Nella cornice di una trasposizione dell'art. 11 bis dir. 2019/2169, il saggio esamina l'apparato rimediale della manutenzione e/o di una risoluzione del contratto.
In the frame of a transposition of at. 11-bis dir. 2019/2169, the essay examines the remedial apparatus of maintenance and / or a termination of the contract.
Keywords: Termination – price reduction – unfair commercial practices.
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1 La multiformità endemica dei rimedi tra equivoci e concettualismi - 2. Segue. Tre interrogativi (non di contorno) - 3. Spigolature sull’esperienza francese - 4. Il diritto alla risoluzione: lo stato di un dibattito (con più ombre che luci) - 5. Il possibile nesso di continenza tra p. c. s. ed artt. 128 ss. cod. cons - 6. Un cenno sul parallelismo, in voga nell’ordinamento francese, tra p.c.s. ed ordine pubblico - 7. Note sparse per un dibattito in progress - NOTE
Potremmo esordire notando che l’idea di un art. 11-bis declinabile nella forma di un rimedio monopsonico, che sia poi di tipo caducatorio piuttosto che manutentivo o di stampo risarcitorio, è un’illusione ottica dell’interprete [1]. Dopo di che, preso questo abbrivio, potremmo continuare osservando che la rimedialità neutralizzante una p.c.s. è un problema che utilmente si imbastisce soltanto se si ha contezza che a darsi non è uno bensì uno spettro di rimedi [2]: e, vorremmo far notare, già da adesso. Chi mai, per es., potrebbe revocare in dubbio che non legittimino un recesso di pentimento le fattispecie che si leggono nelle lett. b) e c) dell’art. 26 cod. cons., cioè nella lista nera delle pratiche commerciali aggressive? Quando poi, com’è abituale fare, si dice che, ricorrendo tutti i presupposti di cui agli artt. 1434-1440 cod. civ., il contratto a valle è annullabile, quel che viene a formularsi è un enunciato fallace posto che questo contratto annullabile lo è in quanto la p.c.s. stinge in un vizio del consenso e non perché abbia una rilevanza autonoma. Passare per la prova di un vizio del consenso, rende infatti inutile l’armamentario delle p.c.s. perché, come verrà intuitivo comprendere, l’annullamento non sarebbe disposto a loro titolo. Come scrivono Oltralpe [3], è la trasversalità fattuale delle p.c.s. una delle ragioni innervanti l’istantanea di una rete di rimedi. L’idea di un rimedio monopolizzante è perciò, detto senza tante perifrastiche, il riflesso di ritenere che le p.c.s. siano una vicenda gravitante per lo più nell’area della bona fides in contrahendo o dell’inadempimento di un obbligo legale di protezione rampollante da un contatto sociale: quando invece il loro inverarsi è altrettanto frequente che si materializzi in sede di esecuzione del contratto. Non è vero, dunque, che la fattispecie archetipica dell’art. 11 bis si esaurisca in quella di un acquisto che non sarebbe stato compiuto o che il consumatore avrebbe effettuato a condizioni diverse: la versatile complessità delle p.c.s. è tale che non la si può ridurre ad un problema di vizio incompleto (o sottosoglia) del contratto [4]. Una fitta galleria di tecniche rimediali operanti perché la p.c.s. trascorre in una [continua ..]
