Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

«In pari causa turpitudinis repetitio cessat»: sull´uso del diritto romano nel dibattito civilistico odierno (di Luigi Pellecchi)


Il saggio è dedicato alla regola in pari causa turpitudinis repetitio cessat e al suo significato per il diritto romano. In particolare, vengono criticamente vagliate due tesi presentate nel dibattito civilistico intorno alle radici romanistiche del § 817 S. 2 del BGB e dell'art. 2035 del cod. civ. it.: che i romani concepissero la regola come un correttivo dell’equilibrio sinallagmatico alla base dell'ob rem dare e che le riconoscessero la funzione di prevenire la sottoscrizione di accordi illeciti.

“In pari causa turpitudinis repeticio cessat”: a note on the use of Roman law in Civil law Literature

This essay clarifies the meaning of the “in pari causa turpitudinis repetitio cessat” rule in Roman law. In detail, it criticises two theses concerning the Roman root of § 817 S. 2 of German BGB and of art. 2035 of Italian Civil Code, which have been put forward in civil law literature: that is to say, ancient romans devised this rule as a correction to the synallagmatic balance of the “ob rem dare”, and gave it the function of preventing illicit bargains.

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Luigi Pellecchi - «In pari causa turpitudinis repetitio cessat»: sull’uso del diritto romano nel dibattito civilistico odierno

SOMMARIO:

1. Introduzione. - 2. Il sistema romano delle condictiones tra rappresentazioni canoniche e interpretazioni singolari. - 3. I testi addotti a sostegno dell’interpretazione singolare. - 4. Esegesi differenti. - 5. L’illiceità dello scopo come profilo assorbente della fattispecie: una testimonianza ulteriore relativa alla datio con turpitudo utriusque. - 6. (segue) Una testimonianza ulteriore relativa alla datio con turpitudo accipientis dumtaxat. - 7. Riepilogo. - 8. Classicità e significato della massima «in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis». - 9. Applicazioni della massima oltre il perimetro della condictio e della retentio. - 10. Turpitudo utriusque e parità relativa: la flessibilità assicurata dal sistema romano delle actiones e la sua singolare convergenza con alcune (ri)letture dell’art. 2035 cod. civ.


1. Introduzione.

E’ noto che l’art. 2035 del Codice civile nega la ripetizione a colui che abbia eseguito una prestazione «che anche da parte sua costituisce offesa al buon costume». Anche è noto che il primo corollario pratico della disposizione ha messo costantemente a disagio l’accademia e soprattutto le corti. Escludere la ripetizione significa infatti permettere che a trattenere la prestazione sia un soggetto che pure ha partecipato a pieno titolo all’operazione immorale (l’abbia o non l’abbia poi eseguita a sua volta). Per questo motivo - a dispetto della latitudine dell’enunciato legislativo e del principio in cui gli stessi estensori del Codice ne additavano implicitamente la ratio («nemo auditur turpitudinem suam allegans», secondo la variante più nota del brocardo)[1] - la giurisprudenza si è sempre sforzata di attribuire all’articolo un raggio d’applicazione il più ridotto possibile. Dunque non stupisce che intorno alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso un osservatore illustre potesse affermare che la norma aveva subito come un processo di erosione, «lenta penetrante continua»[2]. Un bilancio aggiornato, alla fine del decennio appena trascorso, suggerisce che dall’erosione si sia passati a una metamorfosi vera e propria[3]. Il merito è di un intenso dibattito dottrinale, che ha investito sia l’art. 2035 nello specifico, sia le norme (per certi versi) omologhe di altri codici europei[4], sia l’applicazione non codificata, da parte di altri paesi ancora, della regola del diniego di ripetizione (o regola della retentio, se la si guarda dal lato del percettore)[5]. Se all’esito di un dibattito tanto ricco si può parlare addirittura di metamorfosi è perché la discussione ha finito per spostare la percezione stessa del fondamento dell’art. 2035 e del divieto di ripetizione. Non che il punto possa dirsi acquisito, almeno in Italia. Ma la sensazione è che a raccogliere i consensi maggiori sia ora la prospettiva tracciata dall’analisi economica del diritto, la quale spiega la regola della retentio con una logica di tipo dissuasivo. Vietare di ripetere la prestazione sorretta da un’intesa turpe anche dal lato del solvens - si dice - significherebbe scoraggiare la conclusione di accordi illeciti[6]. Chi si accosti a questo dibattito come storico del diritto [continua ..]


