L’equivoco che è alla base della probatio diabolica imposta dalla giurisprudenza all’attore in rivendicazione discende dalla impropria simmetria tra assolutezza del diritto vantato e assolutezza della dimostrazione processuale di esso, e finisce per trasfigurare l’usucapione da uno degli alternativi modi di acquisto a mezzo di prova esclusivo della proprietà.
The misunderstanding, on which the “probatio diabolica” the claimant is required to give is based, derives from an inexact symmetry between the absolute nature of both the right claimed and the evidence of it, and it leads to transform the usucapion from one of the means of acquisition of property into the only mean of evidence of property itself.
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1. Il funzionamento della probatio diabolica secondo la giurisprudenza - 2. Accertamento della proprietà e possesso del bene - 3. La rilevanza dei diversi titoli di acquisto - 4. Le (oscure) ragioni della probatio diabolica - 5. L’esorcizzazione della probatio diabolica - NOTE
Tredici anni fa, le sezioni unite civili della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19499 del 16 luglio 2008, a proposito del maggior danno in caso di ritardato adempimento di un’obbligazione di valuta, affermarono che “le prorompenti esigenze di semplificazione dell’istruzione probatoria” imponevano rispetto al passato “soluzioni più snelle, anche alla luce dei dati costituiti dall’incessante aumento del contenzioso civile, dall’allungamento dei tempi medi di definizione del processo, dal nuovo principio della sua ragionevole durata, proclamato dall’art. 111, secondo comma, Cost.”.
Queste prorompenti e moderne esigenze di semplificazione dell’istruzione probatoria lasciano, tuttavia, ancora imperterriti i giudici delle azioni di rivendicazione della proprietà.
Le salmodie giurisprudenziali recitano che la domanda di rivendica, tendendo al riconoscimento del diritto di proprietà ed al conseguimento del possesso sottratto al proprietario contro la sua volontà, esige la prova della proprietà (e non del possesso) della cosa da parte dell’attore e la prova del possesso di essa da parte del convenuto.
La prova della proprietà si dà mediante dimostrazione della titolarità del diritto, e quindi, in via alternativa, o mediante la prova di un acquisto a titolo originario, eventualmente risalendo al titolo originario dei propri danti causa, o mediante prova del possesso continuato del bene conforme al titolo, da parte del proprietario ed eventualmente dei suoi danti causa, protratto per il tempo necessario all’usucapione del bene.
In ciò consiste, dunque, l’onere della cosiddetta probatio diabolica che grava sul rivendicante: egli deve in ogni caso dimostrare di aver acquistato il bene a titolo originario, oppure che lo stesso sia a lui pervenuto attraverso una catena ininterrotta di trasferimenti avente inizio da chi, comunque, lo abbia acquistato a titolo originario. All’attore in rivendica, che ambisce al riconoscimento della sua qualità di dominus, non basta, pertanto, far verificare la sua titolarità, occorrendo, piuttosto, che tale titolarità sia legittima. Serve quindi accertare sempre la protrazione del possesso per il tempo necessario all’usucapione ordinaria ventennale quando all’attore manchi del tutto un titolo derivativo, o quando un siffatto titolo, da chiunque provenga, e cioè a domino o a non domino, sia nullo o altrimenti inidoneo all’effetto traslativo della proprietà; serve, quanto meno, la protrazione decennale del possesso se concorrano buona fede, idoneità del titolo di acquisto proveniente a non domino e trascrizione.
In sostanza, la probatio diabolica chiama l’attore in rivendica ad allegare: 1) o che egli sia fornito di un valido titolo derivativo proveniente, direttamente o tramite i danti causa, dal dominus nel senso indicato; 2) o che abbia altrimenti posseduto per vent’anni o per dieci ai fini dell’usucapione ordinaria o abbreviata; 3) o che abbia acquistato in altro modo a titolo originario (ad esempio, per accessione).
Il rigore di tale principio, secondo il quale l’attore in rivendica deve provare la sussistenza dell’asserito diritto di proprietà sul bene anche attraverso i propri danti causa fino a risalire ad un acquisto a titolo originario, ovvero dimostrare il compimento dell’usucapione, non si intende, di regola, attenuato dalla proposizione, da parte del convenuto, di una domanda riconvenzionale (o di un’eccezione) di usucapione, visto che il convenuto in un giudizio di rivendicazione non ha l’onere di fornire alcuna prova, pur nell’opporre un proprio diritto di dominio sulla cosa rivendicata.
Non di meno, la mancata contestazione, da parte del convenuto, dell’originaria appartenenza del bene rivendicato ad un comune autore, ovvero ad uno dei danti causa dell’attore, porta a ritenere che il rivendicante, in tal caso, deve limitarsi alla dimostrazione di come il bene in contestazione abbia formato oggetto di un proprio valido titolo di acquisto. In sostanza, l’opposizione di un acquisto per usucapione, il cui dies a quo sia successivo a quello del titolo di acquisto del rivendicante, comporta che il thema disputandum si reputi ristretto all’appartenenza attuale del bene al convenuto in forza dell’invocata usucapione e non comprensivo dell’acquisto di esso da parte dell’attore, sicché l’unico fatto bisognoso di prova diviene l’usucapione vantata dal convenuto e l’onere probatorio del rivendicante può legittimamente dirsi assolto per effetto del fallimento dell’avversa prova della prescrizione acquisitiva, con la semplice dimostrazione della validità del titolo in base al quale quel bene gli era stato trasmesso dal precedente titolare [1].
La gravosità della prova della proprietà spettante all’attore in rivendica è intesa, così, come inversamente proporzionale alla analiticità delle difese del convenuto: se questi si limita ad eccepire un generico possideo quia possideo, il rivendicante è tenuto alla probatio diabolica; se, invece il convenuto – verrebbe da dire, maldestramente – si limita a contrapporre un proprio titolo di acquisto poziore, il processo si concentra unicamente sull’esistenza di quest’ultimo titolo [2].
Più di frequente, si è però precisato che il convenuto non ha comunque l’onere di fornire alcuna prova del diritto di proprietà sulla cosa rivendicata che opponga alla domanda attorea, giacché tale difesa non implica alcuna rinuncia alla “vantaggiosa posizione di possessore” [3].