Altre tre questioni pregiudiziali vanno sbrogliate prima di passare oltre. 1) Il disposto dell’art. 11-bis recita, torniamo a guardarlo, di consumatori, pregiudicati da p.c.s. che “devono avere accesso a rimedi proporzionati ed effettivi, compresi il risarcimento del danno subito dal consumatore” e, se ne ricorrono i presupposti, “la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto”. Nel considerando 16 si legge poi di una libertà degli Stati nazionali di adottare altri rimedi, come “la riparazione o la sostituzione” sì da assicurare “l’eliminazione totale degli effetti di tali pratiche”. Ora, al netto della tutela risarcitoria, non v’è chi non veda come l’intera rosa dei quattro rimedi menzionati muova dal sottinteso di una validità del contratto stipulato sotto l’effetto di una p.c.s. Ne dobbiamo, quand’è così, allora dedurre che non sarebbe conforme ad una direttiva pur sempre di armonizzazione massima, quel diritto derivato nazionale che, alla maniera del d.d.l. S. 1151 [8], coniasse una nullità, parziale o totale, del contratto? E non solo. Dallo spoglio della nomenclatura europea emerge distintamente che l’armamentario protettivo consta di rimedi, iscritti nel diritto comune o speciali, che già ci sono. Vien fatto allora di chiedersi se il senso dell’art. 11 bis non sia quello di innalzare sì la soglia della protezione epperò, senza sparigliare, riconnettendo la specificità del rimedio ad un adattamento disciplinare di tecniche, caducative o di manutenzione, già in uso. Da questa specola, se dovessimo propendere per un recesso, sarebbe autoevidente che l’unilateralità costituisca un’arma efficace: l’eco del dibattito francese vede, non a caso, messo in risultato il vantaggio di un consumatore che diviene così l’arbitro dell’esistenza di una pratica sleale [9]. Se non fosse che il vero valore aggiunto del recesso sta pure (se non piuttosto) nell’inversione dell’onere della prova, con un professionista, tenuto per ciò stesso a dimostrare l’inesistenza della pratica, che si accolla il rischio (ed il costo) del processo. L’obiezione formulabile, di un surplus punitivo associato al fatto che il pregiudizio sarebbe comunque accertato in astratto, potrebbe così condurre a sostenere [continua ..]
Prima di passare, pur se grandi campiture, alla disamina di come potrebbe strutturarsi, in chiave tanto manutentiva quanto caducatoria, il diritto derivato italiano, riteniamo che potrebbe tornare utile gettare uno sguardo su quell’esperienza francese che spesso è stata riecheggiata, in questo quindicennio, nel dibattito italiano [13]. Anche qui, per altro, un caveat suona d’obbligo: allo stato la trasposizione dell’art. 11-bis non ha infatti comportato, in quell’ordinamento, una modifica dell’apparato rimediale, segno che le fortune della norma europea si annunciano, nonostante il vincolo di una full harmonisation, alterne e soprattutto esposte ad una geometria fin troppo variabile. Orbene, il modello francese è in realtà complesso perché non tutto si risolve nel constatare, pur esattamente, che i rimedi civilistici sono differenti a seconda del tipo di pratica sleale, se trompeuse o agressive. È vero che l’art. L. 132-10 cod. consomm. recita di un contratto che, se concluso per effetto di una pratica aggressiva, è nullo “et de nul effet”: ma lo è pure la circostanza che parimenti nullo è, ai sensi dell’art. L. 132-13, il contratto stipulato a seguito di quell’abus de faiblesse che fa storcere il naso ad una dottrina frizzante nell’evidenziare come i presupposti del suo operare finiscano per essere più stringenti di quelli che la disciplina europea reputa sufficienti ai fini della tutela consumeristica [14]. Orphelines, come si legge [15], di un rimedio specifico rimangono le trompeuses: e di nuovo è incontrovertibile che il distinguo di protezione riproduca una ratio legislativa che, nell’ordinamento francese, è espressa nel senso di riguardare le pratiche aggressive come delle figure incorporanti un maggior disvalore. Siccome attentano recta via alla libertà del consenso, le agressives incappano in una nullité relative, cioè in un’annullabilità che, seppur retta dal combinato disposto degli artt. 1179, comma 2, e 1181 code civil, è alquanto ibrida. Ma anche qui, per evitare di scivolare in fraintendimenti marchiani, a condizione di intendersi. Nullité automatique, l’hanno ribattezzata gli interpreti francesi, nel segno di una rivisitazione del concetto di violenza che l’art. L-121-6 cod. consomm. detipizza sotto molti aspetti. [continua ..]
