Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Cointestazione del conto corrente bancario e morte di uno dei correntisti (di Sara Scola)


La cointestazione del conto corrente bancario solleva problematiche di indubbia complessità che risultano ancor più evidenti alla morte di uno degli intestatari del conto.

Sul piano della legittimazione a operare sul conto corrente bancario, lo scarno dato normativo di riferimento – costituito dall’art. 1854 c.c. – deve necessariamente coordinarsi con le altre regole che governano la materia; tra esse figura, in particolare, la normativa fiscale, della quale – come opportunamente rimarcato da talune pronunce dell’Arbitro bancario finanziario – non può non tenersi conto.

Al contempo, non par dubbio che la generale presunzione di titolarità in parti uguali delle somme giacenti sul conto corrente cointestato – desumibile dall’art. 1854 c.c. – non esclude, nei rapporti interni tra i correntisti, la prova di una situazione giuridica diversa; in tale contesto, si innesta il problema dell’eventuale prova di una donazione indiretta compiuta da un correntista in favore dell’altro, i cui aspetti necessitano di essere ulteriormente indagati.

The joint bank account and the death of one of the holders

The existence of the joint bank account in the Italian legal order raises complex legal issues, especially following the death of one of the account holders.

As to the right to use the bank account, the scant relevant provision (art. 1854 of the Italian Civil Code) must be coordinated with the other rules governing the matter; among them is the tax legislation, which cannot be disregarded, as appropriately pointed out by some rulings of the Arbitro Bancario Finanziario.

As to the ownership of the joint bank account, art. 1854 of the Italian Civil Code suggests a general presumption of ownership in equal parts of the money contained therein. Such a presumption does not exclude, however, that the internal relations between the holders be arranged in different terms. In this last scenario, problematic and in need to be further investigated is the proof of an indirect donation made between the account holders.

Sara Scola - Cointestazione del conto corrente bancario e morte di uno dei correntisti

COMMENTO

Sommario:

1. Introduzione. - 2. La cointestazione del conto corrente bancario: inquadramento della fattispecie. - 3. La sorte del contratto di conto corrente bancario alla morte di uno dei correntisti. - 4. La legittimazione del cointestatario superstite a operare sul conto corrente bancario già cointestato anche al de cuius. - 5. La titolarità delle somme giacenti sul conto corrente già cointestato al correntista superstite e al correntista defunto.


1. Introduzione.

La cointestazione del conto corrente bancario solleva da molto tempo problematiche di indubbia complessità che si agitano lungo diversi piani di indagine e risultano a tutt’oggi prive di una univoca soluzione.

Un primo ordine di problemi è legato al riferimento normativo – quantomai scarno – che impone all’interprete un’intensa e per nulla agevole attività ermeneutica; a ciò, si aggiunge il fatto che, sul piano applicativo, l’operatore del diritto è, sovente, chiamato a compiere un necessario – e a sua volta per nulla agevole – coordinamento con altre regole che, più o meno direttamente, governano la materia e, di fatto, alimentano il novero delle questioni controverse.

Peraltro, il quadro si arricchisce – e al contempo si complica – allorquando si discuta delle sorti del conto corrente bancario cointestato alla morte di uno dei correntisti e vengano, così, a contrapporsi, da un lato, le pretese del cointestatario superstite e, dall’altro, quelle degli eredi del cointestatario defunto.

Premessa del discorso per un’indagine del fenomeno in parola non può che essere, dunque, l’esile dato legislativo dedicato alla fattispecie: entro le maglie della già lacunosa disciplina dedicata al conto corrente bancario[1], si inserisce, infatti, l’unica norma contemplata dal Codice civile in materia di cointestazione dello stesso.

Si tratta, evidentemente, dell’art. 1854 c.c., il quale, parlando della cointestazione del conto corrente bancario – con facoltà, per i correntisti, di compiere operazioni anche separatamente –, afferma che gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto.

Il legislatore intende, così, disciplinare la fattispecie – di gran lunga più frequente nella pratica e sulla quale si concentreranno le riflessioni delle pagine che seguono – della cointestazione con firma e disponibilità disgiunte per ciascun correntista, benché non si tratti di un effetto ex lege, ma di una conseguenza che necessita di apposita pattuizione, come disvela lo stesso tenore della norma[2].

Molteplici sono le ricadute applicative della disposizione in esame, la quali, come vedremo, coinvolgono tanto il profilo della legittimazione a operare sul conto quanto la questione della titolarità delle somme oggetto del conto medesimo[3].

 

* Lo scritto è destinato agli Atti del Convegno “Nuovi modelli di diritto successorio: prospettive interne, europee e comparate”, organizzato dall’Università degli Studi di Trieste e tenutosi in videoconferenza l’11 dicembre 2020. Lo scritto rientra inoltre nell’attività di ricerca del gruppo “Invecchiamento della popolazione e passaggi generazionali” nell’ambito del Progetto di Eccellenza del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Verona “Diritto, Cambiamenti e Tecnologie”.

[1] Per i profili che verranno qui sviluppati, assume un precipuo rilievo il deposito in conto corrente: per una distinzione tra i diversi depositi bancari, v., ad es., F. Criscuolo – S. Mazzotta, Il deposito bancario, in E. Capobianco (a cura di), I contratti bancari, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno ed E. Gabrielli, Milano, 2016, 764 s. e 775 ss.; v. altresì, anche con particolare riferimento al problema della cointestazione tra coniugi, E. Tomat, Versamenti in conto corrente cointestato, animus donandi e donazione di beni futuri, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 597. Sull’inquadramento giuridico del contratto di conto corrente bancario, v. G. Cavalli, Conto corrente, II, Conto corrente bancario, in Enc. giur., VIII, Roma, 1988, 1 ss.; v. altresì, anche relativamente alla questione della tipicità o meno di detto contratto, V. Santoro, sub 1852 c.c., in Il Codice civile. Commentario, Il conto corrente bancario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1992, 7 ss., il quale condivide la tesi della tipicità; in senso conforme, v. pure S. Pagliantini – F. Bartolini, Il conto corrente bancario, in E. Capobianco (a cura di), I contratti bancari, cit., 1573, i quali delineano il contratto di conto corrente bancario come contratto-strumento, evidenziando che lo stesso «costituisce, da una parte, lo strumento (o la cornice) dell’operazione complessiva, e, dall’altra, il mezzo (insostituibile) per la gestione di tutti i rapporti banca/cliente»; contra, nel senso dell’atipicità del contratto di conto corrente bancario, anche sulla base del rilievo che il legislatore, all’art.1852 c.c., «disciplina semplicemente gli effetti del regolamento in conto corrente di operazioni bancarie tipiche; rimanendo fuori della legge la previsione di un rapporto autonomo di conto corrente bancario», G. Molle, I contratti bancari, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. Cicu e F. Messineo, I, Milano, 1981, 481 ss. (questi aspetti verranno ripresi anche alla nota 33). Sulle differenze tra conto corrente bancario e conto corrente ordinario, v., ancora. G. Molle, I contratti bancari, cit., 483 ss., nonché G. Cavalli, Conto corrente, cit., 1 s.; sul punto v. anche F. Martorano, Contratto di conto corrente, in Enc. dir., IX, 1961, 660 s., il quale mette però in luce i punti di contatto tra i due istituti.

[2] V. S. Troiano, I prelievi da conto corrente cointestato al de cuius tra sottrazione di beni ereditari e accettazione tacita dell’eredità, in S. Scola – M. Tescaro (a cura di), Casi controversi in materia di diritto delle successioni, I, Esperienze italiane, Napoli, 2019, 91 s., il quale rimarca che la pattuizione in parola può avvenire al momento dell’apertura del conto o anche in un momento successivo, mentre, in mancanza di essa, il conto corrente cointestato potrà essere utilizzato solo a firma congiunta, ossia con ordini di disposizione che devono necessariamente provenire da tutti i cointestatari. In giurisprudenza, v., ex multis, Cass. 5 luglio 2000, n. 8961, in Pluris, secondo la quale «la firma congiunta rappresenta la regola e la firma disgiunta l’eccezione».

[3] V. sub §§ 4-5.


2. La cointestazione del conto corrente bancario: inquadramento della fattispecie.

La possibilità, per ciascun intestatario, di prelevare in ogni momento l’intero saldo del conto corrente bancario – liberando così la banca da ogni responsabilità per il caso in cui esegua il pagamento o l’accreditamento delle somme depositate in favore di uno solo dei titolari del conto – rappresenta, senza dubbio, una delle conseguenze applicative più dirompenti che discendono dal dettato normativo dell’art. 1854 c.c.[1].

Ben possiamo affermare, quindi, che attraverso la previsione in parola si sia voluto codificare un generale principio in virtù del quale la cointestazione del conto bancario (con firma e disponibilità disgiunte)[2] conferisce ad ogni correntista la piena legittimazione a operare sullo stesso, secondo il criterio della solidarietà attiva.

Tuttavia, da lungo tempo si è da più parti rimarcato che altra, e diversa, questione è quella attinente all’effettiva titolarità delle somme giacenti sul conto bancario cointestato.

Per quanto concerne quest’ultimo profilo, vi è senz’altro una presunzione circa il fatto che le somme appartengano, in egual misura, a tutti i correntisti, la quale trova, del resto, un fondamento nel fatto che, in tale circostanza, anche i terzi sono ragionevolmente portati a credere che le somme giacenti sul conto bancario siano comuni a tutti gli intestatari e che, quindi, vi sia una contitolarità sostanziale e non soltanto formale del denaro versato sullo stesso.