L’agevolazione del carico probatorio gravante sull’attore in rivendica, allorché il convenuto non confuti con le proprie difese la derivazione del bene in contesa da un determinato dante causa, ovvero alleghi un’usucapione maturata dopo l’acquisto vantato dal primo, non è l’effetto di un atto unilaterale di ricognizione della proprietà dell’attore, che possa supplire alla mancanza di un valido titolo costitutivo. Se, del resto, alle difese del convenuto si attribuisse il valore di riconoscimento del diritto rivendicato dall’attore, il giudice dovrebbe sul punto rendere una declaratoria di cessazione della materia del contendere, eventualmente accompagnata dall’ordine di restituzione della cosa [4].
Il convenuto che, nel resistere alla rivendicazione, non si limita ad invocare il fatto del proprio possesso, ma deduce a scopo difensivo un titolo o una situazione che ammettono, espressamente o implicitamente, l’originaria appartenenza del bene ad un comune autore, non dà luogo ad una manifestazione di volontà di tipo negoziale avente ad oggetto il diritto di proprietà in contesa, né spiega per il giudice l’effetto vincolante di una confessione, quanto alla verità del fatto costitutivo della titolarità del rapporto dominicale: l’effetto unico – peraltro comune a tutti i giudizi su diritti disponibili – della non contestazione delle vicende che hanno portato all’acquisto della proprietà della cosa rivendicata è quello di perimetrare il tema di prova, senza peraltro esonerare il giudice dal valutare la fondatezza secondo diritto di quelle vicende [5].
In tal senso, va anche ridimensionata la portata dell’affermazione secondo cui per i cosiddetti diritti autodeterminati, quale appunto è la proprietà, non è necessaria l’esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda, ai sensi dell’art. 163, comma 3, n. 4), cod. proc. civ., non avendo il titolo alcuna forma di specificazione della domanda. Ciò potrà dirsi allo scopo di escludere la nullità dell’atto di citazione per mancata indicazione del titolo in funzione del quale il bene immobile viene rivendicato [6]. Resta, tuttavia, l’attore in rivendica onerato dell’allegazione dei fatti storici su cui fonda la proprietà e che consentano all’avversario di prendere consapevolmente posizione al riguardo, anche ai fini della eventuale delimitazione della catena probatoria dei titoli di acquisto, non potendo la relevatio ex art. 115, comma 1, cod. proc. civ. prescindere da essa [7]. Né si può ribaltare sul convenuto l’onere di allegare il fatto costitutivo dell’avversa pretesa, per poi dover negare l’esistenza di un comune dante causa e dei successivi passaggi di possesso giustificati dai titoli derivativi che conducano all’acquisto dell’attore [8].
Incomprensibilmente, viene spesso affermato che la consistenza della prova della proprietà debba variare a seconda che l’attore domandi il solo accertamento della proprietà, essendo comunque nel possesso del bene, o chieda altresì la condanna alla restituzione della cosa, sul presupposto, peraltro, dell’accertamento della proprietà stessa [9]. Pur essendo parzialmente identico l’oggetto dei due giudizi e dei correlati giudicati, entrambi consistenti nella eliminazione di una situazione di incertezza sulla titolarità dominicale nel rapporto tra attore e convenuto, la necessità della prova rigorosa della proprietà, risalente al titolo originario di acquisto, viene in tal modo subordinata alla presenza dell’ulteriore domanda di una pronuncia giudiziale utilizzabile per il conseguimento della consegna del bene, nonché alla sussistenza del possesso della cosa in capo al convenuto, quale indizio proprietario da sé sufficiente ad insinuare il dubbio sulla efficacia probatoria del titolo derivativo vantato dall’attore [10].
Una prima considerazione sorge immediata, leggendo l’art. 922 cod. civ., che elenca i “[m]odi di acquisto” della proprietà: nell’applicazione giurisprudenziale, a dispetto di tale norma, la proprietà non si acquista ex se né “per effetto di contratti”, né “per successione a causa di morte” [11]. È comunque richiesto, a chi voglia dimostrarsi proprietario per aver ricevuto il bene in forza di un titolo negoziale, di dar prova di un acquisto a titolo originario risalendo nella catena dei rispettivi danti causa, semmai unendo il proprio possesso a quello del suo autore ai fini dell’usucapione [12].
La fiducia esclusiva riposta dalle sentenze nella verifica processuale della compiuta usucapione, quale unico strumento rassicurante per verificare la titolarità del diritto di proprietà e la conseguente legittimazione a disporne, trova conferma nelle resistenze mostrate a giudicare valida la vendita di un bene che l’alienante assuma di aver usucapito senza che preesista un accertamento giudiziale di tale acquisto [13].
Il rilievo che in materia assume la conforme pratica giurisprudenziale ha convinto alcuni studiosi dell’opportunità di distinguere a monte dall’azione di rivendica, che suppone ed impone l’accertamento della proprietà in capo all’attore, un’azione di matrice pretoria che fornisce una più limitata, ma anche più rapida, tutela petitoria contro chi possiede in base ad un titolo «meno valido» di quello dedotto dall’attore stesso [14]. A questa ricostruzione, tuttavia, può replicarsi che le due ipotizzate azioni non hanno ragione di differenziarsi: dell’una, come dell’altra, la causa petendi è comunque costituita dal diritto di proprietà dell’attore sul bene che ne rappresenta l’oggetto, e non dal titolo di acquisto, originario e derivativo, che ne costituisce la fonte e la cui allegazione occorre per la prova del diritto stesso, piuttosto che per la specificazione della domanda, con le note conseguenze in tema di formazione del giudicato, il quale si estende comunque anche ai fatti costitutivi (ovvero ai mezzi di prova) della proprietà non dedotti [15].
La declinazione di un accertamento della proprietà secondo la regola del “droit meilleur ou plus probable” trasfigura il giudizio di rivendica in una sorta di vindicatio duplex, similmente all’azione di regolamento di confini, ove ognuna delle parti assume la veste sia d’attore che di convenuto ed il giudice deve pervenire pur sempre ad una soluzione che elimini lo stato di incertezza, ricorrendo ad ogni possibile presunzione di titolarità.
Se all’attore bastasse dimostrare soltanto un titolo “migliore” rispetto a quello del convenuto, o anche, in negativo, che a quest’ultimo “manchi” la proprietà, verrebbe accertato unicamente il diritto di possedere il bene [16].
