Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Falsa demonstratio tra vecchi e nuovi dogmi (di Massimo Zaccheo)


Il saggio indaga il tema della «falsità» della demonstratio e, attraverso un dialogo con la dottrina tedesca e italiana, ne svela gli impieghi in materia testamentaria. L’indagine volge quindi all’analisi della disciplina tedesca e di quella italiana.

The falsa demonstration between old and new dogmas

The essay addresses the issue of the falsa demonstratio and, through a dialogue with German and Italian doctrine, shows its uses in testamentary matters. The study then analyses the German and Italian discipline.

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Massimo Zaccheo - Falsa demonstratio tra vecchi e nuovi dogmi

SOMMARIO:

1. Falsa demonstratio da Bang a Venturelli. - 2. Le origini storiche del principio «falsa demonstratio non nocet». - 3. Dallo stralcio alla sostituzione dell’erronea indicazione. - 4. La disciplina del BGB. - 5. Il diritto italiano.


1. Falsa demonstratio da Bang a Venturelli.

Lo scritto di Bang sulla falsa demonstratio[1], recentemente tradotto in lingua italiana, anche in virtù della sua collocazione editoriale, ha avuto ampia diffusione, tanto da costituire una citazione quasi obbligata per chiunque abbia successivamente affrontato il tema, avuto anche riguardo alle plurime prospettive di analisi che animano il lavoro, il quale non si occupa solo del diritto romano e delle esperienze giuridiche tedesche antecedenti alla codificazione, ma mette altresì a confronto questo millenario dato esperienziale con le più recenti innovazioni correlate all’affermazione della teoria negoziale nel BGB da poco entrato in vigore.

In Italia, tuttavia, la conoscenza dell’opera è rimasta limitata proprio alla sua componente romanistica, probabilmente perché solo ad essa ha dedicato attenzione Giuseppe Grosso, il quale, componendo nel 1930 quello che rimane il più attento studio italiano dedicato al principio falsa demonstratio non nocet nel diritto successorio romano, cita l’opera di Bang al solo scopo di procedere ad una sua puntuale demolizione, volta alla riaffermazione di quelle tesi che Bang stesso aveva provato a sua volta a confutare[2].

Gli studiosi italiani che successivamente hanno posto attenzione al tema si sono dunque limitati a riprendere le critiche di Grosso, così da collocare Bang entro il novero di coloro i quali hanno provato infruttuosamente a prospettare una posizione diversa e in quanto tale eccentrica rispetto alla tesi ormai prevalente[3].

Anche autorevoli civilisti hanno richiamato l’opera in esame, valorizzandone tuttavia la parte dedicata al diritto romano piuttosto che quella dedicata al diritto vigente, così da legittimare la convinzione che Bang sarebbe in via esclusiva un romanista o comunque uno storico del diritto, dal quale attingere solo informazioni utili per indagare le origini del tema[4].

Il presente scritto non intende, però, solo segnalare al dibattito civilistico un’opera meritevole di qualche attenzione nel tentativo di offrire una consapevole rappresentazione del complessivo assetto “operazionale” di un istituto che sembra ancor oggi dotato di una significativa potenzialità evolutiva. Di ciò si vorrebbe dar conto anche alla luce della recentissima pubblicazione di uno studio monografico di Alberto Venturelli che, sia pure con esclusivo riguardo al diritto successorio, ha proposto un’innovativa riflessione teorico-concettuale in ordine all’utilità del principio falsa demonstratio non nocet, facendo da esso discendere un rimedio conservativo utile a reagire alle sopravvenienze manifestatesi nel lasso temporale intercorrente tra la redazione e l’esecuzione della scheda testamentaria[5].

L’originalità dell’angolo visuale entro il quale il problema è stato da ultimo affrontato appare, invero, meno sorprendente se gli esiti appena prospettati sono messi a confronto con taluni rilievi svolti da Bang, il quale, pur muovendosi entro i confini di un’interpretazione rivelatasi perdente perché eccessivamente fedele ad un dogma volontaristico ormai definitivamente superato, offre già interessanti accenni alla possibilità di trarre dal principio falsa demonstratio non nocet indicazioni utili ad un suo utilizzo in funzione propriamente correttiva – e non soltanto ermeneutica – di una dichiarazione di volontà la cui erroneità si manifesti dopo il momento della sua formazione.

 

[1] F. Bang, Falsa demonstratio. Ein Beitrag zur Lehre der Auslegung und Anfechtung, in JherJb, (66) 1916, 309-399; ora nella traduzione italiana curata da F. Addis per la collana «Bebelplatz» (Pisa, 2021).

[2] Cfr. G. Grosso, Sulla falsa demonstratio nelle disposizioni d’ultima volontà, in Studi in onore di Pietro Bonfante nel XL anno d’insegnamento, II, Milano, 1930, 185 ss., spec. 195, testo e nota 24; e in Id., Scritti storico giuridici, III, Diritto privato. Persone, obbligazioni, successioni, Torino, 2001, 313 ss., spec. 321, testo e nota 24 (da cui le successive citazioni), il quale ribadisce la correttezza delle posizioni espresse sul tema da F. Eisele, Civilistische Kleinigkeiten, IV, Falsa demonstratio non nocet, in JherJb, (23) 1885, 18 ss.

[3] Cfr., a titolo meramente esemplificativo, L. Raggi, voce «Falsa demonstratio non nocet», in Noviss. dig. it., VII, Torino, 1961, 2 s.; P. Voci, Diritto ereditario romano, II, Parte speciale. Successione ab intestato. Successione testamentaria, 2a ed., Milano, 1963, 850 ss.; O. Forzieri Vannucchi, Studi sull’interpretazione giurisprudenziale romana, Milano, 1973, 150; N. Rampazzo, La «falsa demonstratio» e l’oggetto dei legati, in Index, 2001, 293 s., nota 74; M. Talamanca, Per una rilettura di Pap. 7 Resp. D. 31, 76, 3, in Cunabula iuris. Studi storico giuridici per Gerardo Broggini, Milano, 2002, 405 ss., spec. 414, testo e nota 33; M. Evangelisti, Profili di rilevanza dell’errore nel diritto ereditario romano, Ospedaletto, 2018, 9 ss.

[4] Cfr. G. Cian, Forma solenne e interpretazione del negozio, Padova, 1969, 106 s., testo e nota 95, il quale, dopo aver osservato, nel testo, di non voler «approfondire in alcun modo il dibattito per quanto riguarda il diritto romano», riconosce, in nota, all’opera di Bang il merito di aver chiarito «come il diritto romano, sebbene abbia considerato questi problemi soprattutto in relazione alla materia testamentaria … non lo ignorò tuttavia neppure nel campo contrattuale» e rinvia proprio a Bang «per l’ampia rassegna contenuta nel suo saggio circa le posizioni della pandettistica e del diritto comune». Più recentemente, L. Mengoni, Interpretazione del negozio e teoria del linguaggio (note sull’art. 625 c.c.), in Jus, 1989, 10, nota 27; in Il contratto. Silloge in onore di Giorgio Oppo, I, Padova, 1992, 318, nota 27; e in Id., Scritti, II, Obbligazioni e negozio, a cura di C. Castronovo, A. Albanese ed A. Nicolussi, Milano, 2011, 583, nota 27 (da cui le successive citazioni), riprendendo gli analoghi rilievi di P. Rescigno, Interpretazione del testamento, Napoli, 1952, 45 s., note 30 e 31 e 163 s., nota 1, ricorda l’opera di Bang per segnalare che essa esprime una posizione difforme rispetto a quella prescelta dal Reichsgericht tedesco [RG, 11 marzo 1909, n. IV 304/08, in RGZ, (70) 1909, 391 ss.], che, sulla base del § 133 BGB, aveva offerto una lettura del principio falsa demonstratio non nocet diversa rispetto a quella ricavabile dal diritto romano, così da lasciar indirettamente intendere che proprio e solo a quest’ultimo Bang abbia inteso riferirsi per motivare il suo dissenso. Solo V. Pietrobon, L’errore nella dottrina del negozio giuridico, Padova, 1963, 329-331, note 28 e 29, precisa che Bang «affronta la questione con riguardo alle disposizioni del BGB e conclude affermando che la regola in esame vale in tutti i casi in cui il dichiarante ha sbagliato nell’uso dei mezzi dichiarativi», così da evidenziare che «in questo senso è oggi orientata la dottrina tedesca» e che «è appena il caso di ricordare che la regola falsa demonstratio non nocet, affermata precipuamente con riguardo ai testamenti, è stata vista come un principio generale in materia di negozio dalla dottrina pandettistica», nella quale è appunto incluso lo stesso Bang [questi passaggi si ritrovano anche nella 2a ed. del volume, edita con il titolo Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, Padova, 1990, 326 s., note 28 e 29 (da cui le successive citazioni)].

[5] Cfr. A. Venturelli, L’indicazione falsa o erronea nell’esecuzione della volontà testamentaria, Torino, 2020, spec. 108 ss.


