Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

I rimedi non risarcitori: esatto adempimento, riduzione del prezzo e risoluzione del contratto (di Stefano Pagliantini, Professore ordinario di Diritto civile – Università degli Studi di Siena)


Nella cornice di una trasposizione dell'art. 11 bis dir. 2019/2169, il saggio esamina l'apparato rimediale della manutenzione e/o di una risoluzione del contratto.

 

Non-compensatory remedies: exact fulfillment, reduction of the price and termination of the contract

In the frame of a transposition of at. 11-bis dir. 2019/2169, the essay examines the remedial apparatus of maintenance and / or a termination of the contract.

Keywords: Termination – price reduction – unfair commercial practices.

SOMMARIO:

1 La multiformità endemica dei rimedi tra equivoci e concettualismi - 2. Segue. Tre interrogativi (non di contorno) - 3. Spigolature sull’esperienza francese - 4. Il diritto alla risoluzione: lo stato di un dibattito (con più ombre che luci) - 5. Il possibile nesso di continenza tra p. c. s. ed artt. 128 ss. cod. cons - 6. Un cenno sul parallelismo, in voga nell’ordinamento francese, tra p.c.s. ed ordine pubblico - 7. Note sparse per un dibattito in progress - NOTE


1 La multiformità endemica dei rimedi tra equivoci e concettualismi

Potremmo esordire notando che l’idea di un art. 11-bis declinabile nella forma di un rimedio monopsonico, che sia poi di tipo caducatorio piuttosto che manutentivo o di stampo risarcitorio, è un’illusione ottica dell’interprete [1]. Dopo di che, preso questo abbrivio, potremmo continuare osservando che la rimedialità neutralizzante una p.c.s. è un problema che utilmente si imbastisce soltanto se si ha contezza che a darsi non è uno bensì uno spettro di rimedi [2]: e, vorremmo far notare, già da adesso. Chi mai, per es., potrebbe revocare in dubbio che non legittimino un recesso di pentimento le fattispecie che si leggono nelle lett. b) e c) dell’art. 26 cod. cons., cioè nella lista nera delle pratiche commerciali aggressive? Quando poi, com’è abituale fare, si dice che, ricorrendo tutti i presupposti di cui agli artt. 1434-1440 cod. civ., il contratto a valle è annullabile, quel che viene a formularsi è un enunciato fallace posto che questo contratto annullabile lo è in quanto la p.c.s. stinge in un vizio del consenso e non perché abbia una rilevanza autonoma. Passare per la prova di un vizio del consenso, rende infatti inutile l’armamentario delle p.c.s. perché, come verrà intuitivo comprendere, l’annullamento non sarebbe disposto a loro titolo. Come scrivono Oltralpe [3], è la trasversalità fattuale delle p.c.s. una delle ragioni innervanti l’istantanea di una rete di rimedi. L’idea di un rimedio monopolizzante è perciò, detto senza tante perifrastiche, il riflesso di ritenere che le p.c.s. siano una vicenda gravitante per lo più nell’area della bona fides in contrahendo o dell’inadempimento di un obbligo legale di protezione rampollante da un contatto sociale: quando invece il loro inverarsi è altrettanto frequente che si materializzi in sede di esecuzione del contratto. Non è vero, dunque, che la fattispecie archetipica dell’art. 11 bis si esaurisca in quella di un acquisto che non sarebbe stato compiuto o che il consumatore avrebbe effettuato a condizioni diverse: la versatile complessità delle p.c.s. è tale che non la si può ridurre ad un problema di vizio incompleto (o sottosoglia) del contratto [4].

Una fitta galleria di tecniche rimediali operanti perché la p.c.s. trascorre in una fattispecie, detto ellitticamente, di antigiuridicità di per sé normativamente rilevante, già è stata abbozzata [5]: plurime, ad es., sono le ipotesi orbitanti attorno ad una delle cause di nullità di cui all’art. 1418, commi 1 e 2, cod. civ. (artt. 21, comma 1, lett. a), 23, comma 1, lett. i), 22, comma 4, lett. a) e c), e 24), altre refluiscono nel combinato disposto degli artt. 117, comma 6, TUB e 67-septiesdecies, commi 4 e 5, cod. cons., senza trascurare che, quando la p.c.s. veste i panni di una clausola vessatoria, la tutela del consumatore passa sotto l’egida dell’art. 36 cod. cons. Dopo di che, volendo continuare in questo esercizio, potremmo censire un nugolo di fattispecie ove le p.c.s. vestono i panni di altro: se l’art. 21, iv-bis, chiama in causa l’art. 65, l’art. 22, comma 4, lett. a-d) si iscrive infatti nel raggio di applicazione di un art. 49 il cui epicentro di tutela è quel comma 5 che già formalizza un proprio dispositivo di protezione; proseguendo, se l’art. 23, lett. e) si colloca dalle parti di un inadempimento grave legittimante una domanda di risoluzione, la lett. f), n. 2, è senz’altro da ricomprendere nell’orbita dell’art. 61, senza dimenticare che, se la lett. p) tendenzialmente può refluire nel campo d’azione dell’art. 1418, comma 1, cod. civ., la lett. z) stilizza, a sua volta, un caso suscettibile di assorbimento nella fornitura non richiesta di cui al disposto dell’art. 66-quinquies cod. cons.

Nell’esemplificazione, naturalmente, potremmo proseguire [6]: ma sarebbe stucchevole, rilevando ben più il notare come sia un fatto che, se multiforme è la varietà delle condotte tenute in spregio del divieto di cui all’art. 20, comma 1, del pari policromo deve mostrarsi il set dei rimedi messi in campo da un art. 19, comma 2, lett. a) etichettabile (più che come una norma afona) a guisa di un disposto che, senza ingabbiarla in un rimedio esclusivo, apre la tutela consumeristica ad un ventaglio di forme protettive [7].

Non stiamo inutilmente complicando un discorso che già conosce fin troppe vie di fuga: facile, infatti, sarebbe la replica che una varietà rimediale ha pure dalla sua il vantaggio di riprodurre la screziatura connotante un interesse del consumatore la cui aspettativa di tutela non si vede per quale motivo non dovrebbe concretizzarsi casisticamente, a seconda cioè del bisogno, caducativo/manutentivo e/o di tipo risarcitorio, che si voglia veder soddisfatto.