Tuttavia, si tratta di una presunzione senz’altro vincibile attraverso idonea prova contraria.

È pur vero, infatti, che l’art. 1854 c.c., laddove prevede semplicemente che «gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto», non contempla la possibilità di alcuna prova contraria in ordine alla reale appartenenza delle somme presenti sul conto intestato a più persone, chiudendo così, in apparenza, le porte alla possibilità per i correntisti di provare una diversa situazione giuridica riguardo alla titolarità delle somme versate sul conto bancario.

Tuttavia, a ben vedere, l’art. 1854 c.c. riguarda esclusivamente i rapporti esterni tra i correntisti e la banca depositaria, non anche, invece, i rapporti interni tra i singoli intestatari del rapporto bancario.

In quest’ultimo caso, la norma in esame cede il passo all’art. 1298 c.c. in materia di obbligazioni solidali, il cui secondo comma, come noto, prevede che «le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente», con ciò rendendo pienamente ammissibile, nei rapporti interni tra cointestatari, la prova dell’appartenenza delle somme depositate in misura diversa rispetto a quanto risulterebbe in forza della suddetta presunzione di parità[3].

La soluzione testé illustrata sembra essere l’unica plausibile alla luce della lettera dei riferimenti normativi già citati e appare, peraltro, suffragata da una serie di ulteriori elementi.

Già le rationes sottese alle due norme qui prese in considerazione lasciano trasparire la differente funzione che compete alle stesse: se, infatti, l’art. 1854 c.c. è volto a salvaguardare le esigenze di certezza e sicurezza dei traffici giuridici, sia nei confronti dell’istituto di credito sia nei confronti dei terzi, evitando che eccezioni da più parti sollevate, anche a solo scopo ostruzionistico, possano comprimere la legittimazione a operare sul conto e  minare il regolare svolgimento del rapporto contrattuale banca-correntisti, la norma di cui all’art. 1298, co. 2, c.c., contemplando espressamente la possibilità di fornire prova contraria in ordine alla ripartizione interna delle posizioni giuridiche nascenti dall’obbligazione, mira a tutelare i diritti che, difformemente da quanto risulterebbe dalla presunzione di parità prevista dalla medesima norma, ciascun titolare vanta sulle somme depositate sul conto[4].

Peraltro tale inquadramento trova pure un conforto normativo nella disciplina fiscale in materia di imposta sulle successioni e donazioni, la quale, nello stabilire una presunzione di appartenenza all’attivo ereditario della quota del cointestatario defunto sui saldi dei conti correnti e depositi cointestati al de cuius e ad altre persone, è chiara nel precisare che le quote di ciascun cointestatario si presumono uguali «se non risultano diversamente determinate»[5].

Ecco, dunque, che anche da questa prospettiva appare del tutto legittimo per ciascun correntista fornire prova contraria in ordine alla titolarità effettiva delle somme depositate sul conto cointestato[6].

Tale prova potrà essere data anche mediante presunzioni, purché gravi, precise e concordanti, dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa[7].

Pare superfluo rimarcare come la prova relativa alla “reale” appartenenza delle somme versate sul conto possa generare contenziosi di non poco momento, se si considerano, ad esempio, le difficoltà nelle quali si imbatte l’operatore del diritto allorquando si debba indagare la provenienza delle somme versate sul conto, le quali possono originare da versamenti compiuti dagli stessi cointestatari, ma anche da accrediti effettuati dai debitori dell’uno e/o dell’altro correntista; parimenti, nel calcolo della quota spettante a ciascun cointestatario, occorrerà tenere conto dei prelievi effettuati medio tempore da ciascuno di essi, distinguendo però tra i prelievi avvenuti per finalità personali ed i prelievi compiuti nell’interesse e a vantaggio di tutti i correntisti, ad esempio perché motivati dal vincolo solidaristico che lega i cointestatari, oppure perché la somma ritirata è stata destinata a fare fronte alle spese di amministrazione di un bene comune dei correntisti[8].

Peraltro, lo scenario qui delineato è destinato complicarsi ulteriormente laddove la prova in ordine alla titolarità effettiva delle somme depositate debba seguire le regole specifiche che risultino applicabili al caso concreto preso in considerazione.

Così, ad esempio, nell’ipotesi per nulla infrequente di conto corrente bancario cointestato a due coniugi in regime di comunione legale dei beni[9], all’interno del quale, sovente, confluisce denaro di varia provenienza, tra cui proventi dell’attività lavorativa dei consorti (tipico cespite della comunione de residuo), somme che, per diversi motivi, sono da considerarsi beni personali di uno dei coniugi (ad esempio perché ricevute per donazione o successione), e via discorrendo, la determinazione delle somme spettanti a ciascun coniuge dovrà avvenire secondo i criteri previsti dalla normativa del regime comunitario legale, poiché non v’è ragione per ritenere che il denaro non debba essere assoggettato alla medesima disciplina prevista per i beni mobili[10].

Tutto ciò considerato, ben possiamo affermare che la cointestazione (con firma e disponibilità disgiunte) determina una legittimazione in capo a tutti gli intestatari a operare autonomamente sul conto bancario e, almeno in via presuntiva, una contitolarità, in egual misura per tutti i correntisti, delle somme giacenti sul conto medesimo (salvo, come abbiamo detto, la prova contraria da parte del correntista che intenda fare valere una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla presunzione).

Prima di chiudere il quadro, non possiamo tuttavia non dare atto di un recente, curioso arresto della S.C. che pare aver risvegliato un dibattito ormai sopito ma che, per molteplici ragioni, è auspicabile rimanga isolato[11].

La Cassazione, infatti, occupatasi del conto corrente bancario (e del dossier titoli appoggiato al medesimo) originariamente intestato a una signora e, successivamente, dalla stessa cointestato anche a due sue nipoti, ha qualificato la cointestazione come un atto unilaterale – e più precisamente come una procura – idoneo a trasferire unicamente la legittimazione a operare sul conto; sul fronte della titolarità delle somme, invece, la cointestazione non darebbe luogo ad alcuna modifica, poiché per trasferire la proprietà del contenuto del conto bancario sarebbe necessaria, per così dire a monte, una cessione del credito da parte dell’originaria correntista in favore delle successive cointestatarie[12].

È appena il caso di evidenziare che, in tal modo, la S.C. pare aver ignorato quell’unico dato normativo dedicato alla cointestazione – l’art. 1854 c.c., da leggersi unitamente all’art. 1298 c.c. – il quale impone chiaramente una diversa ricostruzione del fenomeno.

Affermare, infatti, che la cointestazione va ad incidere solo sulla legittimazione a operare sul conto significa, di fatto, tradire il principio della solidarietà – espressamente richiamato dall’art. 1854 c.c. – che evidentemente comporta una titolarità del credito e/o del debito in capo a tutti i creditori e/o debitori in solido.

Peraltro, la S.C. supporta il proprio assunto richiamando istituti giuridici che non possono in alcun modo trovare applicazione nel caso in esame a causa di un’ontologica incompatibilità con la fattispecie della cointestazione.

In particolare, contro la sovrapposizione tra cointestazione e procura milita l’evidente considerazione che l’obbligazione solidale – quale è quella che si determina tra istituito bancario e correntisti mediante la cointestazione – non può essere in alcun modo ricondotta alla rappresentanza. Quest’ultima può verificarsi, ad esempio, allorquando un correntista delega un soggetto terzo nel compimento di una o più operazioni bancarie per suo conto e con la spendita del suo nome e non incide sul contratto bancario sottostante, le cui parti rimangono le medesime[13].

La cointestazione, invece, va a modificare la composizione di una parte del rapporto contrattuale – che diventa plurisoggettiva – e, anche nel caso in cui avvenga in epoca successiva all’apertura del conto e su iniziativa dell’intestatario originario, non può essere considerata un atto unilaterale, poiché, per avere efficacia, necessita dell’accettazione dell’istituto bancario e, soprattutto, dei nuovi cointestatari (peraltro in forma scritta[14]), i quali non agiscono quali rappresentanti del correntista originario, ma sono portatori di un interesse proprio e diventano creditori – ma anche debitori – in solido per il conto corrente bancario in questione (aspetto, quest’ultimo, ancor più rilevante e che pare, invero, non considerato dalla pronuncia in esame)[15].

Anche il richiamo a un precedente contratto di cessione del credito tra gli intestatari per giustificare il trasferimento del contenuto del conto, oltre a dare per presupposto che il rapporto bancario sia unicamente fonte di crediti per gli intestatari – e non anche di debiti, come ben può verificarsi – altera ancora una volta il sistema costruito dal legislatore, il quale è chiaro nel prevedere che, per effetto della cointestazione, si generi una presunzione iuris tantum di contitolarità in parti uguali delle somme giacenti sul conto[16].

Ecco, dunque, che, anche alla luce di queste ultime considerazioni, appare evidente la necessità di riportare la ricostruzione del fenomeno della cointestazione entro i binari più tradizionali, da lungo tempo individuati sia sul fronte dottrinale sia su quello giurisprudenziale.

Del resto, quella fatta propria dall’orientamento prevalente appare l’unica soluzione possibile se, partendo dal dato normativo, si vuole rimanere entro i confini della discrezionalità ermeneutica, senza trascendere al piano dell’invenzione manipolativa.

