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G. Giappichelli Editore

«In pari causa turpitudinis repetitio cessat»: sull´uso del diritto romano nel dibattito civilistico odierno (di Luigi Pellecchi)


Il saggio è dedicato alla regola in pari causa turpitudinis repetitio cessat e al suo significato per il diritto romano. In particolare, vengono criticamente vagliate due tesi presentate nel dibattito civilistico intorno alle radici romanistiche del § 817 S. 2 del BGB e dell'art. 2035 del cod. civ. it.: che i romani concepissero la regola come un correttivo dell’equilibrio sinallagmatico alla base dell'ob rem dare e che le riconoscessero la funzione di prevenire la sottoscrizione di accordi illeciti.

“In pari causa turpitudinis repeticio cessat”: a note on the use of Roman law in Civil law Literature

This essay clarifies the meaning of the “in pari causa turpitudinis repetitio cessat” rule in Roman law. In detail, it criticises two theses concerning the Roman root of § 817 S. 2 of German BGB and of art. 2035 of Italian Civil Code, which have been put forward in civil law literature: that is to say, ancient romans devised this rule as a correction to the synallagmatic balance of the “ob rem dare”, and gave it the function of preventing illicit bargains.

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Luigi Pellecchi - «In pari causa turpitudinis repetitio cessat»: sull’uso del diritto romano nel dibattito civilistico odierno

SOMMARIO:

1. Introduzione. - 2. Il sistema romano delle condictiones tra rappresentazioni canoniche e interpretazioni singolari. - 3. I testi addotti a sostegno dell’interpretazione singolare. - 4. Esegesi differenti. - 5. L’illiceità dello scopo come profilo assorbente della fattispecie: una testimonianza ulteriore relativa alla datio con turpitudo utriusque. - 6. (segue) Una testimonianza ulteriore relativa alla datio con turpitudo accipientis dumtaxat. - 7. Riepilogo. - 8. Classicità e significato della massima «in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis». - 9. Applicazioni della massima oltre il perimetro della condictio e della retentio. - 10. Turpitudo utriusque e parità relativa: la flessibilità assicurata dal sistema romano delle actiones e la sua singolare convergenza con alcune (ri)letture dell’art. 2035 cod. civ.


1. Introduzione.

E’ noto che l’art. 2035 del Codice civile nega la ripetizione a colui che abbia eseguito una prestazione «che anche da parte sua costituisce offesa al buon costume». Anche è noto che il primo corollario pratico della disposizione ha messo costantemente a disagio l’accademia e soprattutto le corti. Escludere la ripetizione significa infatti permettere che a trattenere la prestazione sia un soggetto che pure ha partecipato a pieno titolo all’operazione immorale (l’abbia o non l’abbia poi eseguita a sua volta). Per questo motivo - a dispetto della latitudine dell’enunciato legislativo e del principio in cui gli stessi estensori del Codice ne additavano implicitamente la ratio nemo auditur turpitudinem suam allegans», secondo la variante più nota del brocardo)[1] - la giurisprudenza si è sempre sforzata di attribuire all’articolo un raggio d’applicazione il più ridotto possibile. Dunque non stupisce che intorno alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso un osservatore illustre potesse affermare che la norma aveva subito come un processo di erosione, «lenta penetrante continua»[2].

Un bilancio aggiornato, alla fine del decennio appena trascorso, suggerisce che dall’erosione si sia passati a una metamorfosi vera e propria[3]. Il merito è di un intenso dibattito dottrinale, che ha investito sia l’art. 2035 nello specifico, sia le norme (per certi versi) omologhe di altri codici europei[4], sia l’applicazione non codificata, da parte di altri paesi ancora, della regola del diniego di ripetizione (o regola della retentio, se la si guarda dal lato del percettore)[5].

Se all’esito di un dibattito tanto ricco si può parlare addirittura di metamorfosi è perché la discussione ha finito per spostare la percezione stessa del fondamento dell’art. 2035 e del divieto di ripetizione. Non che il punto possa dirsi acquisito, almeno in Italia. Ma la sensazione è che a raccogliere i consensi maggiori sia ora la prospettiva tracciata dall’analisi economica del diritto, la quale spiega la regola della retentio con una logica di tipo dissuasivo. Vietare di ripetere la prestazione sorretta da un’intesa turpe anche dal lato del solvens - si dice - significherebbe scoraggiare la conclusione di accordi illeciti[6].

Chi si accosti a questo dibattito come storico del diritto trova un motivo d’interesse supplementare nel fatto che anche l’esperienza romana ha potuto giocarvi un ruolo non di maniera. Il merito è di Donato Carusi, che in una serie di brillanti interventi ha mostrato come una parte del disagio italiano verso l’art. 2035 dipenda dal progressivo abbandono delle sue radici storiche[7]; in particolare dalla «declinante coscienza delle origini romanistiche della retentio, e la memoria invece della massima nemo auditur turpitudinem suam allegans», che lo studioso segnala come il frutto di una «eccessiva generalizzazione medievale»[8].

L’interesse verso l’intervento di Carusi si fa peraltro ancora più forte, non appena si accorge che nel riandare a quella peculiare actio romana – la condictio – da cui germogliò la regola conservata dall’art. 2035, lo studioso ne propone una rappresentazione piuttosto lontana da quanto si legge nei manuali più rappresentativi della romanistica italiana. Per una prima parte – che concerne la cornice per così dire dogmatica degli impieghi complessivi della condictio, quale azione in ripetizione - il quadro tracciato dal civilista di Genova guarda piuttosto Oltralpe, a quei romanisti di area tedesca che, com’è noto, sono sollecitati molto più di noi a occuparsi (anche) di diritto civile. Nel caso specifico, lo studioso di riferimento è Heinrich Honsell, autore di un’importante monografia sulla norma tedesca gemella dell’art. 2035[9]. Per un’altra parte – che investe nello specifico la ratio della disposizione – lo studioso italiano ha superato addirittura il suo auctor, nel senso che della regola romana, che nega la repetitio a chi condivida con l’accipiens l’immoralità del negozio, egli è arrivato a proporre una spiegazione ancora più eterodossa, nel metodo e nel merito.

Nonostante il tempo trascorso – più di mezzo secolo dalla Habilitationschrift di Honsell, circa un quarto di secolo dalla (parziale) riproposizione italiana delle sue tesi – si può ben dire che il tema rimane sul tavolo. Gli storici del diritto non hanno prestato all’intervento di Carusi l’attenzione che pure avrebbe meritato, tant’è che nei pochi manuali recenti che espongono il regime delle dazioni illecite e della loro ripetibilità, la rappresentazione continua ad essere quella consueta[10]. E persino da parte della romanistica tedesca le tesi che costituiscono il modello dichiarato del civilista italiano - le tesi cioè di Honsell – hanno trovato valutazioni piuttosto cursorie e in parte anche discordanti[11]. Sicché, quando si leggono l’uno e l’altro autore, resta il dubbio che essi attribuiscano al diritto romano aspetti che non è affatto chiaro se appartenessero effettivamente a quel mondo. Ritornare sul tema non è dunque opportuno al solo scopo di riannodare i fili di un significativo confronto tra civilisti e storici del diritto, ma pure per contribuire a fare chiarezza su un aspetto in sé, e saliente, dell’esperienza giuridica romana.

 

* Il testo riprende e approfondisce la relazione presentata per la Giornata di studio sulle restituzioni (Università di Padova, Dipartimento di Diritto privato e critica del diritto, 23 ottobre 2017). La letteratura discussa nelle note è quella considerata al momento della consegna del testo agli organizzatori dell’incontro (ottobre 2018) per la prevista pubblicazione. Per completezza, si segnalano le integrazioni seguenti: alla nt. 5, alla bibl. di area francese, adde J.-Y. Garaud, L’office de l’arbitre en arbitrage commercial : caractérisation de l’illicéité et mise en œuvre des sanctions, in Rev. de l’arbitrage, 2019, 173 ss.; alle ntt. 37-38, come una riproposizione della tesi di Honell, adde J. Meier, Das subjektive System der Geschäftsführung ohne Auftrag: Die §§ 677-686 BGB im Lichte der zweigliedrigen subjektiven Theorie, Mohr Siebeck, 2019, 301 s.; alla nt. 101, ai fini di un inquadramento processualistico dello sch. 1 ad Bas. 17.1.46, adde S. Sciortino, Il nome dell’azione nel libellus conventionis giustinianeo, Giappichelli, 2018, 113 s.

 

[1] Cfr. quanto indicato nella Relazione alla Maestà del Re Imperatore del Ministro Guardasigilli, in Codice Civile. Testo e Relazione ministeriale, Istituto Poligrafico dello Stato, 1943, 178 s., nr. 790: «L’irripetibilità di quanto sia stato prestato in una situazione di turpitudine reciproca o anche imputabile soltanto al solvens (art. 2035) risponde alle finalità dell’ordinamento giuridico, che non può dare tutela a chi non ne è degno».

[2] P. Rescigno, In pari causa turpitudinis, in Riv. dir. civ., 1966, 2.

[3] Cfr. F.P. Patti, «In pari causa turpitudinis», cinquantanni dopo, in Liber amicorum P. Rescigno in occasione del novantesimo compleanno, II, Editoriale Scientifica, 2018, 1537 ss., specie 1538 s., 1567 s.

[4] Vale a dire, Germania, Austria e Svizzera: cfr. BGB, § 817 S. 2; ABGB, § 1174; OR, art. 66.

[5] Per la Francia – specie dopo la recente riforma che ha eliminato il riferimento ai buoni costumi dalla disciplina del Code Civil – vd. in part. J.-B. Seube, Le juge et les restitutions, in Revue de contrats, 2016, 411 ss.; per l’Inghilterra – specie dopo la recente presa di posizione dell’House of Lords nella causa Patel v. Mirza – vd. B. Häcke, The Impact of Illegality and Immorality on Contract and Restitution from a Civilian Angle, in S. Green – A. Bogg (eds.), Illegality after Patel v. Mirza, Bloomsbury, 2018, 329 ss.

[6] Vd. meglio infra in corrispondenza della nt. 28. Per le altre spiegazioni che si contendono il campo – sanzione civilistica / preclusione di un abuso della pretesa restitutoria (per evitare cioè al solvens di recuperare la prestazione dopo aver ottenuto l’adempimento dell’accipiens) – vd. la recentissima messa a punto di Patti, «In pari causa turpitudinis», cit., 1543 ss.

[7] D. Carusi, Contratto illecito e soluti retentio. L’art. 2035 Cod. civ. tra vecchie e nuove immoralità, Jovene, 1995, 69 ss.; Illiceità del contratto e restituzioni, in Riv. dir. civ., 2000, 495 ss.; La rilevanza del negozio nullo, in Riv. dir. civ., 2003, 348 ss. Le obbligazioni nascenti dalla legge, in Trattato di diritto civile del Consiglio del notariato, diretto da P. Perlingieri, ESI, 2004, 282 ss.

[8] Illiceità del contratto, cit., 501.

[9] H. Honsell, Die Rückabwicklung sittenwidriger oder verbotener Geschäfte, Beck, 1974, 65 ss. Sulle radici romanistiche del § 817 S. 2 del BGB, l’a. è tornato in due contributi più recenti: cfr. Id., § 817 Satz 2 BGB - eine “Drehkrankheit des Rechtsempfindens”? in R. Zimmermann u. a. (hgbs.) Rechtsgeschichte und Privatrechtsdogmatik, Müller, 1999, 477; Die Rechtsgeschichte und ihre Bedeutung für die Privatrechtsdogmatik, in H.Ch. Grigoleit – J. Petersen (hgbs.) Privatrechtsdogmatik im 21. Jahrhundert: Festschrift für Claus-Wilhelm Canaris zum 80. Geburtstag, De Gruyter, 2017, 22 s.

[10] Vd. infra nt. 22.

[11] Vd. infra nt. 30.


2. Il sistema romano delle condictiones tra rappresentazioni canoniche e interpretazioni singolari.

L’assunto di base di Honsell, nella riformulazione offertane da Carusi, è che la regola scolpita nella massima «in pari causa turpitudinis repetitio cessat» «nasce in Roma quale eccezione alla logica generale che presiede alla datio ob rem»[1].

Per comprendere che cosa esattamente compendi l’affermazione riprodotta, occorre approfondirla partitamente e a ritroso. Di seguito chiariremo perciò: [a] in che cosa consistesse una datio ob rem; [b] quale fosse, secondo Honsell e Carusi, la logica generale di tale fattispecie; [c] perché la regola del divieto di ripetizione servisse a disattenderla.

[a] Intorno al primo aspetto ci si può limitare ad alcune affermazioni generali, su cui si registra un consenso diffuso. Con l’espressione datio ob rem (ma meglio si farebbe a dire “ob rem dare”, dato che le fonti romane non sembrano conoscere la relativa nominalizzazione) s’indica un’alienazione realizzata in vista di una res ulteriore, da intendere in senso ampio, come integrazione di un risultato programmato tra alienante e acquirente[2]. E’ probabile che lo schema servisse in origine per inquadrare operazioni sinallagmatiche non riconducibili agli schemi contrattuali tipici (per es. una permuta, oppure il fatto di affrancare dietro corrispettivo uno schiavo[3]). E anche se più tardi il ventaglio venne allargandosi oltre il synallagma[4], si può ragionare, per semplicità, sullo schema consueto delle convenzioni atipiche, che è del resto l’unico preso in considerazione da Honsell e Carusi: dunque do ut des / do ut facias (comprendendo in questa seconda classe anche l’ipotesi del do ne facias).

Nella rappresentazione che ne offrono normalmente i manuali romanistici, la ripetibilità del dare ob rem risulta governata da due livelli di partizioni, che servono a isolare tre classi complessive di casi e di soluzioni.

La partizione di prima livello del dare ob rem distingue tra liceità e illiceità della res. Se la datio, vale a dire la prima prestazione, viene eseguita in vista di una controprestazione lecita (come nei due casi di cui abbiamo detto: una permuta o la liberazione di uno schiavo), l’alienante potrà ricorrere alla condictio, per ripetere la datio, solo se l’accipiens non corrisponde con la controprestazione attesa (dunque re non secuta). A mo’ d’inciso si può notare che la condictio cd. ob rem dati re non secuta (come si usa etichettare questa applicazione dell’azione in ripetizione, insieme a formule equivalenti[5]) assunse le sembianze di una risoluzione per inadempimento, specie a partire dal momento in cui i contratti sinallagmatici atipici finirono per essere salvaguardati anche con un’azione diretta all’adempimento[6].

La partizione di secondo livello si riferisce invece al caso che la (prima) prestazione serva a dare esecuzione a un accordo illecito. Se alla datio si procede ob rem turpem, occorre infatti ulteriormente distinguere. Se l’illecito sta esclusivamente nel comportamento del percettore, il quale si fa pagare per astenersi da un delitto o per compiere una prestazione già dovuta ad altro titolo (per es. se si fa pagare per restituire la cosa che gli è stata comodata), allora la condictio è sempre ammissibile e perciò la datio sempre ripetibile[7]. Se viceversa anche il solvens coltiva con l’operazione un suo interesse illecito – per es. perché cerca di ottenere una sentenza di favore, oppure di sottrarsi alle conseguenze legali cui dovrebbe andare incontro per il fatto di essere stato colto in flagrante reato - allora la datio non si può ripetere mai[8].

Di nuovo a mo’ d’inciso, aggiungeremo che quest’ultima regola – che si traduce nel diniego della condictio - si applica anche quando la (prima) prestazione ha di mira un risultato che è illecito solo dal punto di vista del solvens. Nelle fonti romane quest’ultima ipotesi si concretizza però solo col caso del pagamento fatto a una prostituta, e nemmeno con una valutazione unanime dei giuristi (oltre che dei romanisti)[9]. Si tratta perciò di un’ipotesi che possiamo lasciare sullo sfondo del nostro discorso[10].

Riassumendo, l’inquadramento tradizionale prospetta: una ripetibilità condizionata per il dare ob rem honestam (dove la condizione è rappresentata dall’inadempimento dell’accipens); una ripetibilità assoluta nel caso di turpitudo accipientis dumtaxat; una retentio parimenti assoluta nel caso di turpitudo utriusque[11].

[b] Detto della datio ob rem, si può passare alla questione ulteriore, che è quella della logica sottesa alle regole con cui si sanciva, a seconda dei casi, la ripetibilità o l’irripetibilità della datio ob rem turpem. E’ infatti a questo livello che la spiegazione proposta da Honsell e Carusi inizia a differenziarsi da quella canonica.

