La Direttiva (UE) 2019/2161 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 novembre 2019 ha introdotto l’art. 11 bis nella Direttiva 2005/29/CE. Tale articolo prevede, fra l’altro, che i consumatori, in caso di violazione della disciplina in tema di pratiche commerciali scorrette, debbano “avere accesso a rimedi proporzionati ed effettivi, compresi il risarcimento del danno subito dal consumatore e, se pertinente, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto”. L’autrice ritiene che, nonostante l’uso dell’espressione risoluzione, il legislatore sia libero di prevedere un rimedio caducatorio funzionale all’interesse protetto. L’autrice propone che il legislatore nazionale, in sede di recepimento, preveda un rimedio caducatorio “di tipo unilaterale” in caso di violazione degli articoli 23 e 26 del codice del consumo. In tutti gli altri casi si potrebbe lasciare al giudice la possibilità di caducare o meno il contratto a seconda della gravità della pratica.
Directive (EU) 2019/2161 of the European Parliament and of the Council of 27 November 2019 inserted art. 11a in Directive 2005/29 / EC. This article provides, among other things, that Consumers harmed by unfair commercial practices " shall have access to proportionate and effective remedies, including compensation for damage suffered by the consumer and, where relevant, a price reduction or the termination of the contract”. The author believes that, despite the use of the term termination, member states are free to provide any remedy to unwind the contract functional to the protected interest. The author proposes that the national legislator provides for a "unilateral" remedy to unwind the contract in case of violation of articles 23 and 26 of the Italian consumer code. In all other cases it could be left to the judge the possibility of terminating the contract or not, depending on the seriousness of the case.
Keywords: Unfair commercial practices – Remedies – Unwind - Invalidity.
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L’attuale disciplina nazionale sulle pratiche commerciali scorrette non individua in capo ai consumatori specifici rimedi ‘‘privatistici’’. Nulla, in altre parole, la stessa dispone in merito alla validità o meno dei contratti stipulati fra un professionista che abbia posto in essere una pratica commerciale scorretta e i singoli consumatori, così come nulla dispone in relazione al risarcimento dell’eventuale danno che questi ultimi abbiano subito proprio in ragione di una pratica siffatta. Nulla, ancora, viene previsto in merito a eventuali altri tipi di rimedi ‘‘contrattuali’’. L’art. 19 cod. cons., nel definire l’ambito di applicazione del titolo III del codice del consumo, dispone, però, che lo stesso non pregiudica: ‘‘l’applicazione delle disposizioni normative in materia contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità od efficacia del contratto”. In ragione di ciò, in dottrina si è molto discusso sul rapporto fra la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette e quella generale in materia di contratti. In particolare ci si è interrogati sulla possibilità o meno di considerare invalidi i contratti laddove si registri una violazione della disciplina contenuta negli artt. 18 ss. cod. cons. Una parte della dottrina, infatti, ha ritenuto che si potesse giungere alla nullità di tali contratti mentre altra parte si è pronunciata a favore dell’annullabilità [1]. A me è sembrato di poter sostenere che (fermo restando che, disarticolando le diverse fattispecie, ci si possa agilmente accorgere di come le soluzioni possano variare sotto il profilo rimediale e, pertanto, con riferimento ad alcune pratiche scorrette, si possa avere nullità, diritto di recesso, risarcimento o altro tipo di rimedio) in molti casi i consumatori, vittime di alcune delle pratiche scorrette, possano agire per ottenere l’annullamento del contratto, e ciò perché avevo ritenuto (e ritengo) che la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette avesse inciso (e incida) sull’allargamento dell’area entro la quale possano essere ritenuti sussistenti i vizi del consenso. In altre parole, avevo ritenuto che la disciplina avesse un effetto innovativo idoneo a incidere soprattutto sulla delimitazione dell’ambito di applicazione della disciplina sul dolo [2]. Non riprenderò, in queste sede, le argomentazioni che mi hanno condotto a siffatta soluzione. Mi permetto solo di ricordare che anche l’art. 8 della l. 6 maggio 2004, n. 129 (disciplina sull’affiliazione commerciale) prevede l’annullabilità nell’ipotesi in cui una parte fornisca false informazioni all’altra parte richiamando proprio l’art. 1439 cod. civ.
La questione è stata anche affrontata dall’Arbitro per le controversie finanziarie che in una decisione del 5 giugno 2017, n. 5, in un caso che si inseriva all’interno di una più ampia vicenda di grande impatto economico e mediatico, e cioè quella delle banche venete poste in liquidazione, l’ACF, infatti, si è pronunciato a favore dell’annullabilità [3]. Si registrano anche in giurisprudenza posizioni favorevoli all’annullabilità [4].