Dopo di che, se così stanno le cose, l’interrogativo autentico, che ogni interprete provveduto dovrebbe porsi, è piuttosto il seguente: posto che il rimedio specifico si troverà tanto a coprire l’area delle fattispecie orfane di una tutela dedicata quanto ad operare in via sussidiaria, quid nel caso in cui la p.c.s. integri una fattispecie che, dandosene tutti i presupposti, cada sotto l’egida di un altro rimedio, generale o speciale, a sua volta esperibile? Il problema, che si porrà quindi ogni qualvolta la p.c.s. sia unus ed alter, se da un lato riproduce un classico esempio di concorso tra norme, non è dall’altro privo di insidie. Nell’ordinamento francese, per es., sul presupposto che i rimedi di diritto comune rimangono sempre esperibili, domina una libre choix, in nome del maggior effetto utile per il consumatore: tanto è vero che, nonostante le pratiche aggressive siano rette da un art. L. 132-10 cod. consomm. comminante la nullité del contratto, nessuno immagina che possa opporsi l’argomento per cui lex specialis derogat generali. Epperò, ci chiediamo, quid iuris al darsi di un rimedio specifico? Non è che occorra chissà quale esercizio di fantasia giuridica: pensiamo ad una pratica ingannevole che refluisca nel difetto di conformità di cui all’art. 129, comma 3, lett. d), con un consumatore che, se il rimedio ad hoc fosse quello di un recesso, voglia bypassare l’art. 135-bis, comma 5, giacché luogo questo nel quale la risoluzione conosce il fatto impeditivo di un difetto che sia di lieve entità. Per poco che ci si rifletta su poi, quale senso potrebbe mai avere il recesso da un contratto nullo per difetto di un essentiale negotii oppure perché illecito? Resta il fatto, si dirà, che il § 2 dell’art. 11-bis statuisce pur sempre che i rimedi approntati “non pregiu[dicheranno] l’applicazione di altri rimedi a disposizione dei consumatori a norma del diritto dell’Unione o del diritto nazionale”, norma questa che parrebbe a senso unico nell’escludere l’eurocompatibilità di un rimedio specifico che fosse contrassegnato dallo stigma dell’esclusività. Anche qui però, ed ecco la ragione del condizionale, con un caveat. Quando infatti si versi nella fattispecie di un’omis­sione ingannevole, siccome il recitativo che si legge nell’art. 22, comma 4, lett. a-d) lo ritroviamo tel quel, se il contratto sia a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali, nell’art. 49 cod. cons., verrà istintivo osservare che il rimedio adeguato già si incontra, nell’ottica di una manutenzione del contratto, in quel comma 5 codificante una contrattualizzazione dell’informazione precontrattuale, assistita per di più da un divieto di modificabilità unilaterale che andrebbe a coprire il caso in cui il testo contrattuale presenti delle clausole in contrasto con l’informativa trasmessa. Ne deriva che il prezzo più alto, per es., cadrà perché, introdotto senza ottemperare alle condizioni di legge, quel che qui si profila è, in realtà, una modifica senza effetto. Ora, due sono le deduzioni che possono, al riguardo, formularsi. La prima è così sunteggiabile: siccome la contrattualizzazione, che torna pure negli artt. 72, comma 4, cod. cons. e 35, comma 1, c. tur., con la variabile dell’art. 125-bis, comma 6, TUB, neutralizza in presa diretta l’inganno, non dovrebbe darsi qui luogo all’esperibilità di altri rimedi. Cioè la contrattualizzazione già fa da sé: nel contempo però, ed ecco la seconda deduzione, è un rimedio provvisto di un raggio di operatività non ultrattivo, sperimentabile com’è soltanto nei casi ove sia espressamente disposto. Anche da questa angolazione torna però la complessità insita nella trasposizione nazionale dell’art. 11-bis: che qui dovrebbe andare a coprire, per sottrazione, soltanto i gruppi di fattispecie ove questa contrattualizzazione non si dia. La fattispecie più vistosa è quella di cui all’art. 48 cod. cons., cioè per gli obblighi informativi nei contratti diversi da quelli a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali, uno spicchio questo di casi nei quali l’omissione ingannevole potrebbe sì preludere ad un inadempimento grave: ma con limite di una risoluzione che ricadrebbe nell’alveo dell’art. 1453 cod. civ. e, quindi, con l’onere (disincentivante) di una domanda giudiziale.


2. Segue. Tre interrogativi (non di contorno)

Altre tre questioni pregiudiziali vanno sbrogliate prima di passare oltre.

1) Il disposto dell’art. 11-bis recita, torniamo a guardarlo, di consumatori, pregiudicati da p.c.s. che “devono avere accesso a rimedi proporzionati ed effettivi, compresi il risarcimento del danno subito dal consumatore” e, se ne ricorrono i presupposti, “la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto”. Nel considerando 16 si legge poi di una libertà degli Stati nazionali di adottare altri rimedi, come “la riparazione o la sostituzione” sì da assicurare “l’eliminazione totale degli effetti di tali pratiche”. Ora, al netto della tutela risarcitoria, non v’è chi non veda come l’intera rosa dei quattro rimedi menzionati muova dal sottinteso di una validità del contratto stipulato sotto l’effetto di una p.c.s. Ne dobbiamo, quand’è così, allora dedurre che non sarebbe conforme ad una direttiva pur sempre di armonizzazione massima, quel diritto derivato nazionale che, alla maniera del d.d.l. S. 1151 [8], coniasse una nullità, parziale o totale, del contratto? E non solo.

Dallo spoglio della nomenclatura europea emerge distintamente che l’armamentario protettivo consta di rimedi, iscritti nel diritto comune o speciali, che già ci sono. Vien fatto allora di chiedersi se il senso dell’art. 11 bis non sia quello di innalzare sì la soglia della protezione epperò, senza sparigliare, riconnettendo la specificità del rimedio ad un adattamento disciplinare di tecniche, caducative o di manutenzione, già in uso. Da questa specola, se dovessimo propendere per un recesso, sarebbe autoevidente che l’unilateralità costituisca un’arma efficace: l’eco del dibattito francese vede, non a caso, messo in risultato il vantaggio di un consumatore che diviene così l’arbitro dell’esistenza di una pratica sleale [9]. Se non fosse che il vero valore aggiunto del recesso sta pure (se non piuttosto) nell’inversione dell’onere della prova, con un professionista, tenuto per ciò stesso a dimostrare l’inesistenza della pratica, che si accolla il rischio (ed il costo) del processo. L’obiezione formulabile, di un surplus punitivo associato al fatto che il pregiudizio sarebbe comunque accertato in astratto, potrebbe così condurre a sostenere che l’inversione sia da confinarsi all’area delle pratiche considerate in ogni caso ingannevoli (art. 23 cod. cons.).