Il fatto che la datio segnata dalla turpitudo del solo accipiens si ripeta sempre, mentre quella segnata dalla turpitudo di entrambe le parti non si ripeta mai, viene di solito rappresentato come un regime appositamente elaborato per disciplinare il fenomeno delle dazioni illecite. Per Honsell e Carusi, invece, le cose non stanno esattamente così. A giudizio dei due autori, il regime ora descritto andrebbe piuttosto rappresentato come una convergenza tra norme ordinarie del dare ob rem e correttivi specifici; correttivi resi necessari dal fatto che la fattispecie del dare ob rem la sola cosa che richiedeva era che la prestazione corrisposta (per prima) fosse finalizzata a un certo risultato, indipendentemente dai contenuti, leciti o illeciti, del medesimo. Sarebbe stata insomma l’atipicità di fondo della fattispecie a imporre di coordinarne le regole alla fenomenologia delle dazioni illecite; e questo coordinamento si sarebbe infine risolto nella previsione di due correttivi specifici e complementari.

Per vedere come funzioni in concreto il meccanismo immaginato da Honsell e Carusi, conviene partire da una delle fattispecie che si è soliti inquadrare come turpitudo accipientis dumtaxat, vale a dire che taluno versi del denaro per assicurarsi che il percettore si astenga da un determinato illecito, ad es. dall’ingiuriarlo. In base a quello che Honsell chiama la «Grundregel» e Carusi la «logica generale» del dare ob rem[12], la condictio sarebbe spettata soltanto re non secuta, ossia se il percettore avesse comunque ingiuriato la controparte. Dato tuttavia che nell’ipotesi opposta un’applicazione troppo rigorosa della fattispecie avrebbe significato avallare l’operazione, i giuristi si sarebbero risolti a correggerla, ammettendo anche in questo caso il ricorso alla condictio, e giustificandolo con la disonestà di cui la controparte aveva comunque dato prova, pretendendo di essere pagata.

Sul piano sistematico questo inquadramento non è senza conseguenze. Ad avviso di Honsell la condictio ob turpem causam sarebbe stata infatti ipostatizzata, come forma autonoma di ripetizione, soltanto dai Giustinianei, che l’avrebbero distinta dalla condictio cd. ob rem dati re non secuta per mezzo della creazione di due distinte rubriche, sia nel Digesto (D. 12.4, 12.5) sia nel Codice (CI. 4.6, 4.7). Alla ripetibilità delle prestazioni disposte ob turpem causam i giuristi classici avrebbero invece riconosciuto uno spazio piuttosto ridotto: essa era accordata (esclusivamente) re secuta, in relazione a una datio ob rem sulla quale stendeva il proprio velo la turpitudine del solo accipiens.

In modo pressoché speculare, sempre secondo lo studioso tedesco, i giuristi avrebbero formalizzato il diniego di condictio in cui invece incorreva colui che si fosse disposto alla datio per uno scopo turpe tanto quanto quello del percettore, ad es. per indurlo a commettere un omicidio. Ad avviso di Honsell, nei confronti dell’omicida la ripetizione sarebbe risultata preclusa già in linea di principio (trattandosi di una res secuta). Viceversa, la «Grundregel» del dare ob rem avrebbe aperto la strada alla condictio nell’ipotesi opposta (di res non secuta, di fronte a un omicidio non consumato, nel nostro esempio). Costretti ad aggiustare nuovamente lo schema, i giuristi si sarebbero perciò risolti a escludere la condictio anche per questa seconda ipotesi.

[c] Giunti a questo punto, resterebbe da muovere l’ultimo passo, andando alla ragione di questa seconda correzione e perciò al cuore della protostoria dell’art. 2035 cod. civ. (oltre che della norma corrispondente del BGB). A questo stadio le strade di Honsell e Carusi tuttavia si separano, ed emerge – romanisticamente parlando – l’aspetto più innovativo delle tesi del civilista italiano.

Si sa che nei passi raccolti nella Compilazione giustinianea il divieto di ripetere la prestazione, quando col negozio dans e accipiens coltivino entrambi un obiettivo illecito, si basa su una motivazione che chiama in causa la poziorità del possesso. E’ il celebre adagio «in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis»[13]. Honsell non ha dubbi che si tratti di una motivazione calzante. A suo giudizio, la causa illecita priva il percettore di una causa retinendi, ma d’altro canto la controparte, anticipando il corrispettivo, ha comunque commesso anch’essa un illecito. L’una e l’altra parte si trovano insomma in posizioni equiparabili, creando uno stallo, giuridicamente, che impedisce di prendere posizione. E’ dunque una «Gleichgewichtsidee» - come lo studioso tedesco la definisce – che sta dietro la regola fissata dai giuristi romani[14].

Per Carusi, viceversa, basare il diniego della condictio sulla poziorità del possesso significa offrire una motivazione tautologica e nemmeno genuina, nel senso che a inserirla nei testi della giurisprudenza classica sarebbero stati soltanto i compilatori del Corpus Iuris[15]. Una volta rimasto senza una motivazione originale (se davvero si fosse trattato d’una interpolazione) e – aggiungeremmo noi - trovandosi comunque senza una motivazione appagante (data l’intrinseca tautologia imputata alla massima), lo studioso sceglie di attribuire alla regola romana quella che potremmo definire una motivazione latente. La regola che nega la condictio al solvens, che non si sia visto corrispondere la controprestazione illecita, «rivela l’attitudine a non incoraggiare l’esecuzione dell’accipiens»[16]. In altre parole, sapendo che l’ordinamento gli assicurerebbe comunque la retentio, e dunque la possibilità di trattenere il corrispettivo ricevuto in anticipo, il percettore perderebbe ogni interesse all’esecuzione del patto. Con il che sarebbe infine svelata la finalità già romana della regola. Assicurare all’accipiens una retentio incondizionata servirebbe indirettamente a scoraggiare la realizzazione di quegli atti illeciti per i quali il solvens ha incautamente pagato in anticipo[17].

Su questo piano, Carusi fa dunque segnare una singolare coincidenza tra il pensiero dei giuristi romani e quegli studi di analisi economica del diritto da cui viene la spiegazione più recente della ratio dell’art. 2035 e delle omologhe regole europee. Come si è detto (§ 1), la tendenza attuale è di vedere queste disposizioni come espressione di un meccanismo di prevenzione degli illeciti: da un lato, perché tramite loro si toglierebbe all’accipiens ogni interesse di onorare la propria parte del patto; dall’altro lato – e parallelamente – perché il divieto di ripetizione dovrebbe funzionare come un disincentivo anche nei confronti del solvens, il quale, pagando in anticipo, sa che finirebbe per perdere il controllo della prestazione[18].

Sennonché, agli occhi di uno storico, questa coincidenza tra l’antico e la moderna analisi economica del diritto appare doppiamente singolare. Non è soltanto la circostanza che abbiamo ricordato in apertura, vale a dire che Carusi prenda le mosse da un inquadramento dogmatico del meccanismo dell’ob rem dare che sembra non corrispondere alle rappresentazioni di gran parte della manualistica del diritto privato romano (non solo italiana)[19]. Nel suo esito ultimo la tesi dello studioso colpisce soprattutto per il fatto che nei testi giuridici romani è rarissimo trovare delle soluzioni che risultino ispirate da calcoli di tipo economico (nel caso di specie basati sulla capacità della norma di condizionare il comportamento dei consociati)[20].

La tesi è insomma molto suggestiva e induce ad approfondirla da almeno due punti di vista. In primo luogo, è davvero nei termini ora riassunti che i giuristi romani inquadravano la fenomenologia del dare ob rem turpem? E in secondo luogo, quando essi dichiaravano irripetibile quanto prestato per una turpitudo reciproca, davvero lo facevano in ragione di un’esigenza di prevenzione? Per rispondere, occorre naturalmente lasciare la parola alle fonti. Inizieremo dai (non molti) testi su cui l’auctor di Carusi ha poggiato la sua tesi (§ 3), per poi spiegare per quali motivi è necessario allargare lo sguardo (§§ 4-7). Dopodiché verremo alla radicalizzazione impressa dal civilista italiano, e alla sua messa in liquidazione della massima «in pari causa turpitudinis repetitio cessat» (§§ 8-10).

 

[1] Carusi, Illiceità del contratto, cit., 501.

[2] Sul significato originario di res («bien, propriété, possession, intérêt dans qualque chose») vd. A. Ernout - A. Meillet, Dictionnaire Étimologique de la Langue Latine, Klincksieck, rist. 1994, 571.

[3] Vd. per es. Paul. 5 quaest. D. 19.5.5 §§ 1-2.

[4] Costituiscono operazioni non sinallagmatiche: il dare dotis nomine ante nuptias (Ulp. 3 disp. D. 12.4.6 e D. 23.1.10, Paul. 17 ad Plaut. D. 12.4.9 pr.); il dare propter condicionem (ossia per soddisfare una condizione apposta a un legato o a una istituzione d’erede: Paul. 17 ad Plaut. D. 12.6.65.3, Ulp. 26 ad ed. D. 12.4.1.1); il donare mortis causa (almeno secondo la tesi della scuola sabiniana: Paul 6 ad leg. Iul. et Pap. D. 39.6.35.3 e D. 12.4.12, Iul. 10 dig. D. 12.1.19 pr.); il solvere un debito nelle mani di un falsus procurator (Paul. 3 ad Sab. D. 12.4.14). Sull’estensione del modello oltre l’ambito primigenio del synallagma, mi permetto di rinviare a L. Pellecchi, L'azione in ripetizione e le qualificazioni del dare in Paul. 17 ad Plaut. D.12.6.65. Contributo allo studio della condictio, in SDHI, 1998, 69 ss., spec. 140 ss.; adde J.D. Harke, Das klassische römische Kondiktionensystem, in IVRA, 2003/2007, 56 ss. e ora Cannata, Istituzioni di diritto romano, II/2, Giappichelli, 2018, 112 ss.

[5] L’etichetta di maggior fortuna fu senz’altro quella di condictio causa data causa non secuta, con cui i Compilatori rubricarono il titolo D. 12.4. Sulla sinonimia (non originaria) di res e causa nel campo delle qualificazioni del dare (ripetibile: infra in corrispondenza della nt. 36), rinvio ancora a Pellecchi, L’azione in ripetizione, cit., 90 ss. e ntt. 76-79.

[6] Cfr. P. Cerami, s.v. Risoluzione (diritto romano), in Enc. Dir., XL, Giuffrè, 1989, 1290; R. Zimmermann, The Law of Obligations: Roman Foundations of the Civilian Tradition, Oxford University Press, 1996, 843 s. e 858.  Sul versante civilistico cfr. E. Bargelli, Il Sinallagma rovesciato, Giuffrè, 2010, 59 s.; R.E. Cerchia, Quando il vincolo contrattuale si scioglie. Unicità e pluralità di temi e problemi nella prospettiva europea, Giuffrè, 2012, 40.

[7] Quanto alla prima classe di casi - quella del pagamento disposto per evitare che l’acquirente tenga un comportamento vietato – le fonti la concretizzano attraverso i seguenti esempi: ne sacrilegium / furtum / iniuriam mihi facias, ne hominem occidas (Ulp. 26 ad ed. D. 12.5 frr. 2 pr. e 4.2), ne calumniae causa negotium facias (ossia per astenersi dall’intentare a carico d’altri un giudizio calunnioso: Ulp. 10 ad ed. D. 3.6 frr. 1 pr. e 5.1, su cui vd. meglio infra § 6). La seconda classe di casi - pagamento disposto affinché l’acquirente tenga un comportamento al quale sarebbe già di per sé obbligato – si riduce alle ipotesi del debitore che si faccia pagare per rendere un bene che dovrebbe comunque restituire sulla base di un titolo negoziale (deposito, comodato, stipulatio, legato per damnationem: Ulp. 26 ad ed. D. 12.5.2.1, Paul. 5 ad Plaut. D. 12.5.9, Ulp. 43 ad Sab. D. 27.3.5) oppure come conseguenza di un furto o di una situazione prossima al furto (Paul. 5 epit. Alf. dig. D. 12.6.36, Diocl. – Maxim. CI. 4.7.6-7). A questo secondo gruppo di casi può assimilarsi l’ipotesi del ladro (o del complice) che, spacciandosi come persona informata dei fatti, si faccia pagare per dare indicazioni sul recupero della refurtiva (Ulp. 26 ad ed. D. 12.5.4.4). Un’ipotesi ulteriore doveva essere invece materia di ius controversum. Si tratta del caso di chi paghi il giudice affinché riconosca la ragione che ha (ut secundum me iudex in bona causa pronuntiaret). Ulpiano (26 ad ed. D. 12.5.2.2) ricorda che anche in questo caso esisteva un orientamento volto a riconoscere al solvens il diritto di recuperare il pagato (est quidem relatum condictioni locum esse: verosimilmente perché il pagamento poteva appunto essere inquadrato come sollecitazione di un atto che per il percettore, in quanto giudice, era comunque dovuto). D’altro canto, l’atto poteva pure essere letto come una compartecipazione del solvens alla illecita condotta del giudice, tanto più dopo l’intervento di una costituzione di Antonino Caracalla con la quale s’era stabilito di punire con la perdita automatica della lite colui che «diffidando di ricevere una giusta sentenza avesse affidato le proprie sorti processuali al potere corruttivo del denaro» (diffidentia iustae sententiae in pecuniae corruptela spem negotii reposuerit: Ant. CI. 7.49.1). E’ probabile perciò che Ulpiano concludesse in questo caso per l’irripetibilità del pagato, sulla base della regola che ci si appresta a esporre nel testo: cfr. Zimmermann, The Law of Obligations, cit., 847; in senso contrario Cannata, Istituzioni, cit., II/2.111 nt. 332.

[8] L’ipotesi del pagamento eseguito ut male iudicetur è proposta in Paul. 10 ad Sab. D. 12.5.3; quella dell’adultero qui redemerit se è invece illustrata in Ulp. 26 ad ed. D. 12.5.4 pr. (su cui vd. comunque meglio infra § 10). Alla prima ipotesi – dato il comune sfondo giudiziario – può essere avvicinato il caso di chi accetti del denaro per intentare a carico di un terzo un processo calunnioso (Ulp. 10 ad ed. D. 3.6 frr. 1 pr. e 3.3, su cui vd. meglio infra § 6). Alla seconda ipotesi – trattandosi pur sempre di un pagamento effettuato per sottrarsi alle conseguenze penali delle proprie azioni – si può accostare il caso dell’index che venda a un ladro il proprio silenzio (Ulp. 26 ad ed. D. 12.5.4.1, Iul. 3 ad Urs. Fer. D. 12.5.5, sui quali vd. rispettivamente §§ 10 e 4). Casi ulteriori di turpitudo utriusque sono poi: quello del marito che accetti del denaro per permettere al terzo di giacere con la propria moglie (uxorem promercalem habere: Dioc. – Maxim. CI. 7.4.5); quello di chi paghi per potersi comunque congiungere con una persona al di fuori di una relazione matrimoniale o di concubinato legittima (ob stuprum: Ulp. 26 ad ed. D. 12.5.4 pr.; cfr. Th. A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome, Oxford University Press, 1998, 190 e nt. 389); quello del suffragator che accetti denaro per interporre i propri uffici nell’assegnazione di una carica pubblica (Iul. CTh. 2.29.1, su cui vd. meglio infra § 5).

[9] L’ipotesi è esposta in Ulp. 26 ad ed. D. 12.5.4.3, dove si contrappongono la visione di Labeone e Marcello, da un lato e quella di Ulpiano, dall’altro lato. Per i primi il corrispettivo versato a una prostituta è irripetibile data la turpitudo di entrambe le parti. Per Ulpiano, invece, proprio la bassezza che connotava il generale stile di vita della meretrice escludeva che fosse disonesto da parte sua ricevere del denaro (illam enim turpiter facere, quod sit meretrix, non turpiter accipere, cum sit meretrix); di qui la conclusione che l’irripetibilità del corrispettivo andasse appoggiata sulla diversa ratio (rispetto all’opinione di Labeone e Marcello) che nel caso di specie a essere turpis fosse la sola condotta del cliente: sed quod meretrici datur, repeti non potest, ut Labeo et Marcellus scribunt, sed nova ratione, non ea, quod utriusque turpitudo versatur, sed solius dantis. Va tuttavia precisato che l’avversativa finale è stata sospettata - anche di recente (cfr. M.F. Merotto, Il corpo mercificato. Per una rilettura del meretricio nel diritto romano, in L. Garofalo [a c. di] Il corpo in Roma antica. Ricerche giuridiche, II, Pacini, 2017, 274 ss.) - di essere il frutto di un intervento compilatorio inserito per amore di simmetria, allo scopo cioè di poter attribuire una concreta ipotesi alla casella della turpitudo dantis dumtaxat, delineata in via generale nella divisio dell’ob rem dare che apre il tit. D. 12.5, e di cui diremo infra al § 3.

