Il tema della sicurezza dei farmaci, nel quadro della tutela della salute, che il codice del consumo con espressione enfatica annovera tra i diritti fondamentali del consumatore, sollecita l’attenzione dell’interprete sulle interrelazioni tra discipline multilivello orientate alla tutela di interessi non sempre convergenti quali, ad esempio, regolazione del mercato e tutela della persona.
In considerazione del dibattito circa l’efficacia orizzontale, nei rapporti di diritto privato, delle norme sovranazionali poste a tutela dei diritti fondamentali, il caso in commento, nel richiamare la responsabilità del produttore come regolata dall’art. 118 Cod. cons., conferma la centralità della legislazione consumeristica, non solo ai fini della tutela successiva della salute del consumatore, ma anche, e vieppiù, di quella preventiva, offerta dal sistema di regole e principi tesi a garantire il diritto alla qualità e alla sicurezza dei prodotti e il diritto all’informazione ed all’educazione del consumatore.
The safety of the pharmaceutical products is concerned with the market regulation and human being protection, and it falls under a complex legislative framework. In this cases law, the Italian Supreme Court applies the rule 118 of the Italian Consumer Code to regulate the liability of the producers. According to the horizontal effect of fundamental rights in private law, the judgement confirms the primary role that the consumer law plays in protecting consumer’s rights to health, to quality and safety products, thanks to specifics measures and remedies, for example, related to the trader’s information duties.
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Maria Cimmino - Pericolosità dei farmaci, danno da prodotto difettoso e rischi per la salute del consumatore tra regolazione del mercato e tutela della persona. Note
in margine a Cass., 10 maggio 2021, n. 12225
1. Il caso concreto e le questioni emerse. - 2. Diritto alla salute e libertà di iniziativa economica: la composizione di un rapporto dialettico alla luce della normativa consumeristica. - 3. La disciplina della qualità e sicurezza dei prodotti nel nuovo approccio: sua applicabilità ai farmaci. - 4. Segue. La disciplina dei farmaci come prodotti secondo il codice comunitario relativo ai medicinali ad uso umano. - 5. La responsabilità del produttore di farmaci nel quadro del sistema della responsabilità civile: la rilevanza del cd. rischio di sviluppo ai fini della configurazione di un’ipotesi di strict liability. - 6. La soluzione offerta dalla Corte: la natura giuridica della responsabilità del produttore tra codice civile e codice del consumo; oneri probatori, rilevanza degli standard di sicurezza e adempimento degli obblighi di informazione. - 7. Osservazioni conclusive. Informazione ed educazione del consumatore: il ruolo del professionista sanitario e dei corpi intermedi alla luce della sussidiarietà orizzontale.
La controversia riguarda un consumatore, nel caso di specie un medico, che aveva adito gli organi di giustizia per il risarcimento dei gravi danni alla propria integrità psico-fisica, riportati a seguito dell’insorgenza di una miopatia dei cingoli, riconducibili, secondo l’istante, all’assunzione di un farmaco, prodotto da una nota casa farmaceutica e poi da questa stessa successivamente ritirato.
Dopo aver ottenuto vittoria di lite nel primo grado del merito, l’attore vedeva ridotto il quantum del risarcimento in seconde cure.
Giunta al vaglio di legittimità, a seguito di ricorso della casa produttrice, il Giudice viene chiamato a stabilire se addurre la patologia lamentata dal consumatore ad una intrinseca difettosità del prodotto, oppure, al contrario, ascriverla al normale rapporto rischio-benefici connesso all’assunzione di farmaci, noto alla classe medica e di cui il paziente doveva comunque ritenersi edotto, sulla base delle indicazioni fornite dalla casa farmaceutica di produzione riportate nel foglietto illustrativo.
Confermando la riconduzione della fattispecie concreta alla figura della responsabilità del produttore, come regolata nel codice del consumo, la Suprema Corte si sofferma sugli obblighi di informazione posti a carico del cosiddetto professionista, cioè la casa produttrice, puntualmente regolati in detto codice, osservando che il c.d. bugiardino deve riportare “avvertenza idonea a consentire al consumatore di acquisire non già una generica consapevolezza in ordine al possibile verificarsi dell’indicato pericolo in conseguenza dell’utilizzazione del prodotto, bensì di effettuare una corretta valutazione (in considerazione delle peculiari condizioni personali, della particolarità e gravità della patologia nonché del tipo di rimedi esistenti) dei rischi e dei benefici al riguardo, nonché di adottare tutte le necessarie precauzioni volte ad evitare l’insorgenza del danno, e pertanto di volontariamente e consapevolmente esporsi al rischio (con eventuale suo concorso di colpa ex art. 1227 c.c., in caso di relativa sottovalutazione o di abuso del farmaco)”.
Con specifico riguardo ai limiti della responsabilità del produttore di farmaci, ritenendo il danneggiato gravato del relativo onere probatorio, conformemente all’orientamento secondo il quale si verte in tema di una figura speciale e aggravata di responsabilità, (qualificata come presunta in questo caso dalla Corte, alimentando un dibattito, non sopito, di cui ci si appresta a dar conto in questa sede), che può essere, cioè, esclusa assolvendo agli oneri probatori disciplinati dalla legge, ed, in particolare, solo in presenza di specifiche circostanze che dimostrino il difetto del nesso di causalità, il giudice nomofilattico osserva che, in linea di principio, non vi è intima connessione ex se tra danno e pericolosità del prodotto, dovendo provarsi la connessione causale tra difetto e danno, secondo quanto previsto dal codice del consumo.
Sulla base di tali premesse, però, la Suprema Corte ritiene soddisfatta la prova della sussistenza del nesso causale tra assunzione del farmaco e conseguenze dannose nel caso concreto, valutando insufficienti le informazioni fornite nel foglietto illustrativo, inconferente il successivo ritiro del farmaco e non rilevante l’intervenuta autorizzazione all’immissione in commercio del prodotto.
La responsabilità della ricorrente viene ravvisata nel fatto di aver messo in circolazione un farmaco che, al momento della commercializzazione, era “difettoso e dannoso”, poiché conteneva un principio attivo (cerivastatina), che, in base alle risultanze scientifiche, doveva ritenersi idoneo ad esporre il muscolo ad un rischio di malattia più elevato rispetto ad altri farmaci della stessa categoria (ipocolesterolemizzanti) e dunque meno sicuro.
A decenni di distanza dai noti leading cases, che, in Italia ed all’estero, hanno messo sul tappeto l’urgenza di affrontare la questione della responsabilità del produttore di farmaci, i quesiti cui rimane difficile dare una risposta, nonostante gli indirizzi più volte forniti dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, permangono, alimentati, forse anche involontariamente, dalla copiosa ed eterogenea normativa che si è susseguita in questo lasso di tempo, necessaria per le esigenze della produzione di massa, alle quali l’industria farmaceutica non può certamente sottarsi, e la cui terminologia non è certamente di aiuto per l’interprete[1] .
E’ possibile considerare il farmaco come un prodotto tout court? Che cosa si intende per farmaco difettoso e quale rapporto sussiste tra mancanza del requisito della sicurezza e difetto? Il farmaco la cui immissione in commercio sia stata autorizzata è certamente un prodotto non pericoloso a norma di legge? Che ruolo ha il regime autorizzatorio ai fini dell’esclusione della responsabilità civile (contrattuale ed extracontrattuale) del produttore di farmaci? E’ possibile applicare tout court alle case farmaceutiche il regime della responsabilità del produttore dettato dal codice del consumo? Ed in che rapporto si pongono dette regole con la norma generale del neminem laedere e con quella dell’art. 2050 c.c.?
Questi interrogativi si ripropongono puntualmente quando, come nel caso di specie, all’attenzione della giurisprudenza si pone la questione dei danni da uso di farmaci rivelatisi successivamente all’impiego nocivi per la salute umana, tanto da imporne il ritiro dal commercio.
La sicurezza dei farmaci, dal punto di vista della tutela della salute e dell’integrità psicofisica del consumatore, impone, in tal senso, una rinnovata riflessione sul rapporto tra norme del codice civile e regole di settore, segnatamente quelle del codice del consumo e del codice dei medicinali per uso umano, tanto sul piano della disciplina del diritto dei contratti, avuto riguardo alla vendita di prodotti difettosi, quanto su quello della responsabilità civile, richiamando, non da ultimo, l’attenzione dell’interprete sulle interrelazioni tra discipline multilivello, orientate alla tutela di interessi non sempre convergenti, quali, ad esempio, regolazione del mercato e tutela della persona[2], anche in considerazione del dibattito circa l’efficacia orizzontale delle norme sovranazionali poste a tutela dei diritti fondamentali[3].
[1] D. Vetri, G. Alpa, Profili della responsabilità del produttore negli Stati Uniti, in Foro it., 1978, IV, 77 ss.
[2] S. Rodotà, Persona-consumatore, in P. Stanzione, (a cura di), La tutela del consumatore tra liberismo e solidarismo, Napoli, 1999, 19 ss.
[3] G. Alpa, La tutela giurisdizionale dei diritti umani, in Nuove leg. civ. comm., 2016, 1, 108 ss.; ivi, A. Gentili, Diritti fondamentali e rapporti contrattuali. Sull’efficacia orizzontale della Convenzione europea sui diritti umani, 183 ss.; C. Camardi, Diritti fondamentali e «status» della persona, in Riv. crit. dir. priv., 2015, 1, 7 ss.; in una prospettiva comparata, si rimanda a G. Alpa, G. Conte, (a cura di), Diritti e libertà fondamentali nei rapporti contrattuali. Saggi e ricerche, Torino, 2018.
La produzione e l’uso di farmaci per curare la persona sono sicuramente più antichi delle norme che ne hanno governato e ne governano oggi la fabbricazione, l’immissione in commercio e la somministrazione[1].
Peraltro, se il progresso scientifico e tecnologico ha indubitabilmente consentito di mettere a disposizione del genere umano nuovi ritrovati e dispositivi medici sempre più efficaci nella lotta alle malattie, non per questo tuttavia la scienza è oggi in grado di liberarsi da quella imprescindibile valutazione del rapporto costi/benefici, attraverso la ricerca della cd. legge scientifica di copertura, che regola la causalità materiale, ma che rileva anche nell’apprezzamento di quella giuridica, e che è posta alla base della fase di sperimentazione dei farmaci quale condicio sine qua non della successiva autorizzazione ed immissione in commercio del prodotto secondo le normative vigenti[2].
Questo particolare settore, come altri nell’economia di mercato globalizzata contemporanea, vede accentuato il rapporto dialettico, e talvolta conflittuale, tra due diritti di rango costituzionale, come dimostra la stessa casistica giurisprudenziale in tema di responsabilità civile per danni da farmaco[3].
Da un lato, si pone il diritto alla salute, che il legislatore costituente ha qualificato fondamentale, pur non annoverandolo espressamente nell’ambito dei diritti inviolabili[4]. L’art. 32 Cost., inizialmente ritenuto di natura meramente programmatica, e solo dopo immediatamente a carattere precettivo, non è norma definitoria, in quanto, pur riconducendo la salute ai diritti soggettivi, tecnicamente, come spesso accade in diritto, non dice tuttavia cosa si debba intendere come stato di salute. A tal fine, soccorre il significato attribuitovi dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità, quale complesso stato di benessere, fisico, sociale, psicologico, da determinarsi in ragione di una serie di variabili, personali ed ambientali, comprese le opportunità di vita del soggetto, accostando salute e qualità della vita.
Si tratta di un concetto “in divenire”, ovvero una “formula sintetica”, come è stata definita dalla dottrina[5], che esprime, cioè, la garanzia offerta dal sistema ad una pluralità di situazioni in cui il diritto alla salute si compendia, la cui rilevanza giuridica si può, pertanto, cogliere tanto con riguardo alla sua dimensione individuale, alla luce del principio personalista, quanto in relazione alla sua dimensione collettiva; sicchè, la qualificazione in termini di diritto fondamentale, e non già inviolabile, ne confermerebbe la natura ibrida, ora di diritto di libertà, ora di diritto sociale di prestazione[6] , ovvero “conformato” nell’interesse pubblico da un complesso di regole, le quali governano l’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, preposto, in una visione solidaristica, alle prestazioni di cura e di assistenza, erogate nel rispetto di protocolli e somministrando farmaci autorizzati secondo le procedure di legge.
La cura fornita in questi termini rappresenta la “terapia fatta propria dall’ordinamento”, il quale rimette in capo ad una sua precipua articolazione organizzatoria (fatta di persone, mezzi e di organi) la scelta del trattamento sanitario praticabile; in altre parole, il SSN rappresenta il limite, i confini della terapia erogabile al paziente.
Ecco perché il diritto alla salute può esser definito come “diritto ad essere curati secondo i canoni della scienza e dell’arte medica”, ma si manifesta altresì nel suo duplice contenuto di libertà: come libertà negativa, si esprime nel rifiuto di terapia mentre, come libertà positiva, diventa scelta della cura, legandosi all’autodeterminazione del singolo mediante il consenso[7] ed ancor più al concetto di dignità della persona umana.
Da quanto detto emerge che “libertà di cura” e “libertà di terapia” sono due aspetti di una medesima realtà, concorrendo entrambi all’effettività del diritto alla salute; la cura è del paziente, la terapia è del medico. Il medico, (se ed) in quanto soggetto inserito nella complessa organizzazione statale preposta alla tutela della salute, è il soggetto destinato e deputato ad entrare in “contatto” diretto con il paziente, competendogli diagnosi e terapia.
Il rapporto che si instaura tra il paziente ed il medico è, tuttavia, e sempre, di natura privatistica, (laddove, nel caso di medico dipendente da una struttura sanitaria, la prestazione medico-sanitaria si inserisce nel più ampio adempimento degli obblighi nascenti dal cosiddetto contratto di spedalità del cittadino con l’ente[8]) ed è “governato” dalla diligenza professionale, regola codificata nell’art. 1176 c.c. per la quale il medico opera secondo le leges artis e applica le conoscenze scientifiche[9] .
Detto profilo consente poi di dar conto della complessità della relazione che si viene ad instaurare tra i diversi soggetti protagonisti delle prestazioni di cura, struttura sanitaria, medico e paziente; si tratta di una relazione alla quale si viene sempre più prestando una attenzione dedicata non più sotto un profilo autoritativo e statico, ma dinamico e paritario, tale che si privilegia, in una rinnovata visione di stampo negoziale, la posizione del destinatario del servizio, valorizzandone la partecipazione al momento costitutivo del rapporto stesso, che è finalizzato a soddisfarne in ultima analisi i bisogni personali[10].
Lungo questa evoluzione si può collocare, inoltre, quel percorso giurisprudenziale che ha fatto della responsabilità civile uno strumento di tutela della salute dei cittadini, volto, in buona sostanza, a colmare un vuoto normativo, su cui è da ultimo intervenuto, fra critiche e consensi, il legislatore della riforma cd. Gelli-Bianco (che di recente, con la pandemia in atto, è oggetto di iniziative per avanzarne una proposta di riforma[11]), che, come rilevato in dottrina, ne ha mantenuto i profili favorevoli per il paziente danneggiato, confermando la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria ex art.1218 c.c., mentre ha (rectius: avrebbe?) ricondotto all’aleveo extracontrattuale la responsabilità dell'esercente la professione sanitaria, “tradizionalmente più ostica per la persona che cerca il risarcimento"[12].
Del pari di natura privatistica è il rapporto tra consumatore acquirente di medicinali e farmacista, trattandosi di un contratto di scambio di diritto comune, ovvero riconducibile ad una vendita di bene di consumo, cioè tra un professionista ed un consumatore, nel quadro di una rapporto che si connota per una stretta correlazione tra diritti ed obblighi e per la significativa condizione di asimmetria informativa del cliente, stando all’orientamento volto ad applicare alle case produttrici la responsabiltà del produttore come regolata in detto codice.
Sebbene entrambi i rapporti mettano capo ad un’articolata disciplina, che presiede alla produzione, distribuzione e dispensazione dei farmaci, nel quadro del servizio sanitario e con funzione sociale, come si vedrà, la protezione effettiva della salute umana dipende anche dal corretto funzionamento del complesso di norme che governano i profili della tutela dei diritti dei consumatori, e, nella specie, il diritto alla qualità e alla sicurezza e il diritto all’informazione ed all’educazione, i quali svolgono un ruolo altrettanto di primordine nell’ambito di questi atti e rapporti[13].
Del resto, il diritto alla salute quale diritto soggettivo perfetto della persona, funziona da limite a quelle attività, pubbliche e private, che ne compromettano l’effettività nella vita umana; emergendo, sotto questo profilo, l’importanza del bilanciamento tra la tutela di tale bene e quella di eventuali interessi (economici) contrapposti, quali, ad esempio, quelli della produzione industriale di massa.
Dall’altro lato del citato rapporto dialettico, si pone, infatti, un diritto che la Costituzione annovera tra quelli qualificati con enfasi definitoria in termini di libertà, cioè l’iniziativa economica[14].