La rivendica è azione reale cui è legittimato ex se il proprietario e che non postula alcun rapporto giuridico con il convenuto possessore della cosa.
Può concludersi, quindi, che chi agisce in rivendicazione deve soltanto provare il suo titolo e non ha bisogno di criticare la posizione del convenuto, né è perciò tenuto a dimostrare uno specifico fatto generatore dell’obbligo di restituire il bene rivendicato [17].
È il momento di chiedersi perché la giurisprudenza assoggetti l’attore in rivendicazione all’onere della probatio diabolica.
Se ne trova una illuminante spiegazione nell’ancora recente decisione delle sezioni unite civili della Corte di Cassazione che ha tracciato il distinguo, in termini di qualificazione e di onere probatorio, tra l’azione reale di rivendica e l’azione personale di restituzione [18]. Questa sentenza, pur ravvisando l’identità di petitum tra le due azioni, entrambe volte a recuperare la disponibilità di un bene, ha evidenziato la diversità delle rispettive causae petendi, essendo la rivendicazione fondata sulla proprietà e “connotata quindi da realità e assolutezza”, ciò giustificando la probatio diabolica dovuta dall’attore, laddove l’azione di restituzione è contraddistinta da “personalità e relatività”. Mentre in quest’ultimo caso il fondamento della domanda risiede in un rapporto obbligatorio inter partes, nella domanda di rivendicazione il fondamento si rinviene “nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione, mediante la probatio diabolica”.
Proprio, d’altro canto, le asperità dell’onere probatorio della rivendica inducono gli attori che vogliano agire per ottenere la restituzione di un bene a propendere per l’azione personale, così da dover dimostrare non il diritto di proprietà, ma l’avvenuta consegna in base ad un titolo che sia venuto meno per qualsiasi causa. Al fine di rimuovere una situazione lesiva del diritto di proprietà, si presta altrimenti l’azione di risarcimento in forma specifica ex art. 2058 cod. civ., ove l’attore non domandi contestualmente la declaratoria della proprietà stessa, ma prospetti soltanto la richiesta di ristabilire un’attività corrispondente alla proprietà sul bene e di soddisfare il credito sorto con la lesione del diritto reale: anche in tal caso, non occorre la probatio diabolica della proprietà, giacché questa assume qui rilievo unicamente per l’individuazione dell’avente diritto al risarcimento [19].
Viene, così, osservato come “per consolidata tradizione” si considera esistente “una piena simmetria fra il diritto fatto valere (la proprietà), la relativa azione (la rivendica) e la prova incombente sull’attore (la cd. probatio diabolica)” [20]: essendo reale ed assoluto il diritto fatto valere, ed essendo in rem ed esperibile erga omnes l’azione petitoria, volta all’accertamento della proprietà, così deve essere “assoluta” la prova gravante sull’attore e perciò consistere in un titolo di acquisto a titolo originario. Un ordinamento, come il nostro, in cui il trasferimento della proprietà è retto dal principio consensualistico ex art. 1376 cod. civ. e la trascrizione degli atti di acquisto non ha natura costitutiva del diritto di proprietà, né rileva come prova di questa, ma svolge essenzialmente la funzione di risolvere eventuali conflitti tra più aventi causa, corre sempre il rischio che i titoli derivativi consistano in alienazioni a non domino. Se l’attore in rivendica potesse dimostrare la sua proprietà soltanto allegando un valido contratto di acquisto, resterebbe il dubbio sulla validità del titolo del suo dante causa, dubbio superabile unicamente con la dimostrazione di un acquisto originario.
Pare, dunque, che l’esigenza di dare una prova “assoluta” della proprietà da accertare nell’azione di rivendica sia intesa come derivazione necessaria dalla assolutezza e realità del diritto fatto valere in giudizio. Come ammettere che il giudice scelga, secondo la generale logica del processo civile, quale sia la migliore narrazione dei fatti, tra l’ipotesi prospettata dall’attore e quella prospettata dal convenuto, come ritenere, altrimenti, che la finalità della prova sia soltanto quella di verificare la verità o la falsità dei fatti enunciati dai due contendenti, e come allocare fra gli stessi l’onere probatorio di cui all’art. 2967 cod. civ., quando oggetto della decisione è verificare l’attribuzione di un diritto erga omnes?
Sono gli stessi dubbi che deve affrontare lo studioso quando si pensa alla trasmissibilità della proprietà di una cosa attraverso il semplice accordo delle parti e, cioè, alla cosiddetta “efficacia reale” del contratto traslativo [21]. In realtà, col negozio avente ad oggetto l’alienazione di un bene, l’acquirente acquista una investitura che prescinde dalla titolarità del diritto in capo all’alienante: in tal senso, il negozio si atteggia come titulus adquirendi. Il contratto di alienazione rimane con l’efficacia relativa delineata dall’art. 1372 cod. civ. e non pregiudica la sfera dei terzi ad esso estranei; tuttavia, esso investe l’acquirente di una posizione che ne legittima il godimento pieno ed esclusivo del bene nei confronti dei terzi che non vantano una posizione qualificata da un autonomo e contrario diritto sul bene.
Il carattere assoluto della proprietà e la necessità di assicurare erga omnes la protezione giuridica dell’interesse del proprietario non incidono, allora, sull’ambito della tutela processuale, che deve modellarsi nei medesimi termini in cui funziona per gli altri diritti. Il diritto reale del proprietario che agisce in rivendica si realizza concretamente nel processo intentato contro chi vanti un contrario interesse reale ad utilizzare il bene, il quale è il legittimato passivo ed è il destinatario del conseguente giudicato [22]. Questa è, del resto, l’unica conclusione coerente con la diffusa applicazione che si fa, in tema di prova della proprietà, del principio di “non contestazione”, il quale è solitamente inteso come indice e riflesso della natura disponibile del rapporto sostanziale, e dunque connesso con il potere esclusivo di allegazione dei fatti attribuito alle parti della singola controversia.