2) È evidente che, se nomina sunt consequentia rerum, non può ipotizzarsi un qualsiasi rimaneggiamento di statuti rimediali esistenti che porterebbe all’esatto contrario, cioè a dei nuda nomina [10]. Vero, infatti, è che il confine spesso è labile, ma un adattamento stingente in una riscrittura della disciplina, scopertamente mette in forma un quid novi. Da questa angolazione, la parabola che potrebbe investire la riduzione del prezzo ha senz’altro un che di archetipico. Tutto, sunteggiando al massimo il discorso, ruota attorno a come quantificare una riduzione che se, sulla scia di quanto statuisce l’art. 135 quater, comma 1, cod. cons., la si parametra sul minor valore del bene in termini percentuali rispetto al prezzo corrisposto, viene ad essere totalmente sganciata dalla gravità della condotta tenuta dal professionista. Naturalmente è corretto notare che una riduzione tarata sul grado di slealtà del professionista preluderebbe ad un’obbligazione restitutoria che non è più commisurata al valore della res o del servizio [11]: e tuttavia, pure una riduzione che, siccome è identica quale che sia la colpevolezza, difetta per riflesso di una qualsiasi valenza sanzionatoria, qualche perplessità la suscita. Per di più la lettera dell’art. 11 bis discorre di una libertà degli Stati nazionali di valutare la “gravità” e la “natura” della pratica commerciale sleale, tenendo di conseguenza conto “del danno subito dal consumatore e di altre circostanze pertinenti”.

Perché sia dissuasivo, e lo si sa, un rimedio deve mostrarsi deterrente: e lo è se inibisce il professionista dal tenere una condotta che mette sistematicamente in scacco la disciplina consumeristica. Ora, una riduzione del prezzo, che manda in non cale l’agire estorsivo del professionista, deterrente lo è ben poco: se da un lato infatti risarcisce il consumatore, non trasla dall’altro sull’autore dell’illecito quei costi che, se imputati, finirebbero per fargli avvertire la violazione come sconveniente perché antieconomica. Dalla riparazione passiamo così ad un risarcimento ultracompensativo: con tutti i contrappunti che parlarne evoca dopo il dispositivo delle sez. un. 16601/2017.

3) Se ci domandassimo, a questo punto, quale dovrebbe essere il punto di caduta tra l’istituzione di un recesso in autotutela ed una revisione della disciplina dell’annullamento nel senso di quella detipizzazione dei vizi del consenso che sta portando a sostenere che ogni pratica ingannevole è «dolo» ed ogni pratica aggressiva è «violenza» [12], l’interrogativo non sarebbe così difficile da sciogliere. Dovendo farne una questione di effettività della tutela, vien da sé che la giudizialità costitutiva dell’azione di annullamento, pur ad ammettere un dolo colposo, rappresenta un ostacolo corposo che disincentiva il consumatore dall’agire. Battere la via di un’annullabilità, che da figura cadetta risorgerebbe, non tornerebbe utile al consumatore il cui interesse, quando sia di tipo caducatorio, è per una stragiudizialità dello scioglimento. La giudizialità, in quest’ottica, finirò per tornare inevitabile quando il contratto sia stato eseguito.


3. Spigolature sull’esperienza francese

Prima di passare, pur se grandi campiture, alla disamina di come potrebbe strutturarsi, in chiave tanto manutentiva quanto caducatoria, il diritto derivato italiano, riteniamo che potrebbe tornare utile gettare uno sguardo su quell’esperienza francese che spesso è stata riecheggiata, in questo quindicennio, nel dibattito italiano [13]. Anche qui, per altro, un caveat suona d’obbligo: allo stato la trasposizione dell’art. 11-bis non ha infatti comportato, in quell’ordinamento, una modifica dell’apparato rimediale, segno che le fortune della norma europea si annunciano, nonostante il vincolo di una full harmonisation, alterne e soprattutto esposte ad una geometria fin troppo variabile.

Orbene, il modello francese è in realtà complesso perché non tutto si risolve nel constatare, pur esattamente, che i rimedi civilistici sono differenti a seconda del tipo di pratica sleale, se trompeuse o agressive. È vero che l’art. L. 132-10 cod. consomm. recita di un contratto che, se concluso per effetto di una pratica aggressiva, è nullo “et de nul effet”: ma lo è pure la circostanza che parimenti nullo è, ai sensi dell’art. L. 132-13, il contratto stipulato a seguito di quell’abus de faiblesse che fa storcere il naso ad una dottrina frizzante nell’evidenziare come i presupposti del suo operare finiscano per essere più stringenti di quelli che la disciplina europea reputa sufficienti ai fini della tutela consumeristica [14]. Orphelines, come si legge [15], di un rimedio specifico rimangono le trompeuses: e di nuovo è incontrovertibile che il distinguo di protezione riproduca una ratio legislativa che, nell’ordinamento francese, è espressa nel senso di riguardare le pratiche aggressive come delle figure incorporanti un maggior disvalore. Siccome attentano recta via alla libertà del consenso, le agressives incappano in una nullité relative, cioè in un’annullabilità che, seppur retta dal combinato disposto degli artt. 1179, comma 2, e 1181 code civil, è alquanto ibrida. Ma anche qui, per evitare di scivolare in fraintendimenti marchiani, a condizione di intendersi.