Ciò non di meno, credo sia doveroso ricordare che gran parte della dottrina e della giurisprudenza abbiano nutrito perplessità rispetto al rimedio caducatorio, propendendo più per il risarcimento del danno [5].
Una certa influenza su questa propensione potrebbe aver avuto l’adesione alla tesi, ritenuta tradizionale, accolta anche dalle Sezioni Unite della Cassazione nelle famose sentenze gemelle nn. 26724 e 26725 del 2007, cc.dd. sentenze Rordorf, che distingue le regole di validità (legate alla violazione di norme relative al contenuto del contratto) dalle regole di responsabilità (legate alla violazione di regole di correttezza) [6]. Dico “ritenuta tradizionale” e non “tradizionale” perché a me sembra che il compito tradizionalmente affidato all’art. 1337 cod. civ. fosse molto diverso da quello che viene allo stesso affidato dalla tesi accolta anche dalle sezioni unite.
Ma, al di là di ciò, conviene in questa sede ricordare che la Corte di Giustizia, nella causa C42/15 del 9 novembre 2016, che ha visto contrapposti la Home Credit Slovakia a.s. e la signora Bíróovà, ha espressamente superato siffatta ripartizione con riferimento alla violazione di obblighi previsti dalla disciplina sul credito al consumo, prevedendo la possibilità, in caso di alcune omissioni di informazioni, di giungere alla caducazione di interessi e spese, con ciò legittimando la scelta del legislatore italiano che ha previsto rimedi caducatori e sostitutivi in caso di violazione degli obblighi di informazioni in materia di credito al consumo [7].
Si ricorda qui che la disciplina in tema di credito al consumo è una disciplina di grande rilevanza nel settore bancario.
La presenza in più luoghi del sistema, anche di grandissima rilevanza economica, di rimedi caducatori in caso di violazione degli obblighi di informazione può indurre a revocare in dubbio la tenuta complessiva della rigidità della distinzione fra regole di validità e regole di comportamento. Se non altro perché evidenzia che il legislatore ritiene, in molti contesti, insufficiente il rimedio risarcitorio (cosa, per il vero, evidenziata anche dalle sezioni unite ma solitamente negletta dai commentatori delle sentenze gemelle).
Ma la decisione Home Credit Slovakia assume particolare rilievo nel discorso che proverò a fare qui anche per altre ragioni.
In quella sede, infatti, interpretando l’art. 23 della Direttiva 2008/48 CE, secondo il quale “le sanzioni previste devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive”, la Corte non solo ha ritenuto, come ho già detto, che tale articolo non osti a che uno Stato membro preveda, nella sua normativa nazionale, che, qualora un contratto di credito non menzioni tutti gli elementi richiesti dall’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva in parola, tale contratto sia considerato esente da interessi e spese (e, dunque, le previsioni relative a queste clausole siano nulle), sempreché si tratti di un elemento la cui assenza possa rimettere in discussione la possibilità per il consumatore di valutare la portata del proprio impegno, ma soprattutto – per quel che qui rileva – ha distinto, facendo un elenco, omissioni di informazioni che avrebbero tollerato la sanzione (molto gravosa) della esenzione da interessi e spese e omissioni di informazioni che non avrebbero consentito siffatta sanzione. In particolare, ha ritenuto, che la violazione, da parte del creditore, di obblighi di importanza essenziale nel contesto della direttiva 2008/48 potesse essere sanzionata, conformemente alla normativa nazionale, con la decadenza dal diritto agli interessi e alle spese.
La Corte ha ritenuto che: “Riveste una tale importanza essenziale l’obbligo di menzionare nel contratto di credito, in particolare, elementi quali il tasso annuo effettivo globale …, il numero e la periodicità dei pagamenti …, l’esistenza di spese notarili, le garanzie e le assicurazioni richieste. Nei limiti in cui la mancata menzione, nel contratto di credito, di tali elementi p[ossa] rimettere in discussione la possibilità per il consumatore di valutare la portata del suo impegno, la sanzione della decadenza del creditore dal suo diritto agli interessi e alle spese, prevista dalla normativa nazionale, deve essere considerata proporzionata ai sensi dell’articolo 23 della direttiva 2008/48 e della giurisprudenza ricordata al punto 63 della … sentenza… Tuttavia, non può essere considerata proporzionata l’applicazione, conformemente a tale normativa nazionale, di una siffatta sanzione, che produce gravi conseguenze nei confronti del creditore, in caso di mancata menzione di elementi, tra cui quelli previsti dall’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2008/48 che, per loro natura, non possono incidere sulla capacità del consumatore di valutare la portata del proprio impegno, quali, segnatamente, il nome e l’indirizzo dell’autorità di sorveglianza competente di cui all’articolo 10, paragrafo 2, lettera v), della direttiva in parola”.
