Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

La prova della proprietà nell'azione di rivendicazione (di Antonio Scarpa, Consigliere della Corte di Cassazione)


L’equivoco che è alla base della probatio diabolica imposta dalla giurisprudenza all’attore in rivendicazione discende dalla impropria simmetria tra assolutezza del diritto vantato e assolutezza della dimostrazione processuale di esso, e finisce per trasfigurare l’usucapione da uno degli alternativi modi di acquisto a mezzo di prova esclusivo della proprietà.

 

The proof in the recovery of property

The misunderstanding, on which the “probatio diabolica” the claimant is required to give is based, derives from an inexact symmetry between the absolute nature of both the right claimed and the evidence of it, and it leads to transform the usucapion from one of the means of acquisition of property into the only mean of evidence of property itself.

SOMMARIO:

1. Il funzionamento della probatio diabolica secondo la giurisprudenza - 2. Accertamento della proprietà e possesso del bene - 3. La rilevanza dei diversi titoli di acquisto - 4. Le (oscure) ragioni della probatio diabolica - 5. L’esorcizzazione della probatio diabolica - NOTE


1. Il funzionamento della probatio diabolica secondo la giurisprudenza

Tredici anni fa, le sezioni unite civili della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19499 del 16 luglio 2008, a proposito del maggior danno in caso di ritardato adempimento di un’obbligazione di valuta, affermarono che “le prorompenti esigenze di semplificazione dell’istruzione probatoria” imponevano rispetto al passato “soluzioni più snelle, anche alla luce dei dati costituiti dall’incessante aumento del contenzioso civile, dall’allungamento dei tempi medi di definizione del processo, dal nuovo principio della sua ragionevole durata, proclamato dall’art. 111, secondo comma, Cost.”. Queste prorompenti e moderne esigenze di semplificazione dell’istruzione probatoria lasciano, tuttavia, ancora imperterriti i giudici delle azioni di rivendicazione della proprietà. Le salmodie giurisprudenziali recitano che la domanda di rivendica, tendendo al riconoscimento del diritto di proprietà ed al conseguimento del possesso sottratto al proprietario contro la sua volontà, esige la prova della proprietà (e non del possesso) della cosa da parte dell’attore e la prova del possesso di essa da parte del convenuto. La prova della proprietà si dà mediante dimostrazione della titolarità del diritto, e quindi, in via alternativa, o mediante la prova di un acquisto a titolo originario, eventualmente risalendo al titolo originario dei propri danti causa, o mediante prova del possesso continuato del bene conforme al titolo, da parte del proprietario ed eventualmente dei suoi danti causa, protratto per il tempo necessario all’usucapione del bene. In ciò consiste, dunque, l’onere della cosiddetta probatio diabolica che grava sul rivendicante: egli deve in ogni caso dimostrare di aver acquistato il bene a titolo originario, oppure che lo stesso sia a lui pervenuto attraverso una catena ininterrotta di trasferimenti avente inizio da chi, comunque, lo abbia acquistato a titolo originario. All’attore in rivendica, che ambisce al riconoscimento della sua qualità di dominus, non basta, pertanto, far verificare la sua titolarità, occorrendo, piuttosto, che tale titolarità sia legittima. Serve quindi accertare sempre la protrazione del possesso per il tempo necessario all’usucapione ordinaria ventennale quando all’attore manchi del tutto un titolo derivativo, o quando un siffatto titolo, da chiunque [continua ..]


2. Accertamento della proprietà e possesso del bene

Incomprensibilmente, viene spesso affermato che la consistenza della prova della proprietà debba variare a seconda che l’attore domandi il solo accertamento della proprietà, essendo comunque nel possesso del bene, o chieda altresì la condanna alla restituzione della cosa, sul presupposto, peraltro, dell’accertamento della proprietà stessa [9]. Pur essendo parzialmente identico l’oggetto dei due giudizi e dei correlati giudicati, entrambi consistenti nella eliminazione di una situazione di incertezza sulla titolarità dominicale nel rapporto tra attore e convenuto, la necessità della prova rigorosa della proprietà, risalente al titolo originario di acquisto, viene in tal modo subordinata alla presenza dell’ulteriore domanda di una pronuncia giudiziale utilizzabile per il conseguimento della consegna del bene, nonché alla sussistenza del possesso della cosa in capo al convenuto, quale indizio proprietario da sé sufficiente ad insinuare il dubbio sulla efficacia probatoria del titolo derivativo vantato dall’attore [10].