2. Le origini storiche del principio «falsa demonstratio non nocet».

Il tema indagato da Bang è posto in una zona di confine tra errore e dissenso, così da permettere al lettore di cogliere immediatamente il senso ultimo della ricostruzione, sintetizzabile nell’idea secondo cui la falsa demonstratio è innocua esclusivamente quando l’errore non ha le caratteristiche per divenire causa di invalidità dell’atto negoziale e non sussistono dubbi circa la reale intenzione del dichiarante.

È la ben nota posizione di Savigny, riprodotta dai principali pandettisti, i quali trattano della falsa demonstratio nell’ambito dei vizi della volontà, contrapponendola all’errore sull’identità della persona o della cosa (error in persona o in corpore), inteso quale causa di insanabile invalidità. Secondo tale ricostruzione, la falsa denominazione o indicazione (error in nomine o in demonstratione) configurerebbe un «errore improprio», perché, non assumendo rilievo essenziale nell’identificazione degli elementi caratterizzanti la manifestazione di volontà, non potrebbe rivelarsi determinante della stessa così da incidere negativamente sui suoi effetti[1].

Sotto questo profilo, il discostamento di Bang dagli autori che l’hanno preceduto è davvero modesto.

Nel § 1 del suo scritto, in cui è offerta una sintetica descrizione del dibattito dottrinale in ordine al significato della parola demonstratio, Bang si limita a ricordare che è rimasto isolato il tentativo di appiattirne la portata sulla generica «dichiarazione» e che può dirsi ormai prevalente tra gli interpreti l’idea secondo cui nel diritto romano si sarebbe attribuito alla demonstratio stessa un connotato di marginalità tale da non incidere sulla validità complessiva dell’atto[2].

L’individuazione della funzione ultima del principio falsa demonstratio non nocet rimane, tuttavia, saldamente affidata ad una mera reiterazione del dogma volontaristico che poco o nulla ha a che vedere con un’analisi storicamente consapevole del diritto romano. Quest’ultimo, essendo da Bang identificato con l’usus modernus Pandectarum, è inteso come un sistema giuridico cristallizzato, nel quale il principio stesso, ancorché con prevalente riferimento al diritto testamentario, sembrerebbe essersi affermato in modo quasi istantaneo e senza alcun contrasto, quale ipotesi residuale ispirata ad un’esigenza conservativa dell’interno volere del dichiarante[3].

La dottrina romanistica ha però dimostrato che un’enunciazione in termini generali ed astratti della teoria dell’errore non appartiene al diritto romano classico e trova, tutt’al più, qualche prima manifestazione solo nell’esperienza giustinianea, alla quale deve altresì riconoscersi il merito di aver dato pieno compimento all’esigenza di tutelare la volontà individuale del dichiarante, in sé e per sé considerata[4].

Una più attenta esegesi dei frammenti storicamente più antichi rivela che il principio falsa demonstratio non nocet, nelle sue prime manifestazioni, è stato inteso come regola di natura esclusivamente formale, finalizzata a garantire la selezione tra le informazioni essenziali del lascito e correlata all’impiego, in funzione rimediale, della tecnica dello stralcio, volta appunto a togliere quanto irrilevante anche se non conciliabile con la restante parte della disposizione[5].

L’inefficacia della specificazione falsa non dipende dunque dalla sua erroneità o dalla sua contrarietà alla volontà del dichiarante, ma è esclusivamente correlata alla sua inutilità, che ne permette l’assorbimento e il superamento in altri elementi identificativi già sufficienti ad integrare quel requisito minimo di certezza richiesto per la validità formale dell’atto[6].

Secondo la ricostruzione tuttora più convincente, perlomeno nel diritto romano classico, tale conclusione avrebbe assunto i contorni di un mero corollario di un più ampio principio, compendiabile nel sintagma falsa causa non nocet e diretto genericamente ad escludere che la falsità della motivazione aggiunta ad un lascito comunque attuabile nel suo significato oggettivo ne condizionasse negativamente gli effetti proprio in ragione della sua marginalità formale[7].

La trasformazione di quest’ultima regola nel suo esatto contrario, attuatasi compiutamente in epoca giustinianea, avrebbe altresì mutato i connotati caratterizzanti il principio falsa demonstratio non nocet, rendendolo regola di validità diretta a temperare le rigide conseguenze dell’eliminazione per errore e a consentire la correzione di quest’ultimo attraverso la reinterpretazione della portata precettiva del dictum, da intendersi secondo il significato prescelto dal suo autore.

 

[1] Cfr. F.C. Savigny, Sistema del diritto romano attuale, trad. it. di V. Scialoja, III, Torino, 1900, 400 s.; C.F. von Glück, Commentario alle Pandette, tradotto ed arricchito di copiose note e confronti col codice civile del Regno d’Italia, già sotto la direzione di F. Serafini, a cura di P. Cogliolo e C. Fadda, XXX-XXXII, 1, continuazione di C.L. Arndts, traduzione e note di C. Ferrini, Milano, 1898, 584 ss.; H. Dernburg, Pandette, III, Diritto di famiglia e diritto dell’eredità, trad. it. di F.B. Cicala, Torino, 1905, 271 ss., spec. 279 s., testo e nota 8; nonché, per una sostanziale ripresa di questa posizione nella dottrina italiana, R. Fubini, La dottrina dell’errore in diritto civile italiano, Torino, 1902, 40 ss. e 110 ss.; F. Messineo, Teoria dell’errore ostativo. Saggio di diritto privato e di dottrina generale del diritto, Roma, 1915, 163 ss.; E. Betti, voce Errore (diritto romano), in Noviss. dig. it., VI, Torino, 1960, 662; Id., Teoria generale del negozio giuridico, rist. 2a ed. (1960), Napoli, 2002, 162 ss.; E. Ferrero, Il dissenso occulto nella teoria generale del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1970, 38 s.; V. Pietrobon, op. cit., 55 ss., 310 ss. e 389 ss.

[2] È la stessa conclusione di P. Lotmar, in KritV, (26) 1884, 220 ss., spec. 226 ss.; F. Eisele, op. cit., 19 s.; B. Windscheid, Diritto delle Pandette, trad. it. di C. Fadda e P.E. Bensa, III, Torino, 1925, 149, nota 12, in contrapposizione ad A. Brinz, Lehrbuch der Pandekten, 2a ed., nach dem Tode des Verfassers besorgt von P. Lotmar, IV, Erlangen-Leipzig, 1892, 283 ss., che aveva provato ad operare ulteriori sottodistinzioni all’interno della macro-categoria della «demonstratio», così da non escludere l’eventualità di un trattamento difforme a seconda che la falsità dell’informazione riguardi la denominazione, la descrizione dell’oggetto o la sua mera indicazione; nonché soprattutto a R. Leonhard, Der Irrtum als Ursache nichtiger Verträge, 2a ed., II, Irrttumsfälle in den römischen Rechtsquellen, in Studien zur Erläuterung des bürgerlichen Rechts, herausgegeben von R. Leonhard, XXII, Breslau, 1907, 12 s., testo e nota 3, secondo il quale la «demonstratio» si sarebbe progressivamente identificata con la manifestazione di volontà complessivamente intesa. Per una ripresa di quest’ultima posizione, tuttavia, cfr. anche P. Rescigno, op. cit., 168 s.; G. Cian, op. cit., 106 s.; nonché A. Venturelli, op. cit., 144 ss., spec. 147, il quale, pur riconoscendo che l’identificazione della «demonstratio» con la dichiarazione complessivamente intesa si risolve in una «forzatura priva di alcun collegamento con le fonti», sottolinea che il progressivo accoglimento del dogma volontaristico ha portato all’inclusione nel principio falsa demonstratio non nocet di situazioni fattuali – come quelle collegabili all’erronea denominazione e all’assemblaggio di informazioni non cumulabili – che hanno inevitabilmente attenuato il carattere accessorio della demonstratio stessa.

[3] Può dunque estendersi all’opera qui presentata l’obiezione metodologica già sviluppata, in altro contesto, da F. Addis, Contractus in scriptis fieri placuit. Setzer e il formalismo convenzionale, in G. Setzer, Sulla pattuizione dello scritto in particolare della l. 17 cod. de fide instrumentorum, trad. a cura di F. Addis, Napoli, 2005, 32 s., il quale sottolinea «l’importanza di stabilire in via preliminare quale significato si attribuisce, di volta in volta, alle locuzioni “tradizione romanistica” e “diritto romano”. Prepotente s’insinua infatti il dubbio che qui, in realtà, l’usus modernus Pandectarum, specie quello della seconda metà del XIX secolo, faccia velo al diritto romano tout court e che pertanto, in questo caso, si debba intendere null’altro che la dottrina che finì col prevalere nell’ultima Pandettistica, per poi depositarsi nel BGB».

[4] Cfr. E. Betti, Diritto romano, I, Parte generale, Padova, 1935, 260 ss.; Id., «Declarare voluntatem» nella dogmatica bizantina, in Studi in memoria di Emilio Albertario, II, Milano, 1953, 421 ss.; Id., voce Interpretazione dei negozi giuridici (diritto romano), in Noviss. dig. it., VIII, Torino, 1962, 902 s.; P. Voci, op. cit., 925 ss. e 1001 ss.; Id., voce Interpretazione del negozio giuridico, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 252 ss.; e in Id., Studi di diritto romano, I, Padova, 1985, 565 ss.; e, con specifico riferimento alla teorizzazione dell’errore, U. Zilletti, La dottrina dell’errore nella storia del diritto romano, Milano, 1961, spec. 140 ss.