2. Il sistema romano delle condictiones tra rappresentazioni canoniche e interpretazioni singolari.

L’assunto di base di Honsell, nella riformulazione offertane da Carusi, è che la regola scolpita nella massima «in pari causa turpitudinis repetitio cessat» «nasce in Roma quale eccezione alla logica generale che presiede alla datio ob rem»[1]. Per comprendere che cosa esattamente compendi l’affermazione riprodotta, occorre approfondirla partitamente e a ritroso. Di seguito chiariremo perciò: [a] in che cosa consistesse una datio ob rem; [b] quale fosse, secondo Honsell e Carusi, la logica generale di tale fattispecie; [c] perché la regola del divieto di ripetizione servisse a disattenderla. [a] Intorno al primo aspetto ci si può limitare ad alcune affermazioni generali, su cui si registra un consenso diffuso. Con l’espressione datio ob rem (ma meglio si farebbe a dire “ob rem dare”, dato che le fonti romane non sembrano conoscere la relativa nominalizzazione) s’indica un’alienazione realizzata in vista di una res ulteriore, da intendere in senso ampio, come integrazione di un risultato programmato tra alienante e acquirente[2]. E’ probabile che lo schema servisse in origine per inquadrare operazioni sinallagmatiche non riconducibili agli schemi contrattuali tipici (per es. una permuta, oppure il fatto di affrancare dietro corrispettivo uno schiavo[3]). E anche se più tardi il ventaglio venne allargandosi oltre il synallagma[4], si può ragionare, per semplicità, sullo schema consueto delle convenzioni atipiche, che è del resto l’unico preso in considerazione da Honsell e Carusi: dunque do ut des / do ut facias (comprendendo in questa seconda classe anche l’ipotesi del do ne facias). Nella rappresentazione che ne offrono normalmente i manuali romanistici, la ripetibilità del dare ob rem risulta governata da due livelli di partizioni, che servono a isolare tre classi complessive di casi e di soluzioni. La partizione di prima livello del dare ob rem distingue tra liceità e illiceità della res. Se la datio, vale a dire la prima prestazione, viene eseguita in vista di una controprestazione lecita (come nei due casi di cui abbiamo detto: una permuta o la liberazione di uno schiavo), l’alienante potrà ricorrere alla condictio, per ripetere la datio, solo se l’accipiens non corrisponde con la controprestazione attesa (dunque re non secuta). A mo’ d’inciso si può [continua ..]