[10] Per il perdurante confronto svolto sul passo da parte delle corti italiane, vd. comunque A. Rinaudo, «Quod meretrici datur, repeti non potest». La nova ratio di D. 12.5.4.3 nella giurisprudenza italiana, in F. Zuccotti – M.A. Fenocchio (curr.) A P. Zannini: Scritti di diritto romano e giusanticistici, Led, 2018, 275 ss.

[11] Per la manualistica italiana meno recente basterà citare A. Burdese, Manuale di diritto privato romano4, Utet, 1990, 503; M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Giuffrè, 1990, 248 e 613; M. Marrone, Istituzioni di diritto romano2, Palumbo, 1994, 167 s. Per la manualistica più recente – la quale non sempre dedica però spazio al regime delle dazioni illecite – vd. A. Corbino, Diritto privato romano3, Cedam, 2014, 704 s. e soprattutto L. Solidoro, in A. Lovato – S. Puliatti – L. Solidoro, Diritto provato romano2, Giappichelli, 2017, 577 s., nonché Cannata, Istituzioni, cit. II/2.110 ss.

[12] Honsell, Die Rückabwicklung, cit., 88; Carusi, Contratto illecito, cit., 70; Illiceità, cit., 500; Le obbligazioni, cit., 290.

[13] Per le fonti vd. infra § 8.

[14] Honsell, Die Rückabwicklung, cit., 63.

[15] Vd. meglio infra in corrispondenza delle ntt. 51 e 53.

[16] Carusi, Contratto illecito, cit., 71.

[17] Cfr. anche Carusi, Illiceità, cit., 500: ««La nostra regola nasce (…) con l’obiettiva funzionalità di disincentivare il comportamento avuto di mira dal tradens, togliendo all’accipiens (…) ogni interesse ad osservarlo».

[18] Per un quadro ragionato di questo orientamento, comprensivo delle critiche rivoltegli, vd. ora Patti¸ «In pari causa turpitudinis», cit., 1545 ss. e ntt. 45-49.

[19] Va segnalato infatti che anche la romanistica tedesca non si è mostrata affatto unanime verso la ricostruzione di Honsell. Il più delle volte le adesioni si limitano infatti alla rappresentazione della condictio ob turpem causam come semplice correttivo delle regole dell’ob rem dari; correttivo chiamato in causa al solo scopo di consentire la ripetibilità re secuta: cfr. F. Sturm, Quod meretrici datur repeti non potest, in H.P. Benöhr (hrg.), Iuris professio. Festgabe für M. Kaser zum 80. Geburtstag, Böhlau, 1986, 284 s. e in part. nt. 19; B. Kupisch, s.v. Arricchimento nel diritto romano, medievale e moderno, in Dig. Disc. Priv. Sez. Civ., I, Utet, 1987, 429 s. (il quale però, pur presentando la datio ob turpem causam come «un caso particolare della datio ob rem», aggiunge che la relativa condictio doveva comunque essere più antica della condictio ob rem); D. Liebs, The History of the Roman Condictio up to Justinian, in N. MacCormick - P Birks (eds), The Legal Mind. Essays for Tony Honoré, Oxford University Press, 1986, 174; Zimmermann, The law of obligations, cit., 845; Harke, Das klassische römische Kondiktionensystem, cit., 53 s. Anche nel manuale di Th. Mayer Maly, Römisches Privatrecht2, Springer, 1999, 157, e soprattutto in M. Kaser – R. Knütel, Römisches Privatrecht. Ein Studienbuch19, Beck, 2008, 266, il regime della ripetibilità delle dazioni turpi continua a essere rappresentato nei termini consueti (vd. supra in corrispondenza della nt. 22).

[20] Vd. i risultati emersi nella xi edizione del Cedant, presentati ora in E. Lo Cascio – D. Mantovani (curr.). Diritto romano e economia. Due modi di pensare e organizzare il mondo (nei primi tre secoli dell’Impero), Iuss Press, 2018; ivi (p. 793 ss.) soprattutto il bilancio stilato da D. Mantovani, Inter aequum et utile. Il diritto come economia nel mondo romano.


3. I testi addotti a sostegno dell’interpretazione singolare.

La tesi di Honsell poggia su due testi. In via principale su un passaggio – per non dire un inciso - di un lungo brano di Paolo; di rincalzo su un rescritto di Diocleziano e Massimiano, in cui si legge un inciso coincidente.

Il brano di Paolo – da cui anche noi partiremo - consiste in un estratto degli Ad Sabinum libri, dal taglio fortemente sistematico. Proprio per questo i Compilatori del Digesto lo collocarono in testa al titolo dedicato alla condictio ob turpem causam, salvo poi inframmezzarlo con estratti dell’Ad edictum di Ulpiano, di cui non occorre qui dare conto[1].

 

Paul. 10 ad Sab. D. 12.5.1: Omne quod datur aut ob rem datur aut ob causam, et ob rem aut turpem aut honestam: turpem autem, aut ut dantis sit turpitudo, non accipientis, aut ut accipientis dumtaxat, non etiam dantis, aut utriusque. [1] Ob rem igitur honestam datum ita repeti potest, si res, propter quam datum est, secuta non est. [2] Quod si turpis causa accipientis fuerit, etiamsi res secuta sit, repeti potest.

[D. 12.5.3] Ubi autem et dantis et accipientis turpitudo versatur, non posse repeti dicimus: veluti si pecunia detur, ut male iudicetur[2].

 

Nella prima parte dell’estratto (fr. 1 pr.), Paolo espone le varie categorie dell’ob rem dare attraverso una diairesis progressiva, scandita dalle formule che sarebbero divenute poi canoniche. A un primo livello sta per la verità una distinzione preliminare, tra dare ob rem e dare ob causam. Il dare ob causam esorbita tuttavia dal nostro discorso. Grazie ad altri testi della Compilazione, si sa infatti che l’etichetta, quando non va presa semplicemente come sinonimo per dare ob rem[3], si riferisce a donazioni remuneratorie; cioè a prestazioni che proprio in quanto espressione di una causa donandi non si possono impugnare[4].

Fissata questa prima distinzione, la diairesis procede secondo le direttrici che conosciamo: il dare ob rem è distinto a seconda che la res sia turpis oppure honesta, e la prima sottoclasse ulteriormente ripartita a seconda che la turpitudo sia del solo dans, del solo accipiens o di entrambi i soggetti.

Delineate le singole classi, si passa al regime della ripetibilità. Abbandonando l’ordine adottato nella parte iniziale del passo (allo scopo di scomporre sempre e solo la prima classe individuata al livello precedente), Paolo procede giustapponendo innanzitutto il regime del dare ob rem honestam e delle dazioni segnate dalla turpitudo del solo accipiens. Nel primo caso (fr. 5.1) la prestazione si può ripetere «esclusivamente a condizione che il risultato, in funzione del quale si è alienato, non venga conseguito» (ita … si res, propter quam datum est, secuta non est). Nel secondo caso (fr. 5.2) la ripetizione è ammessa «nonostante il risultato venga conseguito» (etiamsi res secuta sit).

Proprio quest’ultima affermazione costituisce per Honsell la chiave per accedere a quel che i giuristi romani pensavano della fenomenologia complessiva del dare ob rem[5]. Grammaticalmente, una proposizione di tipo concessivo esprime un rapporto di causalità non rispettato; sicché la relazione che essa instaura con la proposizione principale, è opposta alla relazione che la proposizione principale instaurerebbe appunto con una subordinata causale. Applicato alle parole di Paolo, ciò vuol dire che l’affermazione “spetta la condictio, nonostante la res sia secuta” è esattamente il contrario che dire “spetta la condictio, perché la res non è secuta”.

E’ da questa premessa linguistica che deriva la conclusione di Honsell. Se Paolo, quando deve parlare delle conseguenze del dare ob rem turpem, affronta il problema soltanto per l’ipotesi della res secuta e, per di più, ammettendone la ripetibilità in forma meramente concessiva (“si può ripetere, nonostante il risultato sia stato conseguito”), significa che nell’ipotesi opposta – della res non secuta – la ripetibilità della dazione rappresentava ai suoi occhi la conseguenza del normale principio di causalità che governava il dare ob rem[6].

Nella visione propugnata dallo studioso tedesco, quando fosse mancata la controprestazione, Paolo non avrebbe insomma giudicato che il dare ob rem turpem fosse ripetibile in quanto turpe, ma in quanto dare ob rem; vale a dire, per il fatto in sé che non si fosse raggiunto lo scopo. E a rovescio, quando si arrivato (all’altezza del fr. 3) alla casella della turpitudo utriusque, e quando a proposito di quest’altra classe di casi si dice che la prestazione è irripetibile, il giurista si sarebbe riferito implicitamente al (solo) caso in cui la controparte non avesse eseguito la controprestazione attesa. E questo perché se la controprestazione fosse intervenuta, l’irripetibilità sarebbe discesa ancora una volta dai principi generali, ossia dal fatto che in caso d’adempimento non si può ripetere ciò che si è alienato in vista di una controprestazione[7].

Lo stesso modo di vedere, come si accennava, Honsell[8] trova che stia al fondo di un rescritto di Diocleziano e Massimiano. A questo secondo testo si potrebbe per la verità aggiungere un brano ulteriore di Paolo, non segnalato in questa connessione dallo studioso tedesco. In entrambi i testi la ripetibilità del dare ob rem turpem è predicata infatti con formule concessive, analoghe a quella che abbiamo appena commentato:

 

Diocl. – Maxim. CI 4.7.4: Quotiens accipientis, non etiam dantis turpis invenitur causa, licet haec secuta fuerit, datum condici tantum, non etiam usurae peti possunt[9].

 

Paul. 5 ad Plaut. D. 12.5.9 pr.: Si vestimenta utenda tibi commodavero, deinde pretium, ut reciperem, dedissem, condictione me recte acturum responsum est: quamvis enim propter rem datum sit et causa secuta sit, tamen turpiter datum est[10].

 

[1] Per una loro rassegna per indicem vd. comunque supra ntt. 18-19.

[2] «Tutto quel che si aliena, lo si aliena o per un risultato o per una causa, e per un risultato o turpe od onesto, e se turpe, o in modo tale che la turpitudine sia dell’alienante, non dell’acquirente, oppure che sia del solo acquirente oppure di entrambi. [1] Quanto dunque alienato per un risultato onesto si può ripetere esclusivamente a condizione che il risultato, in funzione del quale si è alienato, non venga conseguito. [2] Se invece vi sia stato un turpe motivo dell’acquirente, può ripetersi nonostante il risultato venga conseguito. [D. 12.5.3] Laddove vi sia poi di mezzo una turpitudine sia dell’alienante sia dell’acquirente, diremo che non si può ripetere: per es. se venga dato del denaro per giudicare con frode.

[3] Cfr. supra nt. 16.

[4] I testi in questione sono Pomp. 27 ad Q. Muc. D. 12.6.52 e Paul 17 ad Plaut. D. 12.6.65.2; per la relativa esegesi rinvio a Pellecchi, L’azione in ripetizione, cit., 94 ss.

[5] Cfr. anche C. Sykora, Die Kondiktionssperre des § 817 Satz 2 BGB. Eine Untersuchung zur Rückabwicklung gesetzes- und sittenwidriger Geschäfte im Lichte der jüngeren Rechtsprechung, Tectum, 2011, 14 e nt. 53.

[6] Cfr. Honsell, Die Rückabwicklung, cit., 83: «Dieser Satz» - vale a dire quella con cui, al fr. 5.1, Paolo esprime il regime del dare ob rem (honestam) - «leitet über zur ersten Besonderheit der condictio ob rem: In Abweichung von der Grundregel kann bei turpitudo (allein) auf seiten des Empfängers das Geleistete selbst dann zurückgefordert werden, wenn der bezweckte Erfolg eingetreten ist».

[7] Cfr. Honsell, Die Rückabwicklung, cit., 85: «Ist das Delikt begangen, so hat der Leistende alles erreicht, für eine Kondiktion ist – entsprechend der Grundregel der condictio ob rem – kein Raum».

[8] Die Rückabwicklung, cit., 83 nt. 8.

[9] «Ogniqualvolta si rinvenga una turpe motivazione dell’acquirente, ma non dell’alienante, se anche la si sarà conseguita, oggetto di condictio può essere solo quanto alienato, senza che possano chiedersi anche gli interessi».

[10] «Per il caso in cui ti abbia dato in comodato vestiti da usare e poi ti versassi un prezzo per recuperarli, si è stabilito per responso che io potrei correttamente ricorrere alla condictio: difatti, per quanto si sia alienato in vista di un risultato e la motivazione si sia realizzata, tuttavia si è alienato turpemente».


4. Esegesi differenti.

Detto del ragionamento di Honsell, possiamo venire alla critica. Una prima serie di osservazioni riguarda i testi che abbiamo appena discusso. Non c’è dubbio che Paolo, in due occasioni, e poi la cancelleria di Diocleziano descrivono la ripetibilità delle dazioni illecite avendo sempre come riferimento l’ipotesi di un accordo a cui il percettore ha dato esecuzione (dunque re / causa secuta). Ed è vero anche – ma si dovrebbe dire: soprattutto – che in tutti tre i testi, se si sottolinea la circostanza dell’intervenuto adempimento dell’accipiens, lo si fa per sottolinearne l’irrilevanza quanto al diritto del solvens di recuperare la datio. Da tutto ciò non discende però in modo univoco che l’ambito di applicazione della cd. condictio ob turpem causam si riducesse all’ipotesi tanto circoscritta, raffigurata dallo studioso tedesco. La cosa è presto detta per il primo testo di Paolo, mentre richiede un ragionamento più sottile per gli altri due.

Il tratto caratteristico di D. 12.5.1 è senz’altro l’ambizione di presentare un quadro sistematico (ancorché sintetico) dell’ob rem dare e delle regole correlate della ripetibilità. La sensazione è però che per esporre le conseguenze prima del dare ob rem honestam e poi della prima classe del dare ob rem turpem (turpitudo accipientis dumtaxat), Paolo si serva dello schema espositivo della differentia. In altre parole, una volta presentato il regime della prima classe di accordi (res honesta: dove la prestazione può ripetersi esclusivamente alla condizione che non segua la controprestazione), il regime della seconda classe (res turpis dal lato del percettore) è presentato focalizzandosi esclusivamente sulla differenza specifica; la quale differenza specifica stava appunto nel fatto che la prestazione, in questo secondo caso, si ripete indipendentemente dal fatto che sia intervenuta la controprestazione. Dunque, è vero che nel § 2 di D. 12.5.1 ci si serve di una proposizione concessiva, ma lo si fa per mantenere la simmetria del discorso impostato al § 1. Anche dal punto di vista sintattico, la simmetria dei due passaggi risalta chiaramente, dal modo in cui il loro autore coordina le protasi dei due periodi ipotetici: ita … si al § 1, etiam si al § 2[1].

Per gli interventi raccolti sotto CI. 4.7.4 e D. 12.5.9 pr. una spiegazione del genere evidentemente non vale. I due testi non ambiscono infatti a offrire una sistematica dell’ob rem dare, ma si limitano a illustrare una certa soluzione giuridica, in risposta a un interrogativo sollevato sul punto. CI. 4.7.4, come si è detto, propone un rescritto, cioè una risposta imperiale; D. 12.5.9 pr. un responso giurisprudenziale (non importa se raccolto da Paolo o già dall’autore dell’opera che Paolo commentava, vale a dire Plauzio). Proprio in questa comune natura di fondo dei due interventi – nel presentarsi cioè entrambi come prese di posizione sollecitate da una domanda iniziale – si cela una chiave alternativa per spiegare, diversamente da Honsell, perché in entrambi i casi si parli delle dazioni estorte dall’accipiens come di un qualcosa che il solvens ha il diritto di ripetere a prescindere dall’integrarsi della controprestazione (licet / quamvis causa secuta sit).