[5] Cfr. G. Grosso, op. cit., 312 s.; M. Allara, Il testamento. I. Il testatore. II. La volontà testamentaria e sua manifestazione, Padova, 1936, 151 s.; L. Cosattini, Divergenza fra dichiarazione e volontà nella disposizione testamentaria, in Riv. dir. civ., 1937, 448 s.; G. Deiana, I motivi nel diritto privato, Torino, 1939, 22 s.; G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Milano, 1954, 186 s., testo e note 321 e 325; G. Cian, op. cit., 105 s.; O. Forzieri Vannucchi, op. cit., 115 ss.; L. Mengoni, op. cit., 575 s.; V. Pietrobon, op. cit., 251 s.; N. Rampazzo, op. cit., 267 s. e 283 s., testo e nota 29; E. Carbone, Falsa demonstratio ed ermeneutica testamentaria, in Liber amicorum Pietro Rescigno in occasione del novantesimo compleanno, I, Napoli, 2018, 491 s.; M. Evangelisti, op. cit., 11 ss. e 72 ss.

[6] Cfr. A. Venturelli, op. cit., 139 s., il quale riprende, in ordine all’importanza della certezza della determinazione nel diritto romano, le considerazioni di N. Irti, Disposizione testamentaria rimessa all’arbitrio altrui. Problemi generali, Milano, 1967, 1 s. e 39 s.

[7] Cfr. G. Grosso, op. cit., 313 ss., spec. 316 s. e 326; G. Gandolfi, Studi sull’inter­pretazione degli atti negoziali in diritto romano, Milano, 1966, 320 s.; L. Mengoni, op. cit., 576; N. Rampazzo, op. cit., 267 ss.; M. Talamanca, op. cit., 407 e 412; M. Evangelisti, op. cit., 12 s.; e, con specifico riferimento al principio falsa causa non nocet, G. Finazzi, L’«exceptio doli generalis» nel diritto ereditario romano, Padova, 2006, 162 ss.


3. Dallo stralcio alla sostituzione dell’erronea indicazione.

La descrizione operata da Bang può essere più utilmente apprezzata solo se si prende atto che essa, anziché soffermarsi sui passaggi di un’evoluzione storica, fissa esclusivamente il momento finale di quest’ultima, indicando fino a quali conseguenze applicative può spingersi l’accoglimento del dogma volontaristico.

Decisiva importanza acquista, a tal stregua, l’analisi delle condizioni che attestino la «falsità» della demonstratio.

Su questo elemento, al quale è dedicata l’ultima parte del § 2, Bang entra in conflitto con la dottrina a lui precedente e la sua attenzione si sofferma, in particolare, sulle riflessioni di Eisele, che per primo aveva provato a trarre dalle fonti del diritto romano la prova della necessità di subordinare l’accertamento del carattere falso della demonstratio all’esegesi letterale della dichiarazione[1].

I due autori, invero, muovono da identiche premesse teorico-concettuali e, segnatamente, dalla riconduzione del principio falsa demonstratio non nocet entro i confini della regola di validità.

La loro divergenza si appunta, in via esclusiva, sull’impiego del materiale extra-testuale per garantire il superamento dell’informazione identificativa falsa e sulla conseguente individuazione dei connotati caratterizzanti quello che oggi non si esiterebbe ad indicare come il rimedio correlato all’applicazione del principio[2].

Secondo Eisele, per poter utilizzare elementi extra-testuali bisognerebbe preliminarmente dar conto, nella formulazione letterale della dichiarazione, dell’esistenza di elementi identificativi essenziali che rivelino la reale intenzione dell’autore. Il materiale extra-testuale, da utilizzare solo in funzione ricognitiva, servirebbe esclusivamente a superare e risolvere una contraddizione oggettiva già desumibile dall’analisi letterale, dalla quale devono ricavarsi connotati non conciliabili. Proprio per questo, la tesi si rivela più facilmente adattabile alla già richiamata riconduzione del principio falsa demonstratio non nocet entro i confini di una regola formale avente la tecnica dello stralcio come ineludibile risvolto rimediale.

Bang, al contrario, reputa questa conclusione incompatibile con la ratio volontaristica del principio stesso, la cui operatività potrebbe essere esclusa solo dalla mancata individuazione della reale intenzione del dichiarante. Il materiale extra-testuale potrebbe dunque servire non solo a chiarire quali elementi identificativi espressi risultino «veri» – rectius: conformi alla volontà del loro autore – ma anche e soprattutto ad indicare quale formulazione avrebbe dovuto essere scelta per garantire un’attuazione corrispondente alle reali intenzioni del dichiarante, così da permettere all’interprete la pura e semplice sostituzione di quanto voluto con quanto inesattamente manifestato.

È in tal modo superata la stessa distinzione concettuale tra oggetto dell’attività ermeneutica e materiale usato per l’individuazione del suo significato[3]. Il principio falsa demonstratio non nocet, essendo rivolto alla protezione dell’interno volere del dichiarante, conferirebbe altresì al materiale extra-testuale la possibilità di perseguire una funzione integrativo-correttiva, indicando la formulazione esatta con cui la volontà avrebbe dovuto manifestarsi e trovare attuazione.

Le potenzialità rimediali insite in quest’ultima posizione non devono essere sottovalutate, soprattutto in ambito testamentario, avuto riguardo all’elevata probabilità che il dictum sia eseguito in un contesto situazionale sensibilmente diverso da quello nel quale è stato perfezionato e previa individuazione di un materiale extra-testuale successivo alla redazione della scheda e potenzialmente idoneo a dar conto del modo con il quale quest’ultima è stata intesa dal de cuius.

Se, in particolare, dopo la redazione della scheda si determinano eventi idonei ad incidere negativamente sulla sua eseguibilità, la riaffermazione del fondamento volontaristico del principio falsa demonstratio non nocet legittima a chiedersi quale rilievo abbia l’eventuale prova dell’intenzione del testatore, dopo la sopravvenienza, di intendere la disposizione in un significato divergente da quello originario, al fine di chiarire se e in che misura il principio stesso autorizzi ad eseguire la disposizione secondo il nuovo significato che le ha attribuito il testatore o se, al contrario, sia necessario riaffermare la sua portata oggettiva, fatta salva, eventualmente, la possibilità di sancirne l’inefficacia attraverso il richiamo della teoria della presupposizione[4].

Contrariamente a quanto lascia intendere Bang, la questione non può essere affrontata limitandosi a riconoscere al principio la possibilità di correggere un errore ostativo[5].

La divergenza tra volontà e dichiarazione, dalla quale si fa discendere l’attribuzione di un connotato di «erroneità» all’indicazione, non può essere infatti collegata ad una falsa rappresentazione della realtà già individuabile al momento della formazione e del valido perfezionamento dell’atto, ma dipende da una più articolata sequenza, che coinvolge il modo con il quale l’autore della dichiarazione ha inteso il significato della sua manifestazione di volontà, avuto riguardo alla sopravvenienza verificatasi dopo la redazione.

Diviene a tal stregua decisivo verificare se il de cuius si sia effettivamente reso conto della sopravvenienza e abbia deciso di non revocare o modificare la disposizione originaria perché convinto che essa potesse trovare comunque esecuzione nonostante quanto accaduto.

Per rispondere al quesito, non è dunque sufficiente far leva sulla generica conservazione della volontà del dichiarante, che, a ben vedere, si è manifestata in un momento successivo a quello sul quale deve concentrarsi l’attività ermeneutica, ma è necessario chiarire se il principio in esame legittimi a fissare una regola gerarchica che, in ambito rimediale, impone di attribuire preferenza all’adattamento e alla revisione della disposizione testamentaria prima di pervenire alla sua eliminazione.

A ciò si dedica lo studio monografico di Alberto Venturelli. Attraverso una più ampia valutazione sistematica del dato normativo vigente, avuto specifico riguardo alla regolamentazione espressa di talune sopravvenienze testamentarie e alla conseguente individuazione dei principi comuni da esse ricavabili, in esso si giunge alla conclusione che, in ambito testamentario, il principio falsa demonstratio non nocet, pur non potendo più avere un fondamento esclusivamente volontaristico, è comunque ancora idoneo a consentire l’adattamento del dictum alla reale intenzione del de cuius, purché quest’ultima risulti univocamente individuabile nel materiale extra-testuale, anche se successivo alla redazione della scheda[6].

 

[1] Cfr. F. Eisele, op. cit., 18 ss.

[2] Per una più ampia valutazione delle utilità e dei rischi di un approccio metodologico di matrice rimediale, sia consentito il rinvio a M. Zaccheo, Valori e principi, in Pers. merc., 2019, I, 86 ss.; Id., Principi generali e obbligazioni, in Nuovo dir. civ., 3/2019, 5 ss.