3. I testi addotti a sostegno dell’interpretazione singolare.

La tesi di Honsell poggia su due testi. In via principale su un passaggio – per non dire un inciso - di un lungo brano di Paolo; di rincalzo su un rescritto di Diocleziano e Massimiano, in cui si legge un inciso coincidente. Il brano di Paolo – da cui anche noi partiremo - consiste in un estratto degli Ad Sabinum libri, dal taglio fortemente sistematico. Proprio per questo i Compilatori del Digesto lo collocarono in testa al titolo dedicato alla condictio ob turpem causam, salvo poi inframmezzarlo con estratti dell’Ad edictum di Ulpiano, di cui non occorre qui dare conto[1].   Paul. 10 ad Sab. D. 12.5.1: Omne quod datur aut ob rem datur aut ob causam, et ob rem aut turpem aut honestam: turpem autem, aut ut dantis sit turpitudo, non accipientis, aut ut accipientis dumtaxat, non etiam dantis, aut utriusque. [1] Ob rem igitur honestam datum ita repeti potest, si res, propter quam datum est, secuta non est. [2] Quod si turpis causa accipientis fuerit, etiamsi res secuta sit, repeti potest. [D. 12.5.3] Ubi autem et dantis et accipientis turpitudo versatur, non posse repeti dicimus: veluti si pecunia detur, ut male iudicetur[2].   Nella prima parte dell’estratto (fr. 1 pr.), Paolo espone le varie categorie dell’ob rem dare attraverso una diairesis progressiva, scandita dalle formule che sarebbero divenute poi canoniche. A un primo livello sta per la verità una distinzione preliminare, tra dare ob rem e dare ob causam. Il dare ob causam esorbita tuttavia dal nostro discorso. Grazie ad altri testi della Compilazione, si sa infatti che l’etichetta, quando non va presa semplicemente come sinonimo per dare ob rem[3], si riferisce a donazioni remuneratorie; cioè a prestazioni che proprio in quanto espressione di una causa donandi non si possono impugnare[4]. Fissata questa prima distinzione, la diairesis procede secondo le direttrici che conosciamo: il dare ob rem è distinto a seconda che la res sia turpis oppure honesta, e la prima sottoclasse ulteriormente ripartita a seconda che la turpitudo sia del solo dans, del solo accipiens o di entrambi i soggetti. Delineate le singole classi, si passa al regime della ripetibilità. Abbandonando l’ordine adottato nella parte iniziale del passo (allo scopo di scomporre sempre e solo la prima classe individuata al livello precedente), Paolo procede giustapponendo innanzitutto il regime del dare ob rem honestam e delle dazioni segnate dalla [continua ..]


4. Esegesi differenti.

Detto del ragionamento di Honsell, possiamo venire alla critica. Una prima serie di osservazioni riguarda i testi che abbiamo appena discusso. Non c’è dubbio che Paolo, in due occasioni, e poi la cancelleria di Diocleziano descrivono la ripetibilità delle dazioni illecite avendo sempre come riferimento l’ipotesi di un accordo a cui il percettore ha dato esecuzione (dunque re / causa secuta). Ed è vero anche – ma si dovrebbe dire: soprattutto – che in tutti tre i testi, se si sottolinea la circostanza dell’intervenuto adempimento dell’accipiens, lo si fa per sottolinearne l’irrilevanza quanto al diritto del solvens di recuperare la datio. Da tutto ciò non discende però in modo univoco che l’ambito di applicazione della cd. condictio ob turpem causam si riducesse all’ipotesi tanto circoscritta, raffigurata dallo studioso tedesco. La cosa è presto detta per il primo testo di Paolo, mentre richiede un ragionamento più sottile per gli altri due. Il tratto caratteristico di D. 12.5.1 è senz’altro l’ambizione di presentare un quadro sistematico (ancorché sintetico) dell’ob rem dare e delle regole correlate della ripetibilità. La sensazione è però che per esporre le conseguenze prima del dare ob rem honestam e poi della prima classe del dare ob rem turpem (turpitudo accipientis dumtaxat), Paolo si serva dello schema espositivo della differentia. In altre parole, una volta presentato il regime della prima classe di accordi (res honesta: dove la prestazione può ripetersi esclusivamente alla condizione che non segua la controprestazione), il regime della seconda classe (res turpis dal lato del percettore) è presentato focalizzandosi esclusivamente sulla differenza specifica; la quale differenza specifica stava appunto nel fatto che la prestazione, in questo secondo caso, si ripete indipendentemente dal fatto che sia intervenuta la controprestazione. Dunque, è vero che nel § 2 di D. 12.5.1 ci si serve di una proposizione concessiva, ma lo si fa per mantenere la simmetria del discorso impostato al § 1. Anche dal punto di vista sintattico, la simmetria dei due passaggi risalta chiaramente, dal modo in cui il loro autore coordina le protasi dei due periodi ipotetici: ita … si al § 1, etiam si al § 2[1]. Per gli interventi raccolti sotto CI. 4.7.4 e D. 12.5.9 pr. una [continua ..]


5. L’illiceità dello scopo come profilo assorbente della fattispecie: una testimonianza ulteriore relativa alla datio con turpitudo utriusque.