Il dato da cui occorre partire, a questo proposito, è che il contenuto tanto di un rescritto quanto di un responso può facilmente dipendere dal modo in cui l’interrogante ha prospettato la questione su cui desiderava avere risposta. Nel sottolineare che la prestazione eseguita dall’accipiens non incide sul diritto del solvens di recuperare la propria, non è perciò detto che i due testi sottolineassero il profilo evidenziato da Honsell, vale a dire che in questa sua particolare applicazione la condictio serviva (soltanto) a correggere una disfunzione dello schema sinallagmatico dell’ob rem dare. Una spiegazione altrettanto plausibile è che il dubbio, se l’equilibrio sinallagmatico non meritasse di essere rispettato anche in casi come questi, fosse stato sollevato per primo proprio dall’interrogante. La replica – espressa tanto nel rescritto, quanto nel responso – è appunto che la ripetizione di quanto dato ob rem turpem compete nonostante la controprestazione.

A conferma di questa prospettiva mi sembra si possa addurre un ulteriore intervento giurisprudenziale, ripreso nel Digesto:

 

Iul. 3 ad Urs. Ferocem D. 12.5.5 pr.: Si a servo meo pecuniam quis accepisset, ne furtum ab eo factum indicaret, sive indicasset sive non, repetitionem fore eius pecuniae Proculus respondit[2].

 

Il testo consiste di nuovo in un responso, questa volta di Proculo, raccolto e rilanciato da Giuliano. Il caso nasce dalla condotta di uno schiavo che versa del denaro per evitare di essere indicato come autore di un furto (ne furtum ab eo factum indicaret). Se all’operazione non avesse partecipato un soggetto alieni iuris, la condictio certamente sarebbe risultata preclusa, perché chi paga per assicurarsi l’impunità da un delitto si comporta in modo turpe, tanto quanto colui che accetta un simile pagamento[3]. In questo caso, tuttavia, il fatto che il denaro appartenga in definitiva al padrone del solvens e che questi risulti estraneo all’intesa, permette di valutare diversamente l’accaduto, come se la condotta turpe, considerate le parti in causa, fosse solo quella del percettore, convenuto con la condictio[4].

Ai nostri fini, il punto saliente dell’intervento di Proculo risiede nella precisazione finale del brano, quando si osserva che al proprietario del solvens la ripetizione compete tanto che l’accipiens abbia denunciato lo schiavo, quanto che non l’abbia fatto (sive indicasset sive non). A differenza di D. 12.5.9 pr. e di CI. 4.7.4, l’impiego della condictio non è presentato qui in forma concessiva, ma il senso di fondo non cambia. La differenza – che rende ragione della diversa costruzione sintattica – è che in quest’ultimo caso chi ha posto il quesito non doveva disporre di dati certi in ordine all’adempimento dell’accipiens. Per questo (sul punto in questione) gli si risponde che l’intervento della controprestazione costituisce un dato comunque irrilevante ai fini della ripetizione.

E’insomma guardando al contesto della disputatio fori che può essere inquadrata un’affermazione come quella che si legge in chiusura di D. 12.5.5 pr., così come quelle parallele di D. 12.5.9 pr. e CI. 4.7.4. A chi domandava (o prospettava) se le regole dell’ob rem dare precludessero la ripetizione, una volta intervenuto l’adempimento dell’accipiens, si trattava di rispondere che così non è, dato che nel caso del dare ob rem turpem l’adempimento costituisce un dato superfluo.

Oltre a offrire una sponda per l’interpretazione di D. 12.5.9 pr. e CI. 4.7.4, la testimonianza di Proculo (e Giuliano) mi pare però che proietti una luce critica sulla tesi di Honsell anche da un secondo punto di vista. L’affermazione che la ripetizione compete sia che la controparte abbia corrisposto a sua volta la prestazione (sive indicasset) sia che non l’abbia fatto (sive non) si può conciliare con la tesi dello studioso tedesco solo concedendo che Proculo sottintendesse che la condictio spettava nel primo caso ob turpem causam e nel secondo re non secuta. Questa interpretazione del testo è tuttavia la meno economica. Più semplice è pensare che il giurista guardasse alla ripetibilità della prestazione attraverso un’unica lente – quella della turpitudo, appunto – e che fosse la lente in questione a rendere irrilevante se la controprestazione dell’accipiens fosse intervenuta o meno. Ed in effetti, se ci si sposta, come subito faremo, fuori dalle sedes specifiche della condictio ob turpem causam previste dai Compilatori (D. 12.5, CI. 4.7), questa sensazione si fa, via via, più consistente.

 

[1] Nello stesso senso, pur dando apparentemente meno peso alla scelta espositiva di Paolo, vd. anche R.A. Meyer-Spasche, The Recovery of Benefits Conferred under Illegal or Immoral Transactions. A Historical and Comparative Study with particular emphasis on the Law of Unjustified Enrichment (2002) (unpublished Ph.D. thesis, University of Aberdeen), consultabile all’indirizzo: https://core.ac.uk/download/pdf/176942.pdf.

[2] «Per il caso che uno prendesse del denaro da uno schiavo di mia proprietà, allo scopo di non denunciare il furto da lui commesso, Proculo ha stabilito con responso che quel denaro sarebbe ripetibile, a prescindere che (l’accipiente) avesse denunciato oppure no».

[3] Cfr. Ulp. 26 ad ed. D. 12.5.4.1, infra § 10.

[4] Sul punto – specie per le ragioni che escludono che quella propugnata da Proculo fosse un’applicazione della condictio ex causa furtiva - seguo l’esegesi di D. Daube, Turpitude in Digest 12.5.5 (1986) ora in Collected Studies in Roman Law, II, Klostermann, 1991, 1403 ss. Sul pt. vd. ora anche E. Metzger, Quare? Argument in David Daube after Karl Popper, in Roman Legal Tradition, 2004, 52 ss.


5. L’illiceità dello scopo come profilo assorbente della fattispecie: una testimonianza ulteriore relativa alla datio con turpitudo utriusque.

Nel 326 la cancelleria di Giuliano l’Apostata varava un editto - pervenutoci per il tramite del Codice Teodosiano – volto ad arginare la mala pratica delle raccomandazioni volte a fare assegnare le cariche pubbliche a prescindere dal merito dei candidati. Nello specifico si trattava di stabilire se una volta che il suffragator si fosse fatto pagare, per il suo intervento, il raccomandato potesse ripetere la prestazione. Tenendo fede al programma enunciato due anni prima, al momento di essere proclamato Augustus[1] e spinto forse anche da una serie di cause portate nel frattempo davanti al suo stesso tribunale[2], l’imperatore introduce la decisione nei seguenti termini:

 

Imp. Iulianus ad populum, CTh. 2.29.1 (prima parte): Foedis commentis, quae bonorum merito deferuntur, quidam occupare meruerunt et quum meruissent in republica quolibet pacto versari, repetendam sibi pecuniam, quam inhoneste solverant, imprudentius atque inhonestius arbitrantur[3].

 

Le parole riportate introducono una dura presa di posizione dell’Imperatore, il quale, nella parte propriamente dispositiva della costituzione statuisce tre cose: [a] che alle persone che (malamente) pretendono la restituzione del denaro versato vanno assimilati coloro che si siano reimpossessati unilateralmente dei beni alienati ai sollecitatores; [b] che a chi ha pagato è preclusa ogni facoltà di ripetizione, mentre chi è rientrato in possesso del bene alienato lo dovrà restituire; [c] che una somma ulteriore, corrispondente all’importo della dazione, sarà devoluta in ogni caso al fisco, a mo’ di sanzione[4].

Ai fini del nostro discorso ciò che rileva dell’editto di Giuliano non è tanto il regime che abbiamo succintamente richiamato, quanto il modo in cui nel prologo viene presentata la situazione che ha provocato il duro intervento imperiale. Contro chi si dirige l’invettiva di Giuliano? Parafrasandola, contro quelle persone che, dopo aver brigato e ottenuto col denaro cariche che si sarebbero dovute assegnare guardando unicamente ai meriti degli aspiranti, si sono convinti, in modo ancora più sconsiderato e disonesto, di poter ripetere quanto pagato.

Ora, chi volesse applicare le nomenclature di Honsell alla fattispecie evocata dalla cancelleria imperiale, dovrebbe concludere di essere in presenza di un’intesa che non solo sottintende una turpitudo utriusque (di chi solleciti e di chi accetti di suffragare per denaro[5]), ma che anche ha avuto piena esecuzione (avendo ottenuto il sollecitante l’ufficio cui ambiva). Tuttavia - ed è appunto questo l’aspetto significativo, che mina l’impianto dello studioso tedesco – per dire che versato al suffragator non si può ripetere, l’editto di Giuliano non si rifà alla presunta regola base dell’ob rem dare (vale a dire il conseguimento dello scopo). A interessare è soltanto l’aspetto illecito e riprovevole dell’accaduto, sul quale s’insiste calcando particolarmente la mano sulla condotta complessiva degli attori, ai quali viene imputato dapprima d’aver stretto intese illecite, poi d’aver dato loro esecuzione, versando denaro inhoneste, e infine, con disonestà (e sconsideratezza) ancora maggiore, di aver preteso di quel denaro la restituzione.

Certamente è vero che la costituzione trasuda di un’enfasi morale che manca agli scritti giurisprudenziali (i quali, per esempio, non bollano mai la pretesa di ripetere i pagamenti illeciti come una disonestà ancora maggiore dei pagamenti stessi). Ma non è questo un buon motivo per non riconoscere, come già aveva riconosciuto J. Godefroy nel suo monumentale commento al Codice Teodosiano, che la sostanza del criterio normativo adottato dalla cancelleria imperiale è la stessa delle fonti classiche: chi ha pagato per un suo obiettivo illecito, non può pretendere che gli sia restituito il denaro[6].

Se dunque lo si accosta alle nomenclature di Honsell, la sensazione è che l’editto di Giuliano sconfessi l’idea che la regola «in pari causa turpitudinis repetitio cessat» costituisse una regola residuale, chiamata in causa solo quando il solvens cercava di recuperare una propria prestazione illecita, giustificandosi con l’inadempimento di controparte. La fattispecie – giova ribadirlo – è in questo caso quella di una res secuta, ma per negare la condictio l’imperatore non si richiama affatto alla logica dello scambio. Il suo editto non dice che non si può ripetere quanto pagato ai sollecitatores perché l’obiettivo è stato raggiunto. Quel che si dice è che la dazione è disonesta, ed ancor più disonesto è chiederne la restituzione.

 

[1] Cfr. Amm. 20.5.7: Ut autem rerum integer ordo servetur, praemiaque virorum fortium maneant incorrupta, nec honores ambitio praeripiat clandestina, id sub reverenda consilii vestri facie statuo, ut neque civilis quisquam iudex nec militiae rector, alio quodam praeter merita suffragante, ad potiorem veniat gradum, non sine detrimento pudoris eo, qui pro quolibet petere temptaverit discessuro («Ma affinché l’ordine si mantenga intatto e le ricompense dei valorosi non divengano oggetto di corruzione, né intrighi clandestini portino ad usurpazione di cariche, stabilisco, alla presenza della nostra venerabile assemblea, che nessun governatore civile né comandante militare raggiunga un grado superiore con appoggi che non siano i suoi meriti; e chiunque cercherà di ottenere per qualcuno un beneficio, non se la caverà senza vergogna» [trad. M. Caltabiano]). Dell’editto programmatico – riportato dallo storico - Giuliano avrebbe dato lettura nel 360, a Lutetia Parisiorum, davanti alle truppe galliche in rivolta. C’è tuttavia chi ne posticipa la promulgazione di due anni, tra l’altro proprio per la convergenza di motivi con il provvedimento del 362 (CTh. 2.29.1) che segue nel testo: cfr. A. Marcone, La corruzione nella tarda antichità, in RSA, 2006, 118. Per un inquadramento dei predecessori di Giuliano verso il suffragium, vd. J. den Boeft, et al., Philological and Historical Commentary on Ammianus Marcellinus’Res Gestae, XX, Brill, 1987, 124 ss.

[2] Cfr. Amm. Marc. 22.6.1-5; che i fatti narrati dallo storico possano aver concorso alla promulgazione dell’editto del 362, si può tuttavia ammettere solo attribuendo ad Ammiano una conoscenza non perfetta dell’editto in questione: cfr. J. den Boeft, et al., Philological and Historical Commentary on Ammianus Marcellinus’ Res Gestae, XXII, Brill, 67.

[3] «Con espedienti vergognosi alcuni si sono sistemati in posti che spetterebbero alle persone che lo meritano e, dopo aver preso possesso della carica pubblica grazie a una qualche pattuizione, si credono in diritto di riavere il denaro che avevano versato in modo disonesto, con ancora più imprudenza e disonestà».

[4] CTh. 2.29.1 (seconda parte): Alii etiam, quae tunc donaverant vel potius proiecerant ob immeritas causas, invadenda denuo crediderunt. Sed quia leges Romanae huiusmodi contractus penitus ignorant, omnem repetendi eorum, quae prodige nefarieque proiecerunt, copiam prohibemus. Qui itaque repetere nititur vel repetiisse convincitur, et, quod dedit, apud suffragatorem eius manebit vel extortum restituet, et alterum tantum fisci viribus inferre cogatur («Altri hanno poi pensato di poter tornare ad aggredire i beni che a suo tempo avevano donato, se non proprio svenduto per motivi ingiustificati. Atteso però che le leggi romane non contemplano affatto contratti di questo tipo, proibiamo qualsiasi facoltà di ripetizione di quanto gettarono con troppa leggerezza e scelleratezza. Pertanto, chiunque tenti di agire in giudizio per la ripetizione, o che sia provato aver ripetuto, sappia che non solo resterà al raccomandante quel che diede o che comunque restituirà quanto estorto, ma anche che altrettanto sarà costretto a versare al personale del fisco»).

[5] Nonostante il testo dell’editto insista in particolare sulla bassezza dei sollecitanti, contro i quali il provvedimento del resto si dirige, è implicito che agli occhi del sovrano fosse da biasimare la condotta stessa dei sollecitatores. In questo senso, basti considerare che nell’editto programmatico del 360/362 (supra nt. 46) la minaccia per chi si fosse attentato a fare da mediatore era di svergognarlo (non sine detrimento pudoris, eo qui pro quolibet petere temptaverit: «non senza macchiarsi di vergogna per chi si sarà attentato d’intercedere per chiunque altro»).

[6] Cfr. Codex Theodosianus cum Perpetuis Commentariis Jacobi Gothofredi, I, apud Weidmanno, 1736, 253 s., ad CTh. 2.29.1; si tratta, come è noto, della ristampa all’editio postuma del 1665. Nella (copiosa) letteratura contemporanea il punto è stato ben ripreso soprattutto da C. Collot, La pratique et l’institution du suffragium au Bas-Empire, in RHD, 1965, 195 ss.; D. Liebs, Ämterkauf und Ämterpatronage in der Spätantike, in ZSS, 1978, 180 s.; N. Hayashi, Il suffragium dell’imperatore Giuliano e di Teodosio I, in AARC, 1995, 463 s.; B. Malavé Osuna, Suffragium: un crimen publicum en la frontera de la legalidad, in SDHI, 2003, 312 ss. In senso contrario vd. M.U. Sperandio, Dolus pro facto. Alle radici del problema giuridico del tentativo, Jovene, 1998, 211 ss., con la bibl. citata alle ntt. 66 e 71.


6. (segue) Una testimonianza ulteriore relativa alla datio con turpitudo accipientis dumtaxat.

Per completare la verifica delle nomenclature proposte da Honsell – e passare perciò dalla casella della turpitudo utriusque a quella della turpitudo accipientis dumtaxat – possiamo tornare alla Compilazione giustinianea e alla letteratura giurisprudenziale. Il brano che ci accingiamo a presentare proviene infatti dall’Ad edictum di Ulpiano, pur se non si riferiva all’analisi specifica della condictio. Il discorso prende infatti le mosse dall’actio in factum de calumniatoribus, un’azione che non ha corrispondenze nel diritto civile odierno e della quale è perciò opportuno precisare quali fossero le caratteristiche principali, prima di passare alla porzione del commento del giurista severiano che specificamente interessa.