[3] Cfr. A. Trabucchi, Il rispetto del testo nell’interpretazione degli atti di ultima volontà, in Scritti giuridici in onore di Francesco Carnelutti, III, Padova, 1950, 698 s. (da cui la successiva citazione); e in Id., Cinquant’anni nell’esperienza giuridica. Scritti di Alberto Trabucchi, raccolti e ordinati da G. Cian e R. Pescara, Padova, 1988, 575 s.; P. Rescigno, op. cit., 16 s., 52 ss. e 83 ss.; N. Irti, op. cit., 30 ss., spec. 36 s. e 191 s.; Id., Testo e contesto. Una lettura dell’art. 1362 codice civile, Padova, 1996, 41 ss., spec. 46; G. Cian, op. cit., 17 s. e 62 ss.; E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica), 2a ed. a cura di G. Crifò, Milano, 1971, 423 s.; V. Scalisi, La revoca non formale del testamento e la teoria del comportamento concludente, Milano, 1974, 211 ss. e 224 ss.; V. Barba, Istituzione ex re certa e divisione fatta dal testatore, in Riv. dir. civ., 2012, II, 62 ss.; G. Perlingieri, Invalidità delle disposizioni «mortis causa» e unitarietà della disciplina degli atti di autonomia, in Dir. succ. fam., 2016, 128 s. e 133 s; e in Scritti in onore di Vito Rizzo. Persona, mercato, contratto e rapporti di consumo, a cura di E. Caterini, L. Di Nella, A. Flamini, L. Mezzasoma, S. Polidori, II, Napoli, 2017, 1613 s. e 1617 s.

[4] Al tema si sono da ultimo dedicati S. Pagliantini, Causa e motivi del regolamento testamentario, Napoli, 2000, 166 ss. e 233 ss.; Id., L’istituzione di enti estinti, in Riv. dir. civ., 2001, II, 105 ss.; Id., in Delle successioni, a cura di V. Cuffaro e F. Delfini, Artt. 565-712, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2010, 469 ss.; Id., I vizi della volontà testamentaria: teoria e casistica, in Profili sull’invalidità e la caducità delle disposizioni testamentarie. Saggi, a cura di S. Pagliantini e A.M. Benedetti, Napoli, 2013, 4 ss.; Id., in S. Pagliantini, G. Navone e S. Brandani, Le invalidità, in Diritto delle successioni e delle donazioni, a cura di R. Calvo e G. Perlingieri, 2a ed., II, Napoli, 2015, 921 ss.; F. Giardini, Testamento e sopravvenienza, Padova, 2003, 120 ss. e 295 ss.; F. Sangermano, Presupposizione e causa nel negozio testamentario, Milano, 2011, 8 s., testo e nota 14 e 121 ss.

[5] Per una più ampia indicazione delle ragioni che inducono a distinguere l’errore dalla sopravvenienza, sia consentito il rinvio a M. Zaccheo, voce Sopravvenienza, in Dizionari del diritto privato, promossi da N. Irti, Diritto civile, a cura di S. Martuccelli e V. Pescatore, Milano, 2011, 1638 ss.

[6] Cfr. A. Venturelli, op. cit., 1 ss. e 366 ss., il quale dedica a tal fine particolare attenzione alle ipotesi regolate dagli artt. 686, ult. co. e 734, 2° co., c.c., in ordine, rispettivamente, alla possibilità di salvaguardare il legato relativo ad un bene che, dopo la redazione della scheda, il testatore ha alienato e di includere nella «divisione fatta dal testatore» anche beni che, al momento della stessa redazione, non sono stati presi in esame dal de cuius.


4. La disciplina del BGB.

L’analisi di Bang non riesce a pervenire all’esito appena evocato perché deve confrontarsi con un ordinamento giuridico nel quale il principio falsa demonstratio non nocet non ha ricevuto alcun espresso riconoscimento normativo.

Alla questione sono dedicate le parti II, III e IV dello scritto. Dopo una rapida enunciazione della disciplina apprestata nei sistemi giuridici prussiano e bavarese (§§ 3 e 4), Bang si sofferma, in via esclusiva, sulla regolamentazione del BGB, distinguendone la portata precettiva a seconda che la falsa demonstratio sia individuabile in negozi a forma libera (§§ 5-7) o aventi una forma scritta ad substantiam (§§ 8-10).

In entrambi i casi, il principio è considerato applicabile ed idoneo a colmare quella che Bang definisce in più luoghi una vera e propria lacuna del sistema giuridico tedesco, anche se essa appare, più esattamente, come un’antinomia collegabile alla presenza di plessi normativi difficilmente adattabili tra loro perché ispirati a teorie negoziali che, subito dopo l’entrata in vigore del BGB, sono divenute sempre più inconciliabili[1].

Muovendo dall’idea secondo cui il dichiarante, pur avendo impiegato una formulazione inappropriata, ha effettivamente voluto quanto ha manifestato, Bang sostiene che il principio falsa demonstratio non nocet debba assumere nel diritto vigente funzione esclusivamente ermeneutica e possa essere ricavato da una più approfondita disamina delle norme dedicate all’interpretazione del negozio giuridico.

Il § 133 BGB, in particolare, imponendo d’indagare «la reale volontà» del dichiarante senza arrestarsi al «senso letterale dell’espressione», delineerebbe una regola gerarchica generale, ispirata alla prevalenza del senso soggettivo della dichiarazione sulla sua formulazione testuale.

Con specifico riferimento al testamento, il § 2084 BGB aggiunge che, nel dubbio, occorre preferire l’esito ermeneutico idoneo a garantire efficacia alla disposizione allorché essa «ammetta diverse interpretazioni». Anche in questo ambito, dunque, l’interprete dovrebbe cercare di valorizzare al massimo la reale intenzione del testatore, superando inesattezze variamente collegabili ad una formulazione letterale che si riveli connotata da un significato oggettivo difforme rispetto al modo con cui il de cuius l’ha intesa.

L’erroneità della falsa demonstratio, tuttavia, potrebbe altresì legittimare il richiamo della disciplina specificamente dedicata ai vizi della volontà e, in particolare, del § 119 BGB, che autorizza il dichiarante all’impugnazione previa dimostrazione del carattere determinante dell’errore e indipendentemente dal fatto che esso abbia negativamente inciso sul contenuto della dichiarazione o sulle sue modalità espressive[2].

Ciò è ancor più evidente per l’errore testamentario, che è causa di impugnazione, ai sensi del § 2078 BGB, non solo in tutti i casi in cui la falsa rappresentazione abbia condizionato, in modo determinante, la formulazione del «contenuto» della disposizione testamentaria, ma anche quando da quest’ultima sia in qualche modo deducibile un’«erronea convinzione o aspettativa del verificarsi o non verificarsi di una circostanza» smentita dall’analisi della situazione fattuale riscontrabile al momento dell’apertura della successione[3].

Bang intuisce che dalla disciplina appena richiamata potrebbe trarsi il riconoscimento di una prevalenza del rimedio perentorio su quello conservativo e per opporsi a questo esito rileva che se il dichiarante fosse legittimato all’impugnazione, gli sarebbe concessa l’opportunità di ripensare alla stessa convenienza della sua manifestazione di volontà, approfittando dell’annullamento per sottrarsi ad un vincolo che, in realtà, lui ha liberamente accettato di costituire.

Ricondotta la falsa demonstratio ad un «errore sul comportamento dichiarativo» e fatta salva l’invalidità per il solo error in corpore, a causa dell’assenza di una volontà diretta alla creazione del vincolo negoziale, l’esecuzione di quest’ultimo nel senso voluto dal dichiarante dovrebbe essere consentita in tutti i casi in cui la falsa demonstratio sia conoscibile usando l’ordinaria diligenza.

In ambito testamentario ciò costituirebbe esito quasi scontato della prioritaria esigenza di tutelare l’intenzione del testatore e per gli atti inter vivos una conclusione pressoché identica troverebbe il conforto del § 157 BGB, che, imponendo di interpretare il contratto secondo buona fede, potrebbe comunque essere analogicamente applicabile anche ad atti unilaterali recettizi.

In entrambi i casi, l’operatività del principio non subirebbe particolari limitazioni dall’imposizione ex lege di un vincolo formale ad substantiam, perché, ove risulti univocamente accertabile la volontà del dichiarante di adempiere al vincolo stesso, l’inesattezza della formulazione potrebbe essere comunque giustificata dalla libertà espressiva consentita dalla legge e dalla conseguente necessità di intendere la forma come mero vestimentum di una manifestazione di volontà contenutisticamente priva di alcun condizionamento.

Non è difficile cogliere la grave lacuna teorico-concettuale che connota la ricostruzione appena sintetizzata e che impedisce a Bang di evidenziare compiutamente le ricadute applicative delle tesi alle quali vorrebbe opporsi[4].

Stante il mancato riconoscimento della portata costitutiva che la dichiarazione, specie in presenza di un vincolo formale ad substantiam, assume nella nascita del negozio, Bang non considera che l’attività ermeneutica deve essere intesa non come mera ricerca di una volontà individuale, in sé priva di rilevanza giuridica se non esplicitata nella manifestazione, bensì come attività diretta alla ricostruzione del significato di quest’ultima in ragione di canoni oggettivi, desunti da regole di condotta aventi un fondamento normativo idoneo a renderle verificabili[5].