 

[1] Ex multis, Cass. 7 aprile 2017, n. 9063, in Pluris, la quale, tra l’altro, evidenzia che anche sul fronte passivo l’art. 1854 c.c. comporta che, in caso di cointestazione, tutti gli intestatari siano solidalmente responsabili nei confronti della banca del saldo passivo derivante dall’utilizzo dell’apertura di credito, a prescindere dalla riferibilità di tale rapporto ad uno soltanto dei correntisti.

[2] L’art. 1854 c.c. ha, peraltro, una portata ancor più ampia, essendo applicabile non solo al conto corrente bancario cointestato, ma anche al libretto di risparmio e al conto di deposito titoli: v. P. Sirena, Cointestazione dei conti correnti bancari e comunione legale dei beni: le ricadute nel trattamento successorio, in Familia, 2016, 412; per il conto di deposito titoli, v. pure Cass. 1° ottobre 2012, n. 16671, in Foro it., 2013, 2, I, 566 s.

[3] Detta soluzione accomuna dottrina e giurisprudenza, sin da epoche remote: in dottrina, v., ex multis, G. Ferri, Conto corrente di corrispondenza, in Enc. dir., IX, 1961, 670; tra le pronunce più significative sul tema, v. Cass. 9 luglio 1989, n. 3241, in Banca borsa, 1991, II, 1 ss. (relativa a una cointestazione tra coniugi), così massimata: «nel conto corrente bancario cointestato a più persone, con facoltà di compiere operazioni anche separatamente, i rapporti interni fra i correntisti sono regolati non dall’art. 1854 c.c., che riguarda i rapporti fra i medesimi e la banca, ma dall’art. 1298, 2° comma, c.c., in base al quale il debito od il credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente; pertanto, ove il saldo attivo del conto cointestato a due coniugi risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno soltanto di essi (…) si deve escludere che l’altro coniuge, nel rapporto interno, possa avanzare diritti sul saldo medesimo». Anche le pronunce successive si sono assestate su tale orientamento: si veda, ex multis, nelle sentenze di legittimità, Cass. 22 febbraio 2018, n. 4320 (in motivazione), in C. Granelli (a cura di), I nuovi orientamenti della Cassazione civile, Milano, 2019, 185 ss., con nota di C. Favilli, Fattispecie controverse di accettazione tacita dell’eredità, Cass. 30 maggio 2013, n. 13614, in Giur. it., 2014, 569 ss., con nota di G. Navone, La cointestazione del conto corrente bancario e della cassetta di sicurezza: riflessi sulla titolarità delle somme e dei beni depositati; Cass. 24 febbraio 2010, n. 4496 e Cass. 5 dicembre 2008, n. 28839, entrambe in Pluris, nonché Cass. 22 ottobre 1994, n. 8718, in Banca borsa, 1995, II, 554 ss.; nelle pronunce di merito, v. Trib. Roma, Sez. XVII, 12 marzo 2020, in Pluris, Trib. Roma, 6 giugno 2017, n. 11451, in Fam. dir.2018, 687 ss., con nota di V. Restuccia, La cointestazione del conto corrente bancario non integra sempre una ipotesi di donazione indiretta; Trib. Bari, 23 ottobre 2013, reperibile sul sito www.ordineavvocati.bari.it, Trib. Salerno, Sez. II, 25 ottobre 2011, in Pluris; Trib. Genova, 21 novembre 2006, in Pluris; Trib. Roma, 15 giugno 2004, n. 18857, massima in De Jure; Trib. Salerno, 29 gennaio 2001, massima in Giur. mer., 2002, 409 s., nonché Trib. Verona, 28 ottobre 1994, massima in Pluris. Si consideri, però, un recente e, invero, criticabile arresto della S.C. che sembra voler mettere in discussione il portato dell’orientamento tradizionale (si tratta di Cass., ord. 3 settembre 2019, n. 21963, sulla quale v. infra, nel testo, nonché alle note 14-19).

[4] Illustra chiaramente la funzione e l’utilità operativa dell’art. 1298 c.c., A. D’Adda, Le obbligazioni plurisoggettive, in Trattato di diritto civile e commerciale Cicu-Messineo, già diretto da L. Mengoni, Milano, 2019, 106, il quale ben evidenzia che «l’art. 1298 c.c. dà rilevanza agli interessi sostanziali, coinvolti dall’obbligazione solidale, dei singoli condebitori (o concreditori), che erano passati in secondo piano nella fase di esecuzione dell’obbligazione, e quindi nei rapporti (esterni) col comune creditore (o debitore)».

[5] L’art. 11, co. 2, d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (Testo Unico delle imposte sulle successioni e donazioni) indica espressamente che «(...) per i crediti di pertinenza del defunto e di altre persone, compresi quelli derivanti da depositi bancari e da conti correnti bancari e postali cointestati, le quote di ciascuno si considerano uguali se non risultano diversamente determinate». Evidenzia questo aspetto anche E. Minervini, In tema di conto corrente bancario cointestato e di morte del cointestatario, in Banca borsa, 2017, 753 s.; v. pure G. Vaccaro, Anamorfosi della cointestazione del conto corrente bancario nei rapporti tra cointestatari e incidenza probatoria, in Nuova giur. civ. comm., 2020, I, 528.

[6] Il principio è applicato in giurisprudenza: v., ex multis, Cass. 5 febbraio 2010, n. 2686, in Banca borsa, 2011, II, 461 ss., con nota di M. Rubino De Ritis, La cointestazione del conto corrente bancario nell’interesse di uno solo dei contitolari, nella quale si è ribadito che, ove il saldo attivo del conto bancario risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, si deve escludere che l’altro possa, nel rapporto interno, avanzare diritti sul saldo medesimo e, in forza di tale principio, è stata confermata la sentenza di merito nella parte in cui aveva ritenuto che due conti correnti, entrambi cointestati a un fratello e a una sorella, fossero di spettanza esclusiva della sorella dal momento che era stato provato che i conti fossero stati alimentati esclusivamente dalla stessa, mediante il versamento di tutti gli introiti della propria attività lavorativa.

[7] Così, ad es., Cass. 23 settembre 2015, n. 18777, in Pluris, secondo cui la presunzione di contitolarità dà luogo solo a un’inversione dell’onere della prova e può essere superata da idonea prova contraria.

[8] Si consideri, per l’appunto, l’esempio di un conto corrente cointestato a due persone comproprietarie, per la medesima quota, di uno o più beni immobili ai sensi dell’art. 1100 ss. c.c. e sul quale affluiscono i canoni di locazione inerenti agli immobili stessi. I prelievi effettuati da uno dei correntisti per le spese di gestione dei beni comuni non possono, di per sé soli, modificare le quote (uguali) che spettano a ciascuno sulla base della presunzione legislativa; viceversa, il prelievo di un correntista effettuato per ragioni personali, andrà ad incidere sul calcolo delle quote spettanti a ciascuno e ben potrà, quindi, modificare le quote che spetterebbero ai correntisti in forza della suddetta presunzione. Analogamente può dirsi per i conti correnti cointestati a coniugi o conviventi more uxorio, allorquando i prelievi dell’uno siano stati destinati al c.d. ménage familiare.

[9] Cfr., anche relativamente alle difficoltà di ordine probatorio in quest’ambito (su cui v. anche infra, nel testo), A. Tullio, Introduzione. L’oggetto, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da G. Bonilini, II, Milano, 2016, 1247 ss.

[10] Anche senza volersi addentrare nella questione relativa al fatto che il denaro possa essere considerato a tutti gli effetti un bene mobile (v., sul punto, E. Spitali, L’oggetto della comunione legale, in F. Anelli – M. Sesta [a cura di], Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2012, 172 s.; G. Oberto, La comunione legale tra coniugi, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, Milano, 2010, 609 s., nonché A. Gambaro, I beni, in Trattato di diritto civile e commerciale, cit., 2012, 166, il quale evidenzia che il denaro è un bene e, più precisamente, un bene consumabile; tuttavia occorre precisare che «il denaro […] è consumabile quando sia adibito alla sua funzione normale di mezzo di pagamento, altrimenti è nettamente inconsumabile non essendo nemmeno esposto al rischio di deterioramento»), a nostro avviso pare indubbio che esso sia quantomeno “assimilabile” ad un bene mobile. Esso, pertanto, pur avendo caratteristiche del tutto peculiari, deve, al pari di un qualunque altro bene mobile, poter appartenere a uno o a entrambi i coniugi. Parimenti, il fatto che il denaro venga custodito in banca (mediante deposito bancario), piuttosto che in qualunque altro luogo, non incide sulla sua titolarità. Per delle applicazioni pratiche, v., ad es., App. Roma, Sez. III, 22 novembre 2011, in Pluris, ove si è ritenuto pienamente provato che i conti cointestati ai due coniugi fossero alimentati esclusivamente dai proventi dell’attività separata del marito e, in virtù di questo, si è precisato che le somme depositate sui conti appartenevano alla comunione de residuo, che si realizza soltanto al momento dello scioglimento della comunione (nel caso di specie si è quindi ritenuto che la domanda di restituzione delle somme, avanzata dalla moglie, fosse priva di fondamento poiché, «all’epoca dello scioglimento della comunione legale tra i coniugi […], sui conti bancari non vi erano somme non consumate»).

[11] Si tratta di Cass., ord. 3 settembre 2019, n. 21963, pubblicata in Nuova giur. civ. comm., 2020, I, 523 ss., con nota critica di G. Vaccaro, Anamorfosi della cointestazione, cit., e commentata, altresì, da G. Tantillo, Le liberalità non donative e la cointestazione di conto corrente, in Vita not., 2019, 1203 ss.

