a trarre dalle fonti del diritto romano la prova della necessità di subordinare l’accertamento del carattere falso della demonstratio all’esegesi letterale della dichiarazione[1]. I due autori, invero, muovono da identiche premesse teorico-concettuali e, segnatamente, dalla riconduzione del principio falsa demonstratio non nocet entro i confini della regola di validità. La loro divergenza si appunta, in via esclusiva, sull’impiego del materiale extra-testuale per garantire il superamento dell’informazione identificativa falsa e sulla conseguente individuazione dei connotati caratterizzanti quello che oggi non si esiterebbe ad indicare come il rimedio correlato all’applicazione del principio[2]. Secondo Eisele, per poter utilizzare elementi extra-testuali bisognerebbe preliminarmente dar conto, nella formulazione letterale della dichiarazione, dell’esistenza di elementi identificativi essenziali che rivelino la reale intenzione dell’autore. Il materiale extra-testuale, da utilizzare solo in funzione ricognitiva, servirebbe esclusivamente a superare e risolvere una contraddizione oggettiva già desumibile dall’analisi letterale, dalla quale devono ricavarsi connotati non conciliabili. Proprio per questo, la tesi si rivela più facilmente adattabile alla già richiamata riconduzione del principio falsa demonstratio non nocet entro i confini di una regola formale avente la tecnica dello stralcio come ineludibile risvolto rimediale. Bang, al contrario, reputa questa conclusione incompatibile con la ratio volontaristica del principio stesso, la cui operatività potrebbe essere esclusa solo dalla mancata individuazione della reale [continua ..]


4. La disciplina del BGB.

L’analisi di Bang non riesce a pervenire all’esito appena evocato perché deve confrontarsi con un ordinamento giuridico nel quale il principio falsa demonstratio non nocet non ha ricevuto alcun espresso riconoscimento normativo. Alla questione sono dedicate le parti II, III e IV dello scritto. Dopo una rapida enunciazione della disciplina apprestata nei sistemi giuridici prussiano e bavarese (§§ 3 e 4), Bang si sofferma, in via esclusiva, sulla regolamentazione del BGB, distinguendone la portata precettiva a seconda che la falsa demonstratio sia individuabile in negozi a forma libera (§§ 5-7) o aventi una forma scritta ad substantiam (§§ 8-10). In entrambi i casi, il principio è considerato applicabile ed idoneo a colmare quella che Bang definisce in più luoghi una vera e propria lacuna del sistema giuridico tedesco, anche se essa appare, più esattamente, come un’antinomia collegabile alla presenza di plessi normativi difficilmente adattabili tra loro perché ispirati a teorie negoziali che, subito dopo l’entrata in vigore del BGB, sono divenute sempre più inconciliabili[1]. Muovendo dall’idea secondo cui il dichiarante, pur avendo impiegato una formulazione inappropriata, ha effettivamente voluto quanto ha manifestato, Bang sostiene che il principio falsa demonstratio non nocet debba assumere nel diritto vigente funzione esclusivamente ermeneutica e possa essere ricavato da una più approfondita disamina delle norme dedicate all’interpretazione del negozio giuridico. Il § 133 BGB, in particolare, imponendo d’indagare «la reale volontà» del dichiarante senza arrestarsi al «senso letterale dell’espressione», delineerebbe una regola gerarchica generale, ispirata alla prevalenza del senso soggettivo della dichiarazione sulla sua formulazione testuale. Con specifico riferimento al testamento, il § 2084 BGB aggiunge che, nel dubbio, occorre preferire l’esito ermeneutico idoneo a garantire efficacia alla disposizione allorché essa «ammetta diverse interpretazioni». Anche in questo ambito, dunque, l’interprete dovrebbe cercare di valorizzare al massimo la reale intenzione del testatore, superando inesattezze variamente collegabili ad una formulazione letterale che si riveli connotata da un significato oggettivo difforme rispetto al modo con cui il de cuius [continua ..]


5. Il diritto italiano.