È vero che la Corte fa riferimento alle sanzioni (potremmo dire a un profilo tradizionalmente estraneo, ancorché non in termini assoluti, al tradizionale apparato dei rimedi civilistici e che nella direttiva di cui si discute in questa sede è più riconducibile alla modifica dell’art. 13, che fa riferimento a sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, che all’introduzione dell’art. 11-bis, che fa riferimento solo a rimedi proporzionati ed effettivi) ma quel che per noi assume rilievo in questa sede è prendere atto che la graduazione delle “reazioni” alla violazione della disciplina potrebbe anche esser definito ex ante, individuando tipi di violazione cui far seguire, per ipotesi, i rimedi caducatori [8]. Anticipo qui una proposta, alternativa a quella di lasciare al giudice la valutazione del rimedio da preferire, su cui tornerò: si potrebbe, ad esempio, pensare a un rimedio caducatorio, vedremo quale, legato alla violazione degli artt. 23 e 26 cod. cons. (cioè alla violazione degli articoli che individuano le pratiche commerciali considerate in ogni caso ingannevoli e le pratiche commerciali considerate in ogni caso aggressive), con possibilità – come dirò – di diversificare il rimedio caducatorio in caso di violazione dell’art. 26.
Prima di avviare il discorso sul possibile modo di recepire l’art. 11-bis nel nostro ordinamento, conviene ricordare che il d.d.l. 1151/2019 (delega al governo per la revisione del codice civile) dava mandato di disciplinare “i casi in cui pratiche negoziali ingannevoli, aggressive o comunque scorrette, o circostanze quali la distanza tra le parti, la sorpresa, la situazione di dipendenza di una parte rispetto all’altra determinano l’invalidità del contratto concluso”. Il legislatore, come si legge nella relazione tecnica, intendeva in tal modo superare la dicotomia fra norme di comportamento e norme di validità. Superamento che, a mio avviso, non necessita di intervento legislativo. Ciò non significa, però, che – data l’attuale posizione interpretativa prevalente in giurisprudenza e in dottrina – io valuti negativamente la proposta.
Ma passiamo adesso alla parte centrale del discorso affrontato in questa sede che è legato all’introduzione, ad opera della Direttiva (UE) 2019/2161 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 novembre 2019, dell’art. 11-bis nella Direttiva 2005/29/CE.
Tale articolo prevede quanto segue:
1. I consumatori lesi da pratiche commerciali sleali devono avere accesso a rimedi proporzionati ed effettivi, compresi il risarcimento del danno subito dal consumatore e, se pertinente, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto. Gli Stati membri possono stabilire le condizioni per l’applicazione e gli effetti di tali rimedi. Gli Stati membri possono tener conto, se del caso, della gravità e della natura della pratica commerciale sleale, del danno subito dal consumatore e di altre circostanze pertinenti.
2. Detti rimedi non pregiudicano l’applicazione di altri rimedi a disposizione dei consumatori a norma del diritto dell’Unione o del diritto nazionale.
Il rimedio caducatorio cui si fa riferimento è quello della Risoluzione anche se, dato che l’articolo citato dispone che il legislatore possa definire gli effetti di tale rimedio (ritengo sia fra le parti sia nei confronti dei terzi), sia certamente consentito al legislatore costruire un rimedio caducatorio funzionale all’interesse protetto, senza preoccuparsi troppo del termine utilizzato nell’art. 11-bis.
D’altra parte, come è già stato detto, la risoluzione nel nostro ordinamento è tipicamente legata all’inattuazione o alterazione del sinallagma e non certo alla formazione della volontà delle parti [9]. Ciò significa che il rimedio risolutorio è costruito su fattispecie diverse da quelle considerate e, in alcuni suoi tratti, potrebbe rivelarsi distonico.
È stato segnalato che per rendere effettivo il rimedio occorra sottrarlo alla dinamica processuale [10]. Su ciò si può, ancorché solo in parte, convenire, sottolineando che la proposta di utilizzare il risarcimento, avanzata da gran parte della dottrina, non risponde affatto a siffatta esigenza.
È stato proposto di adottare un rimedio caducatorio “di tipo unilaterale”, quale può esser il recesso [11]. Questa soluzione, a mio avviso, mal si concilierebbe con l’esigenza di graduare i rimedi secondo una logica di proporzionalità ed effettività, logica imposta dal legislatore europeo. Almeno se si ritiene che tale rimedio possa esser concesso in via generalizzata.