Nullité automatique, l’hanno ribattezzata gli interpreti francesi, nel segno di una rivisitazione del concetto di violenza che l’art. L-121-6 cod. consomm. detipizza sotto molti aspetti. Nell’ordine: a) l’effetto sulla vittima, anziché determinante del consenso, ha da essere quello di un’alterazione significativa sulla libertà di scelta del consumatore; b) è un effetto che si apprezza (non in concreto bensì) in astratto e dunque con riguardo al consumatore medio; c) si prescinde totalmente dalla prova di un male ingiusto (e notevole) così come dal vantaggio eccessivo, richiesto ai sensi dell’art. 1143 code civil, per l’abus de de dépendence; d) ogni tipo di pressione integra una condotta aggressiva. Nel lessico dell’interprete italiano saremmo dalle parti di una violenza incompleta o sotto-soglia. In realtà, per la dottrina francese, quella dell’art. L-121-6 è, a rigore, una species di violenza, da iscriversi per ciò stesso nella classe dei vizi del consenso: ma nel senso che, in luogo di quella del diritto comune, esiste, e munita di un proprio stigma, una violenza consumeristica. Lo si percepisce ancora meglio se si va a scandagliare come operi questa nullité automatique. Posto infatti che siamo al cospetto di un autonomo vizio della volontà, nella versione di una violenza che si aggiunge al caso, già particulier, dell’abus de dépendence, autonomo è anche il regime di azionabilità di questa nullité. Tutto ruota intorno al fatto che, dopo aver dato prova di aver subito una pratica aggressiva, il consumatore nient’altro debba fare: e, con un contratto che è da reputarsi subito inefficace, la convenienza del rimedio diventa massima se il consumatore non abbia eseguito la prestazione. Lex specialis, si fa notare [16], derogat generalis: ma è di tutta evidenza che, scissa com’è da un accertamento di carattere costitutivo, non solo il vizio ma pure l’annullabilità cambia pelle, vestendo i panni, in sede consumeristica, di un rimedio in autotutela. Torniamo così al leit motiv di queste pagine: è la stragiudizialità che, nell’ottica di un’effettività della tutela, esalta l’efficienza della protezione. Detipizzare i vizi del consenso, senza abbinarlo ad una giudizialità di mero accertamento, renderà comunque monca la tutela del consumatore. Dopo di che, siccome tutto alla fine si tiene, se ambedue stragiudiziali, quale sarebbe la differenza tra un annullamento ed un recesso?


4. Il diritto alla risoluzione: lo stato di un dibattito (con più ombre che luci)

È giunto il tempo di concentrare l’attenzione sul diritto del consumatore alla “risoluzione del contratto”: una figura che, allo stato, non vanta una storia di successo [17].

La critica più corrosiva insiste sulla circostanza, intuitiva per la verità, di una inadeguatezza concettuale del rimedio giacché, se le p.c.s. turbano la libertà di scelta del consumatore, circuendola o conculcandola, il loro punto di caduta è una slealtà in contrahendo: e la risoluzione, le cui cause tipiche sono altre da un inganno o da una costrizione alterante la determinazione negoziale all’acquisto, non rientra nello spettro rimediale dell’art. 1337 cod. civ. Sul piano di un’effettività della tutela, la risoluzione, si aggiunge, dischiuderebbe oltretutto un deficit di protezione perché la fattispecie base dell’art. 1453 cod. civ. è tarata sul monopolio della domanda giudiziale.

Ora, va da sé che entrambi gli argomenti colgono nel segno: e tuttavia è pure vero che l’interprete non può arrestarsi ad una constatazione rimarcante soltanto la pars destruens del discorso. Il punto di rilevanza ermeneutica, si scrive, è da rintracciare nella versione inglese dell’art. 11-bis, recitante di un “termination of the contract”, una nomenclatura che, con ben più costrutto, andrebbe tradotta secondo la locuzione di un recesso. Il che, intendiamoci, è esatto ma avendo al tempo stesso cura di rifuggire da una guerra dei nomi, scopertamente stucchevole nel momento in cui si riconosca, come non si può non fare, che il suddetto recesso è pur sempre una risoluzione unilaterale stragiudiziale. Senza intento sterilmente polemici, la perentorietà del nostro dire nasce dall’esigenza di non tediare chi leggerà con un apparato di ovvietà: stante il combinato disposto degli artt. 61 e 135-quater cod. cons. ha infatti l’effige di una constatazione il notare che la risoluzione consumeristica è sempre stragiudiziale e nulla ha a che spartire con l’art. 1453 cod. civ. Dopo di che va semmai osservato che il diritto derivato ritualizza una stragiudizialità improntata ad una doppia velocità: perché, se il comma 3 dell’art. 61 distilla un effetto liberatorio che, in quanto preceduto da una rimessione in termini, occhieggia alla diffida ad adempiere dell’art. 1454 cod. civ., il recitativo dell’art. 135 quater imbastisce una vicenda improntata ad una istantaneità dell’effetto liberatorio. La littera legis è così tersa che parla da sé: il consumatore esercita il diritto alla risoluzione del contratto di vendita tramite “una dichiarazione diretta al venditore contenente la manifestazione di volontà di risolvere il contratto di vendita”. Ed allora, posto che stiamo ragionando di un potere del consumatore di porre unilateralmente fine al contratto, cioè di un recesso in autotutela, una disamina, che non voglia mostrarsi inutile, dovrebbe piuttosto focalizzare l’atten­zione sulla disciplina che gli faccia da corredo. È qui infatti che si annidano le insidie considerando che il panorama normativo trova, negli artt. 52-59 del codice del consumo, soltanto uno dei luoghi ove il recesso di pentimento viene disciplinato. Senza tirarla in lungo, non sono quelli che si pongono degli interrogativi di maniera visto che, ed a titolo puramente esemplificativo:

a) diversamente dal recesso di pentimento, da riguardarsi allo stato come un rimedio tipico, nel senso di ancillare, di talune operazioni economiche, qui verrebbe a coniarsi uno strumento di protezione generale, comune a tutti i contratti b2c che siano a valle di una p.c.s.;

b) siccome l’ingannevolezza di una pratica può pure rampollare da una negligenza, dato per pacifico che la vittima di una p.c.s. non deve dimostrare un raggiro fraudolento né un’intenzione del professionista di manipolare la sua libertà di scelta, ci viene spontaneo osservare che i confini tra uno jus poenitendi speciale ed un recesso generale si assottigliano moltissimo. Quando infatti la p.c.s. si collochi in contrahendo, sempre ci troveremo al cospetto di un recesso in autotutela che, al pari di uno di pentimento, è Uno spunto utile può venire, al riguardo, dal rileggere Travel Vac[18], arresto nitido nell’evidenziare che il consumatore recede quando si trovi in una delle circostanze o situazioni obbiettive che, oggi diremmo, sono quelle elencate nelle lett. g) ed h) dell’art. 45 cod. cons. Anche questo recesso, svolgiamo il discorso, dovrebbe allora esercitarsi sol che il consumatore dimostri di aver concluso un contratto in occasione di una delle pratiche vietate dagli artt. 21 ss. cod. cons. Ora, se verrà facile dire che il nuovo recesso, nei contratti che sono retti dall’art. 48 cod. cons., verrà perciò a supplire all’absentia, nel senso di un ammanco, dello jus poetinendi, quid per i contratti a distanza e per quelli negoziati fuori dei locali commerciali? È evidente che una differentia specifica la si radicherà nel termine entro cui recedere dal contratto: epperò decisivo diventa il dies a quo: dalla stipula del contratto o da una ragionevole conoscibilità che il consumatore poteva avere della p.c.s.?;