È, peraltro, fallace la stessa efficacia euristica della probatio diabolica affidata alla ossessiva ricerca di un acquisto per usucapione, intesa quale indefettibile conseguenza del principio ulpianeo «Nemo plus iuris ad alium transferre potest, quam ipse habet». Se la ratio della probatio diabolica risiede nel superare le criticità legate alla invalidità del titolo d’acquisto dell’attore in rivendica o al difetto di legittimazione dispositiva dei danti causa negli atti di trasferimento anteriori, l’acclarata usucapione in capo ad un remoto alienante non preserva dall’eventualità che uno dei successivi atti traslativi sia stato invalido o inefficace, o che, nel corso delle vicende derivative, provenienti dall’originario acquirente, altri abbia a sua volta maturato un’utile usucapione del bene.
Ove l’attore ponga a fondamento della sua domanda di rivendicazione un titolo di acquisto della proprietà compreso fra quelli elencati nell’art. 922 cod. civ., l’indagine sulla validità dello stesso e sulla legittimazione ad alienare del dante causa non rientra tra i poteri-doveri officiosi del giudice, essendo piuttosto rimesso al convenuto possessore l’onere di contestare l’inefficacia del titolo, e rimanendo il correlato carico probatorio regolato dai principi generali dettati in tema di accertamento negativo, non potendosi perciò imporre all’attore la prova che non ricorrono fatti impeditivi o estintivi del suo diritto di proprietà. L’onere di provare il fondamento dalla pretesa di rivendicazione grava su chi afferma il fatto di esserne proprietario, e (soltanto) in tal senso il convenuto si trova in posizione analoga a quella del possessore, nel senso del «possideo quia possideo», visto che comunque l’attore, agendo per l’accertamento della sua proprietà, non contesta il titolo del possesso del convenuto. Se però il convenuto neghi la pretesa proprietaria della parte come fondamento della sua eccezione, su di lui grava la relativa prova.
La prova della proprietà in un giudizio di rivendicazione serve a conseguire una fissazione formale dei fatti controversi sulla proprietà di un determinato bene secondo le regole del processo probatorio. Quella a cui perviene il giudice nella sentenza che accerti, o meno, la proprietà del rivendicante è, perciò, una verità immancabilmente relativa, perché si fonda sulla prova dell’acquisto dedotta dall’attore, la quale costituisce l’essenziale base conoscitiva dell’enunciato decisorio.
La relatività della verità sulla proprietà accertata dal giudicante, in rapporto agli enunciati descrittivi dei fatti offerti dai litiganti ed all’allocazione degli oneri probatori imposta dall’art. 2697 cod. civ., non è una connotazione contraddittoria rispetto all’efficacia erga omnes della titolarità dominicale.
La sentenza sceglie la migliore spiegazione (oppure la versione relativamente plausibile) dei fatti costitutivi della proprietà in base ai titoli disponibili. Il vincolo derivante in ordine all’accertamento della proprietà contenuto nella sentenza che pronuncia sulla domanda di rivendica, ai sensi dell’art. 2909 cod. civ., attiene, così, all’esistenza della situazione giuridica di proprietà dedotta in giudizio, e non alla ricostruzione fattuale delle vicende circolatorie del bene [23].
Non contravviene al principio della delimitazione soggettiva del processo e dei correlati effetti del giudicato, che ad esso conseguono, la particolare natura del diritto che ne sia l’oggetto. Se l’azione di rivendica postula l’accertamento della proprietà, la considerazione di questa quale «diritto reale per eccellenza», che «o esiste di fronte a tutti o non esiste», non significa che l’accoglimento della domanda includa nell’oggetto del giudicato la certezza erga omnes dell’acquisto in capo al rivendicante.
L’oggetto del giudicato di rivendica discende, secondo principio generale, dall’oggetto della domanda, e dunque dipende dalla situazione giuridica in base alla quale l’attore ha invocato la tutela giurisdizionale e dal titolo individuato quale causa petendi.
Legittimato passivo nell’azione di rivendicazione, qualunque sia il titolo di acquisto petitorio dedotto dall’attore, è soltanto colui che di fatto possiede il bene rivendicato ed è perciò in grado di restituirlo. Non è nemmeno ipotizzabile una domanda giudiziale di rivendica proposta in incertam personam o verso i ceteri omnes. Se la domanda è tesa ad accertare l’intervenuta usucapione, essa va portata nei confronti di chi risulta essere proprietario del bene al momento della domanda [24]. Il compratore, convenuto dal terzo che pretenda di avere la proprietà della cosa venduta, deve chiamare in causa il venditore agli effetti dell’art. 1485 cod. civ. Chi assuma di essere proprietario del bene oggetto di una domanda di rivendicazione può intervenire in causa anche in grado di appello, rientrando fra i soggetti ammessi a proporre opposizione ai sensi dell’art. 404 cod. proc. civ., in quanto terzo titolare di diritto che, seppur azionabile in separato giudizio, potrebbe subire indiretto pregiudizio dalla sentenza che venga fra altri pronunciata [25].
La cosa giudicata sostanziale correlata ad una sentenza di rivendicazione riguarda, quindi, l’oggetto del processo identificato in base ai soggetti (l’attore che si dichiara proprietario ed il convenuto che è nel possesso del bene), al petitum ed alla causa petendi (l’accertamento della proprietà in capo all’attore alla stregua del titolo allegato e la condanna alla restituzione del bene contro la difesa possideo quia possideo del convenuto o l’eventuale reciproca allegazione ad opera di quest’ultimo di un suo diritto di dominio sulla cosa rivendicata). La necessaria stabilità degli effetti della sentenza passata in giudicato non consente che sia rimessa in discussione, in un successivo giudizio tra le medesime parti, l’esistenza o l’inesistenza del diritto di proprietà accertate nel primo giudizio.
D’altro canto, il giudicato sulla domanda di rivendicazione, sotto il profilo soggettivo, neppure supera l’estensione segnata dall’art. 2909 cod. civ.: la natura della situazione proprietaria che è oggetto di accertamento e la struttura del rapporto processuale non producono effetti di carattere universale, ovvero erga omnes, in quanto non intercorre una relazione di identità tra la proprietà giudicata e quella che possa pretendere un terzo sullo stesso bene.