Diverso potrebbe essere se si legasse siffatto tipo di rimedio alla violazione di alcune regole, ritenute già ora dal legislatore più gravi di altre [12]. Come ho già detto, si potrebbe consentire il recesso, con effetto ex tunc, in caso di violazione dell’art. 23 e in caso di violazione dell’art. 26 con riferimento alle fattispecie che precedono la conclusione del contratto (e mi sembra corretto il richiamo al 2037 cod. civ. con riferimento alle restituzioni [13]). Mentre si potrebbe pensare ad effetti ex nunc con riferimento alle fattispecie contemplate nell’art. 26 legate alla fase successiva alla conclusione del contratto. Il termine per far valere il rimedio potrebbe essere di un anno [14].
Si potrebbe, invece, lasciare, in via residuale, al giudice la possibilità di caducare o meno il contratto a seconda della gravità della pratica in tutti gli altri casi.
Probabilmente, però, il legislatore italiano non seguirà questa strada e attribuirà in generale al giudice il compito di individuare il rimedio risarcitorio, caducatorio o di altro tipo. Il che potrebbe anche esser corretto sotto il profilo del rispetto della proporzionalità ed effettività ma, a mio avviso, non potrebbe che introdurre l’ennesimo alto rischio di non prevedibilità dell’esito del giudizio, che è stato stigmatizzato anche dal Presidente della Repubblica ultimamente in più sedi.
Per cercare di arginare ciò, in attesa di eventuali interventi della Corte di Giustizia, dovrebbe esser la dottrina a individuare le pratiche gravi cui far seguire la caducazione del contratto. Il modello di scambio di massa consente, infatti, senz’altro la possibilità di ragionare avvalendosi di schemi tipici, che prescindano dallo specifico scambio.
NOTE
[1] Una sintesi completa delle diverse posizioni si trova in C. Granelli, voce Pratiche commerciali scorrette: le tutele, in Enc. dir., I tematici, 1-2021, Contratto diretto da G. D’Amico, Giuffrè, 2021, 838 ss.
[2] M. Maugeri, Pratiche commerciali scorrette e annullabilità: la posizione dell’Arbitro per le controversie finanziarie, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 1516 ss.; Ead., Violazione della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali, in Nuova giur. civ. comm., 2009, II, 477 ss. e, in versione parzialmente rivista, in Studi in onore di Giorgio Cian, Tomo II, Cedam, 2010, 1671 ss.
[3] Cfr. Arbitro per le controversie finanziarie, Decisione n. 5 del 5 giugno 2017, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 1521 ss.
[4] Cfr., ad esempio, con riferimento a un messaggio di pubblicità ingannevole, Trib. Bologna 28 settembre 2009, in Rass. dir. farmaceutico, 2010, 12 ss.
[5] Sul punto cfr., da ultimo, la ricostruzione dottrinale e giurisprudenziale di C. Granelli, op. cit. e di L. Guffanti Pesenti, Scorrettezza delle pratiche commerciali e rapporto di consumo, Jovene, 2020.
[6] In Foro it., 2008, 3, I, 784 e in Banca, borsa, tit. cred., 2009, 2, II, 13.
[7] Per un commento alla decisione della Corte di Giustizia C42/15 del 9 novembre 2016 sia consentito rinviare a M. Maugeri, Omissione di informazioni e rimedi nel credito al consumo. La decisione della CGE 42/15 e la proporzionalità dell’apparato rimediale italiano, in Banca, borsa, tit. cred., 2018, 134 ss.
[8] Si veda, ad esempio, la scelta del legislatore belga descritta da G. De Cristofaro, Rimedi privatistici “individuali” dei consumatori e pratiche commerciali scorrette: l’art. 11-bis dir. 2005/29/UE e la perdurante (e aggravata) frammentazione dei diritti nazionali dei Paesi UE, in questo numero della Rivista.
[9] Cfr. L. Guffanti Pesenti, Pratiche commerciali scorrette e rimedi nuovi. La difficile trasposizione dell’art. 3, co. 1, n. 5), dir. 2019/2161/UE, in Europa e diritto privato, 2021, 657 ss.
[10] L. Guffanti Pesenti, op. cit., 660 ss.
[11] L. Guffanti Pesenti, op. loc. ult. cit.
[12] Per i limiti che presenta comunque, in specifiche situazioni, il rimedio del recesso, cfr. S. Pagliantini, I rimedi non risarcitori: esatto adempimento, riduzione del prezzo e risoluzione del contratto, in questo numero della Rivista.
[13] L. Guffanti Pesenti, op. cit., 670.
[14] Sembra insufficiente il termine di 90 giorni previsto dalla legislazione del Regno Unito (descritta da G. De Cristofaro, op. loc. cit.) a meno che non si ritenga che gli stessi decorrano dal momento in cui la pratica commerciale scorretta sia stata scoperta e sanzionata da un’Autorità.