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza), al contrario della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), contempla tra i suoi principi fondamentali la libertà d’impresa e la tutela dei consumatori, ed, infatti, a seguito Trattato di Lisbona, il nuovo art. 6 del Trattato sull’Unione europea stabilisce che “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, riconoscendole lo stesso valore giuridico dei Trattati”; quindi, i diritti fondamentali, intesi ed identificati nei termini di cui sopra e in una prospettiva innovativa rispetto a quella adottata dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, entrano a pieno titolo a far parte dei valori fondanti dell’Unione stessa.
Questo nuovo approccio ha indotto gli studiosi ad una rinnovata visione della dialettica tra tutela della persona e regolazione del mercato, per trovare, ove possibile, un punto di equilibrio anche grazie ad una lettura costituzionalmente orientata degli articoli 2 e 3 della Costituzione repubblicana.
In tal senso, si è proposto di guardare al mercato non solo come un luogo materiale od immateriale di scambio di beni e servizi, ma come una formazione sociale in cui le persone si incontrano si confrontano e in cui, attraverso i contratti di scambio e le prestazioni di servizi, si possa attuare al soddisfazione dei loro bisogni, anche di quelli preordinati alla realizzazione della persona stessa.
Ne deriva che quell’apparente contrasto tra diritti della persona e libertà di iniziativa economica assume diversi contorni, se il funzionamento del mercato non è più improntato ad una pura logica di profitto, ma è attento alla tutela della dignità umana, in omaggio al concetto di utilità sociale indicato dall’art. 41 Cost. che si presta perfettamente a fondare la tutela della sicurezza dei farmaci di cui a breve di dirà.
La mediazione tra istanze che sembravano in una visione liberale assolutamente incompatibili, al punto che per decenni quella che era la Comunità europea ha guardato solo alla regolamentazione della concorrenza, trova un punto di forza, come ci si appresta a verificare, nella legislazione consumeristica, in particolare in alcuni strumenti da questa introdotti a tutela dei consumatori, sebbene inizialmente concepiti in una visione giuseconomica, soprattutto a fini di correzione delle distorsioni del mercato[15].
[1] Sul punto, M. Carai, La ricerca di nuovi farmaci, in Aa.Vv., La regolazione del ciclo e dei prezzi dei prodotti farmaceutici e il sostegno dell’innovazione e della ricerca. Confronti europei e proposte di riforma, in astridonline- luglio 2007, il quale ricollega il progresso nella terapia farmacologica all’evoluzione delle conoscenze scientifiche di base che hanno permesso alcune scoperte,” generate dai precedenti progressi nel campo della chimica che ha fornito le tecnologie utilizzate per estrarre e identificare i principi attivi dalle piante medicinali, la conoscenza degli effetti delle quali orienta il lavoro dei ricercatori, che volgono la loro attenzione a quelle di esse che sono note per la loro specificità di effetti, potenza ed efficacia. Successivamente si crea l’interazione di queste discipline con quelle legate alla ricerca clinica: anatomia, fisiologia ed istologia, che consentono di identificare i nuovi bersagli terapeutici, attraverso lo studio dell’organismo che manifesta la malattia”.
[2] G. Demuro, La ricerca scientifica e il diritto alla salute, in AIC, 2013, 4, 1 ss.
[3] Ex multis, Cass. 7 marzo 2019 n. 6587, in Foro it., 2019, 11, I, 3698, con nota di J. De Rosa, Sul paradosso del farmaco sicuro che fa danno impunemente; Cass. 31 marzo 2011 n 7441, in Resp. civ. prev., 2012, 1, II, 149 ss., con nota di U. Carnevali, Farmaci difettosi e autorizzazione ministeriale; Cass. 2 luglio 2010 n. 15734, in Resp. civ. prev., 2011, 3, II, 601 ss, con nota di G. Musolino, La responsabilità del farmacista nella dispensazione dei farmaci;
[4] G. Ferrando, Diritto alla salute ed autodeterminazione tra diritto europeo e costituzione, in Politica del diritto, 2012, 1, 3 s.; M. C. Cherubini, Diritto alla salute, in Digesto discipline privatistche, Sez. civ., Utet, Torino,1990, VI, 77 ss.; G. Alpa, Salute (diritto alla), in Noviss. dig., App. 1986, 914 ss.
[5] Così, R. De Matteis, La responsabilità in ambito sanitario. Il regime binario: dal modello teorico ai risvolti applicativi, in Tratt. dir. comm. dir. pubbl. ec., diretto da Galgano, 2017, 28 ss.
[6] In argomento, D. Morana, La salute come diritto costituzionale, Torino, 2021; R. De Matteis, La responsabilità in ambito sanitario, cit., 29 ss.; la quale rileva, infatti, che le situazioni soggettive a cui l’ordinamento riconosce tutela conferendo rilievo alla nozione, “a seconda degli approcci vengono ricondotte all’interno della dicotomia « diritti di libertà/diritti sociali» in un’ottica di contrapposizione, ovvero analizzate in chiave unitaria, al di là della contrapposizione, accordando prevalenza ora all’uno ora all’altro di quei dati strutturali e/o funzionali che rispettivamente caratterizzano « i diritti sociali nelle differenti articolazioni di volta in volta assunte come diritti di libertà ovvero come diritti a prestazioni positive»”. Per una riflessione critica sulla configurabilità di una categoria ad hoc dei diritti sociali, si rinvia a G. Pino, Diritti sociali. Analisi teorica di alcuni luoghi comuni, in N. Riva (a cura di), I diritti sociali. Un dialogo multidisciplinare, Torino, 2016, 17 ss.; ivi, F. Pasquali, Diritti in senso proprio: diritti civili vs diritti sociali, 39 ss.
[7] In argomento, M. Guastadisegni, L'autodeterminazione terapeutica tra tautologie e finzioni, in Danno resp., 2021, 2, 231 ss.; E. Battelli, Fine vita e consenso informato, in Riv. dir. priv., 2020, 4, 561 ss.; E. Bilotti, La Corte Costituzionale ripristina il confine all’autodeterminazione terapeutica, ma… lascia solo ai medici il compito di presidiarlo. A proposito della sentenza n. 242 del 2019, in Corr. giur., 2020, 485 ss.; M. Foglia, Consenso e cura. La solidarietà nel rapporto terapeutico, Torino, 2018, passim; S. Rodotà, Consenso informato e principio di autodeterminazione, in S. Rodotà, Critica del diritto privato. Editoriali e saggi della Rivista critica di diritto privato raccolti da G. Alpa e M.R. Marella, Napoli, 2017, 3 ss., ove si richiama la sentenza della Corte Costituzionale n. 438 del 23 dicembre 2008, con cui si è statuito che se la salute è un fondamentale diritto dell’individuo, l’autodeterminazione è un diritto autonomo, parimenti fondamentale, ed è parametro per valutare la legittimità di una serie di norme, e per interpretare e ricostruire il sistema.
[8] La Suprema Corte di Cassazione, con sent. 31 ottobre 2017 n. 25844, ha stabilito che il contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità, prevede una prestazione complessa, che non si esaurisce nella effettuazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche (generali e specialistiche), ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle “lato sensu” alberghiere. A. Parziale, Contratto di spedalità, lavoro d'"equipe", responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e responsabilità dei componenti l'"equipe" , in Riv. it. med. leg. dir. san., 2013, 1, 419 ss.; F. Gozzo, La responsabilità da contatto sociale del medico dipendente da una struttura sanitaria, in Studium iuris, 2013, 4, 512 ss.
[9] Sulla rilevanza del contatto sociale nella responsabilità civile, v. M. Franzoni, Il danno ingiusto fra il giudice e la legge, in Quest. giust., 2018, 1, 90 ss., il quale ricorda “l’emersione della figura del contatto sociale nell’opera creatrice della giurisprudenza proprio nel settore della responsabilità medica, osservando che “sul finire del II millennio si è delineato un orientamento che apparentemente ha portato fuori dalla responsabilità civile ciò che in precedenza era dentro. Alludo a quella figura, di chiara invenzione giurisprudenziale, andata sotto il nome di “contatto sociale”, che ha fatto discutere moltissimo e che ha provocato anche la reazione del legislatore (alludendo alla recente riforma Gelli Bianco, emanata nel 2017 ed ai correlati tentativi di innovare la materia della responsabilità civile nel campo sanitario)”. Si deve rilevare, tuttavia, che la ricostruzione in termini di contatto sociale del rapporto medico paziente nella struttura sanitaria è stata messa in dubbio dalla cd. legge Gelli-Bianco, ma sul punto vi sono molti contrasti. Sul punto, P. Corrias, I profili di rilievo assicurativo della legge Gelli-Bianco, in Riv. dir. priv., 2019, 1, 113 ss.; l’A., riferendosi alla disciplina in questione, osserva: «... essa è stata emanata con lo scopo specifico di contrastare la medicina difensiva, ossia una pratica che ostacola la sicurezza delle cure (e, quindi, il diritto alla salute) non solo in quanto aggrava i costi della sanità, ma soprattutto perché pregiudica gravemente il paziente dal momento che impedisce al medico di svolgere la sua attività serenamente e, quindi, nel modo più efficace possibile; in argomento si veda anche F. Bocchini, La sanità lesiva. Ideologie e strategie a confronto, in Contr. impr., 2018, 4, 1284 e ss., secondo cui si tratta di una normativa che “promette molto e concede poco, anzi toglie qualcosa ai pazienti”, in particolare, p. 1299, ove si rileva che “Il problema della responsabilita` civile sanitaria e` da tempo vissuto, nella normazione positiva, attraverso l’intricato intreccio tra azione delle strutture e attivita` degli operatori. Questa duplice tipologia di intervento ha sollecitato un percorso tormentato di diritto vivente dove si confondo- no e si distanziano testi normativi e percorsi giurisprudenziali che hanno enucleato, dapprima un doppio binario di responsabilita` (contrattuale della struttura e extracontrattuale dell’operatore) e poi un modello unitario di responsabilita` contrattuale (della struttura per inadempimento del contratto di spedalità; degli operatori per inadempimento di obbligazione nascente da contatto sociale qualificato). Con l’aggravante che, piu` evolvono le ricerche e le tecnologie di diagnosi e terapia, maggiormente accrescono le occasioni di errore e diventano piu` complessi i criteri di verifica della condotta”. Si veda, pure, C. Coppola, Il nuovo sistema della responsabilità civile sanitaria, in Resp. civ. prev., 2018, 1448 ss, nonché, M. Faccioli, La responsabilità sanitaria tra tradizione e rinnovamento, in Jus civile, 2018, 3, il quale osserva che l’operazione intrapresa non può non suscitare l’interrogativo in merito a quali possano essere le sorti future di quella elaborazione teorica in tutti gli altri numerosi ambiti, diversi da quello qui considerato, in cui la giurisprudenza ha ritenuto di farvi ricorso: ambiti che spaziano, per ricordarne solo alcuni, dalla responsabilità dell’insegnante per i danni cagionati dall’alunno a se stesso a quella del notaio verso l’istituto di credito mutuante in caso di visura eseguita in modo negligente su incarico dell’aspirante mutuatario, passando per la responsabilità del mediatore per violazione dell’obbligo d’informazione nei confronti delle parti ex art. 1759 cod. civ., la responsabilità della banca per aver consentito ad un soggetto non legittimato l’incasso di un assegno non trasferibile e quella di colui che abbia violato il dovere di correttezza previsto dall’art. 1337 cod. civ. con riguardo alla fase delle trattative contrattuali; Si consideri che l’art. 7 della citata legge prevede un doppio regime di responsabilità civile, assoggettando alla responsabilità contrattuale “ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile” soltanto le strutture sanitarie e sociosanitarie (pubbliche o private) ed i medici liberi professionisti, ed alla responsabilità ex art. 2043 c.c. i medici in qualità di dipendenti, non escludendo tuttavia la responsabilità contrattuale del medico specialista privato e ove sia possibile allegare un contratto da parte del professionista. In argomento, si rimanda anche a C. Scognamiglio, Regole di condotta, modelli di responsabilità e risarcimento del danno nella nuova legge sulla responsabilità sanitaria, in Corr. giur., 2017, 741 ss.; G. Alpa, Ars interpretandi e responsabilità sanitaria a seguito della nuova legge Bianco-Gelli, in Contr. impr., 2017, 729; R. Calvo, La «decontrattualizzazione» della responsabilità sanitaria, in Nuove leg. civ. comm., 2017, 465 ss.; G. Comandé, La riforma della responsabilità sanitaria al bivio tra conferma, sovversione, confusione e ... no-blame giurisprudenziale, in Riv. it. med. leg. dir. san., 2016, 1, 1 ss., il quale ripercorre le ragioni delle innumerevoli novità giurisprudenziali che hanno interessato nel corso degli anni la materia della responsabilità civile in ambito sanitario, ravvisandole, in particolar modo, nella “maggiore sensibilità all’applicazione dei principi costituzionali volti ad una tutela in concreto della salute individuale e collettiva”, nelle “innovazioni organizzative che hanno interessato l’erogazione di prestazioni sanitarie dagli anni 1970 in poi” e “nel ruolo crescente del consenso informato quale momento legittimante l’attività di cura” ; l’A., inoltre, a proposito del ricorso al contatto sociale, osserva che “la stessa allusione al “contatto sociale” per fondare l’obbligo risarcitorio, abbondantemente usata in giurisprudenza, non faceva altro che entrare nel gioco delle facilitazioni probatorie fondamentalmente presuntive, per il danneggiato sul presupposto che a rispondere finanziariamente del danno alla fine fosse una entità giuridica dalla tasca profonda (assicurazione, azienda sanitaria pubblica o privata) piuttosto che un individuo singolo dalla dubbia capacità economica per danni già di media entità; v., pure, M. Maggiolo, La (de)contrattualizzazione della responsabilità professionale, in Jus civile, 2015, 1, 21. In giurisprudenza, sulla responsabilità da contatto sociale, si rinvia a Cass. (Ord.) 29 dicembre 2020 n. 29711 in www.cortedicassazione.it; nonché, a Cass. 12 luglio 2016 n. 14188, (in Resp. civ. prev., 2016, 6, 1950 ss. con nota di C. Scognamiglio, Responsabilità contrattuale e “contatto sociale qualificato”), secondo cui “La dottrina italiana si è posta consapevolmente sulla stessa scia, fin dai primi anni ‘90 del secolo scorso, prefigurando una forma di responsabilità che si colloca ‘ai confini tra contratto e torto’, in quanto radicata in un ‘contatto sociale’ tra le parti che, in quanto dà adito ad un reciproco affidamento dei contraenti, è ‘qualificato’ dall’obbligo di ‘buona fede’ e dai correlati ‘obblighi di informazione e di protezione’, del resto positivamente sanciti da- gli artt. 1175, 1375, 1337 e 1338 c.c. Viene, per tale via, ad esistenza la figura di un rapporto obbligatorio connotato, non da obblighi di prestazione, come accade nelle obbligazioni che trovano la loro causa in un contratto, bensì da obblighi di protezione, egualmente ricon- ducibili, sebbene manchi un atto negoziale, ad una responsabilità diversa da quella aquiliana e prossima a quella contrattuale, poiché ancorabili a quei fatti ed atti idonei a produrli, costi- tuente la terza fonte delle obbligazioni menzionata dall’art. 1173 c.c”.
[10] Così, R. De Matteis, La responsabilità in ambito sanitario, cit., 90.
[11] Si tratta del tavolo tecnico promosso da Federsanità-ANCI, in collaborazione con l’Istituto Dirpolis.
[12] Così G. Ponzanelli, La responsabilità sanitaria e i possibili contenziosi da covid, in Giustiziacivile.com, 2020, 5, 1 ss., il quale precisa che “L'intento evidente è quello di spingere le eventuali controversie verso la struttura (attraverso un meccanismo di c.d. “canalizzazione della responsabilità”), quale soggetto nelle condizioni di meglio organizzare lo svolgimento dell'attività e anche più protetto”. In più, in dottrina, si è anche osservato che “da tempo la dottrina e la giurisprudenza civilistiche riconoscono che sulle strutture sanitarie incombe una diretta e autonoma responsabilità per “difetto di organizzazione” che si concretizza quando l’evento avverso occorso al paziente è riconducibile a inadeguatezze e disfunzioni del complesso appara- to di strumenti, mezzi, uomini e risorse a disposizione dell’ospedale e pertanto discende dall’inadempimento dell’obbligo, scaturente dal contratto di spedalità intercorrente con i malati, che ha per oggetto la predisposizione di un contesto organizzativo e strutturale di livello adeguato nel quale accogliere gli assistiti “. In tal senso, M. Faccioli, Covid-19, linee guida e (difetto di )organizzazione delle strutture sanitarie, in Corti Supreme e Salute, 2020, 3, 1 ss.