È giunto il tempo di concentrare l’attenzione sul diritto del consumatore alla “risoluzione del contratto”: una figura che, allo stato, non vanta una storia di successo [17]. La critica più corrosiva insiste sulla circostanza, intuitiva per la verità, di una inadeguatezza concettuale del rimedio giacché, se le p.c.s. turbano la libertà di scelta del consumatore, circuendola o conculcandola, il loro punto di caduta è una slealtà in contrahendo: e la risoluzione, le cui cause tipiche sono altre da un inganno o da una costrizione alterante la determinazione negoziale all’acquisto, non rientra nello spettro rimediale dell’art. 1337 cod. civ. Sul piano di un’effettività della tutela, la risoluzione, si aggiunge, dischiuderebbe oltretutto un deficit di protezione perché la fattispecie base dell’art. 1453 cod. civ. è tarata sul monopolio della domanda giudiziale. Ora, va da sé che entrambi gli argomenti colgono nel segno: e tuttavia è pure vero che l’interprete non può arrestarsi ad una constatazione rimarcante soltanto la pars destruens del discorso. Il punto di rilevanza ermeneutica, si scrive, è da rintracciare nella versione inglese dell’art. 11-bis, recitante di un “termination of the contract”, una nomenclatura che, con ben più costrutto, andrebbe tradotta secondo la locuzione di un recesso. Il che, intendiamoci, è esatto ma avendo al tempo stesso cura di rifuggire da una guerra dei nomi, scopertamente stucchevole nel momento in cui si riconosca, come non si può non fare, che il suddetto recesso è pur sempre una risoluzione unilaterale stragiudiziale. Senza intento sterilmente polemici, la perentorietà del nostro dire nasce dall’esigenza di non tediare chi leggerà con un apparato di ovvietà: stante il combinato disposto degli artt. 61 e 135-quater cod. cons. ha infatti l’effige di una constatazione il notare che la risoluzione consumeristica è sempre stragiudiziale e nulla ha a che spartire con l’art. 1453 cod. civ. Dopo di che va semmai osservato che il diritto derivato ritualizza una stragiudizialità improntata ad una doppia velocità: perché, se il comma 3 dell’art. 61 distilla un effetto liberatorio che, in quanto preceduto da una rimessione in termini, occhieggia alla diffida ad [continua ..]
Fortemente criticata è pure l’idea che talune delle p.c.s. possano venire attratte nell’orbita dell’obbligazione di conformità di cui agli artt. 128 ss. cod. cons. Il che, pur se lo si è puntualmente sostenuto [21], ci fa sorgere nuovamente più di una perplessità. Già, verrebbe da osservarsi, una (non esigua) sponda la offre quel considerando 16 della direttiva 2161 nel quale si legge che gli Stati membri hanno la facoltà “di mantenere o introdurre il diritto ad altri rimedi, come la riparazione o la sostituzione”. Al netto poi di questo dato, ci sembra che il parallelismo tra l’art. 11-bis e la direttiva 771/2019 non vada preso alla lettera: la nozione di bene mobile materiale e quella di prodotto hanno latitudini assai diverse e, per quanto la vendita dell’art. 128, comma 1, cod. cons. sia transtipica, ha un raggio minore di una “decisione di natura commerciale” che l’art. 18, comma 1, lett. m) svolge con un’ampia ramificazione. Fatta questa premessa, ci sembra però che avrebbe del concettualistico escludere che l’obbligazione di conformità della vendita b2c non possa tornare utile quale toolbox dalla quale estrarre dei rimedi devitalizzanti il pregiudizio consustanziale ad una p.c.s. Ci sono ben due dati edittali che militano in tal senso: la lett. g) dell’art. 21, quanto ad un’azione ingannevole avente ad oggetto i diritti del consumatore, “incluso il diritto di sostituzione o di rimborso ai sensi dell’art. [135-bis] e, prima ancora, l’art. 129, comma 3, lett. d) ove, in profonda sintonia con il recitativo dell’art. 21, lett. b), leggiamo che il difetto di conformità può consistere nel fatto che il bene non possiede “le qualità e altre caratteristiche, …, ordinariamente presenti in un bene del medesimo tipo e che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e delle dichiarazioni pubbliche fatte dal o per conto del venditore, o da altre persone nell’ambito dei precedenti passaggi della catena di transazioni commerciali, compreso il produttore, in particolare nella pubblicità o nell’etichetta”. Insomma, si intravede nitidamente che l’assetto vigente, oltre a non essere una tabula rasa, annovera delle fattispecie nelle quali il consumatore già può servirsi [continua ..]