[12] Più precisamente, nella pronuncia in esame si legge che la cointestazione è «atto unilaterale idoneo a trasferire la legittimazione ad operare sul conto (e, quindi, rappresenta una forma di procura), ma non anche la titolarità del credito, in quanto il trasferimento della proprietà del contenuto di un conto corrente (ovvero dell’intestazione del deposito titoli che la banca detiene per conto del cliente) è una forma di cessione del credito (che il correntista ha verso la banca) e, quindi, presuppone un contratto tra cedente e cessionario».

[13] Sul punto, condivisibilmente, R. Mazzariol, Conto corrente cointestato e morte di un correntista: alle soglie di un nuovo contrasto, in Nuova giur. civ. comm., 2020, II, 1204.

[14] Cfr. l’art. 117 del t.u.b. (d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385).

[15] Molto chiaramente su questi aspetti anche G. Vaccaro, Anamorfosi della cointestazione, cit., 526 s.; in argomento pure R. Mazzariol, ibidem.

[16] Profilo ben evidenziato anche in R. Mazzariol, Conto corrente cointestato, cit., 1204 s., il quale rimarca in particolare il palese contrasto della presente statuizione della S.C. con la norma di cui all’art. 1298 c.c., la quale chiaramente pone quale regola la contitolarità e quale eccezione la titolarità solitaria.


3. La sorte del contratto di conto corrente bancario alla morte di uno dei correntisti.

Così delineato il fenomeno della cointestazione del conto corrente bancario, v’è ora da chiedersi cosa accada nel caso di morte di uno dei correntisti.

Sotto questo profilo, un primo ordine di problemi riguarda la sorte del contratto di conto corrente bancario medesimo in siffatta ipotesi.

Evidentemente, la tematica involge la ben più ampia e delicata questione relativa alla trasmissione mortis causa dei rapporti contrattuali, da lungo tempo indagata in dottrina anche autorevolmente[1].

A tale proposito, è appena il caso di rammentare come sia ormai un principio immanente al sistema quello in forza del quale, di regola, le posizioni contrattuali si trasmettono agli eredi del contraente defunto[2].

Non è, infatti, in grado di minare la stabilità di detto assunto neppure il, pur pertinente, rilievo incentrato sulla mancanza nel nostro diritto vigente di una previsione corrispondente all’art. 1127 del Codice civile del 1865, che era stato mutuato da analoga disposizione già contenuta nel Code civil francese[3].

La scelta di non riprodurre la norma previgente è stata verosimilmente dettata dalla convinzione che il principio precedentemente codificato fosse ormai «consolidato e non più bisognoso di una declamazione espressa»[4], ed è stata peraltro seguita, in tempi ben più recenti, persino dal legislatore d’Oltralpe, il quale, con la nota riforma del diritto dei contratti, ha abrogato la disposizione che enucleava il criterio in parola[5], secondo la dottrina francese senza incidere sulla persistente regola generale di trasmissione del contratto ai successori del contraente defunto[6].

Volgendo nuovamente lo sguardo entro i confini nazionali, possiamo ulteriormente rammentare che, sia pure senza trovare mai una esplicita affermazione generale, il principio della successione mortis causa nei rapporti contrattuali trova conferma in numerose disposizioni codicistiche, in particolare in ambito successorio, ma anche in materia di singoli contratti[7].

Al contempo, deve rimarcarsi che la regola di continuazione dei rapporti contrattuali non è monolitica ma conosce deroghe, come del resto già precisava l’art. 1127 del Codice previgente[8].

Così, nulla vieta alle parti di configurare un rapporto contrattuale intuitu personae, destinato, dunque, a sciogliersi per morte di un contraente; inoltre, ben può essere il legislatore stesso a stabilire l’estinzione del rapporto contrattuale[9], oppure la facoltà per gli eredi di recedere dal medesimo[10].

Se queste, dunque, sono le premesse, occorre verificare se, per il conto corrente bancario, sussistano riferimenti normativi in grado di impedire ab origine l’operatività del generale principio di trasmissione del rapporto contrattuale mortis causa.

Posto che la scarna disciplina degli artt. 1852-1857 c.c. non prevede alcuna deroga in tal senso, l’indagine si sposta sull’eventuale applicabilità di quelle altre disposizioni che – almeno astrattamente – potrebbero ostacolare l’ingresso degli eredi nella posizione contrattuale del loro dante causa[11].

La questione appare, invero, controversa con riferimento al conto corrente monointestato, ove alla morte dell’(unico) intestatario tuttora si discute se il rapporto contrattuale possa o meno proseguire con i successori del medesimo[12].

Il dibattito sul tema è risultato particolarmente vivace in seno alle decisioni dell’Arbitro Bancario Finanziario – sovente plasmate da esponenti della dottrina – ma sembra, almeno per il momento, aver trovato un approdo nell’arresto del Collegio di coordinamento che, intervenuto a dirimere la questione, ha fatto prevalere la tesi favorevole alla trasmissibilità del rapporto di conto corrente agli eredi del correntista defunto[13]. Tale posizione può essere condivisa, sulla base del rilievo che non pare qui applicabile analogicamente (né tantomeno in via diretta[14]), l’art. 1722, co. 1, n. 4, c.c., il quale trova il suo fondamento nel rapporto personale mandante-mandatario, non ravvisabile, invece, tra la banca e il correntista.

Con riferimento, invece, al caso che qui ci occupa – ossia di cointestazione del conto corrente bancario con firma e disponibilità disgiunte – non dovrebbero esservi dubbi in merito a una continuazione del rapporto contrattuale, con subentro dei successori del cointestatario defunto nei diritti facenti capo a quest’ultimo. Non vi è, infatti, alcun dato normativo in grado di mettere in discussione siffatta conclusione, se si tiene a mente che anche il sopracitato art. 1722 c.c. riguarda il mandato conferito da una sola persona e risulta pertanto, sin dal principio, inapplicabile al fenomeno della cointestazione bancaria[15].

Pertanto, deve convenirsi sul fatto che, di regola, alla morte di uno dei cointestatari, il contratto di conto corrente bancario non si scioglie; la parte plurisoggettiva del contratto sarà costituita dal cointestatario superstite e dagli eredi del cointestatario defunto, fatta salva la possibilità che le parti chiedano concordemente la chiusura del rapporto (ipotesi che verosimilmente si verificherà non appena siano stati individuati gli importi che spettano a ciascuno sul saldo del conto)[16].

 

[1] V. F. Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di morte, Milano, 1990, e Id., L’oggetto della successione. Le posizioni contrattuali, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, diretto da G. Bonilini, I, 2009, 525 ss.

[2] V. F. Padovini, L’oggetto della successione. Le posizioni contrattuali, cit., 532. Riprende tale aspetto L. Pascucci, La successione per causa di morte nei rapporti contrattuali facenti capo al de cuius, in Fam. dir., 2012, 513.

[3] L’art. 1127 del Codice civile previgente disponeva infatti:

«Si presume che ciascuno abbia contrattato per sé e per i suoi eredi ed aventi causa, quando non siasi espressamente pattuito il contrario, o ciò non risulti dalla natura del contratto».

Per il diritto francese v. infra, nel testo, nonché sub note 24-25.

[4] V. ancora F. Padovini, L’oggetto della successione. Le posizioni contrattuali, cit., 526, e Id., Rapporto contrattuale e successione, cit., 23 ss., il quale sviluppa molto chiaramente questi temi, anche in una prospettiva storica e mediante la comparazione con altri ordinamenti.

[5] Si fa riferimento all’art. 1122 c.c. fr., abrogato dall’Ordonnance n° 2016-131 du 10 février 2016, il quale così disponeva:

«On est censé avoir stipulé pour soi et pour ses héritiers et ayants cause, à moins que le contraire ne soit exprimé ou ne résulte de la nature de la convention».

[6] V. per tutti G. Cattalano, La morte del contraente, in E.A. Amayuelas – C. Baldus – E. de Carvalho Gomes – A.-M. Leroyer – Q. Lu – J.M. Rainer (a cura di), Casi controversi in materia di diritto delle successioni, II, Esperienze straniere, Napoli, 2019, 958, la quale precisa che, nonostante la scelta infelice di abrogare l’art. 1122 c.c. fr., il generale principio di trasmissione del contratto agli eredi permane, salvo specifica volontà delle parti in senso contrario oppure nel caso in cui il contratto fosse stato concluso intuitu personae.

[7] Per citare qualche efficace esempio, l’art. 460 c.c., riconoscendo al chiamato il potere di compiere atti di amministrazione temporanea, lascia intendere – almeno indirettamente – che la successione possa comprendere anche rapporti contrattuali; parimenti, all’art. 490 c.c., l’utilizzo del termine patrimonio (per delineare l’effetto del beneficio di inventario) sta a significare che la successione può riguardare una somma di situazioni soggettive, anche a contenuto contrattuale (aspetti tutti chiaramente evidenziati in F. Padovini, Rapporto contrattuale e successione, cit., 30).

[8] V. ancora F. Padovini, L’oggetto della successione. Le posizioni contrattuali, cit., 532.

[9] Su questi aspetti v., ancora, F. Padovini, L’oggetto della successione. Le posizioni contrattuali, cit., 532 ss., il quale evidenzia, in particolare, che nel nostro ordinamento il legislatore prevede tanto casi ove l’intrasmissibilità del vincolo contrattuale è dettata da principi ricavabili da regole poste a garanzia di interessi sovraordinati (come nei rapporti aventi ad oggetto prestazioni di carattere lavorativo), quanto ipotesi ove lo scioglimento del rapporto mira a tutelare gli interessi di una o entrambe le parti (è il caso dell’art. 772 c.c., che prevede l’estinzione per morte del donante dell’obbligo di prestazioni periodiche).

