Il saggio affronta il tema dell’illecito endofamiliare commesso dal genitore che colpevolmente privi il figlio dell’assistenza morale ed affettiva. Dopo un breve excursus storico relativo all’evoluzione normativa del rapporto genitori-figli, l’indagine si sofferma specificamente sul problema della natura della responsabilità, e, su quello, di grande rilevanza pratico-applicativa, dei criteri di quantificazione del danno non patrimoniale.
The essay deals with the issue of the intra-family crime committed by the parent who culpably deprives the child of moral and emotional assistance. After a brief historical excursus on the normative evolution of the parent-child relationship, the investigation focuses on the problem of the nature of responsibility, and on that, of great practical-applicative importance, of the criteria for quantifying the non-pecuniary damage.
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Vincenza Cinzia Meccola - Illecito endofamiliare e danno da privazione del rapporto affettivo genitorefiglio
1. Evoluzione storica: dalla concezione di immunità familiare al riconoscimento dei “nuovi danni”. - 2. L’evoluzione del rapporto genitori-figli: dalla potestà alla responsabilità genitoriale. - 3. L’art. 709-ter c.p.c. come indice del riconoscimento normativo del diritto del minore a preservare la continuità del rapporto personale con entrambi i genitori anche nella crisi della famiglia. La sanzione pecuniaria prevista dal II comma come danno punitivo. - 4. Violazione dei doveri genitoriali e paradigmi risarcitori di diritto comune. - 5. Il dibattito sulla natura giuridica della responsabilità da illecito endofamiliare per lesione del diritto al rapporto parentale. - 6. L’irrisolto problema del quantum del risarcimento.
Con l’espressione “illecito endofamiliare” si fa riferimento ad un illecito commesso da un familiare ai danni di un altro soggetto appartenente al medesimo nucleo familiare. Nell’originaria impostazione codicistica, la comunità familiare veniva concepita quale organismo organizzato gerarchicamente e finalizzato al perseguimento di interessi superindividuali e finanche pubblicistici, sicché la relativa disciplina era precipuamente orientata a salvaguardare l’unità familiare sino a sacrificare le libertà ed i diritti fondamentali del singolo componente, in nome di un asserito “interesse superiore”[1]. Il principio di immunità ha condizionato per svariato tempo sia i rapporti fra i coniugi sia i rapporti parentali: per quel che concerne i primi, è noto che il comportamento lesivo di un coniuge ai danni dell’altro coniuge legittimava il coniuge danneggiato a promuovere esclusivamente la domanda di separazione o divorzio. A tale conclusione si era giunti sul presupposto che il diritto di famiglia fosse da considerarsi lex specialis rispetto alla regola generale di cui all’art. 2043 c.c., sicché la risoluzione di tutte le problematiche afferenti il diritto di famiglia andava individuato nell’ambito del libro I del codice civile. Le progressive innovazioni legislative - si pensi all’introduzione dell’istituto del divorzio nel 1970 ed alla riforma del diritto di famiglia nel 1975 - hanno radicalmente mutato gli assetti e le dinamiche all’interno del nucleo famigliare, sicché, in piena armonia con i principi costituzionali, tutti i suoi componenti, in perfetta uguaglianza e pari dignità, sono legittimati ad aspirare al totale riconoscimento e alla realizzazione dei propri diritti. Sulla scorta di tali trasformazioni, la dottrina e la giurisprudenza hanno così iniziato a riconoscere l’esistenza di “nuovi danni” all’interno della famiglia, anche in considerazione della centralità assunta dalla persona nel sistema giuridico, sia come singolo, sia nell’ambito delle formazioni sociali in cui si sviluppa la sua personalità, prima fra tutte la famiglia. Una considerevole svolta nell’ingresso della responsabilità civile anche nel contesto familiare è da attribuirsi all’impulso della giurisprudenza dei primi anni 2000 che, ampliando l’ambito delle [continua ..]