L’azione a carico dei calmunniatores era un’azione penale pretoria. Essa sanzionava, in particolare, chi si fosse fatto pagare «per condurre o per astenersi dal condurre un giudizio calunnioso» (come si esprimeva l’editto: in eum qui, ut negotium faceret vel non faceret, pecunia accepisse dicetur)[1]. Il convenuto era punito per il solo fatto di avere accettato o preteso il denaro, indipendentemente dall’esito dell’intesa (sive fecit sive non fecit, come chiosa Ulpiano, a proposito di colui che si fosse fatto pagare per promuovere il giudizio calunnioso ai danni di un terzo)[2]. Inoltre, legittimata attiva alla pena era sempre la vittima (dunque anche solo potenziale) della calunnia, sia che avesse pagato essa stessa (o altri per lei) allo scopo di evitare il giudizio, sia che il pagamento fosse stato fatto da un terzo in suo danno (cioè per indure il percettore alla calunnia)[3]. Infine, la pena in cui incorreva il calumniator era di importo variabile: nel quadruplo di quanto ricevuto, se non era decorso il termine annale di decadenza delle azioni penali pretorie (computato dal momento in cui fosse stato possibile esperirle); nei limiti dell’arricchimento iniziale (in id quod ad eum pervenit), se il termine in questione era scaduto[4].

La porzione del commento di Ulpiano su cui dovremo concentrare la nostra attenzione riguardava il concorso – determinato dalle ragioni che diremo - tra l’actio de calumniatoribus e la condictio. Sul piano pratico il problema era di stabilire se il concorso dovesse essere elettivo, cumulativo, oppure da regolare in forma ibrida, nel senso di accordare l’azione penale nel triplo, anziché nel quadruplo, se si fosse già esperita la condictio, in modo da dedurre dalla pena la porzione recuperata nel primo giudizio. Ulpiano opta per la prima soluzione (concorso elettivo) e su questa base chiude questa frazione del commento con il seguente corollario: (data la coincidenza del petitum) nel caso in cui competa la condictio, non vi è necessità di accordare la variante in simplum dell’actio de calumniatoribus, prevista dall’editto oltre il termine annale[5].

Il punto successivo, affrontato dal giurista, è la conseguenza logica del fatto che l’azione penale competeva, come si è detto, in due casi, e cioè quando il calumniator si fosse fatto pagare per calunniare un terzo oppure per astenersi dal calunniare il solvens. Ulpiano doveva perciò precisare se il concorso con la condictio si desse in entrambe le ipotesi. E sono proprio le parole, usate dal giurista per introdurre il punto, a rivelare tutta la tensione tra il modo di vedere che verosimilmente le ispira e quello che gli schemi di Honsell vorrebbero attribuire ai giuristi romani:

 

Ulp. 10 ad ed. D. 3.6.5.1 (prima parte): Sed etiam praeter hanc actionem condictio competit, si sola turpitudo accipientis versetur: nam si et dantis, melior causa erit possidentis[6].

 

A fare da sfondo alle parole di Ulpiano è una considerazione direi quasi banale. E’ come se si volesse avvertire il lettore che, delle due ipotesi in cui è accordata l’actio de calumniatoribus, l’una realizza una turpitudo accipientis dumtaxat, mentre l’altra una turpitudo utriusque. Il che è piuttosto ovvio. Quando il solvens paga per evitare di essere trascinato in una causa temeraria, la turpitudo è in effetti soltanto del percettore. Viceversa, se la persona è pagata per trascinare nella lite temeraria un terzo, la turpitudo è pure del solvens. Per questo – è la conclusione di Ulpiano – solo nel primo caso può porsi la questione di un concorso con la condictio, dal momento che nel secondo caso la ripetizione sarebbe preclusa dalla regola che in presenza di una turpitudo utriusque premia il possessore.

Se l’affermazione in questione, tutto sommato scontata, si rivela preziosa per giudicare della bontà delle tesi di Honsell, è a causa del secondo dettaglio relativo all’actio de calumniatoribus di cui prima si diceva. Al calumniator la pena era cioè comminata per il solo fatto di aver ricevuto il denaro, senza badare se la lite temeraria fosse stata poi effettivamente ingaggiata. Ebbene, lo stesso valeva per la condictio, nel senso che anche dal punto di vista della condictio era indifferente se l’accipiens avesse poi onorato l’impegno (astenendosi dall’intentare la lite contro il solvens ) oppure no.

Questa circostanza – indifferente per l’esercizio dell’una come dell’altra azione – non è però indifferente per lo schema nomenclatorio di Honsell. E non lo è, perché lo schema in questione vorrebbe che il calumniator rispondesse con la condictio sulla base di due titoli alternativi: “re non secuta”, quando abbia intascato il denaro e si sia rimangiato poi le parole; “ob turpem causam”, quando abbia onorato l’accordo.

Non sarà però sfuggito che Ulpiano non fa affatto questa distinzione. Dalla sua prosa risulta che il solvens ha il diritto di recuperare il pagamento per il fatto in sé che l’acquisto dell’accipiens è un acquisto turpe. Perciò, delle due l’una. O si concede che il giurista, al momento d’introdurre il tema del concorso con la condictio, si sia dimenticato di precisare che l’actio de calumniatoribus concorreva con entrambe le forme di ripetizione (ossia, in un caso, con la condictio cd. ob rem dati re non secuta e, nell’altro caso, con la condictio ob turpem causam), oppure non resta che ammettere che ai suoi occhi il tipo di condictio che si affiancava all’actio de calumniatoribus era sempre lo stesso: si trattava cioè di una condictio fondata sulla disonestà (nel caso imputabile al solo percettore) e prescindeva dal fatto che costui avesse o meno tenuto fede al suo impegno.

 

[1] Per la ricostruzione dell’editto vd. O. Lenel, Das Edictum Perpetuum: Ein Versuch Zu Dessen Wiederherstellung3, Tauchnitz, 1927, 106 ss. Non è possibile discutere in questa sede le due proposte ricostruttive più recenti di J. Garcia Camiñas, Ensayo de reconstrucción del título IX del edicto perpetuo: de calumniatoribus, Monografias de Universidade Santiago de Compostela, 1994, 116-122 e R. Domingo, ¿Existió un título IX De calumniatoribus en el Edicto del pretor?, in SDHI, 1994, 637 ss.

[2] Ulp. 10 ad ed. D. 3.6.3.1.

[3] Ulp. 10 ad ed. D. 3.6.3.3.

[4] Cfr. Lenel, Das Edictum Perpetuum, cit. 106 e nt. 9; per il computo del termine cfr. Gai 4 ad ed. prov. D. 3.6.6.

[5] Ulp. 10 ad ed. D. 3.6.5.1 (seconda parte): Quare si fuerit condictum, utrum tollitur haec actio, an vero in triplum danda sit? an exemplo furis et in quadruplum actionem damus et condictionem? sed puto sufficere alterutram actionem. ubi autem condictio competit, ibi non est necesse post annum dare in factum actionem («Ragion per cui, se si sarà esercitata la condictio quest’altra azione viene meno del tutto o va accordata nel triplo? Oppure ancora, analogamente al caso del ladro, accordiamo sia l’azione nel quadruplo sia la condictio? La mia opinione è però che basti l’una o l’altra azione, e che poi, quando compete la condictio, non occorra accordare oltre il termine annale l’azione in factum»). La congruenza logica del testo evita di dover adottare la complessa riformulazione proposta da J. Garcia Camiñas, La acción edictal de calumnia al cuádruplo, in Anuario da Facultade de Dereito da Universidade da Coruña, 2001, 361 s.

[6] «Oltre a questa azione compete però anche la condictio, purché di mezzo ci sia una turpitudine del solo acquirente: difatti, se (ve ne sia) pure dell’alienante, prevarrà la condizione di possessore».


7. Riepilogo.

Le considerazioni svolte nei §§ precedenti dimostrano che l’inquadramento proposto a suo tempo da Honsell, per descrivere il regime della (ir)ripetibilità delle dazioni illecite, non corrisponde fino in fondo allo spirito delle soluzioni romane. Non è vero che quella che si usa denominare condictio ob turpem causam fosse una forma di ripetizione chiamata in causa al solo scopo di evitare che un percettore disonesto si riparasse dietro le regole del synallagma e pretendesse perciò di trattenere la prestazione ricevuta dal solvens quando avesse corrisposto la propria. E non è vero, a rovescio, che la regola che si usa riassumere nel brocardo «in pari causa turpitudinis repetitio cessat» fosse chiamata in causa al solo scopo di evitare che un solvens, parimenti disonesto, invocasse le regole del synallagma per recuperare la prestazione anticipata, quando la controparte non avesse corrisposto a sua volta. Gli ultimi due testi analizzati – il passo di Ulpiano e l’editto di Giuliano – smentiscono questa rappresentazione.

Di fronte a dazioni che presuppongono scambi evidentemente illeciti (nel caso discusso da Ulpiano: con una illiceità rimproverabile al solo accipiens, nella fattispecie disciplinata da Giuliano: ad entrambe le parti), né il giurista né l’imperatore mostrano di prendere in minima considerazione la logica dello scambio. Nessuno dei due attribuisce importanza al fatto se la res, la controprestazione, sia o meno intervenuta; né si dice che lo scopo delle soluzioni propugnate è d’introdurre dei correttivi per rimediare alle aberrazioni che la logica dello scambio potrebbe comportare in dati casi.

Grazie agli interventi riprodotti in D. 3.6.5.1 e in CTh. 2.29.1 si delinea dunque meglio quel che da un testo come D. 12.5.5 si poteva intuire soltanto. Nel modo di rappresentare le cose dei giuristi romani, per giudicare della ripetibilità di una prestazione, l’aspetto determinante non è se l’obiettivo turpe, cui la prestazione è legata, sia stato o meno raggiunto; l’essenziale è appunto che l’obiettivo sia riprovevole. Il che è come dire che agli occhi della giurisprudenza la turpitudo impronta di sé l’accaduto, facendo passare in secondo piano ogni altra qualificazione che pure potrebbe astrattamente concorrere al fine di ammettere o di negare la condictio.

E’ da questo punto di vista che si spiega nel modo più piano per quale ragione i giuristi sentano molto raramente l’esigenza di precisare se la controprestazione illecita, che ci si attendeva dal percettore, sia intervenuta o meno. Quando s’incontra questo genere di precisazione, o si ha a che fare con affermazioni dettate per spirito sistematico (come avviene in D. 12.5.1.2, dove si tratta di esprimere per differentiam la distanza della condictio cd. ob rem dati dalla condictio ob turpem causam), o si ha a che fare con affermazioni sollecitate dalla disputatio fori (come in D. 12.5.9 pr. o in CI. 4.7.4, dove si tratta di neutralizzare l’argomento che l’esecuzione della controprestazione dà comunque diritto all’accipiens di trattenere la prestazione estorta).

Al di fuori di situazioni di questo tipo, i giuristi normalmente tacciono della questione. E ne tacciono perché dal loro punto di vista ciò che rileva, ai fini della repetitio, è unicamente che l’intesa sia turpe. E’ questa circostanza che a seconda dei casi fonda o esclude la condictio: quando esecrabile sia soltanto la condotta dell’accipiens, il pagamento si ripete sempre, senza badare se la controprestazione attesa dal percettore sia intervenuta o meno (come è detto in D. 12.5.5); quando esecrabile sia anche la condotta del solvens, non si ripete mai.


8. Classicità e significato della massima «in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis».

Caduta la parte discussa della tesi di Honsell, cade di conseguenza quanto Carusi ha attribuito all’esperienza romana derivandolo direttamente dallo studioso tedesco. Resta ora da vedere che cosa debba dirsi del resto dell’innovativo affresco realizzato dal civilista di Genova. Come si è avvertito all’inizio del saggio (§§ 1-2), per quest’altra parte la curiosità sta nel sapere se abbia ragione Carusi ad attribuire alla regola romana della irripetibilità delle dazioni illecite una ratio non dissimile da quella che l’analisi economica del diritto ha finito per attribuire all’art. 2035 del Codice civile (e alle disposizioni e ai principi omologhi riconosciuti in altri paesi europei).

La ratio in questione, come si è anticipato, sarebbe quella della prevenzione. «La nostra regola» - scrive infatti Carusi, riferendosi all’esperienza romana - «nasce (…) con l’obiettiva funzionalità di disincentivare il comportamento avuto di mira dal tradens, togliendo all’accipiens (…) ogni interesse ad osservarlo»[1]. Se l’autore parla di «obiettiva funzionalità», è perché la ratio indicata trascende quanto esprimono le fonti romane, la cui spiegazione della regola della retentio è ben diversa. Di quest’ultima Carusi però si libera con un giudizio tranchant. «La compilazione giustinianea» - dunque gli artefici di Digesto e Codice, non la giurisprudenza classica - «consegna la retentio ai posteri offrendone una spiegazione puramente tautologica: melior est condicio possidentis»[2].

Per rendere più spedita la verifica della tesi del civilista genovese, giova precisare che tra le due asserzioni, di cui essa si compone, corre una sorta di consequenzialità. Intendo dire che in tanto potrà credersi che i giuristi romani vedessero nella regola della retentio uno strumento creato in funzione dissuasiva, ossia per dissuadere i consociati dallo stringere accordi illeciti, in quanto si escluda che risalga ai giuristi stessi la (diversa) spiegazione che si legge nei loro interventi raccolti nella Compilazione giustinianea. Il rapporto tra le due asserzioni permetterà di concentraci sulla sola premessa del ragionamento, senza affrontarne la conclusione; tanto più che, prima di poterla accettare, quest’ultima andrebbe comunque calata entro la più generale questione della teorizzazione romana sulla funzione dissuasiva della pena[3].

Concentrandoci dunque sulla sola prima parte del ragionamento, va detto che essa si espone a due ordini di rilievi, di metodo e merito. Sul piano del metodo va rilevato anzitutto che Carusi risolve il problema della manipolazione giustinianea limitandosi a richiamare un lavoro giovanile di Arnaldo Biscardi[4], nel quale si sosteneva la fattura compilatoria di tutta la seconda parte di Paul. 3 quaest. D. 12.5.8[5]. Il passo in questione è in effetti l’unico del titolo del Digesto dedicato alla condictio ob turpem causam in cui si citi la massima della prevalenza del possessor. Sennonché la medesima massima compare anche in altri testi. Uno è quello di Ulpiano, appena commentato, sul concorso tra la condictio e l’azione penale a carico dei calumniatores. Dopodiché occorre sicuramente aggiungere due testi ulteriori[6]: una quaestio di Papiniano, in cui si discute se una donna, che aveva in programma di sposare lo zio materno, abbia o meno il diritto di recuperare quanto anticipatogli a titolo di dote[7]; quindi un rescritto di Caracalla, che per come è presentato nel Codex Iustinianus non si lascia invece agganciare a un caso di partenza preciso[8].

Il primo difetto del modo di procedere di Carusi è di non essersi reco conto che il per il suo auctor secundus questi altri testi non destavano alcun sospetto. Anzi, ad avviso di Biscardi, sia la regola della retentio sia la massima che la incorporava, riflettevano uno dei punti di equilibrio raggiunti dal diritto classico per correggere gli effetti civili dell’astrattezza della datio e della stipulatio[9]. Soltanto in D. 12.5.8 la massima «melior est condicio possidentis» sarebbe stata insomma estranea al dettato originario del testo; ma per una ragione del tutto contingente (nel senso che Biscardi pensava che i Compilatori se ne fossero serviti all’interno di una complessa e pasticciata motivazione, nel tentativo di conciliare le soluzioni dei giuristi classici con le nuove teorizzazioni bizantine sul regime dell’illiceità dei contratti[10]).

Per trovare una base appropriata alla propria tesi, Carusi avrebbe fatto dunque meglio a guardare in un’altra direzione. Proprio in Germania, una quindicina d’anni dopo l’intervento di Biscardi, un’importante monografia sulla natura e il regime della condictio sarebbe arrivata in effetti a denunciare la mano postclassica dietro qualsiasi attestazione del principio della poziorità del possesso[11]. Ma con quali argomenti? Quello di fondo – iniziando dunque a passare dal metodo al merito - è che un giurista classico non si sarebbe mai servito del lessico delle azioni reali in un ambito come quello della condictio, dove la legittimazione passiva del percettore non dipendeva in alcun modo dal fatto che egli avesse conservato o meno l’oggetto della datio[12].