[13] D. Simeoli, Contratto e potere regolatorio (rapporti tra), in Dig dis. priv., Sez. civ., Agg., Torino, 2014, 94 ss.; A. Zoppini, Diritto privato vs diritto amministrativo (ovvero alla ricerca dei confini tra Stato e mercato), in Riv. dir. civ., I, 2013, 515 ss.; P. Sirena (a cura di), Il diritto europeo dei contratti d’impresa. Autonomia negoziale dei privati e regolazione del mercato, a cura di, Milano, 2006; V. Buonocore, Contrattazione d’impresa e nuove categorie contrattuali, Milano, 2000, 171 ss.
[14] Si è plasticamente sottolineato che “Le attività farmaceutiche lato sensu offrono un esempio molto chiaro di regolamentazione in applicazione dell’art. 41 Cost. e in particolare dei commi secondo e terzo. Infatti la legge: a) individua limiti (negativi) all’iniziativa privata in materia, per evitare o almeno contrastare possibili effetti antisociali, tra i quali, in particolare, quelli di messa a rischio della salute individuale e collettiva; b) indirizza e programma l’azione degli operatori economici verso fini sociali, quali l’assistenza farmaceutica di tipo solidaristico, l’equità e l’universalità dell’accesso alle terapie farmacologiche”. In tal senso, P. Logroscino, M. Salerno, La distribuzione dei farmaci tra libertà economiche e tutela della salute, in federalismi, 2019, 7, 2 ss.
[15] L. Cabella Pisu, Ombre e luci nella responsabilità del produttore, in Contr. impr./Europa, 2008, 3, 618; Id., La responsabilità del produttore tra tutela del consumatore e razionalizzazione del mercato, in Il diritto dei consumi, a cura di P. Perlingieri e E. Caterini, Rende, 2007, 437 ss. la quale osserva plasticamente che : “gli interessi dei consumatori sono sicuramente contrastanti con quelli della singola impresa che offre in massa beni o servizi: quest’ultima si trova in una posizione di maggior potere contrattuale, anche grazie alle c.d. “asimmetrie informative” che l’avvantaggiano, in quanto solo essa ha approfondita conoscenza dei meccanismi produttivi, della qualità dei prodotti e dei servizi, dei rischi connessi al loro uso; e può introdurre formulari contrattuali attentamente studiati per massimizzare i suoi vantaggi, in modi e misure di cui non sempre i consumatori riescono a rendersi conto. Ma l’Unione Europea ritiene che il contrasto possa trovare una composizione se la prospettiva si allarga all’intero mercato e alla necessità di garantire il corretto funzionamento del meccanismo concorrenziale”.
Considerato che il mercato del farmaco e dei dispositivi medici, “per il diretto collegamento che esso ha con la tutela della salute pubblica e con il diritto alla salute”, è “fortemente regolamentato”[1], il tema della sicurezza dei farmaci, se inquadrato in quello della sicurezza generale dei prodotti, con il conforto della giurisprudenza, come quella relativa al caso in esame, sul piano dei principi generali e del riconoscimento della sicurezza come un diritto fondamentale della persona (consumatore), può esser letto ed interpretato alla luce delle politiche legislative e delle strategie poste in essere, non solo in ambito nazionale ma soprattutto sovranazionale, a tutela della salute delle persone, in un’ottica di tutela preventiva[2], senza naturalmente rinunciare a riconoscere la specialità della disciplina che governa la produzione ed immissione in commercio di tali prodotti.
In questi termini, si può plausibilmente disporre di un quadro normativo ampio ed adeguato per affrontare la spinosa questione della responsabilità per danni da farmaci cd. difettosi che, nell’ordinamento italiano, pare ricondursi oltre che alla figura ad hoc della responsabilità del produttore, di derivazione europea, anche al regime giuridico dell’esercizio di attività pericolose nell’ambito della responsabilità aquiliana[3] .
Detta impostazione presuppone, tuttavia, che si aderisca alla tesi che il farmaco sia suscettibile di esser considerato alla stregua di un prodotto e che l’acquirente sia qualificabile come un consumatore, in modo da estendere al primo, se ed in quanto prodotto su scala industriale e quindi a seguito di un processo di fabbricazione, le misure atte a garantirne la qualità e la sicurezza, ed al secondo gli strumenti di tutela tipici della legislazione consumeristica attenta, cioè, non solo alla fase post-vendita, ma anche a fornire all’acquirente mezzi di tutela prima e durante, oltre che dopo, l’atto di consumo, considerandolo come un rapporto che si sviluppa nel tempo.
Se questa opzione ricostruttiva trova conferma nel riconoscimento del diritto alla salute, alla qualità ed alla sicurezza dei prodotti, in uno con quello ad una corretta informazione, quali diritti fondamentali dei consumatori e degli utenti[4], è anche vero che, come si è osservato, il mercato dei prodotti farmaceutici ed il loro impiego risponde a logiche diverse che vedono porsi, talvolta, in rapporto dialettico, se non conflittuale, le esigenze della scienza giuridica- che sono quelle della certezza e della tutela dei diritti fondamentali, peraltro, considerando che fra questi in ambito europeo si pongono anche i diritti economici di cui sono titolari gli attori del mercato e cioè gli imprenditori- e quelle della scienza medica, consapevole che non è possibile somministrare una farmaco oggettivamente sicuro, portatrice, al contempo, della superiore esigenza di far progredire la conoscenza per mettere a disposizione dell’umanità dispositivi e ritrovati sempre più benefici[5].
Si tratta di un profilo assai delicato, sempre più carico di implicazioni per le frequenti e complesse interrelazioni tra diritto e tecnica, o meglio tra diritto e scienza, che sono chiamati a cooperare in vista della tutela della persona e della promozione del benessere umano [6] .
In via preliminare, va ricordato che a partire dalla seconda metà del secolo scorso, in concomitanza più o meno con l’accentuarsi del fenomeno della grande produzione e distribuzione di massa, prima, e con l’avvento della globalizzazione, poi, le fonti in materia hanno progressivamente evidenziato una crescente attenzione dei legislatori e delle Istituzioni in ambito nazionale e sovranazionale al profilo della tutela cosiddetta preventiva dei diritti fondamentali della persona; e, sotto questo punto di vista, un notevole contributo è senza dubbio stato apportato, nei limiti di quanto si dirà, dalla legislazione consumeristica, che ha accolto i principi del Nuovo approccio comunitario di cui alla risoluzione del Consiglio EU 85 C-136-1 del 7 maggio 1985, che ha costituito e costituisce a tutt’oggi il fulcro del diritto dei consumi [7] .
Essa ha introdotto una nuova strategia basata sull’obiettivo principale di armonizzare i requisiti fondamentali dei prodotti che circolano nel mercato comune europeo applicando il «rinvio alle norme» e il principio di riconoscimento reciproco, per abolire gli ostacoli tecnici alla libera circolazione delle merci; a tal fine si è delineato l’approccio volto ad introdurre disposizioni regolamentari generali applicabili a settori o famiglie di prodotti nonché a tipi di rischio [8].
Quest’ultima direttiva, allo scopo di rimuovere gli ostacoli tecnici agli scambi nel mercato interno, ha stabilito che le direttive destinate a disciplinare la commercializzazione dei prodotti dovessero prevedere solo i requisiti essenziali di sicurezza fissati negli allegati delle direttive (o di altre esigenze di interesse collettivo), rimettendo alla cosiddetta normazione tecnica armonizzata la fissazione delle specifiche tecniche dei prodotti.
Secondo il sistema introdotto dal nuovo approccio, i prodotti possono essere immessi nel mercato e messi in servizio solo se sono conformi ai requisiti essenziali, ciò in base al principio per il quale gli Stati membri sono tenuti ad adottare le misure necessarie a garantire che i prodotti siano commercializzati solo se non rappresentano un pericolo per la sicurezza e la salute delle persone o per altri interessi pubblici.
Superandosi l’impostazione di stampo pubblicistico, che voleva rimessi necessariamente alla fonte eteronoma i complessi compiti di indicazione dei requisiti di sicurezza dei prodotti, anche in considerazione delle oggettive difficoltà di assolvere ad un compito del genere in un mercato diversificato e complesso, e per assicurare la libera circolazione delle merci, si è avviata una nuova stagione, che ha visto la collaborazione tra enti di normalizzazione e istituzioni, laddove i primi sono stati, in buona sostanza, chiamati, su mandato della Commissione e sulla base di specifici accordi, ad un’attività di produzione di regole destinate ad integrare mediante la tecnica del rinvio il contenuto di disposizioni provenienti da fonti eteronome.
I destinatari di questo complesso sistema di normazione sono stati a loro volta chiamati ad osservare i requisiti delle specifiche tecniche dei prodotti, di cui alcuni cogenti, altri invece dettati su base volontaria, attraverso l’implementazione del sistema delle certificazioni.
Il sistema è informato al cosiddetto principio di conformità al contratto, in quanto basato sull’operatività della cosiddetta presunzione di conformità del prodotto ai requisiti stabiliti dalle direttive e per esse dalla normazione tecnica, ovvero alla legislazione vigente nello Stato membro che recepisce le norme europee i cui riferimenti sono stati appositamente pubblicati dalla Commissione [9]. Un ruolo di primaria importanza viene poi attribuito alle certificazioni, alla marcatura dei prodotti a norma, all’etichettatura ed all’informazione ed alla pubblicità [10].
Il nuovo approccio è stato attuato grazie all’emanazione della Direttiva sulla sicurezza generale dei prodotti, adottata nel 1992 poi rielaborata con la Direttiva 2001/95/CE, con cui si è impresso un nuovo indirizzo alle politiche di tutela dei consumatori, in un mercato dominato dal progresso tecnologico, caratterizzato dalla produzione di massa e dalla circolazione di una serie infinita di prodotti; lo scopo perseguito è stato duplice: da un lato, regolare la commercializzazione dei prodotti in maniera efficiente e trasparente e, dall’altro, tutelare i diritti fondamentali dei consumatori [11].
Non a caso, detta disciplina ha integrato quella della responsabilità del produttore di cui al d.p.r. 224/88 attuativo della direttiva 85/374/CEE -relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati Membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi- in modo da coprire sia la fase della tutela successiva del consumatore danneggiato dalla circolazione dei prodotti, affidata sostanzialmente all’operatività della responsabilità civile (non solo extracontrattuale come a breve si dirà), che quella preventiva, fondata sul sistema della sicurezza e qualità, articolata in una serie complessa di prescrizioni ed adempimenti, non solo da parte del produttore, come la valutazione di sicurezza, le procedure di consultazione e coordinamento, i controlli ed alla sorveglianza del mercato.
Nel nostro ordinamento a fare da cornice a questa normativa è stata la legge sui diritti fondamentali dei consumatori n. 281 del 1998 salutata come il manifesto italiano della protezione degli interessi dei consumatori, ufficialmente fatti assurgere a rango di situazioni giuridiche di rilievo primario, e non più meri interessi adespoti e diffusi o meri interessi legittimi, in quanto si sancisce tra questi il diritto alla salute ed il diritto all’informazione, nonché il diritto alla sicurezza e qualità dei prodotti, come diritti che spettano ai consumatori in quanto tali e soprattutto come persone e non semplicemente come controparte dell’operazione economica secondo l’impostazione del codice civile del 1942 [12].
Ad oggi, le citate disposizioni sono tutte contenute nel codice del consumo, adottato nel 2006, per armonizzare e riordinare, compendiandole in un “sistema integrato di tutele”, le normative sui processi di acquisto e consumo al fine di assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti.
Alla luce del citato quadro normativo, in linea generale, emerge che, sotto il profilo della tutela della salute dei consumatori, la normazione tecnica riveste un ruolo chiave, e, a tal fine, si rende necessario chiarire i concetti di sicurezza e qualità, così come quelli di prodotto difettoso, prodotto pericoloso e prodotto non sicuro.
Sotto il primo aspetto, un distinguo può farsi definendo la sicurezza come qualità minima e cogente, in quanto tale specificamente definita dalle direttive, in quanto necessariamente richiesta affinchè il prodotto possa circolare nel mercato; mentre la qualità è destinata ad esser individuata soprattutto dagli standard fissati dalle norme tecniche, ed oggetto di un’adesione volontaria da parte dei produttori; entrambi questi requisiti sono attestati dal produttore con la certificazione e la marcatura dei prodotti, e costituiscono la base della garanzia legale di conformità, laddove si tratti di una vendita di beni di consumo ai sensi del codice del consumo (art. 128 cod. cons. e ss).
Il sistema delle certificazioni, parallelamente, si articola in una serie di certificazioni obbligatorie, che attestano cioè la conformità ai requisiti essenziali, cioè cogenti in quanto imposti per garantire che la commercializzazione avvenga nel rispetto di esigenze primarie della persona e certificazioni volontarie, le quali, per converso, attengono a requisiti aggiuntivi ulteriori; tale distinzione si rinviene nei documenti che pongono i requisiti stessi, quelli obbligatori sono posti da regole tecniche, quelli volontari dalle norme tecniche [13] .
Se la certificazione di qualità non garantisce il pregio, ma solo la conformità a detti requisiti, la qualità si reputa cogente quando imposta per garantire la sicurezza minima dei prodotti, mentre è considerata volontaria, ove attenga, piuttosto, a prestazioni in termini di affidabilità durata, essendo, in tal caso, destinata anche a prendere in considerazione istanze diverse,di natura sociale, etica ed oggi anche di sostenibilità [14] .
Quanto al secondo al spetto, il profilo del rapporto tra prodotto difettoso e prodotto privo dei requisiti di sicurezza è certamente più problematico, considerando, in primo luogo, che la disciplina della sicurezza generale, dopo esser confluita nel codice del consumo, rimane, comunque, di applicazione residuale, laddove, cioè, non esistano nell’ambito della normativa vigente, disposizioni specifiche aventi come obiettivo la sicurezza dei prodotti; tale residualità non esclude, infatti, che, se la normativa specifica fissa solo alcuni requisiti di sicurezza, quella generale rimane applicabile in via di integrazione, sulla base dell’individuazione dei rischi o delle categorie di rischio, ai sensi dell’art. 102 cod cons. comma 3[15].
L’inevitabilità del ricorso, anche in sede di accertamento della responsabilità del produttore, e quindi nell’ambito della tutela successiva, all’apparato di mezzi e rimedi posti a presidio della tutela del consumatore in tema di sicurezza dei prodotti sembra anche corroborata dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha ritenuto che il verificarsi di un danno non necessariamente debba essere ascritto alla pericolosità del prodotto, precisando che, ai fini della configurabilità della responsabilità del produttore, occorre provare che il bene/servizio non abbia offerto e soddisfatto i livelli minimi di sicurezza imposti dalle norme[16] .
Prendendo poi in considerazione le norme dettate in tema di compravendita nel codice civile, emerge, altresì, che il concetto di sicurezza risulta diverso da quello di vizio ex art. 1490 c.c.; difatti, il prodotto viziato può limitarsi a presentare una mera imperfezione, che nulla ha a che fare con la sicurezza che dal prodotto stesso il consumatore si aspetta – in quanto non ne determina la pericolosità.
In tal senso, allora, se è cruciale provare a delimitare con una certa tendenziale chiarezza l’ambito di rilevanza del requisito della sicurezza (piuttosto che non quello della difettosità tout court) ai fini della ricostruzione della responsabilità del produttore, tenendo conto della sua possibile applicazione in via di integrazione sulla base del tipo di rischio alla salute del consumatore, emerge, vieppiù, la centralità della disciplina consumeristica, cui si deve il merito di aver sancito i diritti del consumatore alla qualità e sicurezza e di averne ricollegato l’oggetto, cioè la sicurezza, alla salute dei consumatori, sulla base della valutazione dei rischi in termini di pericolosità.
Alla luce di quanto sopra, si tratta, pertanto, di stabilire se e quando la regola dettata dall’art. 103 del Codice del Consumo, che si occupa di definire i concetti di prodotto sicuro, prodotto pericoloso e rischio grave, possa esser considerata norma generale di riferimento, suscettibile, cioè, di estensione anche al di fuori dell’ambito di stretta applicazione della direttiva, potendo, cioè, costituire un punto di riferimento generale per il teorico come per il pratico, come dimostra il caso in esame.
Tale profilo è di non poco rilievo ove si consideri, ma di ciò si darà conto in prosieguo, che il principio che informa il nuovo approccio, cioè garantire la libera circolazione dei prodotti senza un controllo preliminare cogente, non si applica ai medicinali, soggetti ad un regime autorizzatorio.
Pertanto, il vero nodo è capire come i diritti alla salute, alla sicurezza ed alla qualità dei prodotti si applichino in questo settore merceologico, atteso che, come dimostra la sentenza in esame, il regime di responsabilità è unico, confermandosi che la disciplina della sicurezza e qualità dettata nel codice del consumo ed i presupposti su cui questa si fonda, e cioè, la sicurezza, il rischio e il difetto, sono dotati di una portata espansiva e, se si vuole, transtipica, anche cioè in detto ambito.