c) una fisionomia più definita questo recesso verrà ad averla quando la p.c.s. si verrà a manifestare in executivis. Siccome qui siamo dalle parti di un recesso per giusta causa, vien fatto di chiedersi se, com’è nel­l’art. 135-bis, comma 5, cod. cons., occorrerà che il difetto non sia di lieve entità oppure, come recita l’art. 1455 cod. civ., che sia azionabile quando l’inadempimento non sia di scarsa importanza. L’interrogativo non è retorico posto che, quando una p.c.s. sia considerata in ogni caso ingannevole (art. 23) od aggressiva (art. 26), ci parrebbe che, senza rimetterlo al vaglio di un giudice, il legislatore abbia già positivamente valutato la gravità. Residueranno però due dubbi: nell’architettura dell’art. 135-bis, comma 5, l’onere della prova della lieve entità del difetto è, adesso, a carico del venditore e, a seguire, quando il contratto sia di durata, la regola che si estrae dal disposto dell’art. 1564 cod. civ. è ben più stringente visto che, come sappiamo, l’inadem­pimento ha qui da essere di “notevole importanza” e tale, nel contempo, da menomare la fiducia nell’esat­tezza dei successivi adempimenti;

d) quanto agli effetti di questo recesso, vien da sé che, al pari di quello di pentimento, avranno un senso se declinati come ex tunc, con annessa operatività delle restituzioni. Il che, contrariamente a quanto si possa pensare, non sbroglia però la matassa. Rinviamo in nota per la vexata quaestio sulla circostanza che questo recesso conosca il fatto impeditivo di un consumatore che, avendo scoperto la pratica quando abbia già goduto della prestazione, non possa più restituire in natura[19]. In questa sede ci sembra più interessante riflettere sul fatto, rimasto totalmente estraneo al dibattito italiano, che una falsa informazione al consumatore sulla durata del contratto può rilevare, alternativamente, tanto come un obbligo in contrahendo contrattualizzatosi, giusta rammentiamo il combinato disposto dell’art. 49, commi 1, lett. q) e 5, cod. cons. che a guisa di inadempimento di un’informazione contrattuale comportante la risoluzione del contratto (art. 48 lett. f). Torna qui il problema, già evidenziato nell’incipit del nostro dire, che ha costituito l’oggetto dell’affaire Nemzeti[20]: un precedente tutt’altro che marginale considerando che un’informazione erronea sul termine di efficacia del contratto, siccome impedirà di recedere in tempo utile, espone il consumatore ad un obbligo di pagamento fino alla scadenza reale del contratto sebbene costui abbia sottoscritto medio tempore un abbonamento con un altro operatore. Ora, se il dire, nell’ipotesi di un contratto a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali, che il giudice ha qui il potere di modificare il contratto in base alla fausse croyance indotta, è un modo obliquo per riconoscere efficacia al recesso pur se intempestivo, in tutte le altre fattispecie b2c non è che l’interesse di un consumatore receduto differisca: pur sempre si avrà di mira un effetto liberatorio immune dall’obbligo di pagare la differenza. Anche qui, tuttavia, con una coppia di caveat: primo, in entrambi i casi c’è da ritenere che il recesso dovrebbe rilevare da rimedio satisfattivo, senza quindi l’appendice di un risarcimento onde evitare l’inciampo di una tutela sovracompensativa; secondo, nel caso in cui il contratto sia ad esecuzione continuata o periodica, gli effetti della risoluzione non si estenderanno, come già recita l’art. 1458 cod. civ., alle prestazioni già eseguite.


5. Il possibile nesso di continenza tra p. c. s. ed artt. 128 ss. cod. cons

Fortemente criticata è pure l’idea che talune delle p.c.s. possano venire attratte nell’orbita dell’ob­bligazione di conformità di cui agli artt. 128 ss. cod. cons. Il che, pur se lo si è puntualmente sostenuto [21], ci fa sorgere nuovamente più di una perplessità. Già, verrebbe da osservarsi, una (non esigua) sponda la offre quel considerando 16 della direttiva 2161 nel quale si legge che gli Stati membri hanno la facoltà “di mantenere o introdurre il diritto ad altri rimedi, come la riparazione o la sostituzione”. Al netto poi di questo dato, ci sembra che il parallelismo tra l’art. 11-bis e la direttiva 771/2019 non vada preso alla lettera: la nozione di bene mobile materiale e quella di prodotto hanno latitudini assai diverse e, per quanto la vendita dell’art. 128, comma 1, cod. cons. sia transtipica, ha un raggio minore di una “decisione di natura commerciale” che l’art. 18, comma 1, lett. m) svolge con un’ampia ramificazione. Fatta questa premessa, ci sembra però che avrebbe del concettualistico escludere che l’obbligazione di conformità della vendita b2c non possa tornare utile quale toolbox dalla quale estrarre dei rimedi devitalizzanti il pregiudizio consustanziale ad una p.c.s. Ci sono ben due dati edittali che militano in tal senso: la lett. g) dell’art. 21, quanto ad un’azione ingannevole avente ad oggetto i diritti del consumatore, “incluso il diritto di sostituzione o di rimborso ai sensi dell’art. [135-bis] e, prima ancora, l’art. 129, comma 3, lett. d) ove, in profonda sintonia con il recitativo dell’art. 21, lett. b), leggiamo che il difetto di conformità può consistere nel fatto che il bene non possiede “le qualità e altre caratteristiche, …, ordinariamente presenti in un bene del medesimo tipo e che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e delle dichiarazioni pubbliche fatte dal o per conto del venditore, o da altre persone nell’ambito dei precedenti passaggi della catena di transazioni commerciali, compreso il produttore, in particolare nella pubblicità o nell’etichetta”. Insomma, si intravede nitidamente che l’assetto vigente, oltre a non essere una tabula rasa, annovera delle fattispecie nelle quali il consumatore già può servirsi della gerarchia, sempre più elasticizzata, dei rimedi di cui all’art. 135-bis cod. cons. Molto prezioso, per chi lo volesse svolgere, si mostra poi il parallelismo con quell’esperienza francese nella quale, siccome una galassia delle p.c.s. si svolgono in sede di esecuzione del contratto, è incontestato che allora venga in causa quell’art. 1217 cod. civ. enumerante tutti i diversi rimedi che il creditore può azionare in caso di inadempimento. Tipico texte d’annonce l’art. 1217 enumera l’eccezione di inadempimento, l’esecuzione forzata in natura, la riduzione del prezzo per poi passare alla risoluzione del contratto ed al risarcimento del danno. È una griglia, si fa notare, di pertinenza pure del consumatore: onerato, però, di fornire la prova dell’esserci stata una pratica ingannevole che si è tradotta in un inadempimento. Torna così l’immagine, tornando nel nostro ordinamento, di un art. 19, comma 2, lett. a) che, nella parte in cui fa salva l’applicazione delle norme sulla “formazione, validità od efficacia del contratto” è forse più incisivo di quanto, per più di tre lustri, si è comunemente ritenuto [22].