In ordine all’effetto preclusivo del giudicato che viene a formarsi tra attore e convenuto nel giudizio di rivendica, deve dirsi irrilevante che quest’ultimo abbia introdotto il tema della sussistenza di un proprio titolo giuridico di appartenenza del bene in via di eccezione o di domanda riconvenzionale. Se è vero che l’eccezione, di per sé, non amplia i limiti oggettivi del giudicato rispetto all’ambito che esso già abbraccia per dare risposta alla domanda principale dell’attore, è anche vero che l’autorità del giudicato si estende altresì alle questioni, ancorché sollevate con eccezione, quale quella dell’esistenza di un diritto che legittimi il possesso del bene rivendicato, la cui soluzione costituisce antecedente necessario ed indispensabile della pronuncia sulla domanda [26].
L’equivoco sotteso alla probatio diabolica sta, dunque, partendo dal presupposto della impropria simmetria tra assolutezza del diritto vantato e assolutezza della dimostrazione processuale di esso, nel vincolare l’attore in rivendicazione alla prova di un titolo di acquisto della proprietà che possa imporsi al mondo intero, obliterando la portata dell’art. 922 cod. civ., il quale include modi di acquisto sia a titolo originario che derivativo, e nel trasfigurare l’usucapione stessa da uno degli alternativi modi di acquisto a mezzo di prova esclusivo della proprietà.
L’azione di rivendica è azione reale, ma resta commisurata alla concreta rilevanza del titolo fatto valere in giudizio, così come ad esso si commisura la posizione giuridica del proprietario, la quale, anche ove discenda da un contratto di alienazione, è autonoma rispetto a quella che faceva capo all’alienante. Colui che deduce a fondamento della sua domanda di rivendica un titulus adquirendi della proprietà mira ad essere investito di una posizione che lo legittimi al godimento del bene non di fronte ai terzi inqualificati, ma nei confronti del convenuto possessore.
Il riconoscimento della proprietà, che deriva dalla sentenza di accoglimento della domanda di rivendicazione, non ha efficacia erga omnes, perché non può ledere la sfera di terzi che vantano un distinto diritto di proprietà sulla cosa. Il giudicato si forma fra attore e convenuto verificando la riconducibilità del titolo della proprietà dedotto dall’attore ad uno dei vari modi di acquisto previsti dall’art. 922 cod. civ. e superando con le prove, che si rivelino più idonee, le eventuali contestazioni del convenuto sulla sufficienza del medesimo titolo allegato [27]. Atteso che la contestazione che il convenuto svolge sulla titolarità attiva del rapporto controverso è una mera difesa, questi non ha, comunque, alcun onere di provarne la fondatezza, spettando pur sempre all’attore la dimostrazione degli elementi costitutivi del diritto azionato.
Se la sentenza passata in giudicato, che abbia riconosciuto la proprietà di una cosa ad un soggetto nei confronti di un’altra parte, costituisce una situazione giuridica incompatibile con il diritto di proprietà vantato sullo stesso oggetto da un terzo, la giurisprudenza ammette questo a proporre l’opposizione di terzo ordinaria ex art. 404, primo comma, cod. proc. civ. [28].
La fisiologica carenza di quella assolutezza dell’accertamento proprietario, che tanto spaventa la giurisprudenza, perché ritenuta insita nella sentenza di accoglimento della domanda rivendicazione, è confermata dalla disciplina in tema di trascrizione. L’art. 2653, comma 1, n. 1, cod. civ., dispone che devono essere trascritte le domande dirette a rivendicare la proprietà o altri diritti reali di godimento su beni immobili e le domande dirette all’accertamento dei diritti stessi; la sentenza pronunziata contro il convenuto indicato nella trascrizione della domanda ha effetto anche contro coloro che hanno acquistato diritti dal medesimo in base a un atto trascritto dopo la trascrizione della domanda. La norma va coordinata con l’art. 948, primo comma, cod. civ., in base al quale il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene e può proseguire l’esercizio dell’azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa; in tal caso il convenuto è obbligato a recuperarla per l’attore a proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno.
La trascrizione della domanda di rivendica adempie, quindi, ad una funzione unicamente processuale, in quanto serve a rendere opponibile il giudicato a coloro che abbiano acquistato diritti sulla cosa rivendicata nel corso del giudizio. La stessa trascrizione non ha, invece, effetti sostanziali, giacché non risolve un conflitto fra più acquirenti, né travolge diritti acquistati da terzi [29]. D’altro canto, se la domanda non sia trascritta, il terzo che abbia acquistato il bene oggetto di rivendica potrà essere convenuto con una nuova azione di rivendica da parte del proprietario [30]. Proprio perché la sentenza che accoglie la domanda di rivendica non produce alcun effetto dal punto di vista del diritto sostanziale, adempiendo unicamente ad una finalità recuperatoria, essa non va trascritta, a meno che non accerti che la proprietà sia stata acquistata per usucapione, ai sensi dell’art. 2651 cod. civ. [31].
Né può, infine, trascurarsi che i timori che animano la probatio diabolica della proprietà e inducono alla meticolosa ricerca cartesiana di una verità assoluta sulla situazione dominicale del bene rivendicato, fondata su certezze ed evidenze inconfutabili, possono rivelarsi forieri di ingiustizie ancor più gravi. Accollare all’attore in rivendica l’onere di dar sempre prova di un acquisto a titolo originario, che elimini ogni carenza della catena derivativa, non potendo poi il giudice rendere una sentenza “allo stato degli atti”, la quale esprima soltanto la mancanza o l’insufficienza della prova della proprietà fornita, comporta, in uno al rigetto della domanda, la formazione di un giudicato formale, che, se non fa stato sulla legittimità della posizione del convenuto (ove questi non abbia dedotto un titolo giustificativo del suo possesso), preclude definitivamente di dare tutela al diritto dominicale rivendicato nel rapporto fra quelle parti.
[1] Tra le tante, si indicano di recente solo: Cass. 19 ottobre 2021, n. 28665; Cass. 23 settembre 2021, n. 25865; Cass. 10 settembre 2018, n. 21940; Cass. 18 maggio 2016, n. 10276; Cass. 23 luglio 2015, n. 15339; Cass. 22 settembre 2010, n. 20037; Cass. 30 marzo 2006, n. 7529; Cass. 10 marzo 2006, n. 5161.