Di ciò, peraltro, sembra aver contezza anche la Suprema Corte, la quale tra le righe della decisione riconosce tale valenza al citato art. 103 cod. cons., il quale intende non la sicurezza dei prodotti come assenza totale di rischio, tant’è, infatti, che si prendono in considerazione i cosiddetti rischi minimi, accettabili in quanto ritenuti non idonei a mettere in pericolo la salute dei consumatori; peraltro, la disposizione definisce il prodotto privo del requisito di sicurezza come prodotto pericoloso anche in relazione al rischio grave, che, cioè, richieda l’immediato intervento delle autorità.
In merito alla necessità di distinguere l’assenza di rischi dall’ assenza di difetti, alla luce dei parametri indicati dalla citata disposizione, si può ritenere che il concetto di sicurezza risulta più stringente di quello di assenza di difetti, poiché esso si definisce in relazione all’assenza di rischi per la salute del consumatore, ovvero di rischi che non siano per questi accettabili.
Nondimeno, giova sottolineare che ai fini dell’accertamento del livello di rischio accettabile, riveste un ruolo decisivo la normativa indicata nelle specifiche tecniche allegate alle direttive, e, pertanto, non è sufficiente verificare l’assenza di difetti; ne deriva che difettosità e pericolosità possono non coincidere, perché (va da sé che) il prodotto privo di difetti può comunque essere pericoloso e viceversa. Difettoso è anche il prodotto non conforme alle caratteristiche qualitative dichiarate dal produttore, ma comunque di per sé non idonee a mettere in pericolo la salute del consumatore.
Sotto questo specifico aspetto, non può farsi a meno di richiamare la tesi che ha rilevato una distonia tra la difettosità come definita dalla direttiva sulla sicurezza generale dei prodotti e quella dettata dalla direttiva sulla responsabilità del produttore, entrambe, peraltro, recepite nelle corrispondenti norme del codice del consumo. Da un esame comparativo di queste si evince, infatti, che, nel primo caso, il parametro valutativo della sicurezza è il rischio per la salute, mentre nel secondo, in un’ottica più squisitamente di mercato, si assume a criterio quello della ragionevole aspettativa di sicurezza del consumatore[17].
Inoltre, si deve osservare, altresì, che il concetto di prodotto difettoso non necessariamente coincide con quello di prodotto dannoso, in quanto il difetto e la mancanza di sicurezza vanno tenuti tra loro distinti alla luce della nota possibilità del danno da prodotto conforme [18] .
Discende da quanto sopra che se, sul piano astratto e definitorio, sicurezza e mancanza di rischio e quindi di pericolosità sono concetti equipollenti, e possono non coincidere con quello di difettosità, dato che l’assenza di rischio varia in base al tipo di prodotto, tale circostanza pone un delicato problema di coordinamento tra normative orizzontali e tra queste e eventuali normative verticali pubblicistiche, atteso che le prime possono prendere distintamente in considerazione diversi profili di sicurezza e rischiosità anche rispetto ai processi di fabbricazione.
Non a caso già la citata risoluzione europea sul nuovo approccio curava di precisare che “la definizione della gamma dei prodotti coperti e della natura dei rischi da evitare deve assicurare un approccio coerente. La sovrapposizione di diverse direttive concernenti tipi diversi di rischi per la stessa categoria di prodotti non può essere esclusa”.
La responsabilità del produttore di farmaci dipende, in tal senso, a monte dal coordinamento tra norme generali e regole di settore, nonché tra fonti multilivello, di tipo orizzontale e di tipo verticale [19].
[1] F. Caroccia, Tra diritto alla salute e tutela della concorrenza: parallel trade e diritto di accesso ai farmaci nel contesto emergenziali, in Dir. sal., riv. san. resp. medica, 2020, 2, 1 ss., la quale sottolinea come si richieda di assicurare la tutela della salute, garantendo la qualità delle cure e la loro diffusione a tutta la collettività, contenendo la spesa pubblica e tenendo comunque conto della posizione di distributori, produttori e venditori.
[2] A. Albanese, La sicurezza generale dei prodotti e la responsabilità del produttore nel diritto italiano ed europeo, in Eur. dir. priv., 2005, 4, 977 ss.
[3] A. Querci, Responsabilità per danno da farmaci: quali i rimedi a tutela della salute?, in Danno e resp., 2012, 4, 353 ss., secondo cui “ In questi casi, il problema non è solo quello di fornire (ex post) un’adeguata tutela al soggetto danneggiato, ma anche quello di predisporre strumenti che possano intervenire (ex ante) per evitare il prodursi del danno o, comunque, per contenerlo il più possibile”; in argomento si rimanda anche a G. Alpa, La responsabilità del produttore di farmaci, in Rass. dir. farm., 1984, 349 ss. Per un’analisi comparatistica si rinvia a G. Priest, G. Ponzanelli, F. Cosentino, La controrivoluzione nel diritto della responsabilità dei prodotti negli Stati Uniti d’America, nota a Corte Suprema della California, 31 marzo 1988, Giudice Mosk, in Foro. it., 1989, IV, 119 ss.
[4] G. Alpa, Art. 2 diritti dei consumatori, in G. Alpa, L. Rossi Carleo, (a cura di), Codice del consumo. Commentario, Napoli, 2005, 31 ss.
[5] F. Caroccia, Danni da prodotti medicali e responsabilità civile, in G. Alpa (a cura di), La responsabilità sanitaria, Pisa, 2017, 329 ss.; Id, La responsabilità per danno da prodotto farmaceutico, in Annali della Facoltà Giuridica dell’Università di Camerino, 2, 2013, 1 ss.
[6] R. Montinaro, Dubbio scientifico e responsabilità civile, 2012, passim; A. Mantelero, I danni di massa da farmaci, in A. Belvedere e S. Riondato (a cura di), Le responsabilità in medicina, in S. Rodotà e P. Zatti (diretto da), Trattato di biodiritto, Milano, 2011, 497, secondo cui “il danno da farmaci pare rientrare a pieno titolo nella più generale categoria dei danni di massa”. Si veda, pure, F. Stella, Il rischio da ignoto tecnologico e il mito delle discipline, in G. Alpa (a cura di), Il rischio da ignoto tecnologico, Milano, 2002, 3 ss. Il dibattito sul rapporto tra diritto e scienza abbraccia anche quello sul cosiddetto nichilismo giuridico, circa e difficoltà di tradurre in norme giuridiche certe le verità scientifiche. Sul punto, N. Irti, Diritti senza verità, Roma-Bari, 2011.
[7] Sul punto, diffusamente, E. Bellisario, Certificazioni di qualità e responsabilità civile, Milano, 2011, passim.
[8] E. Al Murden, Il danno da “prodotto conforme”: le soluzioni europee e statunitensi nella prospettiva del Transatlantic Trade and Investment Partnership (T.T.I.P.), in Rev. Jur da FA7, 2016, 2, 165 ss., il quale, in senso critico, osserva che “a trent’anni dall’adozione della dir. 85/374/CEE, che ha introdotto nei Paesi dell’Unione Europea una disciplina armonizzata della responsabilità del produttore, e a trentadue dall’avvio del c.d. “nuovo approccio” (dir. 83/189/CEE), mediante il quale è stato avviato quel processo di armonizzazione degli standards di sicurezza attualmente oggetto di un processo di un’ulteriore implementazione e razionalizzazione (New Legislative Fra- mework) di cui dà ampio conto The Blu Guide on the Implementation of EU Product Rules, pubblicata dalla Commissione Europea nel 2014, il tema della sicurezza dei prodotti e della responsabilità del fabbricante non sembrano aver conosciuto negli ordinamenti europei e, in particolare in quello italiano, quella rilevanza che, da ormai cinque decenni caratterizza l’esperienza giuridica nordamericana”. Si rimanda anche alle osservazioni di A. Querci, Responsabilità da prodotto negli USA e in Europa. Le ragioni di un revirement globale, in Nuova giur. civ. e comm., 2011, 115 ss.
[9] Secondo la dottrina, non si tratterebbe di vere e proprie presunzioni, che quindi non realizzano in inversione dell’onere probatorio, in quanto sono solo parametri che servono ad una qualificazione giuridica del bene al fine di apprezzare l’esatto adempi- mento. Vedi M. Girolami, Art. 129, Conformità al contratto, in Commentario breve al diritto dei consumatori, a cura di A. Zaccaria e G. De Cristofaro, Cedam, Padova, 2010, 825 ss.; Id., I criteri di conformità al contratto fra promissio negoziale e determinazione legislativa nell’art. 129 del Codice del Consumo, (d.lg. 6 settembre 2005 n. 206), in Riv. dir. civ., 2006, 1, 227; S. Patti, Sul superamento della distinzione tra vizi e aliud pro alio datum nella direttiva 1999/44/Ce, in Riv. dir. civ., II, 2002, 626 ss.; G. Amadio, Difetto di conformità e tutele sinallagmatiche, in Riv. dir. civ., I, 2001, 871 ss.; Id., La conformità al contratto tra garanzia e responsabilità, in Contr. impr./Eur., 1, 2001, 6, ss. L’A. afferma che il parametro normativo della conformità al contratto si pone tendenzialmente quale nuovo modello di disciplina consono alla dialettica degli interessi professionisti-consumatori. Altri, R. De Matteis, Il difetto di conformità e l’equilibrio contrattuale dello scambio, in Contr. impr./Eur., 1, 2001, 46, osservano come “sia possibile enucleare dalla normativa comunitaria un principio generale di conformità del bene al contratto, cui rapportare l’inadempimento del venditore per inesatta esecuzione del contratto”. Vedi anche G. De Cristofaro, Difetto di conformità al contratto e diritti del consumatore, Padova, 2000, 53, secondo cui la previsione dell’obbligo di conformità avrebbe introdotto un unitario concetto superando la tradizionale tricotomia tra vizio, mancanza di qualità e aliud pro alio.
[10] Nella prospettiva che considera al complessità del mercato e la assimilazione tra beni e servizi, in generale, si veda E. Bellisario, Lo stralcio delle disposizioni sulle certificazioni di qua- lità dal Codice del consumo: un’occasione mancata, in Eur. dir. priv., 2005, 1045 ss. Vedi anche L. Rossi Carleo, Il mercato tra scelte volontarie e comportamenti obbligatori, in Eur. dir. priv., 1, 2008, 155 ss.
[11] F. Ruscello, La Direttiva 2001/95/Ce sulla sicurezza generale dei prodotti. Dalla tutela del consumatore alla tutela della persona, in Vita not., 2004, 1, 139 ss.; M. Condinanzi, L'attuazione della Direttiva sulla sicurezza generale dei prodotti, in Contr. impr./Europa, 1997, 941 ss.
[12] G. Alpa, (a cura di), I diritti dei consumatori, Torino, 2010.
[13] E. Bellisario, Lo stralcio, cit., 1068 ss.
[14] E. Bellisario, Certificazioni, cit., 19 ss.
[15] La norma stabilisce infatti che se taluni prodotti sono soggetti a requisiti di sicurezza prescritti da normativa comunitaria, le disposizioni del presente titolo si applicano unicamente per gli aspetti e i rischi o le categorie di rischio non soggetti a tali requisiti. Sul punto, E. Bellisario, Art. 102, Finalità e campo di applicazione, in Codice del Consumo, cit., 679 ss.
[16] Cass.19 febbraio 2016 n. 3258, in. Guida dir., 2016, n. 17, 51, secondo cui ha precisato che “il danno non prova indirettamente, di per sé, la pericolosità del prodotto in condizioni normali di impiego, ma solo una più indefinita pericolosità del prodotto di per sé insufficiente per istituire la responsabilità del produttore, se non sia anche in concreto accertato che quella specifica condizione di insicurezza del prodotto si pone al di sotto del livello di garanzia di affidabilità richiesto dalla utenza o dalle leggi in materia; Cass.29 maggio 2013 n. 13458, in Corr. giur., 2014, 1, 31 ss., con nota di L. Di Benedetto, Legittimazione ad agire, oneri probatori del danneggiato, conferme e richiami della Suprema Corte in materia di responsabilità da prodotto difettoso; con tale pronuncia si è ritenuto che “il concetto di difetto così assunto è sostanzialmente riconducibile al difetto di fabbricazione ovvero alle ipotesi [...] dell'assenza o carenza di istruzioni ed è strettamente connesso al concetto di sicurezza; non corrisponde, quindi, alla nozione di "vizio" conosciuta dal codice civile (art. 1490 cod. civ. e seg.), la quale si identifica in un'imperfezione del bene e può anche non comportare un'insicurezza del prodotto; neppure coincide con il difetto di conformità introdotto dalla disciplina sulla vendita dei beni di consumo, postulando - così come concepito dalla normativa all'esame - un pericolo per il soggetto che fa un uso del prodotto o per coloro che, comunque, si trovano in contatto con esso. Il legislatore ha, inoltre, precisato che il prodotto non può essere considerato difettoso per il solo fatto che un prodotto più perfezionato sia stato in qualunque tempo messo in commercio e che il prodotto è difettoso se non offre la sicurezza offerta normalmente dagli altri esemplari della medesima serie”.
[17] E. Bellisario, Art. 103 Definizioni, in G. Alpa, (a cura di) Codice del consumo. Commentario, Napoli, 2005, 686.
[18] G. Guerra, Il concetto di difettosità nella realtà che cambia, un esercizio di micorcomparazione, in Comp. dir. civ., 2019, 1, 249 ss., secondo cui si tratta di nozione «relazionale», poiché è strettamente connessa al concetto di sicurezza e si configura, ex art. 6 Direttiva 85/374/CEE in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi (d’ora in poi: la Direttiva), quando il prodotto “non offre la sicurezza che il consumatore può legittimamente attendere”.
[19] E. Battelli, Codice del consumo, codice civile e codici di settore: un rapporto non meramente di specialità, in Eur. dir. priv., 2, 2016, 425 ss.; P. Sirena, La dialettica parte generale – parte speciale nei contratti stipulati con i consumatori, in E. Navarretta (a cura di), Il diritto europeo dei contratti fra parte generale e norme di settore, Milano, 2008, 493 ss.; V. Roppo, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv., 2001, 769.
La disciplina della fabbricazione e commercializzazione dei farmaci che sono prodotti industrialmente è dettata dal cosiddetto “Codice comunitario relativo ai medicinali ad uso umano”, di cui alla direttiva, la 83/2001, (modificata con le direttive 2004/24/CE/ e 2004/27/CE3, nonchè integrata dalla Direttiva 2010/84/UE e dal Reg. 1394/2007/CE, sui prodotti medicinali per terapie avanzate) frutto di una politica tesa ad assicurare alla persona-consumatore idonee tutela, in virtù della sua posizione di accentuata debolezza a fronte di soggetti economicamente forti come i produttori, rispetto ai quali i rimedi assicurativi e risarcitori possono non risultare idonei a prevenire o contenere rischi e danni.
Alla luce del codice, si intende per farmaco: a) ogni sostanza o associazione di sostanze presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane; b) ogni sostanza o associazione di sostanze che possa essere utilizzata sull’uomo o somministrata all’uomo allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un’azione farmacologica, immunologica o metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica.
La disciplina è conforme al principio dell’autorizzazione all’immissione in commercio introdotto già nel 1965 con la Direttiva 65/65/CEE. Il sistema normativo prevede una stretta collaborazione tra autorità nazionali di regolamentazione, Commissione europea ed EMA chiamata ad elaborare le linee guida scientifiche a favore di quanti sono impegnati nella ricerca e nello sviluppo di nuovi medicinali.
Nonostante il ruolo delle Autorità regolatorie con compiti di ricerca e consulenza, volti ad assicurare standard di sicurezza e qualità dei prodotti farmaceutici, richiami per certi versi quelli di un ente di normalizzazione, la commercializzazione dei farmaci risponde in parte a criteri diversi da quelli precedentemente richiamati, essendo subordinata ad una procedura autorizzatoria, la cui esclusione a monte è invece alla base della logica del Nuovo approccio, nato essenzialmente come fenomeno spontaneo.
In questo ambito merceologico, cioè quello dei medicinali, si può dire che l’intreccio tra normative orizzontali e normative verticali è sicuramente più stringente e più penetrante è il ruolo della sorveglianza- detta farmacovigilanza- e del principio di precauzione [1] .
Ciononostante, tuttavia, occorre rimarcare che in ambito sanitario il sistema del nuovo approccio è in pieno stato recepito per informare la circolazione dei dispositivi medici: infatti a partire dall’emanazione della direttiva 93/42/CE gli Stati membri non possono «vietare, limitare o ostacolare la commercializzazione di dispositivi medici che siano conformi alle disposizioni di tale direttiva e che siano muniti della marcatura CE»; si può dire che anche in questo settore operi il regime della presunzione di conformità dei prodotti che ne sono muniti a tutta una serie di requisiti essenziali di sicurezza e di efficacia, che i prodotti debbono rispettare e la cui osservanza e soprattutto verifica sarà a cura del fabbricante, nelle varie fasi della progettazione, della gestione dei rischi, della fabbricazione, ivi comprese le predisposizione delle istruzioni per l’uso, dell’etichettatura e tutta la sorveglianza post-vendita[2] .