[10] Una sintetica panoramica delle norme che, nell’ambito dei singoli contratti, prevedono il diritto di recesso per gli eredi del defunto viene offerta da L. Pascucci, La successione per causa di morte, cit., 514; l’Autrice evidenzia peraltro anche che tali previsioni legislative confermano a contrario l’esistenza nel nostro ordinamento di un generale principio di trasmissibilità mortis causa dei rapporti contrattuali, proprio perché il mancato esercizio del diritto di recesso determina la prosecuzione automatica del rapporto contrattuale.

[11] Non sembra di aiuto il richiamo alla disciplina sul conto corrente ordinario – segnatamente l’art. 1833, co. 2, c.c. – del tutto differente dal conto corrente bancario (se non per il fatto di essere parzialmente accomunato al primo dalla modalità tecnica operativa): v. sul punto L. Pascucci, sub art. 1833 c.c., in M. Sesta (a cura di), Codice delle successioni e donazioni, I, Milano, 2011, 2277. Peraltro, la norma de qua afferma soltanto il diritto di recesso in favore degli eredi del correntista defunto, con ciò confermando l’esclusione di una cesura immediata del rapporto contrattuale (evidenzia questo aspetto M. Martino, Contratto di conto corrente bancario, pluralizzazione successoria della parte contrattuale e attuazione del credito, in Contr. impr., 2014, 743).

[12] Propende per la continuazione del rapporto contrattuale, con subentro degli eredi del de cuius nella posizione contrattuale di quest’ultimo, G. Ferri, Conto corrente di corrispondenza, cit., 671; contra, ad es., G. Molle, I contratti bancari, cit., 561; sempre in quest’ultima direzione v. anche Cass. 21 aprile 2000, n. 5264, in Pluris, la quale, pur occupandosi di un rapporto bancario originariamente cointestato, afferma che la morte di uno dei correntisti determina l’estinzione del rapporto di mandato conferito dal de cuius alla banca (nel caso di specie per l’accredito dei ratei di pensione), nonché il venir meno del rapporto di conto corrente, seppur soltanto nei confronti del defunto e non del cointestatario, con la conseguenza che, dopo la morte del correntista, risultano privi di causa gli accrediti effettuati sul conto corrente in favore del cointestatario defunto e la banca può effettuarne il recupero. Per una sintetica analisi delle contrapposte posizioni v., ancora, L. Pascucci, sub art. 1833 c.c., cit., 2278.

[13] Tra le pronunce dell’Arbitro Bancario Finanziario, nel senso che il rapporto di conto corrente bancario prosegue anche dopo la morte del correntista, succedendovi gli eredi, v. Collegio di Roma, 6 aprile 2018, n. 7619 (Relatore M. Sciuto); contra, sulla base del rilievo che troverebbe applicazione l’art. 1722, co. 1, n. 4, c.c., con conseguente estinzione del rapporto contrattuale, v. Collegio di Milano, 31 marzo 2014, n. 1931 (Relatore E. Lucchini Guastalla). Sulla questione è poi intervenuto il Collegio di coordinamento che, aderendo alla prima delle due tesi sopracitate, ha enucleato il seguente principio di diritto: «il contratto di conto corrente bancario non si estingue automaticamente per effetto della morte del correntista, ma in conseguenza di una espressa manifestazione di volontà da parte degli eredi. Resta fermo che il comportamento della banca debba essere improntato a correttezza e buona fede anche nei confronti degli eredi» (Collegio di coordinamento, 6 novembre 2019, n. 24360, Relatrice E. Bargelli); tutte le decisioni dell’ABF sono consultabili sul sito www.arbitrobancariofinanziario.it. Per una disamina ragionata delle più significative decisioni dell’ABF fino al 2016, v. M. Martino, Conto corrente bancario cointestato e successione a causa di morte: la recente giurisprudenza dell’arbitro bancario finanziario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, 667 ss.

[14] A questa conclusione potrebbe giungersi aderendo, ad esempio, alla ricostruzione del conto corrente bancario come contratto innominato misto – con prevalenza del mandato sugli altri negozi – con la conseguenza che il rapporto dovrebbe essere disciplinato, in via principale, proprio dalla normativa sul mandato (v. per tutti G. Molle, I contratti bancari, cit., 493 s.). Tuttavia, più convincente appare la tesi che qualifica il conto corrente bancario come un contratto tipico, sebbene la scarna disciplina non ne dia una definizione e, al contempo, imponga l’innesto dei rapporti contrattuali che di volta in volta vengono in rilievo (deposito, finanziamento, etc.): v. S. Pagliantini – F. Bartolini, Il conto corrente bancario, cit., 1571 ss.; in argomento anche V. Santoro, sub 1852 c.c., cit., 14 ss. (il quale fornisce una ricostruzione delle diverse tesi prospettate sul punto). V., altresì, sub nota 1.

[15] In dottrina, v., per tutti, M. Martino, Contratto di conto corrente bancario, cit., 763. La soluzione è suffragata anche da alcune decisioni dell’Arbitro Bancario Finanziario: v., in particolare, Collegio Roma, 24 febbraio 2015, n. 1233 (Relatore P. Sirena), ove, a proposito della sorte del conto corrente bancario cointestato alla morte di uno dei correntisti, si è precisato che la norma di cui all’art. 1722, n. 4, c.c., «è fin dall’inizio inapplicabile (...) in quanto essa prende in considerazione l’ipotesi in cui il mandato sia stato conferito da un unico mandante». Nel caso di conto cointestato potrebbe (ma tale aspetto emerge solo in via ipotetica) semmai venire in rilievo l’art. 1726 c.c., riguardante la revoca del mandato collettivo ma applicabile al caso di morte di uno dei mandanti, come a suo tempo precisato dalla giurisprudenza della S.C. richiamata dall’ABF (così, infatti, Cass. 23 settembre 1964, n. 2404, massima in Giust. civ. Mass., 1964, 1123, secondo la quale «il mandato a compiere un opus perfectum non viene meno per morte di uno dei mandanti che si sono reciprocamente vincolati, o di uno dei mandatari, ma solo per il compimento dell’affare. Al mandante morto succedono nelle obbligazioni i suoi eredi; il mandatario defunto va semplicemente sostituito»). Ad ogni modo, anche applicando codesta norma si deve riconoscere la continuazione del rapporto contrattuale, con subentro degli eredi del cointestatario defunto.  

[16] V. ancora, su questo punto, M. Martino, Contratto di conto corrente bancario, cit., 764, il quale ben chiarisce che la chiusura del conto «avverrà di fatto solo quando si sia addivenuti ad un accordo di natura divisoria, di cui l’ordine, impartito alla banca, di chiusura del rapporto, con accredito dei saldi ovvero comunque con riscossione separata, costituirà esecuzione».


4. La legittimazione del cointestatario superstite a operare sul conto corrente bancario già cointestato anche al de cuius.

Posto che il decesso di uno dei correntisti non determina lo scioglimento del contratto di conto corrente bancario già intestato al de cuius e al cointestatario superstite, occorre ora soffermarsi su alcune implicazioni operative di non poco momento che ben possono verificarsi dopo la morte del cointestatario del conto.

Così, focalizzando l’attenzione sulla posizione del cointestatario superstite, egli potrebbe non avere vita facile per almeno due ragioni, l’una attinente al profilo della legittimazione a operare sul conto, l’altra relativa alla titolarità delle somme oggetto del conto medesimo.

Procedendo con ordine e indagando dapprima il profilo della legittimazione a disporre delle somme giacenti sul conto, si impone ancora una volta l’analisi di quell’unico dato legislativo di riferimento per la fattispecie che qui ci occupa, costituito dall’art. 1854 c.c.

Orbene, se è vero che la regola in parola consente a ciascun correntista di operare liberamente sul conto, ben possiamo affermare che – quantomeno sul piano prettamente civilistico – sotto questo profilo nulla cambia in caso di morte di uno dei correntisti, poiché, anche in tale ipotesi, l’intestatario superstite sarà legittimato a prelevare l’intero saldo del conto bancario[1].

La conclusione testé enunciata si impone in ragione della corretta applicazione che deve darsi alla seppur sintetica formulazione della norma qui evocata, che considera «creditori o debitori in solido» i cointestatari del conto, con conseguente richiamo ai criteri che governano la solidarietà nel rapporto obbligatorio, anche nel caso di morte di un condebitore o concreditore[2].

Inoltre, tale conclusione trova d’ordinario conforto in quella specifica pattuizione negoziale che – sulle orme dell’art. 9 delle condizioni generali emanate dall’ABI – gli istituti bancari sono soliti inserire all’interno dei contratti che stipulano con i propri clienti, la quale prevede che «nel caso di morte (...) di uno dei cointestatari del rapporto, ciascuno degli altri conserva il diritto di disporre separatamente sul rapporto»[3].

Tale clausola, che nella prassi viene, pressoché pedissequamente, riprodotta dagli istituti bancari nelle condizioni generali di contratto[4] va di fatto a consacrare, in favore del cointestatario superstite, un principio di libera disposizione delle somme giacenti sul conto, pur a seguito della morte dell’altro correntista[5].

Ma se, come detto, questa è la soluzione “civilistica”, v’è – in dottrina e non solo – chi acutamente osserva come non si possa in questo campo non tenere conto anche della normativa fiscale, la quale potrebbe impedire, perlomeno in taluni casi, il pagamento in favore del cointestatario superstite della quota del conto corrente caduta in successione[6].