3. La rilevanza dei diversi titoli di acquisto

Una prima considerazione sorge immediata, leggendo l’art. 922 cod. civ., che elenca i “[m]odi di acquisto” della proprietà: nell’applicazione giurisprudenziale, a dispetto di tale norma, la proprietà non si acquista ex se né “per effetto di contratti”, né “per successione a causa di morte” [11]. È comunque richiesto, a chi voglia dimostrarsi proprietario per aver ricevuto il bene in forza di un titolo negoziale, di dar prova di un acquisto a titolo originario risalendo nella catena dei rispettivi danti causa, semmai unendo il proprio possesso a quello del suo autore ai fini dell’usucapione [12]. La fiducia esclusiva riposta dalle sentenze nella verifica processuale della compiuta usucapione, quale unico strumento rassicurante per verificare la titolarità del diritto di proprietà e la conseguente legittimazione a disporne, trova conferma nelle resistenze mostrate a giudicare valida la vendita di un bene che l’alienante assuma di aver usucapito senza che preesista un accertamento giudiziale di tale acquisto [13]. Il rilievo che in materia assume la conforme pratica giurisprudenziale ha convinto alcuni studiosi dell’op­portunità di distinguere a monte dall’azione di rivendica, che suppone ed impone l’accertamento della proprietà in capo all’attore, un’azione di matrice pretoria che fornisce una più limitata, ma anche più rapida, tutela petitoria contro chi possiede in base ad un titolo «meno valido» di quello dedotto dall’attore stesso [14]. A questa ricostruzione, tuttavia, può replicarsi che le due ipotizzate azioni non hanno ragione di differenziarsi: dell’una, come dell’altra, la causa petendi è comunque costituita dal diritto di proprietà dell’attore sul bene che ne rappresenta l’oggetto, e non dal titolo di acquisto, originario e derivativo, che ne costituisce la fonte e la cui allegazione occorre per la prova del diritto stesso, piuttosto che per la specificazione della domanda, con le note conseguenze in tema di formazione del giudicato, il quale si estende comunque anche ai fatti costitutivi (ovvero ai mezzi di prova) della proprietà non dedotti [15]. La declinazione di un accertamento della proprietà secondo la regola del “droit meilleur ou plus probable” trasfigura [continua ..]


4. Le (oscure) ragioni della probatio diabolica

È il momento di chiedersi perché la giurisprudenza assoggetti l’attore in rivendicazione all’onere della probatio diabolica. Se ne trova una illuminante spiegazione nell’ancora recente decisione delle sezioni unite civili della Corte di Cassazione che ha tracciato il distinguo, in termini di qualificazione e di onere probatorio, tra l’azione reale di rivendica e l’azione personale di restituzione [18]. Questa sentenza, pur ravvisando l’identità di petitum tra le due azioni, entrambe volte a recuperare la disponibilità di un bene, ha evidenziato la diversità delle rispettive causae petendi, essendo la rivendicazione fondata sulla proprietà e “connotata quindi da realità e assolutezza”, ciò giustificando la probatio diabolica dovuta dall’attore, laddove l’azione di restituzione è contraddistinta da “personalità e relatività”. Mentre in quest’ultimo caso il fondamento della domanda risiede in un rapporto obbligatorio inter partes, nella domanda di rivendicazione il fondamento si rinviene “nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione, mediante la probatio diabolica”. Proprio, d’altro canto, le asperità dell’onere probatorio della rivendica inducono gli attori che vogliano agire per ottenere la restituzione di un bene a propendere per l’azione personale, così da dover dimostrare non il diritto di proprietà, ma l’avvenuta consegna in base ad un titolo che sia venuto meno per qualsiasi causa. Al fine di rimuovere una situazione lesiva del diritto di proprietà, si presta altrimenti l’azione di risarcimento in forma specifica ex art. 2058 cod. civ., ove l’attore non domandi contestualmente la declaratoria della proprietà stessa, ma prospetti soltanto la richiesta di ristabilire un’attività corrispondente alla proprietà sul bene e di soddisfare il credito sorto con la lesione del diritto reale: anche in tal caso, non occorre la probatio diabolica della proprietà, giacché questa assume qui rilievo unicamente per l’individuazione dell’avente diritto al risarcimento [19]. Viene, così, osservato come “per consolidata tradizione” si considera esistente “una piena simmetria fra il [continua ..]


5. L’esorcizzazione della probatio diabolica

La prova della proprietà in un giudizio di rivendicazione serve a conseguire una fissazione formale dei fatti controversi sulla proprietà di un determinato bene secondo le regole del processo probatorio. Quella a cui perviene il giudice nella sentenza che accerti, o meno, la proprietà del rivendicante è, perciò, una verità immancabilmente relativa, perché si fonda sulla prova dell’acquisto dedotta dall’attore, la quale costituisce l’essenziale base conoscitiva dell’enunciato decisorio. La relatività della verità sulla proprietà accertata dal giudicante, in rapporto agli enunciati descrittivi dei fatti offerti dai litiganti ed all’allocazione degli oneri probatori imposta dall’art. 2697 cod. civ., non è una connotazione contraddittoria rispetto all’efficacia erga omnes della titolarità dominicale. La sentenza sceglie la migliore spiegazione (oppure la versione relativamente plausibile) dei fatti costitutivi della proprietà in base ai titoli disponibili. Il vincolo derivante in ordine all’accertamento della proprietà contenuto nella sentenza che pronuncia sulla domanda di rivendica, ai sensi dell’art. 2909 cod. civ., attiene, così, all’esistenza della situazione giuridica di proprietà dedotta in giudizio, e non alla ricostruzione fattuale delle vicende circolatorie del bene [23]. Non contravviene al principio della delimitazione soggettiva del processo e dei correlati effetti del giudicato, che ad esso conseguono, la particolare natura del diritto che ne sia l’oggetto. Se l’azione di rivendica postula l’accertamento della proprietà, la considerazione di questa quale «diritto reale per eccellenza», che «o esiste di fronte a tutti o non esiste», non significa che l’accoglimento della domanda includa nell’oggetto del giudicato la certezza erga omnes dell’acquisto in capo al rivendicante. L’oggetto del giudicato di rivendica discende, secondo principio generale, dall’oggetto della domanda, e dunque dipende dalla situazione giuridica in base alla quale l’attore ha invocato la tutela giurisdizionale e dal titolo individuato quale causa petendi. Legittimato passivo nell’azione di rivendicazione, qualunque sia il titolo di acquisto petitorio dedotto dall’attore, è soltanto colui che [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2022