Il rilievo si colloca dunque tra il dogmatico e il lessicale, ma trascura due cose. La prima – già obiettata alla tesi dell’interpolazione[13] – è che anche nei giudizi possessori e petitori l’illecito reciproco andava a vantaggio del possessore; sicché il principio della poziorità del possesso potrebbe essersi sviluppato in quell’ambito – complici anche altre sue applicazioni – e di lì essere stato poi trasfuso a supporto del regime della condictio[14]. Ma soprattutto – io direi – la tesi dell’interpolazione trascura che proprio nel campo della condictio e della turpitudo utriusque il termine possessor risulta particolarmente calzante come significante valoriale. Esso evoca infatti, in modo quasi istintivo, che l’accipiens non è un giusto proprietario del bene, ma uno che semplicemente approfitta dello stato di fatto.

Un secondo argomento portato contro il dictum classico – un argomento che nella sostanza si può attribuire anche a Carusi – è che motivare la regola della retentio con la poziorità del possesso significa in realtà non motivare affatto[15]. L’appunto coglierebbe tuttavia nel segno se la regola romana si limitasse a esprimere quel che apparentemente le si vuole far dire, e cioè che nel caso di turpitudine doppia non si dà ripetizione perché la posizione dell’accipiens prevale su quella del solvens[16]. Sennonché, il difetto dell’icastica sententia di Carusi sta proprio nel ridurre la spiegazione delle fonti romane al brocardo «melior est condicio possidentis». Così facendo, si trascura però il punto essenziale, e cioè che l’adagio romano non si limita a prendere atto della poziorità del possesso, e nemmeno presenta la poziorità del possesso come una conseguenza del diniego della condictio. L’elemento centrale delle formule impiegate dai giureconsulti è la condizione di parità in cui si trovano le parti.

La cosa emerge nitidamente dai testi linguisticamente più vicini al nostro brocardo, quelli cioè di Papiniano e Caracalla incidentalmente ricordati un attimo fa. In delicto pari potiorem esse possessorem dixi («a parità di delitto ho detto che prevale il possessore»): così recitava la prosa icastica di Papiniano. E lungo la stessa linea ripeteva, qualche anno più tardi, la cancelleria di Caracalla: in pari causa turpi possessoris melior condicio habetur («a parità di turpe motivazione ha la meglio la condizione di possessore»). Il modo di vedere che filtra dalle fonti romane è insomma lineare. I giuristi non dicono che il possessor, ossia l’acquirente, prevale perché l’alienante non ha la condictio. E’ piuttosto il contrario, vale a dire che il possessor non ha la condictio (e dunque prevale) perché lui e l’avversario pari sono. Il che significa che è la parità di posizione ad assicurare la retentio.

Il passo successivo è di rendersi conto che questo modo di vedere è la diretta conseguenza della rappresentazione messa a fuoco nei precedenti §§ (attraverso la lettura di D. 12.5.5, CTh. 2.29.1, D. 3.6.5.1). Il fatto che sia la parità nel delitto a determinare il diniego della condictio, dipende infatti, a sua volta, dal fatto che nel giudicare della ripetibilità di una prestazione disposta per una causa turpis il punto di diritto non verte sull’esecuzione del synallagma, ma unicamente sui contenuti illeciti dell’accordo in cui s’inquadra la prestazione. Sicché, se al percettore si può chiedere, normalmente, di restituire il pagamento estorto illecitamente, questa possibilità viene meno se l’operazione illecita è stata condivisa in partenza, per non dire suggerita, da chi lo ha pagato. La ragione prima della regola romana risiede dunque nel fatto che fintanto che il discorso ruota intorno alla causa della datio e ai suoi contenuti illeciti, non c’è ragione, se la turpitudo è di entrambe le parti, di assecondare il solvens piuttosto che l’accipiens.

Va però detto che questa impostazione deriva a sua volta da una circostanza ancora più a monte, che deriva dalla natura stessa della condictio. Uno degli aspetti più caratteristici di questa azione processuale romana – quando la si impiegava per la ripetizione del dato - è che il relativo programma di giudizio verteva esclusivamente sulla causa della datio e, simmetricamente, della retentio. Per questo, quando la causa era illecita per entrambe le parti, si determinava uno stallo, rispetto al complesso della causa petendi, che impediva di decidere quale delle due parti avesse torto o ragione. Ed era questa la ragione ultima per cui nel caso di par turpitudo prevaleva il possessore: perché l’indecidibilità sulla causa – e dunque della causa – obbligava a lasciare le cose come stavano.

 

[1] Carusi, Illicità, cit., 500; sostanzialmente negli stessi termini Id., Le obbligazioni, cit., 290 s.

[2] Ibidem.

[3] Sul tema vd. in prima approssimazione O. Diliberto, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, I, Edizioni AV, 1992, 255 ss., (con bibl.), A. Wacke, Le finalità della sanzione penale nelle fonti romane, in Index, 37, 2009, 137 ss.; B. Santalucia, Metu coercendos esse homines putaverunt. Osservazioni sulla funzione della pena nell’età del Principato, in A. Calore – A. Sciumè (curr.), La funzione della pena in prospettiva storica ed attuale, Giuffrè, 2013, 15 ss.

[4] Carusi, Illiceità, cit., 500 nt. 12; Id., Le obbligazioni, cit., 291 nt. 718. Lo scritto citato di Biscardi - Sul negozio giuridico illecito: turpitudo utriusque, in Foro it., 1938, 357 ss. – esponeva in una prospettiva più circoscritta lo scritto coevo Ancora in tema di collisione, in SDHI, 1938, 493 ss.

[5] Paul. 3 quaest. D. 12.5.8: Si ob turpem causam promiseris Titio, quamvis si petat, exceptione doli mali vel in factum summovere eum possis, tamen si solveris, non posse te repetere, quoniam sublata proxima causa stipulationis, quae propter exceptionem inanis esset, pristina causa, id est turpitudo, superesset: porro autem si et dantis et accipientis turpis causa sit, possessorem potiorem esse et ideo repetitionem cessare, tametsi ex stipulatione solutum est. («Se ti sarai impegnato con una stipulazione in favore di Tizio sulla base di una motivazione turpe, per quanto tu lo possa respingere, se chiede l’adempimento, con l’eccezione di dolo o con una eccezione modellata sul fatto, tuttavia, se avrai pagato, non potrai ripetere, per il fatto che una volta caduta la causa prossima, rappresentata dalla stipulazione, la quale sarebbe priva d’effetti a causa dell’eccezione, comunque rimarrebbe la causa remota, ossia la turpitudine; d’altra parte, se vi sia una turpe motivazione in capo sia all’alienante sia all’acquirente, è migliore la condizione di possessore e pertanto viene meno la possibilità di ripetere, anche se si è adempiuto in base a una stipulazione»). Del testo riportato, ad essere interpolato, secondo Biscardi, sarebbe il lungo tratto quoniam – solutum est, che i Compilatori avrebbero sostituito a un laconico constat.

[6] Escluderei invece l’ulteriore passo richiamato da Biscardi, Ancora in tema di collisione, cit., 493, e cioè Ulp. 70 ad ed. D. 50.17.154, che attiene piuttosto al regime degli interdetti possessori: vd. infra nt. 71.

[7] Pap. 11 quaest. D. 12.7.5: Avunculo nuptura pecuniam in dotem dedit neque nupsit: an eandem repetere possit, quaesitum est. dixi, cum ob turpem causam dantis et accipientis pecunia numeretur, cessare condictionem et in delicto pari potiorem esse possessorem: quam rationem fortassis aliquem secutum respondere non habituram mulierem condictionem: sed recte defendi non turpem causam in proposito quam nullam fuisse, cum pecunia quae daretur in dotem converti nequiret: non enim stupri, sed matrimonii gratia datam esse («Allo zio materno la nipote trasferì del denaro in dote, avendo intenzione di sposarlo, ma non si sposò. E’ stata posta la questione se potesse ripetere quel denaro. Ho detto che la condictio viene meno quando si paga del denaro per una turpe motivazione dell’alienante e dell’acquirente, e che a parità di diritto prevale il possessore: adottando questo principio, uno potrebbe rispondere che alla donna non dovrà spettare la condictio; ma si può sostenere correttamente la tesi che nel caso di specie ricorra una motivazione non turpe, bensì inesistente, atteso che il denaro, che è stato trasferito, non avrebbe potuto convertirsi in dote: e infatti lo si è trasferito a motivo non di un’unione illecita, ma di matrimonio»).

[8] Ant. CI. 4.7.2: Cum te propter turpem causam contra disciplinam temporum meorum domum adversariae dedisse profitearis, frustra eam restitui tibi desideras, cum in pari causa possessoris melior condicio habeatur («Dal momento che riconosci di aver alienato la casa alla tua avversaria per una turpe motivazione, disattendendo la retta condotta che la mia epoca impone, pretendi inutilmente che la casa ti sia restituita, dal momento che a parità di causa prevale la condizione di possessore»).

[9] Cfr. Biscardi, Sul negozio giuridico illecito, cit., 358: «Se noi guardiamo le cose dal punto di vista del ius honorarium non stentiamo ad accorgerci come la preferenza attribuita al possessor abbia a suo fondamento esclusivo la parità di non diritto alla tutela giudiziaria da una parte e dall’altra». In termini identici l’a. si esprimeva nel saggio parallelo Ancora in tema di collisione, cit., 498; ivi (p. 499) anche la precisazione ulteriore che «la massima “in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis” non rappresenta per diritto classico una deviazione da cui sono informate le altre applicazioni della regola, la quale fa del possesso il criterio discretivo di una preferenza legale».

[10] Motivazione che invece non è pasticciata affatto; cfr. per es. la chiara esegesi di R. Lambertini, Testi e percorsi di diritto romano e di tradizione romanistica, Giappichelli, 2010, 35 ss. Va anche osservato che la posizione di Biscardi è stata equivocata da Carusi fin dal suo primo intervento, da cui poi discendono a cascata le sintesi richiamate supra in corrispondenza della nt. 61; cfr. infatti Contratto illecito, cit. 8: «Superata la dicotomia dei sistemi» - vale a dire il sistema civile e quello pretorio, a cui Biscardi riconduceva ogni meccanismo volto a correggere gli effetti dell’astrattezza di datio e stipulatio - «il diritto postclassico sancisce in via generale l’irrilevanza dell’accordo illecito (…) Ma il frammento di Paolo che esclude la ripetizione, ed altri affini sulla condictio ob turpem causam restano incorporati nella Compilazione giustinianea; nel nuovo contesto essi sollecitano nuove concettualizzazioni, ed è così che in via d’interpolazione comparirebbe il riferimento al possesso quale nuovo fondamento della soluti retentio».

[11] Il riferimento è a F. Schwarz, Die Grundlage der condictio im klassischen römischen Recht, Böhlau, 1952, 187 s.

[12] Cfr. Schwarz, op. cit., 188: «Hier aber, im Kondiktionrecht, wo es nur um den einen persönlichen Anspruch auf Herausgabe wegen ungerechtfertigen Erwerbs geht, ist die Berufung auf die melior causa possidentis für das klassische Recht auffällig. Denn in dem praktisch häufigsten Fall der datio certae pacuniae kam es nicht darauf an, ob der Empfänger diese Geldstücke noch besaß – muß er zurückgeben, dann ändert an seiner Leistungspflicht die Tatsache nichts, daß er das Geld ausgegeben hat».

[13] Cfr. Honsell, Die Rückabwicklung, cit., 90 e nt. 4; Meyer – Spasche, The Recovery, cit., 34. Senza entrare nel merito, dubbi rispetto alla tesi di Schwarz erano peraltro già stati espressi da H.H. Seiler, § 817 S. 2 BGB und das römische Recht, in Festschrift für W. Felgentraeger, Schwartz, 1969, 381 nt. 16.

[14] Per il principio che la comune scorrettezza va a discapito del petitor, cfr. Ulp. 75 ad ed. D. 50.17.154 (sulla scia di Lenel, Pal. II/855 nt. 4, riferito al procedimento interdittale da D. Daube, Zur Palingenesie einiger Klassikerfragmente, in ZSS, 1959, 249 ss.); Lab. – Ulp. 71 ad ed. D. 43.24.7.3; Ulp. 76 ad ed. D. 44.4.4.13. La poziorità del possessor nel caso di parità di diritto (anziché d’illecito) tra lui e il petitor è invece predicata a proposito del doppio acquisto in buona fede da diversi non domini (Ulp. 16 ad ed. D. 6.2.9.4, oltre che forse Paul. 20 ad ed. D. 50.17.128 pr.) e del concorso di pegni costituiti in favore di due creditori diversi da due diversi non domini (Paul. 14 ad Plaut. D. 20.4.14) oppure costituiti dal proprietario, ma contemporaneamente e in solidum (Iul. 49 dig. D. 43.33.1.1, Ulp. 73 ad ed. D. 20.1.10).

[15] Così, espressamente, Schwarz, Die Grundlage, cit., 188: «Außerdem ist das hier nur ein formales Prinzip, das über die innere Berechtigung des Behaltendürfens nichts aussagt»; quanto alla riferibilità dell’argomento a Carusi (ed altri) vd. alla nt. successiva.

[16] In sostanza, come se stesse in questa posizione, e cioè nel possesso, il fondamento della retentio; cfr. l’ultimo periodo della citazione di Carusi, riprodotta supra alla nt. 67. Per un giudizio che sembra muovere da un disagio analogo verso il dictum romano, vd. G. Terlizzi, Dal buon costume alla dignità della persona. Percorsi di una clausola generale, ESI, 2013, 106: «Certo stride l’affermazione secondo cui in caso di uguale turpitudine melior est condicio possidentis. La regola non fa che registrare un dato di fatto: colui che ha ricevuto il pagamento e non deve restituirlo si trova in una situazione nettamente più favorevole di colui che l’ha effettuato».


9. Applicazioni della massima oltre il perimetro della condictio e della retentio.

Prima di riprendere quest’ultimo punto – per vedere come gli stessi romani sapessero comunque temperare la regola della retentio, approfittando di una certa elasticità del loro sistema processuale – occorre soffermarsi su un ultimo aspetto della «spiegazione consegnata ai posteri dalla Compilazione», per rifarsi all’elegante formula di Carusi.

Si è detto sopra che lo studioso insiste sul fatto che il raggio d’azione della regola della retentio era limitato, dai romani, a quegli accordi sinallagmatici in cui la controprestazione consisteva in un comportamento di per sé immorale e perciò «fuori mercato»[1]. L’affermazione è senz’altro esatta per quanto riguarda l’applicazione della regola in sé, nel senso che le fonti romane effettivamente l’associano ad accordi in cui l’accipiens si fa pagare per tenere una condotta che normalmente costituisce essa stessa un delitto[2]. Questo però non vuol dire che la motivazione che sorregge la regola non sia espressione di un principio più generale. Sarà insomma vero, come dice il civilista di Genova, che chi riporta la regola della retentio al brocardo «nemo auditur turpitudinem suam allegans», finisce per sposare «una eccessiva generalizzazione medievale»[3]. Ma è vero anche che già i romani, dietro alla regola, vedevano all’opera un principio valido oltre la sfera del dare ob rem (turpem) e della condictio.

Un esempio istruttivo delle capacità espansive del principio si ricava da una discussione sulle regole della citazione in giudizio, presentata nel Digesto attraverso la giustapposizione di due brani di Ulpiano e Paolo. Prima di venire al punto, giova ricordare che ancora nel processo formulare, una volta effettuata regolarmente l’in ius vocatio, il citante poteva costringere il citato a seguirlo coattivamente davanti al magistrato[4]. L’interesse del vocans sarebbe stato tuttavia frustrato, se un terzo si fosse mezzo di mezzo, e con la forza avesse allontanato il vocatus, così da impedirne la comparizione. Per scongiurare questo risultato e assicurare così a un tempo sia il buon esito della citazione sia il regolare avvio della fase in iure, l’editto del pretore garantiva che il vocans avrebbe usufruito di un’azione penale, a carico appunto di colui che «allontani a forza chi sarà stato citato in giudizio» (come si esprimeva l’editto: in eum qui in ius vocabitur vi eximat)[5].