Nel 326 la cancelleria di Giuliano l’Apostata varava un editto - pervenutoci per il tramite del Codice Teodosiano – volto ad arginare la mala pratica delle raccomandazioni volte a fare assegnare le cariche pubbliche a prescindere dal merito dei candidati. Nello specifico si trattava di stabilire se una volta che il suffragator si fosse fatto pagare, per il suo intervento, il raccomandato potesse ripetere la prestazione. Tenendo fede al programma enunciato due anni prima, al momento di essere proclamato Augustus[1] e spinto forse anche da una serie di cause portate nel frattempo davanti al suo stesso tribunale[2], l’imperatore introduce la decisione nei seguenti termini:   Imp. Iulianus ad populum, CTh. 2.29.1 (prima parte): Foedis commentis, quae bonorum merito deferuntur, quidam occupare meruerunt et quum meruissent in republica quolibet pacto versari, repetendam sibi pecuniam, quam inhoneste solverant, imprudentius atque inhonestius arbitrantur[3].   Le parole riportate introducono una dura presa di posizione dell’Imperatore, il quale, nella parte propriamente dispositiva della costituzione statuisce tre cose: [a] che alle persone che (malamente) pretendono la restituzione del denaro versato vanno assimilati coloro che si siano reimpossessati unilateralmente dei beni alienati ai sollecitatores; [b] che a chi ha pagato è preclusa ogni facoltà di ripetizione, mentre chi è rientrato in possesso del bene alienato lo dovrà restituire; [c] che una somma ulteriore, corrispondente all’importo della dazione, sarà devoluta in ogni caso al fisco, a mo’ di sanzione[4]. Ai fini del nostro discorso ciò che rileva dell’editto di Giuliano non è tanto il regime che abbiamo succintamente richiamato, quanto il modo in cui nel prologo viene presentata la situazione che ha provocato il duro intervento imperiale. Contro chi si dirige l’invettiva di Giuliano? Parafrasandola, contro quelle persone che, dopo aver brigato e ottenuto col denaro cariche che si sarebbero dovute assegnare guardando unicamente ai meriti degli aspiranti, si sono convinti, in modo ancora più sconsiderato e disonesto, di poter ripetere quanto pagato. Ora, chi volesse applicare le nomenclature di Honsell alla fattispecie evocata dalla cancelleria imperiale, dovrebbe concludere di essere in presenza di un’intesa che non solo sottintende una turpitudo utriusque (di chi solleciti e [continua ..]


6. (segue) Una testimonianza ulteriore relativa alla datio con turpitudo accipientis dumtaxat.

Per completare la verifica delle nomenclature proposte da Honsell – e passare perciò dalla casella della turpitudo utriusque a quella della turpitudo accipientis dumtaxat – possiamo tornare alla Compilazione giustinianea e alla letteratura giurisprudenziale. Il brano che ci accingiamo a presentare proviene infatti dall’Ad edictum di Ulpiano, pur se non si riferiva all’analisi specifica della condictio. Il discorso prende infatti le mosse dall’actio in factum de calumniatoribus, un’azione che non ha corrispondenze nel diritto civile odierno e della quale è perciò opportuno precisare quali fossero le caratteristiche principali, prima di passare alla porzione del commento del giurista severiano che specificamente interessa. L’azione a carico dei calmunniatores era un’azione penale pretoria. Essa sanzionava, in particolare, chi si fosse fatto pagare «per condurre o per astenersi dal condurre un giudizio calunnioso» (come si esprimeva l’editto: in eum qui, ut negotium faceret vel non faceret, pecunia accepisse dicetur)[1]. Il convenuto era punito per il solo fatto di avere accettato o preteso il denaro, indipendentemente dall’esito dell’intesa (sive fecit sive non fecit, come chiosa Ulpiano, a proposito di colui che si fosse fatto pagare per promuovere il giudizio calunnioso ai danni di un terzo)[2]. Inoltre, legittimata attiva alla pena era sempre la vittima (dunque anche solo potenziale) della calunnia, sia che avesse pagato essa stessa (o altri per lei) allo scopo di evitare il giudizio, sia che il pagamento fosse stato fatto da un terzo in suo danno (cioè per indure il percettore alla calunnia)[3]. Infine, la pena in cui incorreva il calumniator era di importo variabile: nel quadruplo di quanto ricevuto, se non era decorso il termine annale di decadenza delle azioni penali pretorie (computato dal momento in cui fosse stato possibile esperirle); nei limiti dell’arricchimento iniziale (in id quod ad eum pervenit), se il termine in questione era scaduto[4]. La porzione del commento di Ulpiano su cui dovremo concentrare la nostra attenzione riguardava il concorso – determinato dalle ragioni che diremo - tra l’actio de calumniatoribus e la condictio. Sul piano pratico il problema era di stabilire se il concorso dovesse essere elettivo, cumulativo, oppure da regolare in forma ibrida, nel senso di accordare l’azione penale nel [continua ..]