In entrambi i casi, cioè, sia nel caso della commercializzazione dei farmaci, che in quella dei dispositivi medici, sono previste procedure e di obblighi, finalizzate a ridurre il rischio di danno alla persona, ma destinate in qualche modo a favorire la libera circolazione delle merci, garantendo la messa in commercio di prodotti sicuri ed efficaci.
Le interrelazioni tra la disciplina consumeristica e quella appositamente emanata in tema di prodotti farmaceutici sono oggi poi particolarmente evidenti nel settore della vendita dei farmaci on line (ammessa, peraltro, solo per i farmaci per i quali non è richiesta prescrizione), richiamando, comunque sia pure con alcune eccezioni, i profili della disciplina delle vendite a distanza, per esempio con riguardo alle regole sulla pubblicità e sulle informazioni circa le caratteristiche dei prodotti [3] .
Cruciale per l’interprete è provare a capire come si intersecano queste fonti multilivello, se principi ispiratori comuni, come quello di precauzione, il riconoscimento di diritti fondamentali quali la salute, la sicurezza e la qualità dei prodotti nella legislazione consumeristica, e la predisposizione di appositi strumenti di tutela preventiva come ad esempio gli obblighi di informazione, possano agevolare l’interprete chiamato a valutare la rischiosità e la pericolosità dei prodotti farmaceutici e quindi a formulare eventualmente giudizi di responsabilità per danni alla salute del consumatore, che allo stato in base al diritto vigente, va ricondotta ad uno stesso regime giuridico, cioè quello della responsabilità del produttore.
[1] E. Del Prato, Il principio di precauzione nel diritto privato: spunti, in Rass. dir. civ., 2009, 634 ss.; A. Zei, voce Principio di precauzione, in Dig. disc. pubbl., Agg., II, Milano, 2008, 670 ss.
[2] F. Caroccia, Tra diritto alla salute, cit., 1 ss., la quale si occupa del nuovo Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio 2020/561 UE del 23 aprile 2020 sui dispositivi medici, che prevede “in risposta alla crisi pandemica, deroghe consistenti alle normali procedure di immissione di prodotti medicali, allentando una serie di vincoli e di controlli ed al contempo rafforzando gli elementi di unitarietà del mercato di questi prodotti, soprattutto al fine di garantire almeno sul mercato comunitario la reperibilità dei prodotti medicali necessari”. Si veda, pure, in tema di dispositivi medici, G. Passarelli, Responsabilità civile e dispositivo medico difettoso, in Rass. dir. civ., 2018, 2, 559 ss.; F. Caroccia, L'"affaire PIP" ["Poly Implant Prothese"]. Dispositivi medici difettosi e responsabilità dell'organismo modificato, La Nuova giurisprudenza civile commentata, 2017, 9, 1244 ss.; S. Nobile de Santis, Sostituzione di dispositivi medici "potenzialmente" difettosi e "product liability": le indicazioni della Corte di giustizia, nota a CGUE sez. IV 5 marzo 2015 (cause C-503/13 e C-504/13), in Resp. civ. prev., 2015, 3, 756 ss.; G.Montanari Vergallo, A. Dell'Erba, N. M. Di Luca, La responsabilità civile per i danni causati dai dispostivi medici, in Zacchia 2010, 3, 325 ss.
[3] La vendita di farmaci online è disciplinata dall’art. 112-quater del d.lg. n. 219/2006, modificato dal d.lg. n. 17/2014, che ha recepito la Direttiva 2011/62/UE, e da apposite circolari del Ministero della salute ad oggetto la procedura di autorizzazione all’e-commerce.
Come più volte osservato, in assenza di una disciplina ad hoc della responsabilità del produttore in generale, il codice civile è stato il punto di riferimento sia per la tutela su base contrattuale dell’acquirente, sia per una tutela più ampia che prescindesse dall’atto negoziale e che vedesse come protagonista il danneggiato, ricostruendone i rapporti con il danneggiante su un piano extracontrattuale [1] .
Sotto il primo punto di vista, le norme dettate in materia di compravendita, e in particolare gli artt. 1490 ss. c.c. in tema di responsabilità del venditore per i vizi della cosa venduta, sono state in un primo momento considerate per attribuire rilievo alle ipotesi cosiddette di difformità del bene venduto, sotto il profilo di difetti giuridici che si presentassero come difetti di fabbricazione, mancanza di qualità od addirittura aliud por alio [2] .
Il limite della tutela offerta dalle citate disposizioni è stato individuato sotto due profili; il primo ricavato dal fatto che l’operatività delle cosiddette garanzie fondate sulle azioni edilizie era necessariamente ristretta ad un presupposto rapporto contrattuale tra un compratore ed un venditore; il secondo, forse più complesso ravvisato nella difficoltà di applicare a prodotti particolari come i farmaci i difetti così come individuati dalla normativa in tema di vendita, fondata su un concetto di qualità più soggettivo, inteso come pregio, che oggettivo e comunque abbastanza lontano dall’idea che della qualità si è lentamente fatta strada in ambito merceologico, basata sul più scientifico concetto di conformità ad uno standard elaborato attraverso la predisposizione di norme tecniche.
Un limite ulteriore all’applicazione del regime della vendita era stato peraltro colto nel disposto dell’art. 1494 c.c., che esclude la responsabilità del venditore che provi di aver ignorato senza sua colpa i vizi della cosa. La produzione e la distribuzione di massa dei beni di consumo in un mercato frenetico agevola il venditore nella prova di aver ignorato i vizi.
Alla luce di ciò, un ruolo di supplenza è stato svolto dalla clausola generale del neminem laedere, che, come noto, configura una responsabilità che prescinde da una pregressa relazione danneggiante-danneggiato, sicchè, attraverso il riferimento all’ampio e variegato genus dell’illecito extracontrattuale, si è giunti altresì ad individuare come norma particolarmente adatta a governare i danni dalla produzione di farmaci nell’esercizio delle attività pericolose e quindi nel regime dell’art. 2050 c.c., sicuramente più favorevole al danneggiato sul piano della distribuzione dell’onere probatorio, rispetto ad un sistema di responsabilità civile fondato sul criterio di imputazione della colpa [3] .
Per giustificare l’utilizzo di tale norma, si è dovuto adottare una nozione ampia di pericolosità, ritenendo dunque sufficiente l’intrinseca pericolosità del “prodotto” per considerare tale anche l’intera “attività” [4].
Il riferimento alla norma dell’art. 2050 c.c., oltre che comportare l’accettazione di una nozione estesa di “attività pericolosa”, in relazione, cioè, a tutte quelle potenzialmente pregiudizievoli per la salute, costituiva e costituisce, in tutta coerenza, il riflesso dell’estensione al settore dei farmaci della logica imprenditoriale che aveva ispirato la norma in esame, segno evidente che la disciplina del codice civile fosse stata pensata e destinata non solo all’atto giuridico isolatamente inteso, e per antonomasia al contratto, ma altresì alle attività economiche come tipiche attività lecite e rischiose segnatamente le attività di impresa [5] .
Una specifica attenzione alla pericolosità per la salute del prodotto, piuttosto che dell’attività, è stata, però, riservata dalla disciplina della responsabilità del produttore, cioè di colui il quale, a seguito del processo di fabbricazione, provvede all’immissione in commercio di tali prodotti, e che si assume il rischio connesso ai danni che i beni possano arrecare i rischi alla salute del consumatore [6].
In tal senso, la direttiva 85/374/CE, confluita integralmente nel codice del consumo, ha rappresentato senza dubbio una svolta, ed una risposta alle istanze di sottrarre la responsabilità del produttore alle comuni regole dell’illecito aquiliano e della responsabilità civile, per informarla ad un regime ad hoc, atta a riconoscere che «il produttore è responsabile del danno causato da un difetto del suo prodotto», intendendo per produttore il fabbricante di un prodotto finito, il produttore di una materia prima o il fabbricante di una parte componente, nonché ogni persona che, apponendo il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto, si presenta come produttore dello stesso» [7].
Il modello di responsabilità delineato dalla normativa è tendenzialmente di tipo oggettivo, poiché non dipende ex se dalla condotta del danneggiante, come confermato nel secondo considerando della citata direttiva secondo cui “solo la responsabilità del produttore, indipendente dalla sua colpa costituisce un’adeguata soluzione del problema” e testualmente dall’art. 114 del codice del consumo (in cui la direttiva è confluita) a tenore del quale il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto. Lo schema disegnato dalla normativa di derivazione europea fonda, piuttosto, su una caratteristica o condizione del bene, e, cioè, sulla difettosità intesa quale mancanza di sicurezza, la quale ricorre laddove un prodotto «non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere», tenuto conto delle modalità e del tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, della sua presentazione, delle istruzioni e avvertenze, dell’uso a cui può essere ragionevolmente destinato e dei comportamenti ragionevolmente prevedibili in relazione ad esso [8].
La difettosità, così intesa, è dunque al centro dell’accertamento della responsabilità, la quale non richiede la dimostrazione della colpa del danneggiante, ma pone a carico del danneggiato l’onere di provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno [9].
In tale direzione, anche con riferimento al rilievo riconosciuto al fatto di aver messo in senso lato in circolazione il prodotto difettoso, l’intento del legislatore sarebbe stato quello di sganciare l’accertamento della responsabilità dall’apprezzamento in termini di elemento soggettivo dell’illecito, dalla condotta del danneggiante e quindi dalla sua colpevolezza, secondo il modello della strict liability.
Invero, la natura della responsabilità del produttore sembra ricostruita diversamente in dottrina (che propende per la tesi di una responsabilità oggettiva sia pure limitata) ed in giurisprudenza, la quale non disdegna il ricorso alla discussa figura della cd. responsabilità presunta, ciò in considerazione degli oneri probatori posti a carico del produttore e del consumatore[10]. In particolare, mentre l’art. 120 cod. cons. sembrerebbe confermare la natura oggettiva, è l’art. 118 cod. cons., che, indicando una serie di circostanze e di fatti allegando la cui prova in giudizio il produttore può andare esente da responsabilità, metterebbe in dubbio la natura oggettiva dell’illecito.
In tal senso, si tratta di stabilire se le ipotesi di esclusione della responsabilità che ricorrono, ad esempio, se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo in circolazione il prodotto; se il difetto è dovuto a conformità a norme imperative o provvedimenti vincolanti; ovvero, quando lo stato delle conoscenze scientifiche raggiunte al momento della commercializzazione non consentivano di rilevare la difettosità, abbiano una mera rilevanza causale, valendo detti fatti a dimostrare solo la riconducibilità del danno al difetto, oppure se dette circostanze in qualche modo consentano di prendere in considerazione il comportamento del produttore sotto il profilo dell’elemento soggettivo[11]. Il dubbio sembra comunque sussistere ed alimentato da quella parte della giurisprudenza che non esclude il ricorso all’art. 2043, in via residuale.
Inoltre, è il richiamo al cosiddetto rischio da ignoto tecnologico, quale limite alla responsabilità del produttore, che potrà liberarsi dimostrando che il difetto non sussisteva nel momento in cui il prodotto fosse stato immesso in circolazione, ovvero che all’epoca lo stesso non era riconoscibile in base allo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche ad alimentare non pochi contrasti, (che non sembrano solo di tipo terminologico), anche in giurisprudenza[12]. Le Corti, infatti, pur risultando propense per la tesi più rigorosa, laddove rimarcano la rilevanza della prova del nesso causale tra difetto e danno, e del fatto di aver creato una oggettiva situazione di pericolo con l’immissione in commercio di un siffatto prodotto, talvolta richiamano il modello di una cosiddetta responsabilità presunta, come dimostra la sentenza in commento [13].
La dottrina, al contrario, sembra sposare la tesi della natura oggettiva della responsabilità, sia pure limitata dal più volte richiamato regime probatorio e dalla distribuzione del relativo onere tra le parti, danneggiante e danneggiato, rispettivamente, alla luce degli artt. 118 e 120 del codice del consumo; il regime normativo così delineato, infatti, per quanto idoneo a tollerare meccanismi e criteri complementari di valutazione dei comportamenti del produttore non implicherebbe una contaminazione tra profilo soggettivo e profilo oggettivo della responsabilità[14].
La ricostruzione della natura della responsabilità sembra poi dipendere anche dalla circostanza che in fase di accertamento si ricorra sovente alle presunzioni semplici per desumere il carattere della difettosità del prodotto. Tale ricorso si rende indispensabile, come conferma la decisione in esame, in quanto si tratta di accertare il cosiddetto livello di sicurezza al di sotto del quale il prodotto deve considerarsi difettoso, (richiamando l’art. 103 del codice del consumo) e a tal fine, dal momento che a tenore di detta disposizione detto livello non corrisponde a quello della sua più rigorosa innocuità, si deve fare “ riferimento ai requisiti di sicurezza dall’utenza generalmente richiesti in relazione alle circostanze specificamente indicate all’art. 117 Codice del consumo (e già all’art. 5 d.p.r. n. 224 del 1988), o ad altri elementi in concreto valutabili e concretamente valutati dal giudice di merito, nell’ambito dei quali debbono farsi rientrare gli standards di sicurezza eventualmente imposti dalle norme in materia”.
Sul punto, giova rilevare che secondo una parte della dottrina di per sé le presunzioni di responsabilità- del tipo di quelle contemplate nel codice civile nelle ipotesi cosiddette speciali di cui agli artt. 2047 c.c. e seguenti- non varrebbero a far sorgere una responsabilità presunta, ma piuttosto andrebbero rilette sul piano dell’operatività della distribuzione dell’onere probatori. Tale operazione richiederebbe una ricostruzione delle diverse ipotesi cosiddette speciali alla stregua di fattispecie complesse, comprensive di un fatto costitutivo- che sicuramente prescinde dalla colpa (nel caso di specie il difetto) - e di un fatto impeditivo, attraverso il quale, per il tramite dell’assolvimento del predetto onere, si verrebbe ad attribuire una sia pur limitata rilevanza all’assenza di colpa.
La conseguenza sarebbe la configurazione di un genus di responsabilità intermedio tra quella soggettiva e colpevole e quelle oggettiva indipendente dalla colpa[15].
Nel merito, si potrebbe osservare che la ricostruzione in termini oggettivi, sia pure limitati, della responsabilità in esame, risulta più coerente con l’impianto della disciplina europea della sicurezza generale dei prodotti ma anche della responsabilità del produttore, tese cioè ad informare la messa in circolazione dei prodotti al principio di presunzione di sicurezza dei prodotti conformi alle norme tecniche armonizzate; queste ultime, infatti, individuano specifici parametri di valutazione dei rischi, anticipando la soglia della responsabilità, fondandola su criteri oggettivamente apprezzabili e verificabili, anche per uniformare la tutela dei diritti dei consumatori.
Ciò sia detto vieppiù con riguardo al settore farmaceutico laddove esiste un apparato di regole ad hoc che culmina nel sistema all’autorizzazione al commercio.
In ogni caso, sembra che la normativa della responsabilità del produttore, come declinata nel codice del consumo, si addica maggiormente al settore della commercializzazione dei farmaci, rispetto a quella in tema di esercizio di attività e pericolosa dettata dal codice civile, in considerazione del correttivo che essa apporta al concetto di sicurezza del prodotto, già delineato, peraltro, dalle stesse norme dettate sulla sicurezza generale dei prodotti in detto codice.
Una conferma si evince proprio dalla rilevanza giuridica riconosciuta al cosiddetto rischio da ignoto tecnologico, quale limite alla responsabilità del produttore, il quale potrà liberarsi dimostrando che il difetto non sussisteva nel momento in cui il prodotto fosse stato immesso in circolazione, ovvero che all’epoca lo stesso non era riconoscibile in base allo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche ad alimentare non pochi contrasti, (che non sembrano solo di tipo terminologico), anche in giurisprudenza[16].
Peraltro, se le norme sulla sicurezza generale dei prodotti non ambiscono a rafforzare a tal punto la tutela dei consumatori da assicurare la circolazione dei soli prodotti innocui od a rischio praticamente nullo, ammettendo che il prodotto rimane sicuro anche in presenza di un rischio minimo, ma non grave, a maggior ragione, più favorevole al produttore è la norma dettata dall’art. 118 cod. cons., che pare, in buona sostanza, esonerarlo da responsabilità per difetti di conoscenza a lui inimputabili, secondo lo stato di avanzamento della scienza e della tecnica al tempo dell’immissione nel mercato.
D’altro canto il diritto è necessariamente chiamato a svolgere un ruolo cruciale (di supplenza se si vuole rispetto alla tecnica ed alle scienze) nella ricerca dei livelli di sicurezza dei prodotti per la tutela della salute dei consumatori, e questo è possibile grazie alla predisposizione di norme ispirate ai principi di precauzione e di ragionevolezza pienamente operanti anche nei rapporti di consumo, sia sul piano della tutela preventiva che di quella successiva.