Lento e progressivo è stato il mutamento del rapporto di filiazione per effetto della disciplina costituzionale e della riforma del diritto di famiglia del 1975: entrambi gli interventi normativi hanno contributo al superamento dei tradizionali principi autoritari e gerarchici vigenti nell'ambiente familiare. Precedentemente alla entrata in vigore della riforma, l'esercizio dello ius corrigendi, ritenuto necessario ai fini educativi, autorizzava, in forza dell'abrogato art. 319 c.c., il genitore a reagire finanche violentemente nei riguardi della prole, “rea di una cattiva condotta”, creandosi, così, in capo al genitore-danneggiante, un'immunità per tutti gli atti dannosi provocati, il cui unico limite era rappresentato dalla sussistenza del pericolo di malattia[1]. Lo stesso concetto di educazione va oggi improntato ai principi costituzionali del rispetto della persona umana e dello sviluppo della personalità del minore. Ne consegue che l'uso di mezzi di correzioni violenti legittima una richiesta risarcitoria da parte del figlio danneggiato nei riguardi del genitore, alla stregua di un atto lesivo in cui il danneggiato risulti essere un terzo estraneo. Cambiamenti significativi nella disciplina del rapporto di filiazione sono stati apportati anche dal recente D.Lgs. 154/2013, in attuazione della L. 219/2012, che, oltre ad aver eliminato la distinzione tra figli naturali e figli legittimi[2], ha modificato il Titolo IX del Libro I del codice civile, ora intitolato “Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri dei figli”[3]. In un diritto di famiglia, già da tempo “puerocentrico”[4], l'espressione "responsabilità genitoriale”, in luogo della previgente “potestà”, risulta indice di una trasformazione del ruolo del genitore concepito non più come soggetto che esercita un potere-dovere in posizione di preminenza, bensì come individuo garante della collaborazione alla formazione del figlio[5], interesse del quale prevale ed è da accertare caso per caso, tanto che si è giunti a discorrere di best interests of that child [6], ai quali garantire effettività .[7] Si è dunque osservato che il ruolo dei genitori “non è di supremazia — in funzione dell'attuazione del dovere — ma un vero e proprio [continua ..]
L’art. 709-ter c.p.c. come indice del riconoscimento normativo del diritto del minore a preservare la continuità del rapporto personale con entrambi i genitori anche nella crisi della famiglia. La sanzione pecuniaria prevista dal II comma come danno punitivo. Un indiretto, ma sicuro indice normativo della cogenza del diritto/dovere del genitore ad un rapporto continuativo con la prole si ricava dall’art. 709 c.p.c., introdotto dalla legge 8 febbraio 2006. n. 54. Tale disposizione, collocata nel capo del codice di rito dedicato alla separazione personale tra coniugi, ha un ambito di applicazione più ampio comprendente anche i procedimenti di scioglimento e di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio e i procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati. Dalla dottrina e dalla giurisprudenza sono state ricondotte all’ambito di applicazione dell’art. 709 ter c.p.c. varie fattispecie, fra cui i contrasti derivanti da una diversa interpretazione attribuita da ciascuno dei genitori ai provvedimenti precedentemente adottati in sede giudiziale[1], ovvero le istanze volte ad ottenere rimedi avverso il comportamento di un genitore che abbia assunto decisioni nell’interesse del figlio all’insaputa dell’altro coniuge[2]. La norma, sin dallo sua emanazione, ha sollevato critiche[3] atteso che si osservava come venissero individuate, in modo assai approssimativo, sia le fattispecie sanzionate che le misure afflittive, con la conseguenza di attribuire al giudicante una eccessiva discrezionalità nella concreta applicazione delle sanzioni[4]. E’ stato, altresì, osservato come la disposizione de qua sia applicabile all'ottemperanza dei provvedimenti a tutela dei diritti personali; ma un filone giurisprudenziale ha interpretato estensivamente le norme, consentendo il ricorso alle misure coercitive di cui agli artt. 709-ter e 614-bis c.p.c. (quest'ultimo ante novella del 2015) anche nel caso di violazione degli obblighi economici, quando in essi siano ravvisabili implicazioni relative a diritti personali[5]. La disposizione normativa de qua sarebbe applicabile, in generale, a tutti quei comportamenti che, anche indirettamente, mirino ad ostacolare o ad eludere le disposizioni non patrimoniali relative ai figli, contenute nelle sentenze di separazione o di divorzio, nel verbale di separazione consensuale omologato o nell'ordinanza [continua ..]