Residuerebbe la questione che assimila il divieto di p.c.s. ad un principio di ordine pubblico: donde un’illiceità, totale o parziale, del contratto a valle. Siccome esula dall’oggetto del nostro dire, ci limitiamo qui ad un cenno di passata, evidenziando però come questa nullità andrebbe ad impingere nel disposto dell’art. 1418, comma 2, cod. civ., nella versione di una causa o di un oggetto illeciti. Coniata principalmente dalla dottrina francese [23], è una lettura che intriga nella misura in cui devia dal cliché di una p.c.s. quale epifania di una nullità virtuale di protezione che ridonderebbe nel disposto dell’art. 1418, comma 1, cod. civ. La suggestione rampolla dunque dal fatto che, per contrastare un siffatto assunto, non basterebbe trincerarsi dietro l’argomento che la violazione di una regola di buona fede, salvo non sia testualmente disposto, dà ingresso soltanto al risarcimento dei danni. Per osteggiarla non varrebbe, in altre parole, osservare che, quando venga in gioco una regola di buona fede, o la nullità si iscrive nel disposto dell’art. 1418, comma 3, cod. civ. oppure non sta. Un rilievo siffatto, gemello dell’adagio (o dello spettro?) francese pas de nullité sans texte, qui verrebbe a mostrarsi spuntato per la ragione che, a risultare vietato, sarebbe direttamente il contratto. Dopo di che, una riflessione che non sia estemporanea dovrebbe per altro pure rilevare come il precedente di Martin Martin [24], anziché semplificare, ingarbuglia ancor di più il dire dell’interprete, se è vero che il recitativo della Corte di giustizia ha ivi del pilatesco specialmente laddove statuisce che la nullità può andare in archivio se si dia una tecnica protettiva che “può qualificarsi ‘appropriata’, …. in quanto sanziona[nte] l’inosservanza di un obbligo il cui rispetto … è essenziale ai fini della formazione della volontà del consumatore e della realizzazione del livello di tutela voluto dal legislatore comunitario.”. Vien fatto allora di osservare che la questione più spinosa sta e monte, claudicante, se non fallace, mostrandosi proprio l’idea che il divieto di p.c.s. sia suscettibile di assorbimento in un ordine pubblico, da ricostruirsi va da sé come di protezione, che ha tutta l’aria di essere una [continua ..]
A mo’ di congedo. Volendo fare un bilancio di quanto fin qui esposto, ci verrebbe spontaneo dire che, intorno alla trasposizione dell’art. 11-bis, si affollano una pluralità di interrogativi, un buon spicchio dei quali sono falsi se non superflui. Specularmente ce ne sono alcuni che, nel dibattito italiano, non hanno riscosso una particolare attenzione. Senza una qualche pretesa di completezza, il pensiero va, nell’ordine: a) alla distribuzione dell’onere della prova stante la notazione (lapalissiana) che nessun rimedio soddisfa il principio di effettività se, processualmente, l’esercizio dei diritti conferiti risulta impossibile o eccessivamente difficile. Ora, in applicazione dell’art. 2697 cod. civ., l’onere di provare la slealtà della pratica dovrebbe spettare a chi la denunzia, con il risultato che sarebbe di pertinenza del consumatore dimostrare il fatto costitutivo. Ci sono, tuttavia, due argomenti che potrebbero giocare in favore, come leggiamo, di un «aménagement … de la preuve»[28]: il primo, di stampo edittale, è deducibile dal disposto dell’art. 12 della direttiva 2005/29/CE nella parte in cui statuisce che sia il professionista a fornire le prove “sull’esattezza delle allegazioni fattuali connesse alla pratica commerciale”, con l’effetto, se tale prova venga omessa o sia reputata insufficiente, di reputare inesatte “le allegazioni fattuali”. Ad abundantiam notiamo che, secondo il disposto dell’art. 27, comma 5, cod. cons., grava sempre sul professionista l’onere di provare che “egli non poteva ragionevolmente prevedere l’impatto della pratica commerciale sui consumatori”. Il secondo è invece ricavabile dal precedente di CA Consumer Finance[29], un caso nel quale la Corte di giustizia si è pronunciata nel senso dell’euroincompatibilità di una normativa nazionale che avesse fatto ricadere sul consumatore la prova della mancata esecuzione degli obblighi informativi. Vero è che la sentenza aveva per oggetto gli artt. 5 ed 8 della direttiva 2008/48: il recitativo della Corte, tutto incentrato nell’ottimizzare il principio di effettività, è però formulato in termini così generali che non sarebbe bizzarro pensare all’enunciazione di una regola probatoria la cui ramificazione vada a coprire tutti gli obblighi [continua ..]