Del resto anche l’art. 191 T.F.U.E, stabilendo che quale la mancanza di certezza scientifica non può essere motivo per rinviare misure od azioni dirette a proteggere salute ed ambiente, impone la predisposizione di strumenti atti a prevenire rischi, ovvero, quantomeno, ad individuare il rischio tollerabile secondo quanto prevede il citato art. 103 c.c.
Ne deriva che la risposta all’interrogativo legato all’individuazione del limite di sicurezza ovvero di rischio accettabile a fronte del dubbio scientifico[17] va ricercata nelle stesse regole sulla sicurezza dei prodotti, che governano la produzione e l’immissione in commercio dei beni, ed il cui scrupoloso rispetto è destinato a rilevare in sede di apprezzamento della responsabilità, non sotto il profilo della colpa, ma dell’accertamento della difettosità e della sicurezza ovvero della prova liberatoria, per quanto diabolica, a carico del produttore.
Nell’ambito di questi debbono farsi rientrare gli standard di sicurezza richiesti dalle norme in materia (non solo di prodotto ma anche di processo, che si sono tradotti nell’implementazione delle cosiddette buone pratiche nell’ambito della farmacovigilanza, in particolare di quelle di fabbricazione, costituite da un insieme di regole che descrivono i metodi, i processi, le attrezzature, i mezzi e la gestione della fabbricazione dei medicinali per assicurarne standard di qualità appropriati e che sono state considerate come frutto dell’applicazione del sistema qualità in ambito farmaceutico e farmacologico)[18].
Nondimeno, ed a tal fine, il criterio normativo delle cosiddette legittime aspettative corrobora l’apprezzamento del livello di rischiosità e quindi l’accertamento dell’eventuale responsabilità, atteggiandosi quale parametro atto a realizzare, a fronte dell’incertezza scientifica, una sorta di distribuzione dei rischi tra produttore e consumatori, senza intaccare il principio della “generalizzata assunzione, da parte delle imprese, dei rischi che esse sono in grado di controllare meglio dei consumatori” [19], nella misura in cui lo stesso pubblico dei consumatori sia reso edotto e cioè sia messo in condizioni di maturare il proprio convincimento circa i requisiti del prodotto, anche al fine dell’esercizio del proprio diritto all’autodeterminazione, che costituisce un presupposto della libertà di cura.
Se tutto quanto osservato può risultare condivisibile, non si può tuttavia far a meno di nutrire qualche perplessità, considerando il particolare settore merceologico di riferimento continuamente interessato dall’evoluzione della scienza e della tecnica da nuove scoperte, e dove tuttavia è più difficile che i consumatori acquisiscano un certo grado di consapevolezza sui rischi del prodotto.
Senza trascurare il compito svolto dalla farmacovigilanza e il necessario rispetto delle linee guida e delle buone pratiche in sede di fabbricazione per la prevenzione dei rischi per la salute[20], se si assume che il rischio suscettibile di esser posto a carico del produttore dipende (anche) da una corretta e sufficiente informazione circa l’uso ragionevole previsto e prevedibile del prodotto, non può non rilevarsi che questo limite appare mobile, se non evanescente, in ragione del tipo di pubblico dei consumatori e delle peculiarità del settore di mercato, interessato da continue ricerche ed influenzato dallo stato di avanzamento della scienza; sicchè, potrebbe dubitarsi dell’effettiva idoneità di una corretta informazione a ridurre il rischio di danni alla salute dei consumatori di farmaci.
Ciò spiega, ed è questo il profilo emerso dalla decisione in esame, su cui è opportuno soffermarsi, il delicato ruolo dell’informazione e come si dirà dell’educazione dei consumatori[21].
[1] F. Caroccia, La responsabilità, cit., 1 ss.; in generale sui problemi di individuazione della normativa applicabile alla responsabilità del produttore in assenza di una legislazione ad hoc, si rimanda tra i primi commenti a G. Alpa, Sulla responsabilità del fabbricante per l’immissione nel mercato di prodotti dannosi, in Giur. it., 1971, I, 2, 1149., e sul problema del superamento del criterio della colpa a S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964 e a M. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961.
[2] U. Grassi, I sistemi di protezione dell’acquirente, Napoli, 2015, 68, opera anche un excursus sui precedenti nel diritto romano, rilevando che “nell’ordinamento arcaico si usava aggiungere al contratto di compravendita una stipulazione, accanto a quella per evizione, con la quale si prometteva che la cosa non avesse vizi”; l’A. ricorda poi l’intervento degli edili curuli che con due editti istituirono l’actio redibitoria e l’actio estimatoria e l’intervento di Giustiniano ad opera del quale queste azioni furono estese ad ogni vendita mobiliare od immobiliare. C.M. Bianca, La vendita e la permuta, cit., 260 e 261 e 262, il quale tra i criteri di determinazione legale del bene dovuto, richiama le qualità essenziali all’uso cui la cosa è destinata e le qualità promesse, espressamente precisando che queste “rientrano nell’impegno del venditore”, identificando le prime come “gli attributi di materia, struttura e misura che consentono l’utilizzazione della cosa al fine secondo un normale parametro di adeguatezza”; in tal senso, per l’A. “non basta che il bene possa in qualsiasi modo realizzare la funzione prevista, ma occorre che sia dotato dei requisiti necessari per una utilizzazione normalmente soddisfacente: non esclusi quindi, ad es., requisiti di resistenza, di comodità, di economicità”; invece per qualità promessa l’A precisa si deve intendere quanto è insito reciprocamente nella richiesta del compratore e nell’offerta del venditore, sicchè la promessa di qualità può essere esplicita e tacita e si può ricavare dall’indicazione di un’atipica funzione e comunque si ricava dall’interpretazione del contratto l’idoneità del bene ad una certa funzione ed il fatto che sia stato venduto in virtù di detta idoneità. Per una rassegna si rinvia a V. Amendolagine, L'"aliud pro" nella compravendita, Rassegna di giurisprudenza, (Cass. pen. 11 gennaio 2019, n. 1332; Cass. sez. II civ. 2 agosto 2018, n. 20426; Cass. sez. II civ. 30 gennaio 2017, n. 2294; Cass. sez. II civ. 23 marzo 2017, n. 7557; Cass. sez. III civ. 29 gennaio 2016, n. 1669; Cass. sez. II civ. 9 novembre 2012, n. 19509; Cass. sez. II civ. 18 gennaio 2007, n. 1092; Cass. civ. sez. II 22 novembre 2006 n. 24786), in Giur. it., 2019,5, 1231-1236; vedi pure P. L. Carbone, Contratti collegati, "aliud pro alio", causa concreta: uno slancio verso il futuro o un ritorno al passato?in Corr. giur., 2016, 6, 764 ss.; E. Rizzo, Idoneità e potenzialità edificatoria del bene nella vendita immobiliare tra "mancanza di qualità" e "aliud pro alio", nota a Cass. 30 maggio 2013, n. 13612, in Contr., 2014,4, 370 ss.; Cass., 23 marzo 1999, n. 2712, in Not., 1999, 307.
[3] Cass., 15 luglio 1987, n. 6241, in Foro it., 1988, I, 144, con nota di D. Caruso, Quando il rimedio è peggiore del male; in Nuova giur. civ. comm., 1988, I, 475, con nota di E. Da Molo, Responsabilità civile per attività di produzione e commercio di farmaci; e in Resp. civ., 1988, 406, con nota di G. Tassoni, Responsabilità del produttore di farmaci «per rischio di sviluppo» e art. 2050 c.c.
[4] Sul punto, A. Fusaro, Attività pericolose e dintorni, in E. Al Murden, (a cura di), I fatti illeciti. Casi e materiali, Torino, 2021, 141 ss. Percorso analogo è avvenuto nel settore della commercializzazione dei tabacchi. In argomento, R. Carleo, La pericolosità della commercializzazione dei tabacchi e la responsabilità del produttore, in Judicium, 2012, 1 ss., il quale rileva che “l filone favorevole ad imputare al produttore una effettiva responsabilità nell’ambito della produzione e commercializzazione di sigarette, anche se si biforca in due direttrici che fanno capo, rispettivamente, all’art. 2043 cod. civ. e all’art. 2050 cod. civ., poggia il proprio convincimento su una serie di specifiche ragioni. In primo luogo l’attenzione è stata posta sul rapporto e la coesistenza di due diritti costituzionali che entrano in gioco nella relazione instaurata tra consumatore finale di sigarette e produttore di tabacchi ossia, da un lato, il diritto alla salute (art. 32 Cost.) del fumatore e, dall’altro, il diritto all’impresa (art. 41 Cost.) del produttore. Ebbene, la preminenza che l’ordinamento riconosce al diritto alla salute fa si che il produttore di tabacchi sia considerato responsabile per il danno da fumo attivo allorquando, dalla attività di produzione e commercializzazione di tabacchi, derivi la lesione del diritto alla salute del consumatore finale”.
[5] In tal senso, si rimanda a Cass. 4 febbraio 1983, n. 1425, in Resp. civ. prev., 1983, 774, che interpreta l’attività come “una successione continua e ripetuta di atti che si svolge nel tempo ed è coordinata ad un fine, nell'esercizio, pertanto, normalmente di un'attività di impresa. (....). Ciò non toglie che possano rientrare nella previsione di cui all'art. 2050 c.c. anche atti sporadici, compiuti al di fuori di un'attività di impresa, ma deve trattarsi di un atto coordinato ad un fine tipico, oggettivamente pericoloso”. Sul tema si rinvia, in dottrina, a P.G. Monateri, Illecito e responsabilità civile. La responsabilità civile per lo svolgimento di attività pericolose, in Tratt. dir. priv., II, Torino, 2002, 113 ss.; G. Alpa, M. Bessone, La dottrina sulla responsabilità del produttore, il rischio di impresa alle soglie del 1992, in Contr. impr., 1991, 250 ss.
[6] Ex multis, R. Pardolesi, Riflessioni sulla responsabilità da prodotto difettoso in chiave di analisi economica del diritto, in Riv. dir. priv., 2017, 2, 87 ss.; E. Al Murden, Il danno da “prodotto conforme”, cit., 165 ss.; G. Stella, La responsabilità del produttore per danno da prodotto difettoso nel nuovo Codice del Consumo, in Resp., civ. prev., 2006, 10,1597 ss.; G. Ponzanelli, Regole economiche e principi giuridici a confronto: il caso della responsabilità del produttore e della tutela dei consumatori, in Consumatore Ambiente Concorrenza, analisi economica del diritto, Milano, 1994, 20; A. di Majo, La responsabilità per prodotti difettosi nella direttiva comunitaria, in Riv. dir. civ., 1989, I, 23 ss.
[7] E. Al Murden, Il danno da “prodotto conforme”, cit., 165 ss., secondo cui l’idea di concepire regole par- ticolari che governano il risarcimento dei danni provocati dall’utilizzo di un prodotto costituiscano espressione di un’esigenza che matura necessariamente in un contesto nel quale progettazione, fabbricazione e commercializzazione di massa hanno trasformato profondamente il rapporto che l’utilizzatore instaura con il prodotto e con il suo fabbricante o con colui che lo immette sul mercato. Progettazione, fabbricazione e distribuzione in serie di un prodotto fanno sì che anche la presenza di un’anomalia assuma a sua volta carattere seriale e di larga scala conseguendo una diffusione proporzionale a quella del prodotto stesso”.
[8] La relazione della Commissione CE del 31 gennaio 2001 sottolinea che “la direttiva sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi ha introdotto nella Comunità il principio della responsabilità oggettiva o senza colpa, secondo il quale ogni produttore di un bene mobile difettoso è tenuto al risarcimento dei danni causati all'integrità fisica o al patrimonio privato delle persone, che vi sia o non negligenza da parte sua , la direttiva sulla responsabilità del produttore ribadisce nei considerando che “solo la responsabilità del produttore indipendentemente dalla sua colpa costituisce un'adeguata soluzione del problema, specifico di un'epoca caratterizzata dal progresso tecnologico, di una giusta attribuzione dei rischi inerenti alla produzione e tecnica moderna. Sulla natura oggettiva della responsabilità in esame, v. L. Cabella Pisu, La responsabilità, cit., che osserva: “la responsabilità è esclusa per difetti che non siano causalmente connessi con la messa in circolazione del prodotto da parte di quel particolare produttore; e ciò è coerente con una ricostruzione della responsabilità oggettiva come responsabilità per causalità. Ma è anche possibile ricostruire questa particolare ipotesi di responsabilità oggettiva come responsabilità per rischio d’impresa, se si ha l’accortezza di chiarire che il rischio che la direttiva addossa all’impresa produttrice non è l’intero rischio connesso alla produzione, ma solo quella parte di esso che concerne la messa in circolazione dei prodotti”.
[9] A. Fusaro, Responsabilità del produttore: la difficile prova del difetto, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 6, II, 896 ss.; G. Alpa, La responsabilità del produttore e la prova del danno nel d.P.R 24 magio 1988 n. 224, in Dir. ec. ass., 1992, I, 2, 551 ss.
[10] Cfr., Cass. 1 giugno 2010 n. 13432 (in Giust. civ. Mass., 2010, 6, 861 ss.) secondo cui “In punto di diritto si rileva che la tutela prevista a favore del consumatore in materia di danno da prodotti difettosi dal d.P.R. n. 224/1988 - emanato in attuazione della direttiva CEE numero 85/374 ed oggi trasfusa nel Codice del consumo emanato con d. lgs. 206/2005 configura in capo al produttore o all’importatore del prodotto nella Comunità europea, (relativamente ai danni di cui all’art. 11 dello stesso d.P.R.) una responsabilità di natura oggettiva, fondata non sulla colpa, ma sulla riconducibilità causale del danno alla presenza di un difetto nel prodotto (cfr. artt. 1, 6 e 7). In particolare il legislatore nazionale, dando attuazione alla direttiva comunitaria, ha inteso accordare una tutela più ampia al consumatore, superando i rigorosi limiti che in precedenza essa incontrava sia nell’ambito del rapporto con il venditore, in considerazione della contenuta azionabilità nel tempo dei diritti di garanzia riconosciuti dalla disciplina ordinaria della vendita, sia al di fuori del rapporto negoziale, in quanto ancorata agli oneri probatori imposti dalle regole in tema di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.”. Conforme Cass., Sez. III, 8 ottobre 2007, n. 20985, in Corr. giur., 2008, 6, 813 ss., con nota di C. Di Palma, Responsabilità da prodotto difettoso e onere della prova: la Cassazione riporta gli interpreti sul sentiero della strict liability. Contra, v. Cass. 26 giugno 2015 n.13225, secondo la quale la responsabilità prescinde dall'accertamento della colpevolezza del produttore, ma ha natura presunta e non oggettiva, essendo onere del danneggiato fornire la prova del nesso causale tra difetto e danno; pertanto, "solo a seguito del raggiungimento di tale prova (avente pertanto ad oggetto la relazione difetto-danno quale prerequisito normativo costituente al contempo limite e fondamento della responsabilità del produttore), viene a gravare sul produttore la dimostrazione della causa liberatoria.
[11] M.G. Stanzione, L’incidenza del principio di precauzione sulla responsabilità civile negli ordinamenti francese e italiano, in Comp. dir. civ., 2016, 1, la quale richiama la pronuncia della Corte di Giustizia CE con la sentenza C- 300/95 , secondo cui “per potersi liberare della propria responsabilità, ai sensi dell’art. 7, lett. e, della direttiva, il produttore di un prodotto difettoso deve dimostrare che lo stato oggettivo delle conoscenze tecniche e scientifiche, ivi compreso il loro livello più avanzato, al momento della immissione in commercio del prodotto considerato, non consentiva di scoprire il difetto di quest’ultimo”…“la disposizione di esonero non prende in considerazione lo stato delle conoscenze di cui il produttore considerato era o poteva essere concretamente o soggettivamente informato, ma allo stato oggettivo delle conoscenze scientifiche e tecniche di cui il produttore si presume informato”, ferma restando l’accessibilità di tali conoscenze al momento dell’immissione sul mercato del prodotto considerato. E. Visentini, L’esimente del rischio di sviluppo come criterio della responsabilità del produttore, in Resp. civ. prev., 4-5, 2004, 1267.
[12] Il legislatore italiano ha stabilito che per messa in circolazione, (art. 119 cod. consumo) si intende l’immissione sul mercato dei destinatari finali (cioè dei consumatori) mercè una “consegna” all’acquirente o all’utilizzatore o a un loro ausiliario, o anche al vettore o allo spedizioniere. In dottrina si rimanda a R. Montinaro, Dubbio scientifico, cit., 41 ss.