Reinterpretate in questa prospettiva, le stesse previsioni richiamate da Bang conducono ad esiti diversi da quelli da lui prefigurati.

Il § 133 BGB si limita ad esprimere l’esigenza di ricostruire il dictum contrattuale avu­to esclusivo riguardo ai termini dell’accordo accettati dai contraenti e ciò vale ad escludere che da esso si possa dedurre una indiretta rilevanza giuridica della volontà che elementi extra-testuali dimostrino essere stata manifestata secondo modalità difformi da quelle percepibili dalla controparte.

Il § 157 BGB conferisce rilevanza giuridica ad una falsa demonstratio conoscibile usando l’ordinaria diligenza non già per far prevalere il voluto sul dichiarato, ma per individuare con esattezza il dichiarato stesso, intendendolo nel significato più comune, indipendentemente dalle convinzioni interiori del dichiarante[6].

La buona fede, in altri termini, indica un criterio ermeneutico selettivo utilizzabile solo quando la dichiarazione presenti astrattamente una pluralità di significati, perché dà attuazione ad un principio di autoresponsabilità che vincola il dichiarante a quanto ordinariamente attribuibile alla sua condotta, a nulla rilevando che esso sia stato realmente voluto e condiviso[7].

La tutela della reale intenzione è assicurata solo dall’impugnazione per errore. L’efficacia di cui l’atto annullabile gode fino all’accoglimento dell’impugnazione, anche con specifico riferimento all’ipotesi dell’error in corpore, vale proprio a confermare che il valore costitutivo della dichiarazione prevale sull’intento volontaristico.

A tal stregua, il principio falsa demonstratio non nocet può solo legittimare marginali discostamenti dall’uso linguistico generalmente condiviso e contribuisce alla determinazione della portata giuridica di un errore comune se entrambi i contraenti abbiano inteso certe espressioni in un significato divergente da quello usuale o si siano indotte all’accordo in ragione della medesima falsa rappresentazione di una determinata circostanza fattuale.

La natura unilaterale non recettizia del testamento e l’assenza di un affidamento altrui meritevole di protezione non giustificano esiti radicalmente difformi, avuto riguardo alla stessa formulazione letterale del § 2084 BGB, il quale, se è vero che afferma in termini molto ampi un’esigenza conservativa diversa da quella perseguibile in ambito contrattuale, ne impone la tutela solo quando siano ammissibili plurime interpretazioni della disposizione analizzata, lasciando così implicitamente intendere che, negli altri casi, essa debba essere ricostruita secondo il senso letterale delle parole[8].

La conservazione è elevata dal legislatore tedesco ad obiettivo primario dell’attività ermeneutica, la quale può quindi spingersi fino al punto di arricchire il contenuto della sua ricerca facendo riferimento anche a quanto nella scheda non ha trovato puntuale emersione, purché sia preliminarmente accertata l’ambiguità delle espressioni impiegate e il materiale extra-testuale consenta di pervenire ad esiti ricostruttivi che l’analisi letterale, pur non essendo stata in grado di indicare univocamente, non è neppure sufficiente ad escludere[9].

Bang non riesce a rendersi conto di questa limitazione formale perché l’acritico richiamo al dogma volontaristico non gli consente di ricostruire con sufficiente chiarezza i connotati dell’error in corpore, che è ancora da lui inteso come un caso di assoluta mancanza della volontà di dichiarare.

Esso, al contrario, ricorre quando la reale intenzione non può essere in alcun modo dedotta da elementi testuali, perché la sua individuazione per effetto del materiale extra-testuale non potrebbe in alcun modo legittimare una correzione del dictum, stante appunto l’assenza di un riscontro documentale sufficiente a ritenere assolto il vincolo formale avente valore costitutivo.

A tal stregua, la marginalità della demonstratio costituisce ineludibile esito rimediale di quella rigida alternativa tra eliminazione ed esecuzione in un senso corrispondente a quello oggettivo entro la quale il principio è destinato a muoversi in un ordinamento in cui esso non ha trovato puntuale esplicitazione normativa[10].

 

[1] Fondamentale sul punto rimane la consultazione di W. Flume, Allgemeiner Teil des Bürgerlichen Rechts, II, Das Rechtsgeschäft, 4a ed., in Enzyklopädie der Rechts– und Staatswissenschaft, begründet von F. von Liszt und W. Kaskel, herausgegeben von H. Albach, E. Helmstädter, H. Honsell, P. Lerche und D. Nörr, Berlin-Heidelberg-New York, 1992, 45 ss.; e, in lingua italiana, di G. Cian, op. cit., 25 ss.; V. Pietrobon, op. cit., 1 ss. Da ultimo, torna sul tema H. Honsell, Willenstheorie oder Erklärungstheorie?, in Richterliche Rechtsfortbildung in Theorie und Praxis. Methodenlehre und Privatrecht, Zivilprozess– und Wettbewerbsrecht. Festschrift für Hans Peter Walter, herausgegeben von P. Forstmoser, H. Honsell und W. Wiegand, Bern, 2005, 335 ss.

[2] Cfr. A. Venturelli, op. cit., 226 ss.

[3] Un’ampia comparazione tra il sistema tedesco e quello spagnolo è offerta, sul punto, da E. Gómez Calle, El error del testador y el cambio sobrevenido de las circunstancias existentes al otorgamiento del testamento, Pamplona, 2007, 171 ss.

[4] Bang si confronta, in particolare, con le posizioni di E. Danz, Über das Verhältnis des Irrtums zur Auslegung nach dem B.G.B., in JherJb, (46) 1904, 386 ss., spec. 395 s.; Id., Die Auslegung der Rechtsgeschäfte. Zugleich ein Beitrag zur Rechts– und Tatfrage, 3a ed., Jena, 1911, spec. 45 ss.; A. Manigk, Willenserklärung und Willensgeschäft: ihr Begriff und ihre Behandlung nach Bürgerlichem Gesetzbuch. Ein System der juristischen Handlungen, Berlin, 1907, 455 ss.; F. Zeiler, Die falsa demonstratio bei formbedürftigen Rechtsgeschäften, in Gruchot, (52) 1908, 224 ss.; W. Bading, Die Willenserklärung und ihr Verhältnis zu Irrtum und Dissens, Diss. Jena, 1910; H. Titze, Die Lehre vom Miβverständnis. Eine zivilrechtliche Untersuchung, Berlin, 1910, spec. 92 ss.

[5] È sufficiente rinviare a C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova, 1938, 1 ss.; G. Cian, op. cit., 41 ss.; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 321 ss.; Id., Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., 379 ss.; N. Irti, Per una teoria analitica del contratto (a proposito di un libro di Giorgio Cian), in Riv. dir. civ., 1972, I, 307 ss.; e in Id., Norme e fatti. Saggi di teoria generale del diritto, Milano, 1984, 264 ss.; Id., Principi e problemi di interpretazione contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 1139 ss.; e in L’interpretazione del contratto nella dottrina italiana, a cura di N. Irti, Padova, 2000, 609 ss. (da cui le successive citazioni); Id., Riconoscersi nella parola. Saggio giuridico, Bologna, 2020, 84 ss.; M. Orlandi, La circolazione dei significati, in Riv. dir. civ., 2019, 583 ss.

[6] Cfr. G. Cian, op. cit., 47 ss.; V. Pietrobon, op. cit., 250 ss.; A. Venturelli, op. cit., 226 ss.

[7] Sono recentemente tornati sul tema, ancorché con esclusivo riferimento all’art. 1366 c.c., F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, Torino, 2015, 459 ss., spec. 468 s.; A. Gentili, Senso e consenso. Storia, teoria e tecnica dell’interpretazione dei contratti, II, Tecnica, Torino, 2015, 436 ss. (su quest’ultima opera, cfr. anche i saggi raccolti nel volume collettaneo L’interpretazione tra legge e contratto. Dialogando con Aurelio Gentili, Atti del Convegno, Bari, 29-30 marzo 2016, a cura di M. Pennasilico, Napoli, 2019).

[8] Cfr. A. Venturelli, op. cit., 234 s.