Per le più risalenti, Cass. 18 agosto 1964, n. 2325, in Foro it., 1964, I, 1766; circa il temperamento della probatio diabolica allorché il convenuto deduca a scopo difensivo un titolo di acquisto che non sia in contrasto con l’appartenenza del bene al dante causa dell’attore, Cass. 3 gennaio 1966, n. 30, in Giur. agr. it., 1966, II, 288; Cass. 6 dicembre 1974, n. 4049, in Giur. agr. it., 1976, II, 426.
In dottrina, per il rilievo del comportamento processuale del convenuto ai fini della prova della proprietà spettante all’attore in rivendica, si vedano A. Natucci, Rivendica e probatio diabolica, in Quadrimestre, 1990, 524; A. Gambaro, Delle azioni a difesa della proprietà, in Commentario al Codice Civile, a cura di P. Cendon, artt. 810-951, Giuffrè, 2009, 836 ss.
[2] Così Cass. 9 dicembre 1970, n. 2616.
Osserva A. Natucci, L’onere della prova nell’azione di rivendica, in Nuova giur. comm., 2015, II, 531 ss., che il principio della probatio diabolica viene attuato in giurisprudenza solamente nel caso in cui il convenuto, prudentemente, si trinceri dietro l’eccezione possideo quia possideo, mentre, quando il convenuto si faccia attore, cercando di contestare il titolo del rivendicante attraverso l’allegazione di un proprio titolo, ha luogo “una sorta di ordalia, in cui si abbandona del tutto la ricerca di un titolo originario (e assoluto), accontentandosi della prova da parte del rivendicante di un titolo d’acquisto comparativamente preferibile”, e, cioè, di un “titolo valido”.
[3] Cass. 7 giugno 2018, n. 14734; Cass. 17 maggio 2007, n. 11555; Cass. 29 novembre 2004, n. 22418; Cass. 12 aprile 2001, n. 5472; Cass. 23 maggio 1996, n. 4748; Cass. 13 aprile 1987, n. 3669.
[4] B. Carpino, voce Rivendicazione (azione di), in Enc. giur., XVII, Treccani, 1991, 4 ss.
[5] La mitigazione della probatio diabolica in correlazione all’atteggiamento processuale del convenuto si reputa coerente con un sistema giuridico nel quale il trasferimento della titolarità dei diritti reali immobiliari viene realizzato mediante atti che contengono, con la identificazione del bene trasferito, la provenienza, nel rispetto della continuità dei passaggi di titolarità: così M. Costanza, cit., 123 ss.
[6] Cass. 17 luglio 2007, n. 15915.
[7] A. Carratta, Il principio della non contestazione nel processo civile, Giuffrè, 1995, 269 ss.
[8] S. Ferreri, Rivendicazione, in Digesto civ., XVIII, Torino, Utet, 1988, 98; Ead., Rivendicazione, in Enc. dir., XLI, Giuffrè 1989, 55 ss.
La stessa Autrice ha sottolineato come, a livello operativo, la giurisprudenza non consenta più al convenuto in rivendica di trincerarsi dietro al celebre “possideo quia possideo”, e gli imponga, al contrario, “un ruolo attivo con onere di contestare volta a volta che un dante causa comune sia esistito, che ci siano stati successivi passaggi del possesso corrispondenti ai vari titoli derivativi, che l’atto di acquisto prodotto dall’attore sia idoneo a colmare la prova ecc.”: S. Ferreri, Questioni attuali in tema di azioni a difesa della proprietà, in Riv. dir. civ., 2004, II, 809 ss.
[9] Cass. 18 gennaio 2017, n. 1210, ha tuttavia affermato che allo stesso onere probatorio circa la titolarità del proprio diritto debba soggiacere chi agisce per ottenere il mero accertamento della proprietà o comproprietà di un bene, sull’argomento che lo stesso è da assolvere ogni volta che sia proposta un’azione volta a dichiarare un diritto di proprietà tutelato erga omnes. In precedenza, Cass. 22 maggio 1973, n. 1481; Cass. 7 maggio 1973, n. 1227, in Giur. agr. it., 1974, II, 481; Cass. 18 settembre 1965, n. 2023, in Giur. agr. it., 1966, II, 285. In senso opposto, Cass., sez. un., 19 luglio 1965, n. 1631, in Giust. civ., 1966, I, 576, secondo cui, mentre l’azione di rivendicazione ha essenziale natura petitoria e restitutoria, l’azione di mero accertamento della proprietà postula che l’attore sia già investito del possesso del bene controverso e perciò domandi la dichiarazione della puntuale rispondenza di esso allo stato di diritto. Proprio la rilevanza giuridica del possesso, di cui l’attore è già investito, giustifica una prova del diritto di proprietà meno rigorosa di quella occorrente per l’azione di rivendicazione. Ancora, Cass. 14 aprile 2005, n. 7777, secondo cui per l’azione di accertamento della proprietà senza finalità recuperatoria basterebbe all’attore allegare e provare il titolo del proprio acquisto, non mirando questi alla modifica di uno stato di fatto, bensì solo all’eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa di cui è già investito. Analogamente altresì Cass. 18 settembre 1965, n. 2023, in Giur. agr. it., 1966, II, 285, pur considerando che colui che propone azione di mero accertamento della proprietà, senza essere nel possesso del bene, deve rigorosamente provare il suo diritto di proprietà, allo stesso modo di colui che agisce in revindica, escludeva che fosse elemento distintivo essenziale tra le due azioni il possesso o meno del bene nell’attore, perché, se la revindica presuppone necessariamente che tale possesso l’attore non abbia, anche l’azione di mero accertamento può essere proposta da chi non possieda il bene che afferma suo. Ancora, Cass. 30 dicembre 2011, n. 30606, in Rep. Foro it., 2011, voce «Proprietà (azioni a difesa)», n. 5, che onera della stessa prova rigorosa richiesta per la rivendica l’attore che proponga una domanda di accertamento della proprietà ed abbia la materiale disponibilità della cosa oggetto del preteso diritto, in virtù di un possesso acquistato con violenza o clandestinità, ovvero sulla cui legittimità sussista uno stato di obiettiva e seria incertezza, in relazione alle particolarità del caso concreto, non ricorrendo in tali ipotesi la presunzione di legittimità del possesso, che giustifica l’attenuazione del rigore probatorio qualora l’azione di accertamento della proprietà sia proposta da colui che sia nel possesso del bene. Si vedano pure Cass. 9 giugno 2000, n. 7894; Cass. 4 dicembre 1997, n. 12300; Cass. 21 febbraio 1994, n. 1650; Cass. 27 aprile 1982, n. 2621; Cass. 2 febbraio 1976, n. 330; Cass. 9 dicembre 1970, n. 2604.