In quel processo di lenta erosione, sulla quale ci si è già soffermati in premessa, della per lungo tempo dichiarata e praticata impermeabilità della famiglia alle comuni regole di responsabilità civile, le prime fondamentali tappe si sono registrate in tema di rapporti tra coniugi. Una prima cauta apertura verso l’ammissibilità dell’illecito endofamiliare si segnala solo a metà degli anni 90 allorquando la Suprema Corte,[1] escludendo la rilevanza aquiliana ex art. 2043 c.c. dell’addebito della separazione “di per sé considerato”, subordinava la risarcibilità di eventuali danni alla circostanza che i fatti che avevano determinato l’addebito avessero integrato gli estremi dell’illecito ipotizzato dalla clausola generale di responsabilità di cui all’art. 2043 c.c. L’orientamento in questione è stato, altresì, confermato, agli albori del nuovo secolo, dalla giurisprudenza di legittimità[2], la quale, nel riconoscere la non esaustività delle specifiche sanzioni scaturenti dalla violazione dei dettami propri del sistema familiare e l’applicabilità, anche in tale ambito, di rimedi di carattere più generale[3], ne ha fatto estensione anche al caso di violazione dei doveri genitoriali, riconoscendo il diritto al risarcimento del danno (sub specie di danno esistenziale) del figlio cui il padre aveva insistentemente negato i mezzi di sussistenza . A far data da tale momento la storia del risarcimento del figlio deprivato dell’assistenza morale del genitore si intreccia a strette maglie con il tormentato cammino del danno non patrimoniale e quello del rapporto, o meglio del non rapporto, genitore-prole diviene dunque campo di applicazione privilegiato del principio secondo cui la lesione di diritti costituzionalmente protetti, al di là di ogni esplicita previsione di legge, costituisce fonte di danni non patrimoniali risarcibili ai sensi dell'art. 2059 c.c. Nell’attuale sistema, al cui vertice svetta la Costituzione - che all’art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo - il danno non patrimoniale deve essere dunque, inteso, come una categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi di lesione di un valore afferente alla persona[4] non connotato da rilevanza economica[5]. Una tappa fondamentale nel riconoscimento di una più ampia nozione [continua ..]
La questione della natura della responsabilità da illecito endofamiliare, apparentemente pacifica in giurisprudenza[1], che la riconduce nell’ambito della responsabilità aquiliana, costituisce al contrario oggetto di un vivace dibattito dottrinale, nell’ambito del quale rilievo centrale assume la distinzione tra la nozione di obbligazione, caratterizzata dall’immanente requisito della patrimonialità, e quella di dovere e/o obbligo in senso stretto[2]. Secondo un certo orientamento, il rapporto familiare esulerebbe dalle dinamiche proprie del rapporto obbligatorio[3], caratterizzato dal principio della determinazione patrimoniale e quantitativa della prestazione[4], nonché dalla certezza del “quantum” che il debitore deve corrispondere al creditore[5]; ex adverso, l'indeterminatezza delle “prestazioni” nei rapporti non patrimoniali implica una asimmetria strutturale[6], discendente, appunto, dalla mancata individuazione a priori della misura dei diritti e degli obblighi imposti alle parti nonché dalla differente situazione sostanziale, ma in taluni casi anche formale, in cui esse versano[7]. Inoltre, a differenza di quanto può accadere nei rapporti patrimoniali, in tutti quelli di carattere non patrimoniale, come è particolarmente evidente nei rapporti familiari, la “prestazione” (non patrimoniale) può essere eseguita soltanto dal soggetto obbligato, non essendo possibile “l'adempimento” del terzo (ex art. 1180 c.c.) né la sostituzione della persona del “debitore” (ex artt. 1268 ss. c.c.); a ciò si aggiunga che l'interesse del “creditore” non può trovare la sua realizzazione in via coattiva[8]. Si tratta, tuttavia, di una obiezione che non giustificherebbe una conclusione in termini di totale estraneità dei rapporti in parola alla struttura minima e alla relativa disciplina dei rapporti obbligatori[9] potendosi essa replicare con riferimento ad alcune specie di obbligazioni, in particolare per quelle di fare caratterizzate dall'intuitus personae[10]. Si è altresì sostenuto che i rapporti di natura familiare sono inquadrabili come “rapporti giuridici formalmente strutturati con il linguaggio dogmatico del diritto e del dovere”[11], ma estranei alla logica economica e, dunque, [continua ..]