Nel commentare il regime dell’azione, Ulpiano sottopone al lettore una questione particolare. Come ci si dovrebbe regolare se un terzo allontanasse a forza un vocatus che il vocans non poteva citare in giudizio? Il caso era stato affrontato già dal giurista repubblicano Ofilio, di cui Ulpiano recupera l’avviso, integrandolo con una propria motivazione:

 

Ulp. 5 ad ed. D. 2.7.1.2: Ofilius putat locum hoc edicto non esse, si persona, quae in ius vocari non potuit, exempta est, veluti parens et patronus ceteraeque personae: quae sententia mihi videtur verior, et sane si deliquit qui vocat, non deliquit qui exemit[6].

 

Per mettere esattamente a fuoco il caso, va ricordato che al composito regime dell’in ius vocatio romana apparteneva una norma ulteriore, anch’essa edittale, con la quale si faceva divieto al figlio emancipato e allo schiavo liberato di citare in giudizio, rispettivamente, l’ascendente e il manomissore (oltre ad alcuni parenti di quest’ultimo), senza aver prima chiesto al pretore una speciale autorizzazione in tal senso[7]. Di qui la questione: se un liberto – senza curarsi della prescritta autorizzazione - avesse citato in giudizio il proprio patrono, e se un terzo si fosse interposto con la forza, impedendo che la citazione facesse il suo corso, si sarebbe dovuto applicare quell’altro editto, che appunto vietava di allontanare con la forza il vocatus? Il giurista Ofilio rispondeva di no e Ulpiano soggiungeva che in un caso del genere l’intervento violento del terzo costituiva una forma di eterodifesa legittima, con la motivazione che «se chi cita delinque, evidentemente non delinque chi allontana (la persona citata)»[8].

Immediatamente a seguire – e senza che sia ben chiaro se per un errore di coordinamento o piuttosto per la deliberata intenzione di segnalare una motivazione alternativa[9] - i Compilatori del Digesto esposero una considerazione ulteriore, che risaliva al calamus di Paolo:

 

Paul. 4 ad ed. D. 2.7.2: Nam cum uterque contra edictum faciat, et libertus qui patronum vocat, et is qui patronum vi eximat: deteriore tamen loco libertus est, qui in simili delicto petitoris partes sustinet[10].

 

Paolo inquadrava dunque il caso diversamente da Ulpiano. A suo giudizio, il terzo che ricorre alla forza per allontanare il vocatus e impedirne la comparizione è autore anch’egli di un illecito. Il diverso inquadramento del caso non ne muta tuttavia l’esito. Anche per Paolo, insomma, se l’intervento del terzo ha impedito di far comparire un patrono citato senza autorizzazione, il liberto non potrà pretendere che l’autore della vis risponda nei suoi confronti con la prevista penale. Solo che la soluzione viene fatta ora dipendere da un ragionamento d’altro tipo. Quel che dice Paolo è che entrambi i protagonisti del caso hanno sì violato le regole dell’in ius vocatio (il liberto non avendo chiesto preventivamente l’autorizzazione del magistrato, il terzo essendo ricorso alla forza); ma proprio per questo «il liberto si trova nella condizione peggiore» dato che «in una situazione come di parità d’illeciti sostiene il ruolo di attore».

Di quest’ultima affermazione sono da notare due cose. La prima è che il giurista non parla di una situazione di par delictum, ma di simile delictum. In effetti, i due protagonisti non sono legati da una condotta comune, ma da due condotte autonome, che violano due dispositivi diversi dell’editto pretorio. Tuttavia, dal momento che le due disposizioni mirano entrambe a garantire il corretto svolgimento dell’in ius vocatio, si può dire che il delitto commesso dall’uno sia simile a quello commesso dall’altro. Ed è grazie proprio a questa similitudine che il giurista si può rifare alla fattispecie della turpitudo reciproca turpitudo e alle sue regole. Negare l’azione per la pena al liberto, che si è visto portar via con la forza il patrono citato a comparire, è insomma una soluzione simmetrica al negare la condictio a chi abbia pagato l’accipiens per realizzare un illecito comune a lui e all’accipiens.

La seconda cosa da osservare è come Paolo, nel motivare il diniego dell’azione penale, faccia affiorare il corollario della poziorità del possesso. Si tratta della stessa formula presente nei testi relativi alla condictio, però presentata in una variante che al possessor sostituisce il petitor e (simmetricamente) alla poziorità dell’uno la deterior condicio dell’altro. La cosa si spiega col fatto che nel dare e avere che deriverebbe dalle condotte dei due protagonisti - il liberto, che ha citato il patrono senza autorizzazione e il terzo, autore della vis - è solo il primo che potrebbe pretendere qualcosa dall’altro. Non viceversa, perché del delitto commesso contro il patrono il liberto risponde unicamente verso il patrono stesso. Il fatto che soltanto il liberto abbia qualcosa a pretendere dal terzo, e non viceversa, fa dunque di lui un petitor (e della controparte implicitamente un possessor). Ed è precisamente questa condizione a renderne deterior la posizione (e implicitamente poziore la posizione dell’altro). Il liberto dovrebbe infatti fondare la sua pretesa alla pena su un delitto a cui ha dato causa egli stesso, con la sua condotta illecita. Con la conseguenza che in una situazione in cui entrambe le parti si rimpallano di aver commesso un delitto sostanzialmente analogo, non c’è ragione di assecondare l’una piuttosto che l’altra. Nella situazione data, allo stesso modo della regola «in pari causa turiptudinis repetitio cessat», la cosa più equa è di lasciare le cose come stanno, negando, a chi chiede di colpire l’altro, questa possibilità.

 

[1] Cfr. Carusi, Contratto illecito, cit., 72; Id., Illiceità, cit., 500 s.

[2] Vd. il catalogo di fattispecie approntato supra alle ntt. 18-20.

[3] Vd. supra in corrispondenza della nt. 8.

[4] Cfr. I. Buti, Il praetor e le formalità introduttive del processo formulare, Jovene, 1984, 292 ss., con l’indicazione delle eccezioni che legittimavano il vocatus a non dare seguito alla pretesa del vocans di seguirlo immediatamente davanti al magistrato.

[5] Sulla ricostruzione della relativa clausola edittale, vd. Lenel, Das Edictum, cit., 73 s., insieme alla bibl. raccolta in P. Gröschler, Actiones in factum. Eine Untersuchung zur Klage-Neuschöpfung im nichtvertraglichen Bereich, Duncker-Humblot, 2002, 48 nt. 28.

[6] «Ofilio è dell’idea che questo editto non si applichi se viene allontanata a forza una persona che (il citante) non ha facoltà di citare in giudizio, per es. l’ascendente o il patrono e le persone ulteriori: questa affermazione mi pare la più veritiera, perché evidentemente se chi cita delinque, non delinque chi allontana a forza».

[7] Ulp. 5 ad ed. D. 2.4.4.1: Praetor ait: ‘parentem, patronum patronam, liberos parentes patroni patronae in ius sine permissu meo ne quis vocet’ («Stabilisce il pretore: ‘nessuno citi in giudizio senza il mio permesso l’ascendente, il patrono, la patrona, i figli o gli ascendenti del patrono e della patrona’»); sull’editto in questione vd. sempre Lenel, Das Edictum, cit., 68 s.

[8] Per questa lettura della motivazione «et sane si deliquit qui vocat, non deliquit qui exemit», vd. Buti, Il praetor, cit., 246; incidentalmente anche D. Mantovani, Un’integrazione alla Palingenesi leneliana dei Digesta di Giuliano (Paul. 1 ad edict. D. 2.4.19, 21 e l’in ius vocari de domo sua), in AUPA, 2005, 152 nt. 23.

[9] Sul piano del diritto della Compilazione, un giudizio sulla coesistenza delle due motivazioni è reso ulteriormente complicato dalla incerta tradizione testuale dei Basilici. Nel codice del cd. Florilegium Ambrosianum è ricordata solo la motivazione di Paolo (Bas. 7.13 fr. 2), mentre la fattispecie prospettata da Ulpiano è riprodotta sì senza motivazione, ma per ben due volte (Bas. 7.13 frr. 1.2 e 4); il che ha fatto giudicare ora un passo ora l’altro come uno scolio, finito per essere incorporato nel testo: cfr. le opposte indicazioni offerte dalle edizioni Heimb. I/301 nt. q e Schelt. I/371 ad l. 9.

[10] «Difatti, se anche violano entrambi l’editto, e cioè tanto il liberto che cita in giudizio il patrono, quanto chi con la forza fa allontanare il patrono, tuttavia a trovarsi in una posizione peggiore è il liberto, il quale in una condizione come di parità di delitto sostiene il ruolo di attore».


10. Turpitudo utriusque e parità relativa: la flessibilità assicurata dal sistema romano delle actiones e la sua singolare convergenza con alcune (ri)letture dell’art. 2035 cod. civ.

La spiegazione di Paolo, con cui i Compilatori completarono il discorso di Ulpiano presentato in D. 2.7.1, ci ricorda che la regola «in pari causa turpitudinis repetitio cessat» era espressione di un principio che non esauriva il suo raggio d’azione con la condictio; a differenza di quanto lascia intendere Carusi, esso era richiamato in contesti che nulla avevano a che fare con lo scambio di prestazioni illecite. D’altro canto, è vero anche che non si trattava di un principio che i giuristi generalizzassero in misura indiscriminata, o senza tenere conto che su piani diversi, da quello su cui obbligava a litigare la condictio, la posizione di parità tra le parti di un accordo illecito, tra chi dà e chi riceve, poteva rivelarsi non così perfetta.

Per recuperare quest’altro punto, che alla fine del § 8 era stato lasciato in sospeso, occorre cedere per un’ultima volta ancora la parola a Ulpiano:

 

Ulp. 11 ad ed. D. 4.2.7.1: Proinde si quis in furto vel adulterio deprehensus vel in alio flagitio vel dedit aliquid vel se obligavit, Pomponius libro vicensimo octavo recte scribit posse eum ad hoc edictum pertinere: timuit enim vel mortem vel vincula. quamquam non omnem adulterum liceat occidere, vel furem, nisi se telo defendat: sed potuerunt vel non iure occidi, et ideo iustus fuerit metus. sed et si, ne prodatur ab eo qui deprehenderit, alienaverit, succurri ei per hoc edictum videtur, quoniam si proditus esset, potuerit ea pati quae diximus[1].

Ulp. 26 ad ed. D. 12.5.4 pr.-1: Idem (…) si quis in adulterio deprehensus redemerit se: cessat enim repetitio (…) Item si dederit fur, ne proderetur, quoniam utriusque turpitudo versatur, cessat repetitio[2]

 

Gli estratti riprodotti provengono ancora una volta dall’Ad edictum. Quello meno corposo apparteneva all’analisi della condictio (e in particolare di quelle fattispecie in cui l’azione era impiegata per recuperare le prestazioni estorte dall’accipiens)[3]. L’intervento maggiore – dal quale dobbiamo partire - si riferiva invece all’analisi dell’editto Quod metus causa.

Dell’editto in questione non è ben chiaro quale fosse di preciso il tenore. Nella sostanza c’è però accordo sul fatto che il magistrato s’impegnava a vanificare tutti quei profitti derivati dalle minacce rivolte ad altri. Gli strumenti conseguenti erano vari, ma tutti volti a ripristinare, direttamente o indirettamente, la situazione patrimoniale di partenza[4]. Naturalmente, era essenziale per i giuristi precisare i caratteri stessi del metus, cioè del timore serio, incidente e illegittimo, indotto dalla vis. Ed è in questa prospettiva[5] che Ulpiano propone al lettore la discussione riprodotta in D. 4.2.7.1.

Protagonista del caso – discusso in prima battuta anche attraverso la mediazione di Pomponio - è la persona colta in flagrante mentre commette un furto, un adulterio (giacendo con una donna sposata) o un qualche altro crimine (aliud flagitium, le tracce del quale si perdono però nel seguito del discorso[6]). La persona in questione versa o promette un corrispettivo (vel dedit aliquid vel se obligavit) per evitare una reazione della vittima che potrebbe anche essere estrema, atteso che in determinati casi era addirittura permesso di uccidere l’amante o il ladro colti in flagrante. In particolare, era legittima l’uccisione dell’adulterus, quando a scoprirlo in casa propria fosse stato un marito di condizione sociale superiore[7]; l’uccisione del fur era invece legittima quando lo si fosse sorpreso munito di un’arma (come precisa nel testo lo stesso Ulpiano, apparentemente dimentico, anche se forse solo per economia del discorso, dell’ipotesi ulteriore del fur nocturnus[8]).

In casi del genere, il timore di essere uccisi o di finire ai ceppi (vincula, come soggiunge il brano, senza che sia dato in effetti capire a quale situazione si faccia riferimento di preciso[9]) legittima l’applicazione dell’editto Quod metus causa. Di conseguenza, se s’immagina che un corrispettivo sia stato versato, il solvens potrà richiederne la restituzione; se invece s’immagina che il corrispettivo sia stato semplicemente promesso, il promissor potrà chiedere che l’obbligazione assunta sia annullata. Naturalmente, Ulpiano sa perfettamente che l’uccisione del ladro o dell’adultero era permessa solo in casi eccezionali. Ma il fatto stesso che si trattasse di una possibilità contemplata rendeva credibile la minaccia portata da chi avrebbe potuto approfittare delle circostanze; sicché anche al di fuori di quei casi eccezionali ci si sarebbe comunque potuti appellare all’editto (sed potuerunt vel non iure occidi, et ideo iustus fuerit metus).

Sottesa a questa prima parte della rappresentazione di Ulpiano sta dunque una sorta di décalage. Il giurista muove da una situazione in cui si presume che la pressione sul ladro o sull’adultero sia massima, dato che la persona offesa potrebbe legittimamente mettere a morte (o ai ceppi) il deprehensus. Dopodiché passa a una situazione in cui la pressione cede qualcosa della sua intensità, nel senso che il ladro o l’adultero pagano per timore di una reazione illegittima (e che in astratto si avrebbe perciò meno ragione di temere). Giunto a questo punto, Ulpiano presenta tuttavia una terza ipotesi, con la quale viene ulteriormente allungata la distanza dalla fattispecie di partenza. La nuova domanda è infatti come regolarsi quando il reato non sia scoperto dalla vittima (derubato o marito) ma da un terzo, e quando perciò il corrispettivo risulti versato per non essere denunciati (ne prodatur). La risposta dell’autore è che l’editto sul metus dovrà trovare applicazione anche in questo caso, per il fatto che se il terzo lo avesse denunciato, il colpevole avrebbe potuto trovarsi nella medesima situazione di prima (potuerit ea pati quae diximus), vale a dire con una parte offesa che avrebbe potuto ucciderlo (o metterlo ai ceppi) più o meno legittimamente.

Del lungo discorso presentato in D. 4.2.7.1, il dato che si lascia sintetizzare è dunque questo: che agli occhi di Ulpiano subiscono un’estorsione, e possono perciò recuperare quanto pagato, ai sensi dell’editto sul metus, tanto coloro che sotto la minaccia di essere uccisi versano del denaro al marito dell’amante o alla persona che stavano per derubare, quanto coloro che pagano un terzo, temendo che una sua denuncia alla parte offesa possa innescare lo stesso genere di reazione. Ai fini del nostro discorso il dato non è di poco conto, e la sua rilevanza emerge non appena si provi a guardare alle fattispecie discusse da Ulpiano con il prisma della condictio, anziché dell’editto Quod metus causa. Sotto quest’altra lente non c’è infatti dubbio che le situazioni affrontate andrebbero ricondotte alla classe della turpitudo utriusque, dunque escludendo che il solvens possa ripetere quanto versato. E’ sempre Ulpiano a dirlo nell’altro estratto accostato sopra a D. 4.2.7.1, alla cui esegesi dobbiamo ora passare.

In D. 12.5.4. pr.-1 – dedotta la fattispecie di partenza, che non rileva ai nostri fini[10] – risultano prospettate due ipotesi. La seconda (presentata al § 1 del brano) è quella del ladro che versi qualcosa per non essere denunciato (si dederit fur ne proderetur). Dato che il percettore è evidentemente un terzo, il caso si può riportare senza troppe difficoltà all’ipotesi conclusiva di D. 4.2.7.1, sia pure con una doppia avvertenza, vale a dire che il caso riguarda solo il fur (e non l’adulter) e che il discorso, nella sua genericità, vale per una qualunque denuncia di furto (e non solo per la denuncia minacciata da chi ha colto il ladro in flagrante).