7. Riepilogo.

Le considerazioni svolte nei §§ precedenti dimostrano che l’inquadramento proposto a suo tempo da Honsell, per descrivere il regime della (ir)ripetibilità delle dazioni illecite, non corrisponde fino in fondo allo spirito delle soluzioni romane. Non è vero che quella che si usa denominare condictio ob turpem causam fosse una forma di ripetizione chiamata in causa al solo scopo di evitare che un percettore disonesto si riparasse dietro le regole del synallagma e pretendesse perciò di trattenere la prestazione ricevuta dal solvens quando avesse corrisposto la propria. E non è vero, a rovescio, che la regola che si usa riassumere nel brocardo «in pari causa turpitudinis repetitio cessat» fosse chiamata in causa al solo scopo di evitare che un solvens, parimenti disonesto, invocasse le regole del synallagma per recuperare la prestazione anticipata, quando la controparte non avesse corrisposto a sua volta. Gli ultimi due testi analizzati – il passo di Ulpiano e l’editto di Giuliano – smentiscono questa rappresentazione. Di fronte a dazioni che presuppongono scambi evidentemente illeciti (nel caso discusso da Ulpiano: con una illiceità rimproverabile al solo accipiens, nella fattispecie disciplinata da Giuliano: ad entrambe le parti), né il giurista né l’imperatore mostrano di prendere in minima considerazione la logica dello scambio. Nessuno dei due attribuisce importanza al fatto se la res, la controprestazione, sia o meno intervenuta; né si dice che lo scopo delle soluzioni propugnate è d’introdurre dei correttivi per rimediare alle aberrazioni che la logica dello scambio potrebbe comportare in dati casi. Grazie agli interventi riprodotti in D. 3.6.5.1 e in CTh. 2.29.1 si delinea dunque meglio quel che da un testo come D. 12.5.5 si poteva intuire soltanto. Nel modo di rappresentare le cose dei giuristi romani, per giudicare della ripetibilità di una prestazione, l’aspetto determinante non è se l’obiettivo turpe, cui la prestazione è legata, sia stato o meno raggiunto; l’essenziale è appunto che l’obiettivo sia riprovevole. Il che è come dire che agli occhi della giurisprudenza la turpitudo impronta di sé l’accaduto, facendo passare in secondo piano ogni altra qualificazione che pure potrebbe astrattamente concorrere al fine di ammettere o di negare la [continua ..]