Una piccola chiosa.

È vero che, in molte delle ipotesi che chiamano in causa gli artt. 128 ss. cod. cons., spesso il difetto di conformità sarà da imputarsi più al produttore che al venditore, con il corollario di un’irragionevolezza dell’apparato rimediale che facesse ricadere il costo della tutela su di un professionista che non sia stato partecipe della scorrettezza. Non ci sembra però che la questione, nel caso in cui il consumatore domandasse la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto, potrebbe decampare da quell’azione di regresso che l’art. 134 cod. cons. contempla, non a caso, nei riguardi della persona o delle persone responsabili “nell’ambito dei passaggi precedenti della medesima catena contrattuale distributiva”.


6. Un cenno sul parallelismo, in voga nell’ordinamento francese, tra p.c.s. ed ordine pubblico

Residuerebbe la questione che assimila il divieto di p.c.s. ad un principio di ordine pubblico: donde un’illiceità, totale o parziale, del contratto a valle. Siccome esula dall’oggetto del nostro dire, ci limitiamo qui ad un cenno di passata, evidenziando però come questa nullità andrebbe ad impingere nel disposto dell’art. 1418, comma 2, cod. civ., nella versione di una causa o di un oggetto illeciti. Coniata principalmente dalla dottrina francese [23], è una lettura che intriga nella misura in cui devia dal cliché di una p.c.s. quale epifania di una nullità virtuale di protezione che ridonderebbe nel disposto dell’art. 1418, comma 1, cod. civ. La suggestione rampolla dunque dal fatto che, per contrastare un siffatto assunto, non basterebbe trincerarsi dietro l’argomento che la violazione di una regola di buona fede, salvo non sia testualmente disposto, dà ingresso soltanto al risarcimento dei danni. Per osteggiarla non varrebbe, in altre parole, osservare che, quando venga in gioco una regola di buona fede, o la nullità si iscrive nel disposto dell’art. 1418, comma 3, cod. civ. oppure non sta. Un rilievo siffatto, gemello dell’adagio (o dello spettro?) francese pas de nullité sans texte, qui verrebbe a mostrarsi spuntato per la ragione che, a risultare vietato, sarebbe direttamente il contratto. Dopo di che, una riflessione che non sia estemporanea dovrebbe per altro pure rilevare come il precedente di Martin Martin [24], anziché semplificare, ingarbuglia ancor di più il dire dell’interprete, se è vero che il recitativo della Corte di giustizia ha ivi del pilatesco specialmente laddove statuisce che la nullità può andare in archivio se si dia una tecnica protettiva che “può qualificarsi ‘appropriata’, …. in quanto sanziona[nte] l’inosservanza di un obbligo il cui rispetto … è essenziale ai fini della formazione della volontà del consumatore e della realizzazione del livello di tutela voluto dal legislatore comunitario.”. Vien fatto allora di osservare che la questione più spinosa sta e monte, claudicante, se non fallace, mostrandosi proprio l’idea che il divieto di p.c.s. sia suscettibile di assorbimento in un ordine pubblico, da ricostruirsi va da sé come di protezione, che ha tutta l’aria di essere una sovrastruttura aggirante una giurisprudenza della Corte di giustizia testuale nel sentenziare che l’accertamento del carattere sleale di una pratica “non ha [una] diretta incidenza sulla validità del contratto”. Così ha disposto la notissima Pereničová-Perenič[25] ma Bankia SA [26], detto incidentalmente, non è stata da meno. Con il che, però, il de profundis per una nullità, financo di protezione [27], è servito.


7. Note sparse per un dibattito in progress

A mo’ di congedo.

Volendo fare un bilancio di quanto fin qui esposto, ci verrebbe spontaneo dire che, intorno alla trasposizione dell’art. 11-bis, si affollano una pluralità di interrogativi, un buon spicchio dei quali sono falsi se non superflui. Specularmente ce ne sono alcuni che, nel dibattito italiano, non hanno riscosso una particolare attenzione. Senza una qualche pretesa di completezza, il pensiero va, nell’ordine:

  1. a) alla distribuzione dell’onere della prova stante la notazione (lapalissiana) che nessun rimedio soddisfa il principio di effettività se, processualmente, l’esercizio dei diritti conferiti risulta impossibile o eccessivamente difficile. Ora, in applicazione dell’art. 2697 cod. civ., l’onere di provare la slealtà della pratica dovrebbe spettare a chi la denunzia, con il risultato che sarebbe di pertinenza del consumatore dimostrare il fatto costitutivo. Ci sono, tuttavia, due argomenti che potrebbero giocare in favore, come leggiamo, di un «aménagement … de la preuve»[28]: il primo, di stampo edittale, è deducibile dal disposto dell’art. 12 della direttiva 2005/29/CE nella parte in cui statuisce che sia il professionista a fornire le prove “sull’esattezza delle allegazioni fattuali connesse alla pratica commerciale”, con l’effetto, se tale prova venga omessa o sia reputata insufficiente, di reputare inesatte “le allegazioni fattuali”. Ad abundantiam notiamo che, secondo il disposto dell’art. 27, comma 5, cod. cons., grava sempre sul professionista l’onere di provare che “egli non poteva ragionevolmente prevedere l’impatto della pratica commerciale sui consumatori”. Il secondo è invece ricavabile dal precedente di CA Consumer Finance[29], un caso nel quale la Corte di giustizia si è pronunciata nel senso dell’euroincompatibilità di una normativa nazionale che avesse fatto ricadere sul consumatore la prova della mancata esecuzione degli obblighi informativi. Vero è che la sentenza aveva per oggetto gli artt. 5 ed 8 della direttiva 2008/48: il recitativo della Corte, tutto incentrato nell’ottimizzare il principio di effettività, è però formulato in termini così generali che non sarebbe bizzarro pensare all’enunciazione di una regola probatoria la cui ramificazione vada a coprire tutti gli obblighi di informativa precontrattuale, con l’effetto dunque di includere nel suo perimetro pure le pratiche ingannevoli omissive;
  2. b) seppur dubitativamente, si è affacciata, in dottrina, l’idea che, tra i rimedi manutentivi sia da annoverare la rettifica di cui all’art. 1432 cod. civ. Il che, però, ci instilla più di una perplessità: e non per la ragione, largamente sperimentata, che l’art. 1432 sia una disposizione, rinserrata nell’area dell’errore, di cui è fortemente osteggiata l’estensione alla violenza morale ed al dolo. L’obiezione che ci sembra qui più pertinente fare inerisce al rilievo che, ammettendo l’operare di una rettifica, verrebbe a farsi questione di un rimedio riconosciuto (non già al consumatore bensì) al professionista: e, rispetto ad un recesso che, al pari del­l’annullamento, verrebbe precluso, non si vede per quale motivo dovrebbe premiarsi l’interesse del professionista alla conservazione del vincolo rispetto a quello, financo sopravvenuto, del consumatore alla caducazione del contratto;
  3. c) se lo spartito rimediale è plurimo, vien fatto di pensare che, in luogo di un principio di specialità, la regola di conflitto sia plasmata sul canone della norma più favorevole per il consumatore, già eletta dall’art. 1469 bis civ. a criterio di selezione quando si dia un concorso tra una norma codicistica ed una disposizione consumeristica non inclusa nel codice del consumo. Anche qui, però, i dubbi sono destinati a sopravanzare i casi nei quali sia pacifica l’individuazione della norma applicabile. Nell’ipotesi di omissioni ingannevoli, quando si faccia questione di un finanziamento b2c, è l’art. 125-bis, comma 6, TUB il disposto governante, in termini di esclusività, la fattispecie? Se il rimedio azionabile è idoneo a neutralizzare l’informazione decettiva, l’effetto manutentivo deve preferirsi a quello caducativo? Quid per il caso in cui si versi nell’ipotesi di cui all’art. 22, comma 4, lett. e), una fattispecie questa che parrebbe refluire, in modo assorbente, nella nullità dell’art. 30, comma 7, TUF ovvero dell’art. 30-bis, comma 3? Nel cenno fatto all’esperienza francese, è emerso che, quando le p.c.s. siano trompeuses, l’annullabilità è inappagante giacché soltanto l’errore sarebbe in grado di bypassare la prova di un intention de tromper del professionista. Spunta da questa lacuna, assiologica per altro, il costrutto di una pratica ingannevole che priverebbe il contratto di quel requisito della liceità imposto dal combinato disposto degli artt. 1102, comma 2, e 1128 Code civil;
  4. d) pur a confezionarlo, il recesso resterà un rimedio spuntato nelle fattispecie di cui all’art. 23, lett. h) ed u), due casi che hanno del paradigmatico nell’evidenziare come la p.c.s. sia talora addebitale, in luogo del venditore, al produttore, cioè ad un soggetto terzo rispetto al contratto che sia stato stipulato.

L’elencazione potrebbe proseguire, con l’effetto però di rendere il taglio problematico troppo preponderante. Ecco per quale ragione prenderemo commiato cercando di isolare dei punti fermi.

Tra le due interpretazioni possibili dell’art. 11-bis, e cioè se il trittico rimediale ivi enumerato sia tassativo oppure se, purché effettivi, gli Stati nazionali possano prevederne altri, è evidente che, stante pure la sponda del 16 considerando, noi propendiamo per la seconda: senza dimenticare che, pure a muoversi nella prima prospettiva, è inconfutabile che alligna nella competenza nazionale fissare le condizioni e le modalità operative delle singole tecniche di tutela. Quanto invece al dire che l’art. 11-bis si snodi secondo una trama che farebbe primeggiare la tutela risarcitoria, subordinando così i rimedi manutentivi e quelli di caducazione al riscontro di un interesse specifico del consumatore, qualche perplessità la nutriamo. Se infatti l’interpretazione prelude al sostenere che il risarcimento potrebbe giocare tanto da rimedio esclusivo quanto cumulativo [30], l’obiezione che ci viene spontaneo formulare è quella che, in un intero spicchio di fattispecie, o un danno risarcibile difetterà o risulterà liquidabile secondo i presupposti di legge (artt. 1338, 1453 cod. civ. et similia).

Non resta che attendere il legislatore.


NOTE

[1] Un giro di orizzonte ricapitolativo, che fa lucidamente il punto sullo stato dell’arte, è nella fitta voce di Granelli, Pratiche commerciali scorrette: le tutele, in Enc. dir., Il contratto, I, a cura di D’Amico, Milano, 2021, 825 ss., alla quale senz’altro rinviamo anche per il diffuso apparato bibliografico. A livello monografico, l’ultimo studio, che fotografa attentamente il fenomeno, è quella a firma di Guffanti Pesenti, Scorrettezza delle pratiche commerciali e rapporto di consumo, Napoli, 2020.

[2] V., al riguardo, in luogo di tanti, Maugeri, Violazione della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali, in Nuova giur. civ. comm., 2009, 477 ss., il cui dire è, inter alios, ampiamento ripreso da Febbrajo, Il private enforcement del divieto di pratiche commerciali scorrette, Napoli, 2018, 83 ss.

[3] E qui, sempre nella cornice di una diffusa e stringente riflessione per grandi campiture, può senz’altro rinviarsi a Maugeri, Pratiche commerciali scorrette e disciplina generale dei contratti, in I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette. Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/CE, a cura di Genovese, Padova, 2008, 265 ss.

[4] V., per un quadro d’insieme, le pagine di C. Scognamiglio, Vizi del consenso, in Enc. dir., Il contratto, cit., 1179 s.

[5] Esemplare, in questo excursus, Granelli, Pratiche commerciali scorrette: le tutele, cit., 838 ss.