[9] Solo in questa prospettiva riesce agevole comprendere perché in Germania sia ammessa quella «interpretazione integrativa» del testamento alla quale dedicano attenzione, quasi sempre manifestando perplessità circa la sua riproposizione in Italia, P. Rescigno, op. cit., 67 ss.; G. Cian, op. cit., 33 s.; E. Perego, Favor legis e testamento, Milano, 1970, 232 s.; V. Scalisi, op. cit., 235 ss.; S. Pagliantini, Causa e motivi del regolamento testamentario, cit., 220 ss.; F. Giardini, op. cit., 366 ss.; A. Venturelli, op. cit., 96 ss. La ricerca e l’esecuzione di una «presumibile intenzione» del testatore costituiscono, infatti, coerente corollario dell’accoglimento del dogma dichiarazionistico, anche se possono condurre ad esiti applicativi iniqui ed arbitrari, proprio perché fatalmente collegati al perseguimento di interessi estranei a quelli del de cuius. Merita dunque apprezzamento la scelta compiuta dal legislatore italiano, che, evitando di codificare la figura del negozio giuridico, ha esonerato l’interprete dalla ricerca – a tratti ossessiva – di soluzioni unitarie alla quale è invece costretto il giurista tedesco. Sul tema, è sufficiente rinviare a G. Benedetti, Negozio giuridico e iniziativa economica privata, in Riv. dir. civ., 1990, II, 573 ss.; in La civilistica italiana dagli anni ’50 ad oggi tra crisi dogmatica e riforme legislative, Congresso dei civilisti italiani, Venezia, 23-26 giugno 1988, a cura di G. Cian, Padova, 1991, 307 ss.; e in Scritti in onore di Angelo Falzea, I, Teoria generale e filosofia del diritto, Milano, 1991, 63 ss.; Id., La categoria generale del contratto, in Riv. dir. civ., 1991, I, 676 ss.; in Il contratto. Silloge in onore di Giorgio Oppo, I, cit., 71 ss.; e in Lezioni di diritto civile, Presentazione di P. Perlingieri, Napoli, 1993, 210 ss. (entrambi questi scritti possono altresì leggersi in Id., Il diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, 2a ed., Napoli, 1997, 109 ss. e 31 ss.); N. Irti, Il negozio giuridico come categoria storiografica, in Id., Letture bettiane sul negozio giuridico, Milano, 1991, 43 ss.; e in Id., Destini dell’oggettività. Studi sul negozio giuridico, Milano, 2011, 62 ss.; Id., Per una lettura dell’art. 1324 c.c., in Riv. dir. civ., 1994, I, 559 ss., spec. 564 s.; Id., Testo e contesto, cit., 134 ss.; C. Castronovo, Il negozio giuridico: dal patrimonio alla persona, in Eur. dir. priv., 2009, 87 ss.; nonché, per una più ampia valutazione delle regole ermeneutiche degli atti unilaterali, a V. Pescatore, L’interpretazione degli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale, in L’interpretazione del contratto nella dottrina italiana, cit., 513 ss.

[10] Cfr. G. Cian, op. cit., 101 ss., spec. 111 s.; L. Mengoni, op. cit., 589 s.; V. Pietrobon, op. cit., 403 ss.; nonché A. Venturelli, op. cit., 230 ss. e 278 ss., al quale si rinvia per ampi riferimenti bibliografici dottrinali e giurisprudenziali relativi ai più recenti sviluppi del diritto tedesco.


5. Il diritto italiano.

Le considerazioni appena svolte dimostrano che la posizione espressa da Bang può senz’altro dirsi superata, in Germania, anche per quanto riguarda l’analisi del diritto vigente.

Ciò vale a maggior ragione per il sistema giuridico italiano, caratterizzato da una regolamentazione del contratto avente indici normativi ancor più marcatamente contrari ad una riproposizione del dogma volontaristico.

L’espressa equiparazione del trattamento rimediale di qualunque forma di errore (art. 1433 c.c.), la necessità di subordinare l’annullamento del contratto alla prova del carattere riconoscibile dell’errore stesso (art. 1431 c.c.), nonché, soprattutto, l’individuazione della necessità di ricercare la «comune intenzione dei contraenti» al fine di compiere l’attività ermeneutica (art. 1362, 1° co., c.c.) delineano un sistema normativo univocamente diretto ad imporre al dichiarante un onere di autoresponsabilità, dal quale discende la necessità di esprimersi in un linguaggio comprensibile, pena, altrimenti, il rischio di restare vincolato alla propria dichiarazione, intesa nel suo significato oggettivo, anche quando essa non sia conforme alle sue reali intenzioni, le quali acquistano rilievo invalidante purché si riferiscano ad elementi essenziali dell’accordo ed appaiano riconoscibili usando l’ordinaria diligenza[1].

Al principio falsa demonstratio non nocet occorre dunque attribuire una portata marginale negli atti inter vivos: quand’anche non lo si ritenga assorbito dalla stessa ricerca della «comune intenzione», il puntuale rispetto del canone di totalità ermeneutica appare già sufficiente ad assicurare un trattamento rimediale conservativo a fronte delle principali ipotesi di errore ostativo comune, ove le stesse riguardino l’impiego di espressioni letterali concordemente intese secondo accezioni che si discostano da quelle usuali[2].

Contrariamente a quanto ipotizza Bang, non vi è alcuna necessità di fondare l’attuazione del negozio nel senso voluto dal dichiarante sul richiamo della disciplina della simulazione (§ 117 BGB), dalla quale si evincerebbe la necessità di escludere efficacia all’accordo inteso nel suo significato oggettivo e di giustificarne, invece, un’esecuzione da esso difforme, perché accettata dalle parti.

Dall’art. 1362 c.c. si evince, più correttamente, che l’interprete deve procedere dal testo contrattuale e riflettere sui suoi contenuti alla luce del contesto, senza alcuna possibilità di pervenire ad esiti che non trovino alcun conforto nella formulazione letterale e che mirino piuttosto a trasformare quest’ultima in un mero pretesto per la creazione a posteriori di una nuova manifestazione di volontà[3].

Solo a fronte di un accordo comunicativo espresso, volto a derogare concordemente a canoni linguistici usuali, il richiamo della simulazione è pertinente e vale a permettere l’esecuzione nel senso voluto dai contraenti[4].

In tutti i casi in cui, più semplicemente, le parti si sono espresse secondo modalità ambigue, esercitando in modo maldestro e impreciso il già richiamato onere di autoresponsabilità, la falsa demonstratio non nuoce perché non può integrare un errore essenziale e indica solo un frammento della dichiarazione avente un significato oggettivo, in sé e per sé considerato, incompatibile con il materiale ermeneutico complessivo, dal quale si evince una comune intenzione univoca e che dunque è sufficiente ad imporre all’interprete la scelta di un esito applicativo diverso da quello usuale[5].

Della simulazione potrebbe ancora aver senso parlare esclusivamente per gli atti unilaterali tra vivi recettizi, in conformità alla linea argomentativa prescelta da chi ha individuato nell’art. 1414, ult. co., c.c., un indice normativo sufficiente ad estendere a tali atti disposizioni che, avuto riguardo al criterio di compatibilità ex art. 1324 c.c., sarebbero estranee a questa categoria. Muovendosi in questa direzione, tuttavia, non arrecherebbe alcun vantaggio insistere sul fatto che le parti non hanno voluto intendere il negozio nel suo significato oggettivo, essendo più semplice evidenziare che, stante la contrapposizione tra atto unilaterale ed accordo volto a renderlo simulato fissata dallo stesso art. 1414, ult. co., c.c., all’eventuale contegno delle parti successivo alla manifestazione dell’atto bisognerebbe attribuire una funzione preclusiva in ordine alla possibilità di far valere una differente lettura del medesimo[6].

In ogni caso, dal principio falsa demonstratio non nocet non può trarsi alcun indice favorevole alla riscrittura dell’accordo, essendo a tal fine necessario addivenire ad un intervento integrativo e correttivo tutt’al più compatibile con altri strumenti, come ad esempio la clausola di buona fede[7].

Avuto tuttavia esclusivo riguardo al diritto testamentario, la posizione di Bang presenta alcuni passaggi argomentativi che meritano di essere ancora oggi valorizzati.

Il legislatore italiano, a differenza di quello tedesco, ha codificato il principio falsa demonstratio non nocet in una disposizione – l’art. 625 c.c. – nella quale l’indicazione delle fonti di determinazione del materiale extra-testuale non conosce alcuna preventiva limitazione[8].

Per comprendere a che cosa il testatore intenda riferirsi, in ordine all’identificazione del beneficiario del lascito o dell’oggetto della disposizione, l’art. 625 c.c. impone di dedurre informazioni «dal contesto del testamento o altrimenti» e, se è agevole identificare il «contesto» nel materiale correlato alla situazione antecedente e contemporanea alla redazione della scheda, l’uso dell’avverbio «altrimenti» autorizza a tener conto anche di tutto quanto successivo alla redazione, ivi compreso il comportamento dello stesso testatore.

Ciò non si traduce in una reiterazione della regola ermeneutica prevista, in ambito contrattuale, dall’art. 1362, 2° co., c.c.

Quest’ultima previsione trae la sua legittimazione da un principio di coerenza, che, muovendo dall’immediata vincolatività del contratto validamente concluso, autorizza a supporre che la condotta dei contraenti successiva al perfezionamento offra indici ermeneutici per stabilire il modo con cui le parti hanno concordemente inteso i termini del loro accordo[9].

In ambito testamentario, tale ricostruzione è smentita dal fatto che l’atto mortis causa non produce alcun vincolo negoziale immediato e può solo contribuire alla determinazione del termine di riferimento esterno dell’effetto successorio, che rimane per il resto integralmente affidato ad una disciplina di stampo esclusivamente normativo[10].

Il testatore può dunque tenere comportamenti che non presentano alcun collegamento con la disposizione testamentaria o si pongono con essa in evidente contrasto, sicché la ratio dell’impiego del materiale extra-testuale successivo alla redazione della scheda deve essere individuata, in via esclusiva, nell’esigenza di adattare il dictum testamentario alla reale intenzione del testatore, indipendentemente dal momento in cui quest’ultima ha trovato espressione.