Si resta, poi, nell’ambito dell’azione di regolamento di confini, e non dell’azione di rivendica, con conseguente estraneità della probatio diabolica, allorché la domanda deduca l’usurpazione di una porzione del proprio terreno da parte del vicino e chieda un accertamento giudiziale della superficie dei fondi confinanti senza porre in discussione i titoli di proprietà: tra le tante, Cass. 13 ottobre 2020, n. 22095; Cass. 20 aprile 2001, n. 5899; Cass. 6 dicembre 2000, n. 15507, in Arch. civ., 2001, 311; Cass. 27 maggio 1997, n. 4703. In dottrina, proprio al fine di rimarcare le differenze tra regolamento di confini e rivendica sotto il profilo della distribuzione degli oneri probatori, E. Bilotti, Regolamento di confini e rivendica (note critiche sulla teoria del “conflitto fra fondi”, in Riv. dir. civ., 2002, II, 161 ss.; più di recente, C. Rendina, Diritti reali – Prospettiva di indagine sulla distinzione tra azione di regolamento di confini e azione di rivendicazione, Nuova giur. comm., 2021, 276 ss.
[10] Per tali considerazioni, si veda A. Natucci, L’onere della prova nell’azione di rivendica, cit., 531 ss.
[11] Così, si è affermato che, ai fini della prova della proprietà attribuita ad un condividente, non è sufficiente l’atto di divisione, occorrendo piuttosto dimostrare il titolo di acquisto della comunione (Cass. 31 gennaio 2012, n. 1392; Cass. 10 marzo 1979, n. 1511, in Resp. civ. prev. 1979, 468; Cass. 16 luglio 1966, n. 1930); parimenti, l’attore in rivendica non può invocare il testamento a fondamento del suo diritto (né la vocazione legittima), se non sia verificato che il bene fosse di proprietà del de cuius al momento della morte (Cass. 14 marzo 1973, n. 718); neppure è sufficiente produrre l’atto di accettazione ereditaria, perché non prova il possesso del bene (Cass. 4 dicembre 2014, n. 25643). Altrimenti, si trova precisato che il giudice dell’azione di rivendicazione è tenuto innanzitutto a verificare l’esistenza, la validità e la rilevanza del titolo dedotto dall’attore a fondamento della pretesa, investendo tale indagine uno degli elementi costitutivi della domanda: Cass. 3 marzo 2009, n. 5131, in Giust. civ., 2010, I, 1, 121, con nota di M. Costanza, Azione di rivendica e onere della prova.
Una recente disamina dell’efficacia di prova dei singoli atti di trasferimento della proprietà si rinviene in R. Motroni, Profili probatori delle azioni petitorie nel diritto italiano, in www.comparazionedirittocivile.it, ottobre 2015.
Una soluzione apparentemente eccentrica è proposta nelle sentenze sulle controversie tra condominio e singolo condomino, o tra singoli partecipanti contrapposti, aventi ad oggetto la titolarità comune o individuale di una porzione dal fabbricato. Qui si sostiene che se il bene rientra tra quelli oggetto della «presunzione legale» di proprietà comune ex art. 1117 cod. civ., sull’amministratore o sul condomino che agiscono in rivendica del bene condominiale non incombe la probatio diabolica, bastando loro dimostrare la proprietà esclusiva delle unità immobiliari nell’ambito del condominio per provare anche la comproprietà di quei beni che tale norma contempla. Grava, invece, sul condomino che pretenda l’appartenenza individuale di uno dei beni indicati nell’art. 1117 cod. civ. dare la prova della sua asserita proprietà esclusiva, senza che a tal fine sia rilevante il proprio titolo di acquisto, o quello del proprio dante causa, ove si tratti non dell’atto di primo frazionamento costitutivo del condominio, ma di alienazione compiuta dall’iniziale unico proprietario che non si era riservato l’esclusiva titolarità della res (da ultimo, Cass. 17 febbraio 2020, n. 3852). In tal modo, rispetto ai principi generalmente affermati in materia di rivendicazione, l’accertamento della proprietà del bene conteso in ambito condominiale viene risolto in base soltanto all’operatività dell’art. 1117 cod. civ., nonché dissolto nell’accertamento dell’acquisto della porzione di proprietà esclusiva, intesa come cosa principale le cui vicende traslative attraggono anche le cose a quella legate da un rapporto pertinenziale, mentre si omette di verificare altresì il titolo dell’iniziale unico proprietario pro indiviso per giungere fino all’acquisto a titolo originario.
[12] Siffatta propensione per l’usucapione, vista come strumento privilegiato di garanzia della certezza dei possessi fondiari, poteva semmai comprendersi in epoche in cui mancavano registri della proprietà immobiliare o altri strumenti idonei ad attestarla: L. Maganzani, La ‘tradizione” nel diritto civile italiano: l’esempio dell’azione di rivendica e della cd. probatio diabolica, in questa Rivista, 2015, 1, 101.
[13] Cass. 7 agosto 2000, n. 10372, in Foro it., 2001, I, 517; Cass. 26 novembre 1999, n. 13184, in Dir. fall., 2000, II, 1125. Più di recente, tuttavia, in senso opposto, Cass. 5 febbraio 2007, n. 2485, in Not., 2007, 628; Cass. 12 dicembre 2018, n. 32147.
Assume rilievo sul punto, peraltro, l’art. 2643 n. 12-bis) cod. civ., inserito dal d.l. n. 69/2013, convertito in l. n. 98/2013, il quale ha incluso fra gli atti soggetti a trascrizione gli accordi di mediazione che accertano l’usucapione; sui gravi problemi interpretativi posti da tale norma, si veda, indicativamente, E. Minervini, Il negozio di accertamento e la trascrizione, in Riv. not., 2016, 241.