[6] Nessuno, ad esempio, può revocare in dubbio che il rimedio associato alla pratica di cui all’art. 21, comma 1, lett. f) sia l’art. 2231, comma 1, cod. civ., un luogo questo nel quale è implicita una nullità testuale. Una nullità del contratto, ma non già per violazione dell’art. 24 cod. cons., bensì perché la violenza fisica impedirà il formarsi del requisito essenziale del consenso, cioè ai sensi del combinato disposto degli artt. 1325, n. 1 e 1418, comma 2, cod. civ., è un’altra ipotesi che da subito la dottrina ha censito nel segno di una duttilità dei rimedi.

[7] Da questo punto di vista e, pur se con un diverso apparato argomentativo, troviamo apprezzabile la notazione di chi evidenzia come il fatto che le sorti del contratto «non siano segnate una volta per tutte consente di fornire risposte differenti rispetto a istanze di tutela che non sempre mirano alla realizzazione del medesimo interesse»: così Febbrajo, Il private enforcement del divieto di pratiche commerciali scorrette, cit., 133.

[8] Demandante, come si sa, al legislatore il compito di “disciplinare i casi in cui pratiche negoziali ingannevoli, aggressive o comunque scorrette … determinano l’invalidità del contratto” (art. 1, comma 1, lett. g).

[9] V. Sauphanor-Brouillaud et al., Les contrats de consommation. Règles communes, in Traité de droit civil, a cura di Ghestin, Paris, 20182, 376 s.

[10] Come nota limpidamente Castronovo, Divagazioni su parola e diritto, in La scienza del diritto civile e la sua dimensione internazionale. Atti del convegno di presentazione degli Scritti in onore di Carlo Castronovo, Torino, 2021, 146.

[11] Così, per es., Guffanti Pesenti, Pratiche commerciali scorrette e rimedi nuovi. La difficile trasposizione dell’art. 3, co. 1, n. 5, dir. 2019/2161/Ue, in Eur. dir. priv., 2021, 671.

[12] Così Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, in Riv. dir. priv., 2010, 60 e 63.

[13] V. Zorzi, Sulla invalidità del contratto a valle di una pratica commerciale scorretta, in Contr. impr., 2011, 952 (marcatamente a favore di una rilettura che porti ad ampliare le maglie dell’annullabilità codicistica).

[14] V. Sauphanor-Brouillaud et al., Les contrats de consommation. Règles communes, cit., 317 s., alla quale non si può, in questa sede, che rinviare per uno scrutinio analitico delle problematiche sottese all’istituto.

[15] Così Sauphanor-Brouillaud et al., op. ult. cit., 371.

[16] Cfr. Sauphanor-Brouillaud et al, op. ult. cit., 372.

[17] V. Guffanti Pesenti, Pratiche commerciali scorrette e rimedi nuovi, cit., 655 ss.

[18] C. Giust. CE 22 aprile 1999, causa C-423/97.

[19] Questione classica, la si può declinare nel senso di un’irrecedibilità, visto adesso il dispositivo che si legge nell’art. 16, § 3, lett. a) di una direttiva 771/2019 Ue che l’art. 135-quater, comma 4, lett. a) riproduce alla lettera. L’opposta tesi è sostenuta da chi, valorizzando l’intuizione autorevole di Castronovo, La risoluzione del contratto dalla prospettiva del diritto italiano, in Eur. dir. priv., 1999, 822 opta per l’idea, dedotta da quell’annullabilità che non conosce il disposto dell’art. 1492, comma 3, cod. civ., di una restituzione del valore o nei limiti dell’effettivo arricchimento maturato. È intuitivo che quest’ultima interpretazione sia l’unica che garantisce un livello di tutela elevato al consumatore: che, se non potesse recedere quando non possa più aversi una restitutio in integrum oppure se fosse tenuto a corrispondere l’equivalente pecuniario del bene, sarebbe disincentivato da un recesso, efficiente sì … ma per il professionista sleale. Rimane, e non possiamo ometterlo, il contrappunto che un’obbligazione restitutoria commisurata all’arric­chimento, così come recita l’art. 2037, comma 3, cod. civ., prelude ad una overdeterrence nei riguardi del professionista: tanto più che un rimedio alternativo potrebbe darsi nella variabile di quella riduzione del prezzo di cui l’art. 11- bis pur sempre discorre. Così ragionando, il recesso diventerebbe un rimedio di pertinenza esclusiva dei casi in cui il bene non sia stato consumato od il servizio non sia stato fruito.

[20] C. Giust. UE 16 aprile 2015, causa C-388/13.

[21] V. Guffanti Pesenti, Pratiche commerciali scorrette e rimedi nuovi, cit., 649-654.

[22] E qui è d’obbligo il rinvio a De Cristofaro, Pratiche commerciali scorrette, in Enc. dir., Annali, V, 2012, 1079 ss.

[23] V., in special modo, Aubert de Vincelles, Le Code de la consommation à l’épreuve de nouvelles notions. L’exemple des pratiques commerciales déloyales, in Aubert de Vincelles, Sauphanor-Brouillaud, Les 20 ans du Code dela consommation, Lextenso, 2013, 18 ss. e Chantepie, La détermination de sanctions effectives, proportionnées et dissuasives des pratiques commerciales déloyales, in Terryn, Voinot, Droit européen des pratiques commerciales déloyales, Larcier, 2012, 86 ss.

[24] C. Giust. UE 17 dicembre 2009, causa C-227/08, § 34 della motivazione.

[25] C. Giust. UE 15 marzo 2012, causa C-453/10.

[26] C. Giust. UE 19 settembre 2018, causa C-109/17, ove si legge che un contratto “non può essere dichiarato invalido” per la sola ragione che presenta “clausole contrarie al divieto generale di pratiche commerciali sleali”.

[27] Suggerita, nel dibattito italiano, da Di Nella, Il sistema delle tutele e dei rimedi nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Studi in onore di Giorgio Cian, I, Padova, 2010, 870 ss., spec. 877.

[28] Così Sauphanor-Brouillaud et al., Les contrats de consommation. Règles communes, cit., 356.

[29] C. Giust. UE, 18 dicembre 2014, causa C-449/13.

[30] V., in tal senso, Dalia, Sanzioni e rimedi individuali “effettivi” per il consumatore in caso di pratiche commerciali scorrette: le novità introdotte dalla direttiva 2161/2019/Ue, in Riv. dir. ind., 2020, 331 ss.

Fascicolo 2 - 2022