È la stessa formulazione dell’art. 625 c.c. ad escludere che la reale intenzione del testatore debba aver trovato in qualche misura espressione nella formulazione letterale della disposizione testamentaria. La rilevanza, a fini correttivi, di elementi extra-testuali che non godono di alcun riscontro nell’esegesi letterale del dictum testamentario è subordinata solo alla dimostrazione della loro idoneità ad offrire informazioni univoche, perché il vincolo formale – similmente a quanto evidenzia Bang – è da intendersi come già adeguatamente soddisfatto dal valido perfezionamento della scheda.

La stessa mancanza di una disciplina organica dedicata all’interpretazione del testamento acquista un significato diverso da quello usualmente attribuitole da chi prospetta l’applicazione analogica della regolamentazione contrattuale[11].

Il carattere «erroneo» dell’indicazione è infatti testualmente previsto dall’art. 625 c.c. quale condizione ineludibile per l’avvio di una sequenza correttiva destinata ad operare dopo il compimento del processo ermeneutico e l’individuazione del significato oggettivo della disposizione testamentaria.

Se dunque il materiale extra-testuale è utilizzabile anche in un momento successivo a quello nel quale si è verificata la conformità tra il dictum e la volontà del testatore, esso a maggior ragione è invocabile durante lo stesso compimento del procedimento ermeneutico e a fini ancora solo ricognitivi[12].

L’interprete non può in nessun caso accontentarsi della «chiarezza ed univocità» della disposizione e non ha bisogno di dar conto, nella formulazione letterale della scheda, di una sorta di anticipazione dell’esito correttivo, il quale, anziché essere collegabile alla volontà del de cuius, rappresenta più semplicemente una conseguenza giuridica del verificarsi della fattispecie disegnata dalla norma.

Stante il silenzio sul punto dell’art. 625 c.c., il carattere «erroneo» dell’indicazione testamentaria è suscettibile di correzione anche se ha assunto contorni di essenzialità, estendendosi fino al caso del vero e proprio errore sull’identità correlato allo scambio di persona o di cosa[13].

Anche questa conclusione è in qualche misura anticipata da Bang, il quale, muovendo dall’esigenza di tutelare in ogni caso la reale intenzione del testatore, esclude che, una volta individuata quest’ultima, la formulazione letterale del dictum possa opporsi alla sua esecuzione, anche ove sia a tal fine prodromico procedere all’integrale sostituzione dell’indicazione erronea.

Nel diritto italiano, essa è confortata da ben più solidi argomenti di natura normativa.

La limitazione dell’ambito di operatività dell’art. 625 c.c. al mero error in nomine farebbe perdere alla previsione in esame ogni utilità applicativa, perché per dimostrare che l’errore ostativo non è essenziale bisognerebbe necessariamente identificare nel testo della disposizione un qualche elemento motivazionale che riveli la difformità con l’intenzione del de cuius, ma il contenuto ambiguo o generico in tal modo evocato legittimerebbe il richiamo del solo art. 628 c.c., che distingue tra l’«indicazione» e la vera e propria «determinazione» della persona del beneficiario, confermando che per pervenire a quest’ultima è necessario impiegare, in funzione ricognitiva, elementi extra-testuali[14].

Nella prospettiva prescelta dall’art. 625 c.c., al contrario, l’interpretazione della disposizione si è già realizzata e ha condotto alla dimostrazione della sua «erroneità» e alla conseguente esclusione delle condizioni per invocare l’art. 628 c.c. Il materiale extra-testuale può dunque rivelare, nello stesso tempo, l’«erroneità» e le modalità per il suo superamento, esattamente come accade quando l’errore ostativo abbia assunto contorni di essenzialità, risolvendosi nel vero e proprio scambio.

Questo stesso errore conserva, comunque, rilievo invalidante in tutti i casi in cui non sia possibile procedere alla correzione evocata dall’art. 625 c.c. e, per quanto il tema continui ad essere controverso, si rivela senz’altro più coerente con l’attribuzione di valore costitutivo alla dichiarazione e con i lavori preparatori del c.c. vigente la posizione diretta a sostenere che, in questo caso, il trattamento rimediale dovrà essere affidato alla disciplina dell’impugnazione per errore già richiamata dall’art. 624, 1° e 3° co., c.c., posto che la prospettazione di una nullità ex art. 628 c.c. – come rileva Venturelli[15] – comporterebbe l’attribuzione di rilevanza giuridica ad un’ambiguità determinata solo a posteriori e in virtù dell’infruttuoso richiamo, in funzione integrativa, del dato extra-testuale.

Se quest’ultimo può essere utilizzato per la correzione anche se successivo alla redazione della scheda, dall’art. 625 c.c. è legittimo trarre un’univoca indicazione normativa favorevole all’impiego, in ambito esclusivamente testamentario, di un rimedio conservativo-adattativo specificamente rivolto alle sopravvenienze idonee ad incidere negativamente sull’esecuzione della disposizione.

La volontà di attribuire un certo significato alle espressioni impiegate nella scheda, infatti, potrebbe essere condizionata dal momento di redazione di quest’ultima solo se la stessa si rivelasse idonea a vincolare in qualche modo il suo autore, generando effetti immediatamente capaci di provocare un mutamento della sua condizione giuridica.

Il valido perfezionamento della scheda testamentaria, tuttavia, è di per sé improduttivo di effetti, sicché l’autore della stessa è libero di ripensarne i contenuti, dando loro un significato non necessariamente coincidente con quello offerto al momento della redazione perché condizionato dai mutamenti della realtà circostante sopravvenuti alla stessa.

Ove il nuovo significato in tal modo delineatosi si riveli difforme da quello oggettivo, l’affermazione dell’impossibilità dell’adattamento condannerebbe la scheda a subire gli effetti della sopravvenienza nonostante essi siano stati in qualche modo presi in esame dal de cuius e ciò si tradurrebbe in un esito applicativo contrario alla prioritaria esigenza di tutelare l’«ultima volontà» del testatore, ancorché successiva alla sua manifestazione in forma documentale.

Il superamento di quest’ultima, indotto dalla correzione, è però possibile esclusivamente quando si dia prova univoca del fatto che il testatore ha inteso in tal modo le espressioni, perché egli voleva dire proprio quanto l’integrazione del materiale extra-testuale è in grado di rivelare.

La correzione, dunque, altera la portata precettiva della dichiarazione solo se appaia certo che essa corrisponde a quanto il testatore ha inteso esprimere e ciò assicura, dal punto di vista funzionale, il ristabilimento di quella conformità tra voluto e dichiarato prodromica all’attribuzione di un valore costitutivo alla stessa dichiarazione e rispettosa di quell’onere di autoresponsabilità da riconoscersi anche in ambito testamentario, perché sufficiente a dar conto della situazione riscontrabile quando il dato extra-testuale non riesca ad offrire univoche indicazioni circa il modo con cui il de cuius ha pensato di reagire alla sopravvenienza. Questo è dunque l’approdo della moderna ricostruzione proposta da Venturelli[16].

Nessuno spazio è offerto alla valutazione di un’intenzione presumibile del de cuius né, tantomeno, si ammette una correzione plasmata sul significato maggiormente funzionale a garantire l’eseguibilità della disposizione, perché altrimenti si lascerebbe all’interprete l’arbitrio di scegliere, anche alla luce della sopravvenienza, che cosa sarebbe stato meglio per il testatore.

L’art. 625 c.c. legittima esclusivamente una revisione conforme alla reale intenzione del de cuius, resa univocamente conoscibile dal materiale extra-testuale.

L’esecuzione della scheda nel suo significato oggettivo continua a rimanere, nonostante la sopravvenienza, l’unico esito applicativo coerentemente correlato alla mancata dimostrazione della divergente intenzione del de cuius, il quale subisce dunque gli effetti di un malaccorto impiego di espressioni inidonee ad esprimere i suoi intenti, in tutti i casi in cui questi ultimi non abbiano trovato univoca manifestazione in circostanze extra-testuali dalle quali dedurre il suo errore.

La riproposizione di rilievi genericamente volontaristici è in tal modo opportunamente scongiurata.

A Bang può senz’altro riconoscersi il merito di aver provato, con gli argomenti del suo tempo, a conferire al principio falsa demonstratio non nocet una centralità già preclusa dalle scelte del legislatore tedesco, ma solo un’analisi sistematicamente correlata ad una disciplina normativa espressa può davvero legittimare il tentativo di attualizzare il principio, riproponendo le esigenze protettive da esso tutelate in un contesto ormai radicalmente diverso da quello che ne ha determinato la nascita.