[14] A. Proto Pisani, Sulla tutela giurisdizionale del diritto di proprietà, in Foro it., 1971, I, 434 ss., in nota a Cass. 16 ottobre 1970, n. 2049; A. Gambaro, Il diritto di proprietà, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da Cicu-Messineo, continuato da Mengoni, Giuffrè, 1990, 884.
[15] Cass. 16 ottobre 2020, n. 22591; Cass. 17 luglio 2007, n. 15915; Cass. 16 maggio 2007, n. 11293; Cass. 4 marzo 2003, n. 3192, in Giur. it., 2004, 279; Cass. 20 aprile 2001, n. 5894, in Giur. it., 2002, 265; Cass. 10 ottobre 1997, n. 9851; Cass. 21 giugno 1995, n. 7033; Cass. 20 maggio 1997, n. 4460; Cass. 18 febbraio 1991, n. 1682; Cass. 7 marzo 1968, n. 744; Cass. 7 luglio 1966, n. 1786.
[16] A. Mannetta, La prova nel giudizio di rivendica, in Giur. mer., 2009, 883 ss.
[17] Così R. Sacco, Il possesso, in Tratt. Cicu-Messineo, VII, Giuffrè, 1988, 20.
[18] Cass., sez. un., 28 marzo 2014, n. 7305, in Giur. it., 2015, 2599, con nota di C. Magli, Il discrimen tra azione di rivendicazione ed azione di restituzione. In argomento, A. Gambaro, Il diritto di proprietà, cit., 874 ss.; S. Ferreri, voce Azioni petitorie, in Digesto civ., II, Utet, 1988, 50 ss.; F. Salaris, Azione a difesa della proprietà, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, VII, 1, Utet, 2005, 798.
[19] Cass. 24 marzo 1979, n. 1744. Sui rapporti, peraltro, tra rimedio ripristinatorio ex art. 2058 cod. civ. e tutela possessoria, Cass. 14 gennaio 2013, n. 705, in Nuova giur. comm., 2013, I, 733, con nota di F. Bottoni, Tutela della proprietà, cumulo di rimedi e tramonto dell’occupazione appropriativa.
[20] L. Maganzani, La ‘tradizione” nel diritto civile italiano: l’esempio dell’azione di rivendica e della cd. probatio diabolica, cit., 91.
[21] G. Palermo, Contratto di alienazione e titolo dell’acquisto, Giuffrè, 1974, 15 ss.
[22] Cfr. G. Costantino, Contributo alla teoria della proprietà, Jovene, 1967, 129 ss.
[23] M. Taruffo, Verso la decisione giusta, Giappichelli, 2020, 193, 199 ss., 376 ss.; M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Laterza, 2009, 84.
[24] Cass. 4 ottobre 2018, n. 24260; Cass. 28 agosto 2015, n. 17270; Cass. 16 giugno 2006, n. 13973; Cass. 26 aprile 2000, n. 5335; Cass. 10 ottobre 1997, n. 9851; Cass. 9 settembre 1997, n. 8748; Cass. 14 febbraio 1987, n. 1613; Cass. 20 maggio 1980, n. 3312; Cass. 8 luglio 1964, n. 1798.
[25] Cass., sez. un., 23 novembre 1985, n. 5808; Cass. 6 novembre 1987, n. 8233.
[26] Peraltro, ad avviso di Cass., sez. un., 13 novembre 2013, n. 25454, in Giur. it., 2014, 1398, con nota di E. Benigni, Brevi note su litisconsorzio necessario e azioni a tutela della res comune, è ravvisabile una diversa efficacia del giudicato di accertamento della proprietà, insito nella pronuncia su una domanda di rivendica di un bene in comproprietà proposta da uno solo dei condomini, a seconda che il convenuto abbia formulato un’apposita domanda riconvenzionale o soltanto eccepito l’esistenza della sua proprietà esclusiva. Dal rigetto della domanda del comproprietario e dall’accoglimento della mera eccezione, con l’effetto di lasciare il convenuto nel possesso del bene rivendicato, non discenderebbe una pronuncia avente effetto di giudicato nei confronti degli altri comproprietari, i quali non sono perciò litisconsorti necessari di tale giudizio.
Sembrerebbe, dunque, che la difesa del convenuto che avanzi una semplice eccezione di proprietà esclusiva sia volta unicamente a paralizzare l’azione di rivendica avversaria. Tale soluzione lascia qualche perplessità. Il rigetto della domanda di rivendica proposta da chi affermi di essere comproprietario di un bene che è nel possesso del convenuto, il quale si sia limitato a contestare in via di eccezione di avere l’esclusiva titolarità della res, comporta una decisione con autorità di cosa giudicata sulla proprietà in contesa, in quanto la verifica dell’appartenenza del bene al convenuto è presupposto logico-giuridico della ritenuta infondatezza della pretesa restitutoria del comproprietario attore. L’accertamento della comproprietà del bene, eventualmente conseguito in successivi giudizi intercorsi fra gli altri condomini, assenti nella prima causa, ed il convenuto risultato in essa vittorioso, genera proprio quella contraddittorietà di pronunce, nell’ambito di un unico rapporto sostanziale con pluralità di parti, che il litisconsorzio necessario vuole impedire.
[27] Sembra di straordinaria persuasività il passo di A. Colin, H. Capitant, Traité de droit civil, t. II, Dalloz, 1959, 251, n. 464, richiamato in S. Ferreri, Questioni attuali in tema di azioni a difesa della proprietà, cit., n. 54: “Le jugement ne dira pas qui est réellement et définitivement, vis-à-vis de tous, propriétaire, mais qui des deux adversaires a fourni des preuves rendant plus probable ... l’existence de son droit”.
[28] Cass. 22 giugno 2000, n. 8490. Per l’effetto riflesso del giudicato di rivendica formatosi tra il dante causa ed un terzo nei confronti di chi abbia acquistato la proprietà del bene rivendicato, in quanto titolare di un diritto dipendente da quello in esso accertato, indipendentemente dalla trascrizione della domanda di rivendica, Cass. 12 novembre 1997, n. 11153.
[29] Cass. 29 luglio 1966, n. 2114, in Foro it., 1967, I, 1867.
[30] Cass. 8 luglio 1971, n. 2158, in Foro it., 1972, I, 716.
[31] R. Triola, Della tutela dei diritti. La trascrizione, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, vol. IX, III ed., Giappichelli, 2012, 282 ss.