La disposizione tributaria in questione imporrebbe, infatti, alla banca, al momento della morte del cointestatario del conto, di bloccare qualsiasi pagamento in favore del cointestatario superstite delle somme cadute in successione, fino all’esibizione della dichiarazione di successione comprensiva di tale rapporto bancario (nei casi, ovviamente, in cui l’esibizione di tale dichiarazione sia obbligatoria)[7].

Conseguentemente, come ancora una volta suggeriscono numerose pronunce dell’Arbitro Bancario Finanziario, si dovrebbe affermare che viene a crearsi d’imperio un vincolo di indisponibilità che copre le somme cadute in successione, impedendone il prelievo da parte del correntista superstite[8].

A ben vedere, su quest’ultimo aspetto, non v’è modo di obiettare: in favore dell’applicabilità al caso di specie della disposizione fiscale in parola milita l’evidente rilievo che essa è norma imperativa, come tale inderogabile per volere negoziale[9].

La questione è di non poco conto se si considera, quindi, che, alla morte di uno dei correntisti, il cointestatario superstite si trova verosimilmente al cospetto di una regola – quale è la suddetta clausola conforme all’art. 9 delle condizioni generali emanate dall’ABI – che espressamente gli consente il prelievo dell’intero saldo del conto e, al contempo, di altra regola pubblicistica, che di fatto è in grado di paralizzare il potere di disposizione di cui egli godrebbe sulla base delle norme civilistiche.

In tale caotico scenario, è evidente che l’interprete è chiamato a trovare una soluzione.

La corretta esegesi dell’art. 1854 c.c. non può non passare attraverso l’applicazione delle norme imperative che vengono in rilievo; al contempo, però, la preoccupazione di disattendere un precetto inderogabile non può oscurare le altre regole che governano il rapporto bancario.

Così, nel caso di specie, in virtù della presunzione di parità delle quote di ciascun correntista, desumibile dagli artt. 1854 c.c. e 1298 c.c., si dovrà dedurre che l’applicazione della norma fiscale non può determinare il blocco dell’intero conto bancario – come talvolta si è sostenuto[10] – ma, se sussistono i presupposti, impedisce soltanto l’utilizzo della quota che – sino a prova contraria – è caduta in successione, con la conseguenza che, nel caso più frequente di conto bancario già intestato a due persone, il vincolo di indisponibilità riguarderà solo la metà del saldo del conto, rimanendo il resto nella libera disponibilità del cointestatario superstite.

Inoltre, al di là dell’analisi di quegli aspetti che – de iure condendo – dovrebbero sollecitare un intervento legislativo per così dire riorganizzativo, un rimedio di ben più facile attuazione potrebbe scaturire già per mano degli istituti bancari. Se, infatti, è interesse degli stessi regolare in modo uniforme i rapporti contrattuali con i propri clienti, è quantomai opportuno che le pattuizioni negoziali da loro unilateralmente predisposte sulla base dei modelli di riferimento sopracitati tengano conto dell’intera disciplina che viene in rilievo in quest’ambito, ivi compresa la normativa fiscale, approntando, dunque – già a livello negoziale – un efficace coordinamento tra le due discipline, facilmente intellegibile da parte dei correntisti.

Ciò, naturalmente, non va a modificare le conclusioni cui siamo giunti, dal momento che la normativa fiscale risulterà in ogni caso applicabile, in quanto imperativa; tuttavia, si potrebbe quantomeno ottenere un utile risultato in un’ottica deflattiva di potenziali contenziosi che, anche per questa ragione, facilmente si originano in sede successoria tra il cointestatario superstite e gli eredi del cointestatario defunto[11].

 

[1] Anche tale aspetto è stato chiarito in giurisprudenza; v., ad es., Cass. 3 giugno 2014, n. 12385, in Pluris, ove si precisa che «nel caso di deposito bancario intestato a più persone, con facoltà per le medesime di compiere, sino all’estinzione del rapporto, operazioni, attive e passive, anche disgiuntamente, si realizza una solidarietà dal lato attivo dell’obbligazione che sopravvive alla morte di uno dei contitolari. Ne deriva che il contitolare ha diritto di chiedere, anche a seguito del decesso dell’altro, l’adempimento dell’intero saldo del libretto di deposito a risparmio e l’adempimento così conseguito libera la banca verso gli eredi dell’altro contitolare» (nello stesso senso anche Cass. 29 ottobre 2002, n. 15231, in Corr. giur., 2003, 613 ss., con nota di A. Jarach, Libretto bancario cointestato e morte di un contitolare).

[2] Giova rimarcare che trova qui applicazione il principio in materia di obbligazioni solidali enucleato all’art. 1295 c.c., dal quale può trarsi la conseguenza che, nell’obbligazione solidale attiva, alla morte di un concreditore, il concreditore superstite continuerà ad avere il diritto ad esigere l’intero (v., per tutti, C. M. Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, Milano, rist. agg. 2019, 751).

[3] Si fa riferimento alle condizioni generali relative al rapporto banca-cliente, di cui all’allegato A della circ. Abi 25 febbraio 2005. L’art. 9 dell’allegato contempla proprio il caso di rapporto bancario cointestato a più persone con facoltà di utilizzo disgiunto stabilendo che «quando il rapporto è intestato a più persone con facoltà per le medesime di compiere operazioni separatamente, le disposizioni relative al rapporto medesimo possono essere effettuate da ciascun intestatario separatamente con piena liberazione della banca anche nei confronti degli altri cointestatari (...)». In particolare, l’art. 9.3 precisa che «nel caso di morte o di sopravvenuta incapacità di agire di uno dei cointestatari del rapporto, ciascuno degli altri conserva il diritto di disporre separatamente sul rapporto. Analogamente lo conservano gli eredi del cointestatario, che sono però tenuti ad esercitarlo tutti insieme, ed il legale rappresentante dell’incapace».

[4] Mettono in luce questo aspetto, tra gli altri, M. Martino, Contratto di conto corrente bancario, cit., 739 s. e 763 s., nonché R. Mazzariol, Conto corrente cointestato, cit., 1200.

[5] Per tutti i cointestatari e gli eventuali eredi è comunque fatta salva la facoltà di opposizione, anche con lettera raccomandata, con la conseguenza che, in tal caso, la banca dovrà pretendere il concorso di tutti (v. art. 9.4, allegato A della circ. Abi 25 febbraio 2005).

[6] Il riferimento corre all’art. 48, d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (T.U. delle imposte sulle successioni e donazioni), il cui co. 4 così dispone:

«Le aziende e gli istituti di credito, le società e gli enti che emettono azioni, obbligazioni, cartelle, certificati ed altri titoli di qualsiasi specie, anche provvisori, non possono provvedere ad alcuna annotazione nelle loro scritture né ad alcuna operazione concernente i titoli trasferiti per causa di morte, se non è stata fornita la prova della presentazione, anche dopo il termine di cinque anni di cui all’art. 27, comma 4, della dichiarazione della successione o integrativa con l’indicazione dei suddetti titoli, o dell’intervenuto accertamento in rettifica o d’ufficio, e non è stato dichiarato per iscritto dall’interessato che non vi era obbligo di presentare la dichiarazione».

Per un commento alla norma fiscale in esame, v., all’indomani della sua introduzione ed anche con richiamo ai precedenti orientamenti, E. Altana – L. Silvestri, L’imposta sulle successioni e donazioni nel Testo Unico, Milano, 1991, 609 ss. V. pure A. Uricchio, sub art. 48, D. Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, in N. D’Amati (a cura di), Commento al Testo Unico delle imposte sulle successioni e donazioni, Padova, 1996, 400 ss. V., inoltre, M. Greggi, sub art. 48, D. Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, in M. Sesta (a cura di), Codice delle successioni e donazioni, II, cit., 508 ss. Come noto, l’imposta sulle successioni e donazioni venne dapprima soppressa (fatta salva una residuale persistenza, relativamente a limitate ipotesi) e poi reintrodotta dal d.l. 3 ottobre 2006, n. 262: su questi aspetti, nonché per un breve commento al citato d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, v. A. Benazzi, La reintroduzione della imposta sulle successioni e donazioni, in G. Bonilini – M. Confortini (a cura di), Codice commentato delle successioni e donazioni, Torino, 2011, 2154 ss. In dottrina, si soffermano su questi profili P. Sirena, Cointestazione dei conti correnti bancari, cit., 413 s., nonché E. Minervini, In tema di conto corrente bancario, cit., 753 ss., e Id., Il conto corrente bancario cointestato a firme disgiunte e la morte del cointestatario, in Dir. succ. fam., 2015, 733 ss. Sulla questione in esame si consideri, infine, l’orientamento dell’Arbitro Bancario Finanziario (su cui v. infra, nel testo, nonché alle note seguenti).

[7] Su questo punto v. anche C. Favilli, Fattispecie controverse, cit., 203 s.

[8] Si tratta di un aspetto rimasto per alcuni anni controverso e poi chiarito dal Collegio di coordinamento dell’ABF con la decisione 18 ottobre 2013, n. 5305 (relativo alla cointestazione di un libretto di deposito a risparmio) e ribadito molte volte, anche con specifico riferimento alla cointestazione del conto corrente bancario (tra le pronunce più recenti, v. Collegio di Torino, 9 giugno 2020, n. 10350). Per un inquadramento della questione, con una chiara e sintetica analisi delle posizioni assunte negli anni dall’ABF, v. E. Minervini, In tema di conto corrente bancario, cit., 755 s.