[13] In tal senso, si rimanda a Cass. 20 novembre 2018, n. 29828, in www.italgiureweb, secondo cui “La responsabilità da prodotto difettoso ha natura presunta, e non oggettiva, poiché prescinde dall'accertamento della colpevolezza del produttore, ma non anche dalla dimostrazione dell'esistenza di un difetto del prodotto. Incombe, pertanto, sul soggetto danneggiato - ai sensi dell'art. 120 del d.lgs. n. 206 del 2005 (cd. codice del consumo), come già previsto dall'8 del d.P.R. n. 224 del 1988 - la prova del collegamento causale non già tra prodotto e danno, bensì tra difetto e danno e, una volta fornita tale prova, incombe sul produttore - a norma dell'art. 118 dello stesso codice - la corrispondente prova liberatoria, consistente nella dimostrazione che il difetto non esisteva nel momento in cui il prodotto veniva posto in circolazione, o che all'epoca non era riconoscibile in base allo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che, valorizzando la prova testimoniale in contrasto con le risultanze della disposta consulenza, aveva erroneamente desunto la pericolosità di un fuoco di artificio dal mero verificarsi del danno conseguente all'esplosione anticipata del medesimo, tralasciando le risultanze della consulenza tecnica d'ufficio ove era stato escluso che il prodotto presentasse difetti di fabbricazione e posto in rilievo che l'evento si fosse verificato per il malgoverno del mortaio da parte del danneggiato)”; così, anche, Cass. 19 febbraio 2016 n. 3258, cit., per la quale “la responsabilità da prodotto difettoso ha natura presunta, e non oggettiva, poiché prescinde dall'accertamento della colpevolezza del produttore, ma non anche dalla dimostrazione dell'esistenza di un difetto del prodotto”; cfr., Cass. 29 maggio 2013 n.13458 in Corr. giur., 2014, 1, 31 ss., con nota di L. De Benedetto, Legittimazione ad agire, oneri probatori del danneggiato, conferme e richiami della Suprema Corte in materia di responsabilità da prodotto difettoso. Per opportuni riferimenti, si rinvia a AA.VV., Diritto e Medicina, Torino, 2021, 173.
[14] G. Ponzanelli e R. Pardolesi. Commentario. La responsabilità per danno da prodotti difettosi (premessa generale, artt 1 e 12), in Nuove leggi civ. comm., 1989, 497 ss. In giurisprudenza, si veda, ad esempio, Cass. 26 giugno 2015 n.13225, secondo la quale la responsabilità prescinde dall'accertamento della colpevolezza del produttore, essendo onere del danneggiato fornire la prova del nesso causale tra difetto e danno; pertanto, "solo a seguito del raggiungimento di tale prova (avente pertanto ad oggetto la relazione difetto-danno quale prerequisito normativo costituente al contempo limite e fondamento della responsabilità del produttore), viene a gravare sul produttore la dimostrazione della causa liberatoria
[15] Sul punto, M. Comporti, Fatti illeciti. Le responsabilità presunte, in Codice civile. Commentario (fondato e diretto da P. Schlesinger e continuato da F.D. Busnelli), Milano, 2012, 146 ss., ove, con riferimento alle fattispecie speciali di responsabilità extracontrattuale, diverse, cioè, dall’ipotesi generale e paradigmatica dell’art. 2043 c.c., si osserva che il ricorso alla presunzione iuris tantum di colpa deriverebbe dall’esigenza di difendere il dogma della colpa, ma non sarebbe appagante per “un’esatta individuazione della struttura e della dinamica della fattispecie”; a tal fine si rende indispensabile distinguere nella struttura della fattispecie i fatti costitutivi da quelli impeditivi e verificare in relazione a questo la distribuzione dell’onere probatorio.
[16] Il legislatore italiano ha stabilito che per messa in circolazione, (art. 119 cod. consumo) si intende l’immissione sul mercato dei destinatari finali (cioè dei consumatori) mercè una “consegna” all’acquirente o all’utilizzatore o a un loro ausiliario, o anche al vettore o allo spedizioniere. In dottrina si rimanda a R. Montinaro, Dubbio scientifico, cit., 41 ss.
[17] La dottrina si è chiesta se si dovesse onerare il produttore dell’acquisizione di tutte le conoscenze anche di quelle più progredite, nonché di quelle ancora oggetto di studio, analisi e ricerca e quindi prive di conferme nella comunità scientifica. R. Montinaro, Dubbio scientifico, cit., 111, osserva che se la responsabilità del produttore fosse predicabile pure per danni dipendenti da difetti assolutamente ignoti, il dibattito sulla rilevanza delle situazioni di incertezza scientifica non avrebbe ragion d’essere. Vedi pure L. Mormile, Il principio di precauzione fra gestione del rischio e interessi privati, in Giureta, Riv. dir. trasp. amb., 2012, X, 347 ss., il quale rileva la “costante tensione fra la necessità di garantire il progresso, nell’ottica del perseguimento del benessere e di una maggiore utilità collettiva, e l’esigenza di tutelare gli interessi coinvolti. Sia quelli tradizionali, quali i diritti degli individui a vivere in un ambiente salubre e alla propria salute, sia quelli di «nuova generazione», il cui assurgere a posizioni giuridicamente rilevanti è conseguenza di quello stesso progresso, veicolo di benessere, ma al tempo stesso di esternalità rivelatrici di bisogni inediti. Nel rapporto di antica antinomia fra tensione verso la scoperta e allo stesso tempo timore per ciò che dalla scoperta può derivare, ossia per quello che attualmente è ignoto, è entrato in scena un nuovo fattore, rappresentato dall’acquisita capacità dell’uomo di inserirsi all’interno della concatenazione meccanica degli elementi che regolano i processi naturali”.
[18] Fra le buone pratiche, e cioè le GLP (Buone Pratiche di Laboratorio), GMP (Buone Pratiche di Produzione), GCP (Buone Pratiche Cliniche), GDP (Buone Pratiche di Distribuzione) e GVP (Buone Pratiche di Farmacovigilanza), le GMP assumono un particolare rilievo per il consumatore. Osserva la dottrina che esse definiscono i requisiti che devono essere soddisfatti durante le fasi di sviluppo, produzione e controllo dei medicinali. Il rispetto di queste linee guida garantisce la qualità farmaceutica dei medicinali che è a sua volta pre-requisito indispensabile perché il medicinale possa essere definito sicuro ed efficace. Pertanto, la sicurezza e l’efficacia, che sono caratteristiche inderogabili di ogni medicinale, possono essere ottenute solo con la stretta osservanza delle GMP durante tutte le fasi del processo produttivo e il successivo controllo analitico. In argomento, D. Susini, M. Terni, R. Di Marzo, Medicinali per uso umano., cit. 16 ss.
[19] L. Cabella Pisu, La responsabilità, 437 ss., sottolinea che “il tentativo di massimizzare gli interessi delle imprese, con qualunque strumento giuridico idoneo a consolidare il vantaggio che alle imprese deriva dalle asimmetrie informative, nonché a scaricare sui consumatori e utenti quei rischi che l’impresa sarebbe meglio in grado di controllare, non solo lede gli interessi dei consumatori, ma danneggia anche l’ordine giuridico ed economico. Si afferma, infatti, che solo realizzando condizioni tali da consentire una concorrenza sufficiente sul mercato e un buon equilibrio nei rapporti tra gli operatori economici si possa pervenire all’assegnazione migliore possibile delle risorse, rimuovendo al contempo gli ostacoli alla circolazione di beni e servizi nel mercato unico. In termini economici, il rischio deve essere assunto da chi si trova nelle migliori condizioni di controllarlo o di tutelarsi contro di esso”.
[20] Sul punto, D. Susini, M. Terni, R. Di Marzo, Medicinali per uso umano. Le aree di interazione sulla sicurezza dei pazienti nelle gxp, in Giorn. it. Farmacoeconomia e Farmacoutilizzazione, 2018, 10, (4), 16 ss.
[21] F. Cafaggi, La nozione di difetto ed il ruolo dell’informazione, per l’adozione di un modello dinamico-relazionale di difetto in una prospettiva di riforma, in Riv. crit. dir. priv., 1995, II, 447 ss.
In questa controversia la ricorrente lamenta che nel merito non si fosse adeguatamente valutata la circostanza che "il problema della difettosità non può coincidere con la semplice possibile insorgenza di effetti collaterali nocivi, ma deve invece ricondursi al problema di un corretto bilanciamento del rapporto rischio/beneficio relativo alla somministrazione dello stesso"; secondo la casa produttrice, infatti, il giudice non aveva sufficientemente motivato la sua decisione omettendo di attribuire il giusto rilievo alla circostanza che la patologia addotta dalla controparte, fosse "perfettamente conosciuta dalla "Classe Medica", e quindi, in un certo senso, suscettibile di rientrare nel giudizio di prevedibilità da parte del paziente che era, peraltro, un medico.
A tali doglianze la Corte risponde premettendo che l’autorizzazione al commercio non è idonea, di per sé, ad escludere la responsabilità civile del produttore, i requisiti pubblicistici valendo a realizzare solo un minimum di garanzia per il consumatore; ed, in subordine, osserva che il difetto del prodotto non può prescindere dall’apprezzamento del rischio di possibili effetti indesiderati; “ciò in quanto la valutazione di pericolosità non attiene ai meri dati scientifici ma coinvolge anche la percezione e le aspettative dei consumatori (v. Corte Giust., 11/4/2001, C477/00; Corte Giust., 28/10/1992, C-219/91), e si basa sulla dimostrazione del nesso di causalità tra l'assunzione del farmaco in argomento e la riscontrata patologia”.
In buona sostanza, la decisione conferma, sia pure per implicito, il corretto inquadramento della responsabilità per danni da farmaco nella responsabilità del produttore come disciplinata nel codice del consumo, ritenendosi di non fare ricorso alcuno, nemmeno a supporto della ricostruzione del concetto di pericolosità, che pure forse troverebbe ancora spazio se riferito non al prodotto ma all’attività di produzione, alle norme dell’art. 2050 c.c., a differenza di precedenti orientamenti pur propensi ad assicurare al danneggiato una più pregnante tutela[1] .
A rigore si deve ritenere, alla luce di quanto sin qui rilevato, anche apprezzandosi in termini più oggettivi la responsabilità, che il regime previsto per le attività pericolose è sicuramente più gravoso per il responsabile, per i ristretti spazi operativi della prova liberatoria, che non contemplano la fattispecie dell’esimente per cosiddetto rischio di sviluppo, la quale è come detto tipica della figura della responsabilità del produttore [2].
Sotto quest’aspetto, non può non destare l’attenzione dell’interprete la circostanza che il giudice nomofilattico della decisione in commento non abbia mancato di richiamare, sebbene in linea di principio, (non avendola rilevata nel caso di specie), la possibilità di un concorso di colpa del consumatore, possibilità che dovrebbe ricorrere ove e se quest’ultimo non possa dirsi (essere stato) un soggetto disinformato. Tale rimando, se da un lato consente di confermare la tesi per cui l’assenza di pericolosità non coincide con l’assenza di rischi e quindi con la totale innocuità, anche se si assumesse come parametro valutativo l’art. 103 cod. cons. e non l’art. 117, dall’altro impone di valutare quali conseguenze possa sortire sulla ricostruzione della natura della responsabilità del produttore l’esatto adempimento degli obblighi di informazione.
In tale direzione, la rivalutazione dell’importanza dell’informazione, non solo si giustificherebbe per le sue finalità tipiche, cioè quelle di ridurre le asimmetrie nei rapporti di consumo, ma anche perché si tratta di uno strumento che, sebbene si atteggi come obbligo per il produttore e quale diritto per il consumatore, funziona, ove correttamente adempiuto da parte del professionista, il presupposto per contemperare la libertà di iniziativa economica con la tutela della salute, nella prospettiva, cioè, del riconoscimento di un’autodeterminazione responsabile di chi assume farmaci, al fine di esonerare il produttore da eventuali responsabilità.
Ciò tanto più rileva ove si sottolinei che in questo spazio-abbastanza scivoloso- si inserisce l’operatività della prova liberatoria per il produttore, (dalla quale dipenderebbe la natura oggettiva in senso stretto- piuttosto che presunta- della responsabilità, indipendentemente dalla rilevanza della colpa ), con riferimento al rispetto dei requisiti di sicurezza richiesti in relazione alle circostanze specificamente indicate all’art. 117 Codice del Consumo (e già all’art. 5 d.p.r. n. 224 del 1988), nonchè ad altri elementi in concreto valutabili e concretamente valutati dal giudice di merito.
Giova rammentare che l’art. 2 del Codice del consumo, riproducendo la previsione in materia di diritti fondamentali dei consumatori introdotta dalla legge 30 luglio 1998 n. 281, attribuisce ai consumatori ed agli utenti il diritto ad un’adeguata informazione [3]; il successivo art. 5, intitolato agli obblighi generali, espressamente richiede chiarezza e comprensibilità delle informazioni affinchè esse siano adeguate alla tecnica di comunicazione ed alla modalità di conclusione del contratto [4].
Mentre nella disciplina codicistica l’obbligo di informazione è stato sottovalutato, in quanto ricondotto ai meccanismi della responsabilità precontrattuale, ovvero all’operatività dei vizi del volere, la normativa consumeristica ha posto al centro dell’atto e del rapporto di consumo gli obblighi di informazione; in più, se la centralità che essa ha acquistato nel rapporto di consumo viene plasticamente definita con l’espressione “procedimentalizzazione dell’informazione”[5], l’effettivo ruolo dell’informazione dipende dallo stretto legame di questo diritto con quello all’educazione: il nesso tra comunicazione, educazione informazione e pubblicità è stato concepito al fine di rafforzare la tutela del consumatore e garantirne un’autodeterminazione libera e consapevole nelle scelte di consumo.
I principi in tema di correttezza ed adeguatezza dell’informazione sono, peraltro, alla base anche della disciplina del cosiddetto consenso informato, da ultimo espressamente normato dalla legge di riforma in materia sanitaria, tenuto conto che la relativa acquisizione è atto diverso dalla prestazione dell’intervento terapeutico[6].
Operando un raccordo-che in questa sede in cui si verte di prodotti farmaceutici risulta più che opportuno- tra l’affermazione del diritto all’informazione del consumatore, in quanto strettamente connesso sotto il profilo della garanzia della qualità e della sicurezza dei prodotti, con il diritto all’informazione ed all’autodeterminazione del paziente nel quadro dell’esercizio del diritto alla salute, e puntualizzandosi che i prodotti sono intesi non solo come cose materiali ma altresì come servizi, si deve rimarcare che in ambito medico-sanitario la giurisprudenza è venuta configurando in caso di violazione del diritto all’informazione del paziente un danno alla propria autodeterminazione, risarcibile autonomamente dal danno alla salute [7].
Si è in proposito ribadito che “la correttezza del trattamento non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato, in quanto è del tutto indifferente, ai fini della configurazione della condotta omissiva dannosa e dell’ingiustizia del fatto, la quale sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni”[8] .
In tutta coerenza con quanto si qui rilevato, sebbene non sia chiamata a pronunciarsi sui profili di un possibile risarcimento del danno derivante al consumatore dalla violazione del diritto ad una corretta ed adeguata informazione, sulla falsariga di quanto accade in tema di violazione delle norme sul consenso informato, la Suprema Corte pone l’accento sul ruolo pregnante del diritto all’informazione, considerato imprescindibile al fine di rendere edotto il consumatore del rapporto rischi/benefici connesso all’assunzione dei farmaci per curare la propria salute.
[1] A. Querci, Responsabilità, cit., 353 ss. Si può osservare come la normativa sulla responsabilità da prodotto, di origine comunitaria, ed il modo in cui questa è stata attuata in Italia (38), nel cercare di bilanciare le esigenze della tutela della salute con quelle della produzione, abbia introdotto numerosi limiti alla tutela del danneggiato : ed è proprio questo a spingere i danneggiati (od i loro avvocati) e, conseguentemente, anche i giudici (secundum alligata et probata), a diffidare degli strumenti oggi offerti dal Codice del consumo (la responsabilità da prodotto difettoso) ed a rifugiarsi in quelli tradizionali garantiti dal codice civile (la responsabilità da attività pericolose).
[2] A. Querci, Responsabilità, cit., 358, precisa che applicando l’art. 2050 c.c., inoltre, non è sufficiente conformarsi allo stato della tecnica, esistente al momento della messa in circolazione del prodotto, ma occorre andare oltre, dovendosi eventualmente procedere all’adozione di misure di sicurezza od al ritiro del prodotto, qualora l’evoluzione della tecnica riveli rischi prima inimmaginabili. È qui evidente l’inidoneità dello “stato dell’arte” ad esonerare da responsabilità l’esercente l’attività pericolosa.
[3] Il Codice del Consumo, pur riprendendo la legge 30 luglio 1998 n. 281, attraverso la previsione della norma dell’art. 2, ha in realtà sancito i diritti dei consumatori nella loro dimensione collettiva, considerata nel contesto della globalizzazione del mercato unico europeo. In tal senso, G. Alpa, art. 2 (Diritti del consumatore), in G. Alpa (a cura di), Codice del consumo, cit,, 31 ss. Sul diritto all’informazione si rinvia a E. Battelli, Art. 48 codice consumo “Informazioni precontrattuali per i consumatori nei contratti diversi dai contratti a distanza e negoziati fuori dei locali commerciali” – commento, In V. Cuffaro, (a cura di), Il Codice del consumo, 2015, Milano, 376 ss.; G. Grisi, (voce) Informazione (Obblighi di), in Enc. dir., (Annali), Milano, 2011, 595 ss; nonché U. Salanitro, Gli obblighi precontrattuali di informazione: le regole e i rimedi nel progetto acquis, in Eur. dir. priv., 1, 2009, 59 ss.; L. Rossi Carleo, Il diritto all’informazione: dalla conoscibilità al documento informativo, in Riv. dir. priv., 2004, 349 ss.