Qualche precisazione in più si rende invece necessaria per coordinare a D. 4.2.7.1 l’ipotesi iniziale di D. 12.5.4 (quella cioè presentata nel § pr.). Il caso qui si riferisce esplicitamente a un’ipotesi di flagranza (si quis in adulterio deprehensus), declinata però solo con riguardo alla persona di chi ha commesso adulterio (e non anche del ladro[11]). Si dice poi della persona in questione che “compra se stessa” (redemerit se), ossia che si riscatta pagando un corrispettivo. Il percettore deve perciò essere o la persona che legittimamente deteneva l’adultero (il che riporta in via principale al marito dell’adultera e dunque a D. 4.2.7.1[12]) oppure un terzo, che ha mediato affinché l’adulter fosse liberato[13]. Nel primo caso il percettore è passibile di lenocinium[14]; nel secondo di un crimine assimilabile[15]. Dal che si capisce per quale ragione il pagamento configuri una turpitudine doppia, tale da escludere la condictio: il solvens paga infatti per evitare le conseguenze del proprio crimine (l’adulterio), mentre l’accipiens commette a sua volta un reato (il lenocinium, appunto, o il crimine ad esso assimilato)[16].

A voler tirare le somme, si può dire allora che D. 4.2.7.1 e D. 12.5.4 pr.-1, nonostante presentino fattispecie composite e di estensione diversa, lasciano comunque registrare alcune sovrapposizioni significative. Questa (parziale) sovrapponibilità si può schematizzare come segue.

[a] Chi paga, per non essere denunciato di furto, partecipa a un’intesa che è turpe dal lato suo come da quello del percettore; il che esclude la possibilità di ricorrere alla condictio per ripetere il pagamento. Tuttavia [a1] se il terzo ha colto il colpevole sul fatto e si è fatto pagare, approfittando del timore che la cosa mettesse a rischio la sua incolumità, allora il ladro, appellandosi all’editto sul metus, può costringere il percettore a restituire il corrispettivo.

Allo stesso modo [b] l’amante che paga il marito di un’adultera, perché lo lasci andare (oppure che paghi un terzo, perché non chiami il marito), risulta parte di un’intesa vicendevolmente turpe e non può perciò, lui nemmeno, ripetere il pagamento con la condictio. Se però [b1] il corrispettivo è versato perché l’amante ha paura che il marito lo uccida (legittimamente o meno), allora potrà pretendere, sempre grazie all’editto sul metus, che il pagamento gli sia restituito.

Ebbene, se lo si guarda con gli occhi di un civilista contemporaneo, mi pare che il confronto tra D. 4.2.7.1 e D. 12.5.4 pr.-1 offra un dato eclatante, che rischia di sfuggire se alla disciplina romana delle dazioni “fuori mercato” ci si accosta, come ha fatto Carusi, attraverso i soli passi canonici, raccolti nei titoli della Compilazione giustinianea dedicati alla condictio ob turpem causam. Il dato eclatante è che in una serie di casi speciali [a1-b1], rispetto ai termini generali con cui le fattispecie vengono impostate e affrontate sul terreno della condictio [a-b], il solvens si vede riconosciuta sul piano dell’editto Quod metus causa quella restituzione che sull’altro piano gli è invece preclusa. Il che è come dire che quel pagamento che su un certo piano (quello della condictio, più generale) viene liquidato come doppiamente turpe, su di un altro piano (speciale, legato all’editto sul metus) può invece considerarsi come il frutto di un’estorsione.

Da dove veniva la possibilità di questa doppia qualificazione? La risposta va cercata nella duttilità del processo romano; nella sua capacità – si potrebbe dire - di servirsi di schemi che riuscivano a selezionare profili diversi del caso, mettendo l’accento sulle circostanze che apparivano, volta per volta, come le più rilevanti. Nella condictio ob turpem causam – è l’occasione per ribadire quando detto alla fine del § 8 - l’attenzione verte esclusivamente sulla causa dell’attribuzione, la quale viene valutata per il suo contenuto, in termini obiettivi e generali. Su questo piano, chi paga per sottrarsi alle conseguenze penali delle proprie azioni, conclude un (secondo) illecito di cui è parte tanto quanto il percettore. Su questo piano – che è l’unico che si possa prendere in considerazione con la condictio – all’alienante non spetta alcuna ripetizione, mancando una ragione logica perché costui debba prevalere sul piano della causa rispetto all’avversario. L’ordinamento registra perciò l’impasse, a cui conducono le regole dell’azione, e lascia che le cose restino come stanno.

Diversamente vanno le cose sul piano dell’editto Quod metus causa, editto che è ispirato da un punto di vista più soggettivo e personale e permette di valutare le posizioni di forza che hanno portato le parti a concludere l’accordo illecito. Nella catena di esempi portati da Ulpiano in D. 4.2.7.1, il timore del ladro o dell’adultero di esporre la propria persona a ripercussioni tanto gravi, quali erano quelle che il percettore poteva provocare direttamente o anche soltanto innescare (denunciando il reato alla vittima), determinano una situazione di tale asimmetria tra i contraenti, che diventa necessario graduare le posizioni dell’uno e dell’altro.

Quasi a prevenire lo stupore che poteva nascere, nel constatare che l’editto sul metus finiva in questo modo per agevolare una persona che aveva comunque commesso un reato, Paolo commentava: «il pretore non considera se l’alienante sia un adultero, ma esclusivamente il fatto che il percettore abbia acquistato grazie al timore indotto di morire»[17]. Parole simili potrebbero usarsi a proposito della compresenza di editto e condictio (ob turpem causam). Nella logica obiettiva, astratta e per certi versi neutra dell’azione in ripetizione, il timore del solvens non ha possibilità d’imporsi come elemento rilevante. Affinché cali la cappa della doppia turpitudo e della regola della retentio, ciò che conta è che chi paga, paghi per sottrarsi alle conseguenze del reato. Sul piano dell’editto Quod metus causa la diversa posizione di forza negoziale delle parti pesa invece eccome, e assicura al solvens la possibilità di costringere l’accipiens a restituire la prestazione[18]. Sicché, se l’adagio «in pari causa turpitudinis repetitio cessat» continua a valere in linea di principio anche per un caso come il nostro – di chi paga, perché sorpreso in un reato flagrante e in circostanze tali da far temere della propria incolumità - di fatto i suoi effetti sono come congelati, grazie alla concorrenza della disciplina edittale.

Questa compresenza di condictio e disciplina del metus - o per meglio dire: questo temperare con la seconda le rigidità della prima – non dovrebbe suonare come un qualcosa di eccezionalmente remoto per chi sia oggi chiamato a confrontarsi con l’art. 2035 del Codice civile e con le sue problematiche. In un importante contributo sulla fenomenologia delle restituzioni contrattuali, Elena Bargelli ha scritto che «dall’affermazione del carattere bilaterale della partecipazione all’illiceità deriva che entrambi i contraenti debbano essere in una posizione di parità di potere contrattuale. Sicché sorge l’interrogativo se il divieto di ripetizione si applichi là dove emergano circostanze capaci di far presumere la maggior debolezza di una delle parti»[19]. Dopo una rassegna copiosa - che partiva da quel fondamentale saggio, della fine degli anni Sessanta del secolo scorso, da cui anche in questa sede si è preso le mosse[20], per arrivare alle nuove consapevolezze portate dall’analisi economica del diritto – l’autrice concludeva che là dove si diano «condizioni ostative all’espressione di un libero consenso», lì il peso dell’immoralità del negozio andrebbe spostato per intero sulla parte che abbia profittato della propria posizione, escludendo dunque la regola della retentio[21].

In concreto, mi sembra che il risultato non sia così distante da quello che i romani raggiungevano col loro tipico argomentare, basato sulla natura delle azioni. Certo, ora il piano è quello dei diritti soggettivi, e della giusta aspirazione del civilista di portarli a sistema. Ma la convergenza – mi pare – rimane. E sarà forse una coincidenza confortante per chi crede che un confronto tra giuristi positivi e storici del diritto possa continuare ad essere proficuo, beninteso nel rispetto delle reciproche specificità d’interessi e, soprattutto, di metodi.

 

[1] «E dunque, nell’ipotesi che un soggetto, colto in flagranza di furto, di adulterio o di un altro illecito, abbia versato alcunché oppure si sia obbligato, scrive correttamente Pomponio che può avere riguardo a questo editto: ha avuto infatti paura o della morte o della prigione, per quanto sia vero che non è lecito uccidere qualsivoglia adultero o il ladro, salvo che non si difenda a mano armata; tuttavia li si sarebbe potuti uccidere anche illegittimamente, e pertanto si sarà trattato di un timore giustificato. Ma pure se avrà versato (alcunché) per non essere denunciato da chi lo avesse sorpreso, sembra che vada soccorso con questo editto, per il fatto che se lo si fosse denunciato, egli avrebbe potuto incappare in quanto abbiamo detto».

[2] «Lo stesso (…) se uno, colto in flagrante adulterio, si sarà riscattato: la ripetizione viene infatti meno. (…) O ancora, se un ladro avrà versato (alcunché) per non essere denunciato: dal momento che di mezzo c’è una turpitudine di entrambe le parti, la ripetizione viene meno».

[3] Per questa partizione del commento di Ulpiano, vd. Liebs, The history, cit., 167 s.; Pellecchi, L’azione in ripetizione, cit., 134 s.

[4] Cfr. Ulp. 11 ad ed. D. 4.2.1 pr.: Ait praetor: ‘quod metus causa gestum erit, ratum non habebo’ («Stabilisce il pretore: ‘Quanto sarà realizzato a motivo di timore, non lo ratificherò’»). Discusso è in particolare se nell’albo pretorio, al seguito di questa prima clausola, che annunciava (quantomeno) la concessione di una restitutio in integrum e d’una exceptio, ne seguisse un’altra con la promessa di accordare l’actio quod metus causa: cfr. sul pt. l’ampia rassegna approntata da ult. da E. Calore, Actio quod metus causa. Tutela della vittima e actio in rem scripta, Giuffrè, 2011, 30 s. nt. 43. Per parte sua l’a. conclude (p. 57 s.) che la clausola edittale fosse unica, ma presentasse una versione più estesa rispetto a quanto riprodotto in D. 4.2.1 pr., in cui sarebbero stati delineati i principali caratteri della stessa actio quod metus causa (condanna al quadruplo entro l’anno e nisi restituetur; in simplum oltre l’anno; in id quod ad eum pervenit nei confronti dell’erede).

[5] Cfr. Lenel, Pal. II/461 nt. 1; A. D’ors, El Comentario de Ulpiano a los edictos del metus, in AHDE, 1981, 239 s.

[6] Sui dubbi sollevati da questo riferimento poco perspicuo, oltre che dal successivo riferimento ai vincula, vd. da ult. Calore, Actio quod metus causa, cit., 87 nt. 56, 99 nt. 87.

[7] Per un quadro delle situazioni che determinavano le condizioni cui la legge subordinava il ius occidendi del marito vd. Ph. Moreau, Loi Iulia réprimant l’adultère et d’autres délits sexuels, in J.-L. Ferrary - Ph. Moreau (eds.), Lepor. Leges Populi Romani, Paris 2007, URL: http://www.cn-telma.fr/lepor/notice 432; date de mise à jour : 2017-11-20.

[8] Cfr. Ulp. 37 ad ed. D. 48.8.9: Furem nocturnum si quis occiderit, ita demum impune feret, si parcere ei sine periculo suo non potuit («Se uno avrà ucciso un ladro notturno, a questa condizione soltanto sopporterà la cosa impunemente: che non abbia potuto risparmiarlo senza mettersi a rischio»).

[9] L’idea di fondo è che si faccia riferimento a un incarceramento privato, illegittimo: cfr. A. Lovato, Il carcere nel diritto penale romano: dai Severi a Giustiniano, Cacucci, 1994, 48 s.  E’ tuttavia possibile che il discorso si legasse specificamente alla disciplina dell’adulterium, dato che l’omonima lex Iulia autorizzava il marito, che non volesse o potesse uccidere l’amante della moglie colto in flagrante, a trattenerlo per non più di venti ore testandae eius rei causa (Ulp. 2 ad leg. Iul. de adult. D. 48.5.26 pr. [infra nt. 95], PS. 2.26.3). Come si traducesse in concreto questo retinere non è chiaro, ma è significativo che il lessico impiegato dai giuristi per riferirvisi, si avvicini talvolta a quello, appunto, della carcerazione: cfr. il parallelismo tra Ulp. 2 ad leg. Iul. de adult. D. 48.5.26.4 e Call. 6 de cogn. D. 48.3.13.

[10] Ovverosia, il dare un corrispettivo ob stuprum, vd. supra nt. 19.

[11] Per le ragioni vd. infra nt. 99.

[12] In via principale, perché il potere di trattenere l’adulter era riconosciuto dalla legge al solo marito, e solo per via d’interpretazione si arrivò a riconoscere lo stesso potere al pater della correa: cfr. Ulp. 2 ad leg. Iul. de adult. D. 48.5.26 pr.-1: Capite quinto legis Iuliae ita cavetur, ut viro adulterum in uxore sua deprehensum, quem aut nolit aut non liceat occidere, retinere horas diurnas nocturnasque continuas non plus quam viginti testandae eius rei causa sine fraude sua iure liceat. [1] Ego arbitror etiam in patre id servandum, quod in marito expressum est («Nel capo quinto della legge Giulia è stabilito che al marito, che non voglia o non abbia facoltà di uccidere l’adultero colto con la propria moglie, sia lecito trattenerlo per non più di venti ore continue, diurne e notturne, a motivo di attestare la cosa e senza frode da parte sua. [1] Io sono dell’idea che quanto viene statuito espressamente per il marito, vada fatto salvo anche per il padre»).

[13] Cfr. Scaev. 4 reg. D. 48.5.15 pr.: Is, cuius ope consilio dolo malo factum est, ut vir feminave in adulterio deprehensi pecunia aliave qua pactione se redimerent, eadem poena damnatur, quae constituta est in eos, qui lenocinii crimine damnantur («Colui per aiuto o istigazione del quale è stato intenzionalmente fatto sì che l’uomo e la donna colti in adulterio si riscattassero con una somma di denaro o una qualche pattuizione, venga condannato alla medesima pena fissata a carico di coloro che sono condannati per il reato di lenocinio»).

[14] Cfr. Ulp. 4 de adult. D. 48.5.30 pr.: Mariti lenocinium lex coercuit, qui deprehensam uxorem in adulterio retinuit adulterumque dimisit («La legge sanziona il lenocinio del marito che non scacciò la moglie colta in adulterio e lasciò andare l’adultero»).

[15] Vd. il testo riportato due note sopra.

[16] Al tempo stesso – nell’ideale parallelismo che si sta allestendo tra D. 4.2.7.1 e D. 12.5.4 pr.-1 - si spiega con ciò perché il secondo brano circoscriva all’adulter il caso del deprehensus che paghi per liberarsi. A differenza del marito tradito, il derubato non aveva infatti alcun obbligo di uccidere o di perseguire in giudizio il ladro, e poteva anzi chiudere con lui ogni pendenza accettando dei pagamenti transattivi: cfr. ad es. Ulp. 37 ad ed. D. 47.2.52.26, Gai. 13 ad ed. prov. D. 47.2.55.5.

[17] Cfr. Paul. 11 ad ed. D. 4.2.8 pr.: (…)  et praetor non respicit, an adulter sit qui dedit, sed hoc solum, quod hic accepit metu mortis illato.

[18] Sia pure nell’ambito di una contrapposizione un po’ pedestre tra azioni (e regole) di stretto diritto, da un lato, e azioni (e regole) pretorie, assunte come più umane (filagathòterai), dall’altro lato, il punto indicato sembrerebbe evocato anche nello sch. 1 ad Bas. 17.1.46 (Schelt. V/1736, Heimb. III/16). Ai sensi della condictio – afferma lo scoliaste - chi paga per sottrarsi alle conseguenze del commesso adulterio è semplicemente un alienante (dedokòs), che con l’acquirente condivide una condotta vergognosa; ai sensi invece dell’editto sul metus, si paga per il timore di essere uccisi o di finire ai ceppi, e dunque rispetto alla controparte si assume la veste di un supplice (dèomenos).

[19] Il sinallagma rovesciato, cit., 244.

[20] Rescigno, In pari causa turpitudinis, cit., 42 ss.

[21] Ivi, p. 245.