[9] Rammenta il carattere inderogabile della norma anche E. Minervini, In tema di conto corrente bancario, cit., 753. Sul punto v. anche P. Sirena, Cointestazione dei conti correnti bancari, cit., 414.

[10] V., ad es., nella giurisprudenza dell’ABF, Collegio di Roma, 18 febbraio 2016, n. 1426 (questione messa in luce da E. Minervini, In tema di conto corrente bancario, cit., 756).

[11] Quest’ultimo aspetto emerge chiaramente proprio dal contenzioso in seno all’ABF, avente spesso ad oggetto questo profilo (v., ad es., la già citata pronuncia Collegio di Torino, 9 giugno 2020, n. 10350).


5. La titolarità delle somme giacenti sul conto corrente già cointestato al correntista superstite e al correntista defunto.

La seconda questione che il correntista superstite deve essere pronto a fronteggiare attiene alla titolarità delle somme oggetto del conto bancario.

Come già abbiamo evidenziato[1], nei rapporti tra i singoli cointestatari le quote di ciascuno si presumono uguali se non risulta diversamente, sicché la parti ben possono provare che le somme appartengono (o appartenevano) all’uno o all’altro correntista in misura differente rispetto a quanto risulterebbe in forza della citata presunzione.

Nell’ipotesi di morte di uno dei correntisti, il cointestatario superstite potrebbe allora trovarsi facilmente esposto alle pretese degli eredi del cointestatario defunto, proprio in relazione alla titolarità delle somme depositate sul conto cointestato.

Orbene, tra le questioni che sovente emergono in sede successoria, merita qui un accenno almeno una problematica che ha riguardato plurimi arresti giurisprudenziali e raccolto altresì un certo interesse in letteratura[2].

Già da tempo, infatti, si è rilevato che la cointestazione del conto corrente bancario ben potrebbe in realtà “nascondere” una donazione indiretta effettuata da un cointestatario nei confronti dell’altro e avente ad oggetto (almeno) la metà delle somme depositate sul conto.

In taluni casi, inoltre, si potrebbe arrivare ad affermare che la cointestazione disveli, già di per sé, una donazione indiretta da parte di un correntista e in favore dell’altro, sulla base di alcuni indici – quale è ad esempio il legame affettivo tra i soggetti coinvolti – in virtù dei quali l’intento liberale dovrebbe darsi per presunto[3].

Seguendo questa prospettazione, basterebbe la cointestazione a far presumere l’appartenenza delle somme depositate a tutti i cointestatari, dandosi per scontata la sussistenza di una o più donazioni da parte dell’uno in favore dell’altro. Incomberebbe, invece, su chi ha versato somme personali sul conto comune l’onere di provare l’assenza di uno spirito di liberalità, dimostrando che la cointestazione e la successiva alimentazione del conto con somme proprie fossero motivate da diverse finalità.

Tuttavia, tale ricostruzione non può essere condivisa per molteplici ragioni.

Come detto, gli arresti giurisprudenziali che hanno accolto la predetta soluzione[4] poggiano le loro basi sul profondo vincolo solidaristico che unisce i cointestatari e che, dunque, denoterebbe in modo inequivoco l’intento liberale.

Ma, oltre all’evidente considerazione che non vi è alcun riscontro normativo, né nella disciplina della donazione, né in quella dei contratti bancari, che consenta di ritenere che la decisione di cointestare un conto corrente bancario le cui somme appartengono a uno solo dei correntisti implichi di per sé – almeno in via presuntiva – una donazione (indiretta), vi sono altri aspetti – legati perlopiù alle ragioni per le quali avviene la cointestazione – che portano ad escludere l’inquadramento della fattispecie nell’alveo del fenomeno donativo.

Invero, non può negarsi che nel contesto sociale attuale affiorino, con importanza sempre crescente, i c.d. strumenti di pianificazione successoria, mediante i quali i soggetti regolano il passaggio intergenerazionale di ricchezze anche attraverso istituti giuridici diversi da quelli del diritto successorio.

In questa prospettiva, la decisione di un soggetto (originario correntista) di cointestare anche ad altre persone il conto bancario da lui esclusivamente, o prevalentemente, alimentato, potrebbe senz’altro costituire un mezzo di trasferimento di denaro inter vivos, finalizzato a esplicare i suoi effetti anche dopo la morte del correntista titolare delle somme depositate.

Tuttavia, ciò non può essere di per sé indice di uno spirito di liberalità in capo all’originario cointestatario, se si tiene nella dovuta considerazione il fatto che la cointestazione può avvenire per le più diverse ragioni, anche di carattere meramente gestorio[5].

Chi scrive, quindi, condivide la tesi che la cointestazione sia di per sé un’operazione neutra, che può celare le più diverse finalità, tra le quali vi può essere certamente anche quella donativa[6], sempre però che sia fornita prova in tal senso.

In questa direzione muove, ormai in modo compatto, anche la giurisprudenza di legittimità, rimarcando che la cointestazione del conto bancario può essere indice di una donazione indiretta, purché risulti accertata l’esistenza del c.d. animus donandi, ovverosia si riscontri che l’effettivo proprietario del denaro non aveva, al momento della cointestazione, altro scopo se non quello di liberalità[7].

Da questo punto di vista, la casistica sviluppatasi – anche negli ultimi anni – in seno alle corti di merito offre una prospettiva privilegiata, disvelando le innumerevoli difficoltà legate all’accertamento dell’animus donandi, che rendono siffatto onere probatorio particolarmente gravoso per il correntista superstite[8].

Il contenzioso apertosi innanzi a diversi Tribunali tra il cointestatario superstite e gli eredi del cointestatario defunto evidenzia infatti che difficilmente si riscontrano, nelle fattispecie concrete, elementi che consentano, in modo inequivoco, di ritenere integrata la prova dello spirito di liberalità da parte del correntista titolare delle somme in favore dell’altro[9].

Conseguentemente, se gli eredi del cointestatario defunto riescono a provare che il conto in questione era alimentato (in tutto o in buona parte) dal loro dante causa, il cointestatario superstite sarà verosimilmente destinato a soccombere, risultando per lui alquanto complesso provare che la cointestazione del conto fosse animata da spirito di liberalità del correntista defunto; ciò senza contare il fatto che sul correntista superstite, quand’anche vittorioso, potrebbe poi abbattersi la scure dell’eventuale azione di riduzione da parte dei legittimari pretermessi[10].

Peraltro, se per le suesposte ragioni la dimostrazione in parola risulta particolarmente difficoltosa, l’onere probatorio potrebbe farsi ancor più gravoso a causa di un ulteriore elemento da più parti sollevato.

Alcuni arresti, tanto di merito quanto di legittimità, precisano infatti che, per l’accertamento in ordine alla sussistenza dell’animus donandi, la prova non potrebbe circoscriversi al momento della cointestazione – stante l’inammissibilità, nel nostro ordinamento, ai sensi dell’art. 771 c.c., di una donazione avente ad oggetto beni futuri – dovendosi, piuttosto, provare che lo spirito di liberalità assisteva ogni singolo versamento di denaro sul conto comune[11].

Ma a ben vedere siffatto assunto presta il fianco a più di una censura e non può, dunque, essere condiviso.

Anche a voler tacer del fatto che, per opinione largamente diffusa, il divieto di cui all’art. 771 c.c. non opererebbe per le donazioni indirette[12], altri aspetti rendono ab origine inconferente il richiamo a tale norma.

La ratio della previsione in parola è tradizionalmente identificata nel tentativo di porre freno a una eccessiva prodigalità del donante, arginando il rischio del compimento di liberalità avventate, situazione che può verificarsi quando, a causa dell’inesistenza del bene, è impedito al donante di rendersi pienamente conto del significato giuridico, economico e sociale della propria disposizione[13].

Ma nel caso del rapporto bancario cointestato siffatta circostanza non sembra ricorrere: il fine dell’art. 771, co. 1, c.c. è quello di impedire il compimento di un’operazione economica che sorge ex novo e ha ad oggetto beni che non sono nel patrimonio del donante. La cointestazione, invece, come da più parti rilevato, identifica una vicenda per sua natura dinamica, la quale presuppone i successivi versamenti e riguarda necessariamente tanto il denaro già depositato quanto quello depositando[14].

Ecco dunque che, anche da questa prospettiva, la predetta norma non può ritenersi applicabile al caso di specie e non dovrebbe poter costituire un ostacolo per la prova inerente all’animus donandi.

Almeno sotto questo profilo, dunque, l’onere probatorio del cointestatario superstite si dovrebbe alleggerire poiché, una volta che sia stata fornita la prova dello spirito di liberalità al momento della cointestazione, è ragionevole presumere che l’animus donandi abbia assistito anche tutti i successivi versamenti di denaro compiuti dal correntista donante, in quanto strutturalmente e causalmente collegati alla cointestazione stessa.

 

[1] V. sopra, sub § 2.

[2] V. infra, nel testo, nonché alle note seguenti.