[4] La norma prevede obblighi di carattere generale poiché rimanda indirettamente alle previsioni specifiche in materia, dettate nel Titolo III, al capo I sulle particolari modalità di conclusione del contratto e al Titolo IV contenente Disposizioni relative ai singoli contratti. In particolare, la dottrina (L. Rossi Carleo, Art. 5 Obblighi generali, in Aa. Vv., Codice del consumo. Commentario, cit., 125 ss.) evidenzia lo stretto legame sussistente tra informazione, educazione e pubblicità, sottolineandone la rilevanza macroeconomica, in quanto destinate, in primis a fungere da strumenti di tutela del consumatore, in condizione di asimmetria informativa (Id., Il diritto all’informazione, cit., 349 ss.) ed, in secundiis, a dispiegare effetti correttivi sul mercato e sulla concorrenza. Si delinea, così, una nuova funzione del contratto (sul punto, V. Ricciuto, Regolazione del mercato e funzionalizzazione del contratto, in Aa.Vv., Studi in onore di Giuseppe Benedetti, 1611 ss.). Se è vero che non solo la carenza ma anche l’eccesso delle informazioni, può indurre il contraente ad una scelta non consapevole né adeguatamente ponderata, il legislatore ha voluto assicurare un’informazione corretta. Come noto, il codice civile non contiene un esplicito riferimento alla trasparenza contrattuale; tuttavia l’obbligo di informare la controparte al fine di renderla edotta di fatti, circostanze e conoscenze che potessero incidere sulla decisione di concludere il contratto è stato ricavato in via interpretativa come uno dei doveri di condotta dei contraenti, in virtù dei principi di correttezza e buona fede in senso oggettivo, dalla fase delle trattative a quella dell’esecuzione del contratto. Di conseguenza dall’obbligo sancito è stato fatto discendere il dovere di comunicare, cioè fornire quelle informazioni necessarie secondo il tipo di del contratto da stipulare. La trasparenza è stata intesa come dovere di chiarezza, dal momento che il contraente è tenuto ad evitare un linguaggio suscettibile di non essere pienamente compreso dalla controparte. ha sancito l’ingresso nei rapporti commerciali della fondamentale regola di trasparenza e correttezza. Sul punto, S. Grundmann, L’autonomia privata nel mercato interno: regole di informazione come strumento, in Eur. dir. priv., 2001, 257 ss.; D. Valentino, Obblighi di informazione, contenuto e forma negoziale, Napoli, 1998.
[5] F. Romeo, Dovere di informazione e responsabilità precontrattuale: dalle clausole generali alla procedimentalizzazione dell’informazione, 173 ss.
[6] Il consenso informato nella relazione medico paziente trova oggi fonte normativa espressa nella legge 22 dicembre 2017 n. 219, che ha colmato un vuoto normativo, su cui da tempo è intervenuta la giurisprudenza, richiamando le fonti sovranazionali ed internazionali a loro volta emanate a valle del noto Codice di Norimberga. Sul punto, ex multis, A. Clementoni Cherubini, Il consenso informato nei più recenti orientamenti della Cassazione, in Riv. it. med. Leg. dir. san., 2020, 1, 309 ss.; V. Calderai, Consenso informato, in Enc. dir., Annali, VIII, Milano, 2015, 225 ss.; S. Rossi, Consenso informato, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Agg., VII, Torino, 2012, 177 ss.; M. Graziadei, Il consenso informato e i suoi limiti, in Trattato di Biodiritto, dir. Rodotà e Zatti, Milano, 2011, 208; B. Salvatore, Per uno studio sul consenso informato, in Dir. e giur., 2009, 33 ss.; C. Castronovo, Profili della responsabilità medica, in Studi in onore di P. Rescigno, V, Milano, 1998, 127 ss.; G. Ferrando, Consenso informato del paziente e responsabilità del medico. Principi, problemi e linee di tendenza, ivi, 237 ss.; M. Costanza, Informazione del paziente e responsabilità del medico, in Giust. civ., 1986, I, 1435.
[7]A. Amidei, Consenso informato e risarcimento del danno per omessa informazione,
in Giur. it., 2021, 2, 495 ss.; M. De Angelis, La violazione del diritto all'autodeterminazione e i presupposti per il risarcimento del danno-conseguenza, in giustiziacivile.com, 27.02.2020; R. Omodei Salè, La responsabilità civile del medico per trattamento sanitario arbitrario, in Jus civile, 2015, 12, 798 ss. Secondo la giurisprudenza, l’informazione del paziente deve consistere in “spiegazioni dettagliate ed adeguata al livello culturale del paziente, con l’adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado e delle conoscenze specifiche di cui dispone”; così, Cass. 20 aprile 2018, n. 9806, in www.quotidianogiuridico.it.
[8] Cfr. Cass. ord. n. 8756 del 29 marzo 2019, in Dir. giust., 2019,1 aprile, con nota di R. Savoia, Il diritto alla salute è diritto del tutto distinto dall’autodeterminazione; v., pure, A. Benvenuti, Risarcibilità del danno da violazione del consenso informato, tra autodeterminazione terapeutica e diritto alla salute, in giustiziacivile.com, 2018, 6, 9 ss., nota a Cass. ord. 31 gennaio 2018, n. 2349. Da ultimo, v. Cass. 7 ottobre 2021 n. 27268 secondo cui l’onere probatorio relativo alla causalità materiale “grava sul creditore e solo in seguito a tale prova grava sul debitore provare l’assenza di colpa, ovvero che l’inadempimento sia derivato da una causa non imputabile al debitore”, in www.dirittoegiustizia.it.
A fronte del dubbio dell’effettiva idoneità di una corretta informazione a ridurre il rischio di danni alla salute dei consumatori di farmaci, a conclusione di queste note di commento, è opportuno rimarcare due aspetti, uno dei quali emerge, sia pure per obiter dicta, dalla decisione in commento ed attiene al ruolo del medico, e più in generale del sanitario, nei rapporti con il paziente- consumatore.
Il professionista, quando prescrive il farmaco, oltre che svolgere un’azione di consiglio (nel che si risolve l’esercizio della sua prestazione professionale), individuando la terapia farmacologica adatta secondo la patologia diagnosticata, è preposto anche all’altrettanto delicato compito di rendere edotto il paziente dei rapporti rischi-benefici connessi all’assunzione del medicinale, (che può esser somministrato nella terapia farmacologica, anche al di fuori di una ospedalizzazione del paziente, quando ad esempio curato a domicilio) ed a tal fine concorre, con il suo apporto, a far maturare quella legittima aspettativa di sicurezza richiesta nel rapporto di consumo come parametro di valutazione della responsabilità del produttore[1].
Nondimeno, giova rilevare che vi può essere una sperequazione nella differente consapevolezza che l’eterogeneo pubblico dei consumatori può possedere in ordine agli effetti dei farmaci, tenuto conto che, tendenzialmente, va distinta la somministrazione del farmaco nell’ambito di una terapia, dalla dispensazione e quindi dall’acquisto dei prodotti farmaceutici nell’ambito di un contratto di scambio, che presuppone a monte l’operatività di una disciplina ad hoc. Indubitabilmente, anche in questo caso, comunque, va rimarcata la centralità del diritto del consumatore all’informazione come conferma la decisione in commento.
Si può rammentare il caso della somministrazione ad una gestante senza adeguata informazione di farmaci che avevano poi provocato malformazioni al concepito, configurando una responsabilità per violazione dell'obbligo d'informazione e conseguente diritto al risarcimento del danno in favore sia della gestante-madre che del concepito, una volta che quest'ultimo sia venuto ad esistenza, ma solo in relazione all'inosservanza del principio del c.d. consenso informato[2].
In altra occasione, la Suprema Corte, in tema di responsabilità del farmacista, ha ritenuto irrilevante come causa di giustificazione la circostanza della consapevole accettazione del farmaco da parte del cliente, l'avere egli indicato le modalità di uso o somministrazione del medicinale o l'essersi affidato al fatto che il cliente avrebbe saputo fare del prodotto un uso conforme alle istruzioni contenute nella confezione[3].
In ultima analisi, giungendo al secondo profilo su cui la sentenza suggerisce di orientare ulteriormente la riflessione, soffermando l’attenzione, sotto un profilo giusprivatistico, sull’atto e sul rapporto di consumo del farmaco come prodotto, e quindi al di fuori della procedura del consenso informato posta in atto come presupposto della terapia farmacologica, se il parametro delle legittime aspettative dei consumatori rilevante ai fini della valutazione della sicurezza dei farmaci presuppone la considerazione non del giudizio di un singolo, ma di una categoria (i consumatori) vasta quanto indeterminata, ne deriva che occorre porre in essere azioni positive che promuovano la consapevolezza dei consumatori.
A tal fine, un ruolo primario dovrebbe rivestire l’educazione al consumo. E’ stato osservato in dottrina che la scelta di anticipare la tutela del consumatore, attraverso una precisa strategia di attenzione a tutte le fasi del processo di consumo in un ottica di consumer behavior, trova il fulcro e la sua espressione proprio nel riconoscimento del diritto all’educazione[4]; la tutela effettiva di siffatto diritto richiede necessariamente azioni ed interventi che consentano al consumatore una scelta consapevole e, in questo caso, non pregiudizievole per i propri interessi, non solo quelli squisitamente economici[5].
In tal senso se l’educazione è strumentale alla corretta valutazione delle informazioni, la maggiore protezione del consumatore non può prescindere dalla predisposizione di appositi strumenti educativi; sotto quest’aspetto, si deve rilevare, tuttavia, che ancora mancano regole precise, per cui il diritto all’educazione rimane, purtroppo, quasi sulla carta ed inattuato, almeno fintantochè non si individuino i soggetti attivi di questo processo educativo.
Viene fatto di rilevare, concludendo, che, probabilmente, l’implementazione di un’ efficace rete educativa troverebbe e trova sicuramente un legittimo fondamento nella sussidiarietà orizzontale, in virtù della quale andrebbero, peraltro, rivalutati i compiti di informazione e di educazione dei corpi intermedi [6], sia di quelli preposti ad attività di educazione per il proprio scopo sociale, che delle associazioni dei consumatori, e, non da ultimo, delle associazioni professionali, e di categoria [7].
Sussiste la necessità di porre l’accento non solo sul processo informativo, che è logicamente e cronologicamente più vicino all’atto di consumo, ma anche a quello formativo, destinato a ridurre le liti, eliminare le asimmetrie informative, prevenire gli abusi e i comportamenti commercialmente scorretti, ma altresì capace di fare da veicolo e supporto all’efficacia orizzontale dei diritti fondamentali riconosciuti dalle Convenzioni nei rapporti interprivati, per renderne effettiva la tutela preventiva, realizzando, in ultima analisi, un più efficace bilanciamento tra iniziativa economica e tutela della persona.
[1] Secondo la definizione fornita dall’UEMS nel documento pubblicato nel 2005, “L’atto medico comprende tutte le azioni professionali, vale a dire le attività scientifiche, didattiche, formative ed educative, cliniche, medico-tecniche, che si eseguono per promuovere la salute ed il buon funzionamento, prevenire le malattie, fornire assistenza diagnostica o terapeutica e riabilitativa ai pazienti, individui, gruppi o comunità, nel quadro del rispetto dei valori etici e deontologici”. In argomento, si deve rilevare che a livello politico legislativo si sono registrate iniziative parlamentari per introdurre una definizione per legge dell’atto medico, da ultimo si rimanda alla proposta n. 2208, recante “Norme concernenti la definizione di atto medico e la disciplina dei centri di riferimento di chirurgia articolare”, presentata nell’ottobre 2019.
[2] Osserva la dottrina che “Di regola, per la manifestazione del consenso informato vige il principio della libertà delle forme, fatti salvi gli specifici casi in cui la forma scritta è prevista per legge. A tal proposito, è d’uopo richiamare il comma 4 dell’art. 1 della l. 219/2017, il quale stabilisce che il consenso informato può essere acquisito con gli strumenti e nei modi più consoni alle condizioni del paziente ma la sua documentazione deve avvenire in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare”. Così, C. Troisi, Il consenso informato nella professione medica, in Comp. dir. civ., 2019, 1 ss. Vedi, pure, Cass. 23 marzo 2018, n. 7248, con nota di R. Savoia, No, il consenso del paziente non può essere espresso oralmente, in Dir. giust., 2018, 9. Di recente, inoltre, la Corte di Cassazione, con ordinanza del 30 aprile 2018, n. 10328, sembra aver rivalutato il principio di libertà delle forme, ritenendo che difettando espressa previsione il consenso possa essere acquisito con qualsiasi modalità. Sul punto, P. Muià, S. Brazzini, Quale forma deve avere il consenso informato? Le oscillazioni della Cassazione e la soluzione della nuova legge, in Danno e Resp., 2018, 5, 607; in altre occasioni, (v. Cass. 11 maggio 2009 n. 10741, in Dir. giur., 2009, 4, 549, con nota di B. Salvatore, Violazione del consenso informato e diritto al risarcimento per danni anteriori alla nascita), la Suprema Corte ha escluso, invece, a carico dei sanitari una responsabilità nei confronti del concepito perché la madre non è stata posta in condizione di esercitare il diritto all'interruzione volontaria della gravidanza, non essendo configurabile nel nostro ordinamento un diritto "a non nascere se non sano", in quanto le norme che disciplinano l'interruzione della gravidanza la ammettono nei soli casi in cui la prosecuzione della stessa o il parto comportino un grave pericolo per la salute o la vita della donna, legittimando pertanto la sola madre ad agire per il risarcimento dei danni. In tal senso, Cass., 20 agosto 2013, n. 19220, in Giur. it., 2013, 1724, con nota di V. Carbone, Consenso informato. Non basta la sottoscrizione di un modulo prestampato.
[3] Cass. 2 luglio 2010, n. 15734, in Resp. civ. prev., 2011, 3, 603 ss., con nota di G. Musolino, La responsabilità professionale del farmacista nella dispensazione dei farmaci (Commento a Cass. civ. 2 luglio 2010, n. 15734), secondo cui “Il farmacista il quale consegni al cliente farmaci senza ricetta, quando quest'ultima sia prescritta, tiene una condotta colposa ed illegittima, idonea a far sorgere la responsabilità del farmacista stesso ove i suddetti farmaci abbiano causato un danno al cliente, senza che il farmacista possa invocare, come scriminante, la consapevole accettazione del farmaco da parte del cliente, l'avere egli indicato le modalità di uso o somministrazione del medicinale o l'essersi affidato al fatto che il cliente avrebbe saputo fare del prodotto un uso conforme alle istruzioni contenute nella confezione”.
[4] M. Costabile, F. Ricotta, Il diritto all’educazione nella prospettiva aziendalistica, in G. Alpa, L. Rossi Carleo, Codice del Consumo, cit., 113; L. Rossi Carleo, art. 4, Educazione del consumatore, ivi, 115 ss.
[5] A.P. Seminara, (in La tutela civilistica del consumatore di fronte alle pratiche commerciali scorrette, in Contr., 2018, 6, 689 ss.), sottolinea che “In passato si riteneva che la tutela del consumatore dovesse limitarsi ad assicurare una corretta e chiara informazione sul contenuto contrattuale. Successivamente, si rafforzò la consapevolezza che “occorreva agire sul livello della consapevolezza del consumatore prima della contrattazione, perché i rimedi funzionali alla non corretta esecuzione del rapporto erano in molti, troppi casi, inefficaci”. Il giurista ha preso, dunque, coscienza della necessità di estendere la tutela normativa anche a momenti che, sebbene ancora distanti da circostanze “para- contrattuali”, assumono una rilevanza tutt’altro che indifferente per la libertà (anche contrattuale) del consumatore”.
[6] E. Battelli, Il ruolo dei corpi intermedi nel modello italiano di società pluralista, in Pol. dir., 2018, 2, 258 ss.; E. Del Prato, Principio di sussidiarietà sociale e diritto privato, in Giust. civ., 2014, 2, 381 ss., secondo cui la “esplicitazione costituzionale della sussidiarietà orizzontale (o sociale) imprime all’iniziativa ed all’autonomia privata un significativo supporto, fornendo, anzitutto, un criterio di orientamento ed una chiave di lettura delle disposizioni che incidono sull’agire dei privati”; secondo l’A. ciò comporta un ritrarsi dell’iniziativa pubblica in ambiti in cui possono essere poste in essere “attività di interesse generale” , individuando quello delle attestazioni di qualità.
[7] Cass. 2 luglio 2010, n. 15734, cit.