8. Classicità e significato della massima «in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis».

Caduta la parte discussa della tesi di Honsell, cade di conseguenza quanto Carusi ha attribuito all’esperienza romana derivandolo direttamente dallo studioso tedesco. Resta ora da vedere che cosa debba dirsi del resto dell’innovativo affresco realizzato dal civilista di Genova. Come si è avvertito all’inizio del saggio (§§ 1-2), per quest’altra parte la curiosità sta nel sapere se abbia ragione Carusi ad attribuire alla regola romana della irripetibilità delle dazioni illecite una ratio non dissimile da quella che l’analisi economica del diritto ha finito per attribuire all’art. 2035 del Codice civile (e alle disposizioni e ai principi omologhi riconosciuti in altri paesi europei). La ratio in questione, come si è anticipato, sarebbe quella della prevenzione. «La nostra regola» - scrive infatti Carusi, riferendosi all’esperienza romana - «nasce (…) con l’obiettiva funzionalità di disincentivare il comportamento avuto di mira dal tradens, togliendo all’accipiens (…) ogni interesse ad osservarlo»[1]. Se l’autore parla di «obiettiva funzionalità», è perché la ratio indicata trascende quanto esprimono le fonti romane, la cui spiegazione della regola della retentio è ben diversa. Di quest’ultima Carusi però si libera con un giudizio tranchant. «La compilazione giustinianea» - dunque gli artefici di Digesto e Codice, non la giurisprudenza classica - «consegna la retentio ai posteri offrendone una spiegazione puramente tautologica: melior est condicio possidentis»[2]. Per rendere più spedita la verifica della tesi del civilista genovese, giova precisare che tra le due asserzioni, di cui essa si compone, corre una sorta di consequenzialità. Intendo dire che in tanto potrà credersi che i giuristi romani vedessero nella regola della retentio uno strumento creato in funzione dissuasiva, ossia per dissuadere i consociati dallo stringere accordi illeciti, in quanto si escluda che risalga ai giuristi stessi la (diversa) spiegazione che si legge nei loro interventi raccolti nella Compilazione giustinianea. Il rapporto tra le due asserzioni permetterà di concentraci sulla sola premessa del ragionamento, senza affrontarne la conclusione; tanto più che, prima di poterla accettare, quest’ultima andrebbe comunque [continua ..]


9. Applicazioni della massima oltre il perimetro della condictio e della retentio.

Prima di riprendere quest’ultimo punto – per vedere come gli stessi romani sapessero comunque temperare la regola della retentio, approfittando di una certa elasticità del loro sistema processuale – occorre soffermarsi su un ultimo aspetto della «spiegazione consegnata ai posteri dalla Compilazione», per rifarsi all’elegante formula di Carusi. Si è detto sopra che lo studioso insiste sul fatto che il raggio d’azione della regola della retentio era limitato, dai romani, a quegli accordi sinallagmatici in cui la controprestazione consisteva in un comportamento di per sé immorale e perciò «fuori mercato»[1]. L’affermazione è senz’altro esatta per quanto riguarda l’applicazione della regola in sé, nel senso che le fonti romane effettivamente l’associano ad accordi in cui l’accipiens si fa pagare per tenere una condotta che normalmente costituisce essa stessa un delitto[2]. Questo però non vuol dire che la motivazione che sorregge la regola non sia espressione di un principio più generale. Sarà insomma vero, come dice il civilista di Genova, che chi riporta la regola della retentio al brocardo «nemo auditur turpitudinem suam allegans», finisce per sposare «una eccessiva generalizzazione medievale»[3]. Ma è vero anche che già i romani, dietro alla regola, vedevano all’opera un principio valido oltre la sfera del dare ob rem (turpem) e della condictio. Un esempio istruttivo delle capacità espansive del principio si ricava da una discussione sulle regole della citazione in giudizio, presentata nel Digesto attraverso la giustapposizione di due brani di Ulpiano e Paolo. Prima di venire al punto, giova ricordare che ancora nel processo formulare, una volta effettuata regolarmente l’in ius vocatio, il citante poteva costringere il citato a seguirlo coattivamente davanti al magistrato[4]. L’interesse del vocans sarebbe stato tuttavia frustrato, se un terzo si fosse mezzo di mezzo, e con la forza avesse allontanato il vocatus, così da impedirne la comparizione. Per scongiurare questo risultato e assicurare così a un tempo sia il buon esito della citazione sia il regolare avvio della fase in iure, l’editto del pretore garantiva che il vocans avrebbe usufruito di un’azione penale, a carico appunto di colui che «allontani a forza [continua ..]


10. Turpitudo utriusque e parità relativa: la flessibilità assicurata dal sistema romano delle actiones e la sua singolare convergenza con alcune (ri)letture dell’art. 2035 cod. civ.