[3] Secondo queste direttrici si è sviluppata taluna giurisprudenza del recente passato: v., ad es., Trib. Palermo, 9 luglio 2001, in Fam. dir., 2002, 306 ss. (con nota critica di L. Saporito, Conti correnti cointestati, valori mobiliari e comunione legale dei coniugi). La pronuncia, infatti, occupandosi della cointestazione del conto bancario tra coniugi in regime di comunione legale dei beni, ha ritenuto che «l’utilizzazione degli strumenti negoziali dell’apertura di un conto corrente cointestato e dell’accensione di diverse gestioni patrimoniali, anche cointestate con facoltà disgiunte» depongano per l’esistenza di un inequivocabile intento liberale. Altri arresti sono giunti alla medesima conclusione in ragione del vincolo affettivo che legava i cointestatari (v., ad es., Trib. Ferrara, 16 maggio 1997, n. 316, annotata da A. Rizzieri, in Studium iuris, 1997, 860 ss., secondo la quale, nel comportamento del convivente more uxorio, che apra un conto corrente bancario cointestandolo all’altro convivente e vi effettui successive rimesse – ed eventualmente se ne serva anche per acquisti di titoli obbligazionari sempre cointestati –si deve ravvisare una donazione remuneratoria indiretta sottoposta alla condizione si praemoriar, cioè subordinata alla premorienza del donante).

[4] V. sub nota precedente.

[5] La casistica dimostra, ad es., che sovente una persona (perlopiù anziana) decide di cointestare – al momento dell’apertura del conto o anche successivamente – il proprio conto bancario ad un’altra persona (spesso un nipote o, comunque, uno stretto familiare) semplicemente per la gestione delle c.d. operazioni di routine (ritiro della pensione, ecc.).

[6] V. assai chiaramente I. Riva, Il conto corrente bancario cointestato nel quadro delle donazioni indirette, in Corr. giur., 2018, 195.

Sul fatto che la cointestazione del conto corrente bancario possa integrare una donazione indiretta, v., in giurisprudenza, anche Cass. S.U., 27 luglio 2017, n. 18725, pubblicata in Not., 2017, 569 ss., con nota di G. Iaccarino, Donazione con bonifico bancario e onere della forma dell’atto pubblico, e commentata, altresì, da An. Fusaro, Le Sezioni Unite rimarcano la differenza tra liberalità indirette e donazioni di valore non modico prive della forma pubblica, in Riv. dir. civ., 2017, 1336 ss., ove le S.U., occupandosi della qualifica (in termini di donazione diretta o indiretta) dell’atto di trasferimento di strumenti finanziari dal conto di un soggetto (beneficiante) a quello di un altro (beneficiario), ne hanno messo in luce le differenze rispetto alla cointestazione del deposito bancario, «suscettibile [quest’ultima] di integrare gli estremi di una donazione indiretta in favore del cointestatario con la messa a disposizione, senza obblighi di restituzione o di rendiconto, di somme di denaro in modo non corrispondente ai versamenti effettuati. Solo nella cointestazione, infatti, si realizza una deviazione in favore del terzo degli effetti attributivi del contratto bancario».

[7] Così, ex multis, Cass. 28 febbraio 2018, n. 4682, in Contr., 2018, 559 ss., con nota di D. Ripamonti, Donazioni indirette: la prova dell’animus donandi nella cointestazione di conto corrente bancario, in Riv. not., 2018, 789 ss., con nota di G. Munari, Il conto corrente cointestato quale forma di liberalità non donativa, in Fam. dir., 2018, 745 ss., con nota di T. Bonamini, Intestazione a più persone di conto corrente bancario e prova dell’animus donandi, nonché in C. Granelli (a cura di), I nuovi orientamenti, cit., 118 ss., con nota di M. Mattioni, Liberalità ed expressio animi; la pronuncia, sulla scorta di numerosi arresti precedenti (tra i quali v. Cass. 12 novembre 2008, n. 26983, in Fam. pers. succ., 2009, 968 ss., con nota di A. Ambanelli, Cointestazione di libretto di deposito a risparmio, accertamento dell’intento liberale e donazione indiretta, e, in senso conforme, Cass. 14 gennaio 2010, n. 468, in Giust. civ., 2011, I, 527 ss.), ribadisce che «la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, è qualificabile come donazione indiretta qualora detta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari, rilevandosi che, in tal caso, con il mezzo del contratto di deposito bancario, si realizza l’arricchimento senza corrispettivo dell’altro cointestatario: a condizione, però, che sia verificata l’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità». Nello stesso senso anche numerose pronunce di merito (v., ad es., Trib. Ferrara, 4 aprile 2018, nonché Trib. Potenza, 28 luglio 2017, entrambe in Pluris).

[8] V., ad es., Trib. Mondovì, 15 febbraio 2010, in Fam. dir., 2010, 709 ss., con nota di A. Cordiano, Donazione indiretta: il caso della cointestazione di conto corrente bancario, e Trib. Ivrea, 8 luglio 2016, in Corr. giur., 2018, 190 ss., con nota di I. Riva, Il conto corrente bancario cointestato, cit., per l’analisi delle quali sia consentito rinviare a S. Scola, Contratti bancari e profili successori, in S. Scola – M. Tescaro (a cura di), Casi controversi in materia di diritto delle successioni, I, cit., 472 ss.

[9] Così, ad esempio, in Trib. Ivrea, 8 luglio 2016, cit., risulta che, nonostante l’istruttoria di causa, nella quale era stato sentito quale teste anche il funzionario di banca presente al momento dell’apertura del conto corrente cointestato tra un’anziana signora (poi deceduta) e uno dei nipoti, la prova dell’animus donandi non era risultata integrata (in particolare il teste, alla precisa domanda volta a indagare la volontà della de cuius – specialmente in relazione ad uno spirito di liberalità animato da riconoscenza nei confronti del nipote – non ha saputo dare alcuna risposta a riguardo, affermando di non ricordare nulla).V., però, anche Trib. Ferrara, 4 aprile 2018, cit., la quale, occupatasi del conto bancario già cointestato a due persone conviventi more uxorio (unite da matrimonio solo religioso) e richiamando il succitato orientamento di legittimità che impone la prova dello spirito di liberalità (v. ancora Cass. 12 novembre 2008, n. 26983, cit., nonché Cass. 14 gennaio 2010, n. 468, cit.), ha ritenuto che nel caso di specie l’animus donandi fosse provato «da una serie di elementi indiziari, gravi precisi e concordanti che rivelano l’intento di arricchire il B. da parte della compagna» (invero, in questo caso, la prova dell’animus donandi è andata a favore degli eredi del de cuius, poiché, nonostante fosse emerso che il conto cointestato era stato in buona parte alimentato dalla cointestataria superstite, i suddetti elementi indiziari hanno portato a ritenere integrata la prova dello spirito di liberalità da parte di quest’ultima in favore del de cuius).

[10] V. A. Musto, in Il conto corrente cointestato: da fattispecie «tipica» a «tipologia» di liberalità non donativa?, in Nuova giur. civ. comm., 2012, II, 559; sul punto anche E. Minervini, In tema di conto corrente bancario, cit., 753.

[11] In questo senso si esprime la copiosa giurisprudenza di merito e legittimità. Si veda in proposito Cass. 16 gennaio 2014, n. 809, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 594 ss., con nota di E. Tomat, Versamenti in conto corrente cointestato, cit., nonché in Fam. dir., 2015, 121 ss., con nota di V. Alvisi, Conto corrente a firme e disponibilità disgiunte, titolarità delle somme e ripartizione dell’onere della prova, la quale, oltre a conformarsi all’orientamento stabile della S.C. (che esclude, in simili fattispecie, la sussistenza di una donazione indiretta tra cointestatari, salvo prova del c.d. animus donandi) evidenzia che, in ogni caso, la donazione non può riguardare indistintamente tutte le somme già versate e da versarsi, anche successivamente, sul conto corrente bancario, poiché non è ammissibile nel nostro ordinamento la donazione di beni futuri. Più precisamente, la S.C., cassando la sentenza impugnata con rinvio, ha precisato che «avuto riguardo alla nullità della donazione di beni futuri sancita dall’art. 771 c.c., la Corte di merito ha errato nel ricondurre alla cointestazione del conto la donazione del cinquanta per cento delle somme versate nel tempo dal D. (depositante) sul conto, in quanto l’animus donandi non poteva essere riconosciuto sulla sola base di detta cointestazione. Il giudice di secondo grado avrebbe dovuto invece motivare sullo spirito di liberalità che assisteva ogni versamento». Nello stesso senso v., ancora, Trib. Roma, 6 giugno 2017, n. 11451, cit., nonché Trib. Mondovì, 15 febbraio 2010, cit.

[12] Mette in luce assai persuasivamente questo aspetto anche I. Riva, Il conto corrente bancario cointestato, cit., 197; in argomento v. pure M. Zinno, sub art. 771 c.c., in E. del Prato (a cura di), Donazioni, in Commentario del Codice Civile e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, Bologna, 2019, 97.

[13] Sul punto v. M. Zinno, sub art. 771 c.c., cit., 93 ss.; v., altresì, anche per un inquadramento storico della questione, A. Palazzo, sub art. 771 c.c., in Il Codice Civile. Commentario, Le donazioni, diretto da P. Schlesinger, Milano, 2000, 91 s.

[14] V. F. Badolato, L’intento di liberalità nella cointestazione di un conto corrente bancario, in Giur. mer., 2010, 1784 ss., nonché I. Riva, ibidem. In senso critico all’applicazione dell’art. 771 c.c. alla fattispecie in esame, v. altresì A. Musto, Il conto corrente cointestato, cit., 556; v. pure F. Zanovello, Liberalità e operazioni bancarie, in Vita not., 2018, 1486, secondo la quale «ancorché sia imprescindibile un’indagine sulla sussistenza dell’animus donandi quale fondamentale elemento che contraddistingue gli atti di liberalità, sembra opportuno circoscrivere l’indagine al momento della cointestazione».