 

 

[1] Cfr. G. Gorla, Il contratto. Problemi fondamentali trattati con il metodo comparativo e casistico, I, Lineamenti generali, Milano, 1954, 75 ss.; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 409 ss.; P. Schlesinger, voce Dichiarazione (teoria generale), in Enc. dir., XII, Milano, 1964, 381 s.; Id., Complessità del procedimento di formazione del consenso ed unità del negozio contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1964, 1345 ss.; e in Studi in onore di Paolo Greco, I, Padova, 1965, 560 ss.; R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico, rist. 2a ed. (1969), Napoli, 2008, 106 s. e 190 ss.; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, 9a ed., Napoli, 1966, 126 e 135; V. Pietrobon, op. cit., 20 ss. e 280 ss.; A. Zimatore, Presentazione, in Riv. sc. sup. ec. fin., 2005, 171; R. Sacco, La parte generale del diritto civile, I, Il fatto, l’atto, il negozio, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 2005, 356 ss.; Id., in R. Sacco e G. De Nova, Il contratto, 4a ed., Torino, 2016, 90 ss.; R. Di Raimo, in Dei contratti in generale, a cura di E. Navarretta ed A. Orestano, Artt. 1425 – 1469-bis. Leggi collegate, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2011, 47 s.

[2] Sul canone della totalità e sulla necessità, ad esso correlata, di circoscrivere l’oggetto dell’attività dell’interprete all’accordo concretamente perfezionato, cfr. C. Grassetti, voce Interpretazione dei negozi giuridici «inter vivos» (diritto civile), in Noviss. dig. it., VIII, Torino, 1962, 906; E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., 15 ss.; N. Irti, La sintassi delle clausole (note intorno all’art. 1363 c.c.), in Il contratto. Silloge in onore di Giorgio Oppo, I, cit., 331 ss.; e in Id., Letture bettiane sul negozio giuridico, cit., 78 ss.; Id., Testo e contesto, cit., 21 ss.; Id., Principi e problemi di interpretazione contrattuale, cit., 618 s.

[3] Cfr. N. Irti, Testo e contesto, cit., 12 ss.; Id., Principi e problemi di interpretazione contrattuale, cit., 611 ss.

[4] Cfr. M. Onorato, L’accordo d’interpretazione, Milano, 2009, spec. 209 ss.; Id., Clausola di significazione, in Clausole negoziali. Profili teorici e applicativi di clausole tipiche e atipiche, a cura di M. Confortini, I, Torino, 2017, 1512 ss.

[5] Cfr. A.M. Garofalo, Le regole costitutive del contratto. Contributo allo studio dell’autonomia privata, Napoli, 2018, 159 ss., spec. 161 s., il quale opportunamente distingue il caso prospettato nel testo da quello nel quale il dichiarante commette unilateralmente un errore ostativo di cui la controparte si accorge senza sollecitare alcuna correzione del medesimo. Imporre, in quest’ultima ipotesi, un’esecuzione conforme al «contenuto che dovrebbe avere secondo l’errante» è giustamente reputata dall’autore conclusione «poco persuasiva», stante la necessità di distinguere tra riconoscibilità dell’errore (che ai sensi dell’art. 1431 c.c. legittima soltanto l’impugnazione) e individuazione, secondo diligenza, del significato oggettivo, alla quale non si può certo pervenire solo in ragione della più o meno agevole identificabilità dell’errore stesso.

[6] È la posizione di N. Irti, Testo e contesto, cit., 137 s.

[7] Lo rileva con chiarezza L. Mengoni, op. cit., 582 s. e 589 s., secondo il quale «perché ci sia una volontà dichiarata conforme all’intenzione occorre rettificare la dichiarazione e a ciò, l’art. 1362, per sé solo, non autorizza l’interprete: “non limitarsi al senso letterale delle parole” non vuol dire che è consentito attribuire alla dichiarazione, in base a dati extratestuali, un significato privo di ogni congruenza col testo. L’interpretazione consiste nel dispiegare i significati impliciti nella significazione letterale». La correzione nel senso voluto dal dichiarante può essere dunque tutt’al più consentita ex art. 1366 c.c., ma esclusivamente tra le parti – stante la necessità di tutelare i terzi dal rischio di indebite alterazioni del testo contrattuale, che rappresenta l’unico elemento a loro noto – e al solo scopo di attuare un precetto di eguaglianza, poiché, in caso di errore comune sul significato delle parole impiegate, «lo standard sociale a tal fine selezionato dal giudice è l’aspettativa di trattamento uguale di casi ragionevolmente analoghi». Alla conclusione prestano piena e convinta adesione anche N. Irti, op. ult. cit., 15 s.; M. Orlandi, Forma espressa, in Le parole del diritto. Scritti in onore di Carlo Castronovo, II, Napoli, 2018, 905, nota 63.

[8] Cfr. A. Venturelli, op. cit., spec. 321 ss., per una più ampia indagine dei lavori preparatori della norma.

[9] Cfr. P. Rescigno, op. cit., 43 s.; V. Pietrobon, op. cit., 261 s.; C. Scognamiglio, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Padova, 1992, 315 ss.; N. Irti, op. ult. cit., 23 ss., spec. 30 s., 36 e 83 ss., spec. 90 ss.; V. Barba, op. cit., 55 ss.; M. Orlandi, op. ult. cit., 900 ss.

[10] Cfr. N. Irti, Disposizione testamentaria rimessa all’arbitrio altrui, cit., 11 s., 14 s., 18 s., 76 ss., spec. 107 s., e 153 ss., spec. 162 s., ampiamente ripreso anche da N. Lipari, Autonomia privata e testamento, Milano, 1970, 30 s., 45 ss., 108 ss., spec. 111 s., 140 ss., 201 s., spec. 329 s.

[11] Cfr. R. Carleo, L’interpretazione del testamento, in L’interpretazione del contratto nella dottrina italiana, cit., 539 ss.; Id., L’interpretazione del testamento, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, a cura di G. Bonilini, II, La successione testamentaria, Milano, 2009, 1475 ss.

[12] Cfr. V. Pescatore, Il testamento per relationem, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, II, cit., 57 s.

[13] Cfr. L. Cosattini, op. cit., 449 s.; A. Cicu, Testamento, 2a ed., Milano, 1951, 133 s.; G. Giampiccolo, op. cit., 186 s.; M. Allara, La revocazione delle disposizioni testamentarie, Torino, 1951, 162 s.; G. Piazza, L’identificazione del soggetto del negozio giuridico, Napoli, 1968, 109 s.; G. Cian, op. cit., 104 s., 112 s. e 118 ss.; E. Perego, op. cit., 158 s.; N. Lipari, op. cit., 249 s. e 340; V. Scalisi, op. cit., 241 ss.; F. Ziccardi, Le norme interpretative speciali, Milano, 1972, 109; L. Mengoni, op. cit., 584 s. e 587; V. Pietrobon, op. cit., 398 s.; S. Delle Monache, Testamento. Disposizioni generali, in Il codice civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2005, 188 s.; Id., Diseredazione, in Le parole del diritto, I, cit., 577 s.; S. D’Andrea, L’istituzione di erede, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, II, cit., 216 s.; S. Pagliantini, in Delle successioni, cit., 478 s.; And. Genovese, La istituzione di erede, in Le disposizioni in favore di persone incerte, in Le disposizioni testamentarie, diretto da G. Bonilini, coordinato da V. Barba, Torino, 2012, 22; A. Venturelli, op. cit., 295 ss.

[14] Cfr. N. Irti, op. ult. cit., 5 e 248 s.; N. Lipari, op. cit., 341 s.; E. Betti, op. ult. cit., 424 s.; L. Mengoni, op. cit., 576 s. e 588. Contra A. Trabucchi, op. cit., 702 s. e 706 s.

[15] A. Venturelli, op. cit., 332 ss., spec. 346 s.; per la riaffermazione della tesi della nullità, v. invece E. Carbone, op. cit., 496 s.

[16] Cfr. A. Venturelli, op. cit., 366 ss., il quale valorizza, in tal modo, l’intuizione di M. Allara, op. ult. cit., 180 s., secondo il quale l’art. 625 c.c. costituirebbe espressione del principio «della libertà del contenuto della dichiarazione», in forza del quale «viene stabilita una relazione di equivalenza tra la dichiarazione di una certa volizione (“dichiaro di volere x”) e una dichiarazione di una volizione diversa (“dichiaro di volere y”) qualora questa dichiarazione sia accompagnata da una volizione del valore della dichiarazione corrispondente alla prima dichiarazione (“voglio che la mia dichiarazione valga come dichiarazione di volere x”)». Anche secondo F. Santoro-Passarelli, op. cit., 159 e 235 s., l’art. 628 c.c. confermerebbe «la necessità di risalire dalla dichiarazione alla volontà del testatore», consentendo «la determinazione in via interpretativa, sulla base della dichiarazione, ma col sussidio di elementi estranei alla stessa, della persona o cosa considerata dal testatore», sicché all’art. 625 c.c. spetterebbe il compito di rafforzare il favor testamenti, inteso come «motivo anche e soprattutto interpretativo, nel quale il principio generale della conservazione del negozio assume lo speciale significato del rispetto della volontà del testatore, non contro, ma certamente oltre, la dichiarazione testamentaria». Su quest’ultima conclusione, cfr. anche R. Franco, Revoca del legato mediante alienazione e interpretazione della volontà, Napoli, 2014, 88 ss., spec. 94; E. Carbone, op. cit., 495 s.