Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Le fondazioni partecipate e i contratti plurilaterali (di Domenico Fauceglia, Assegnista di ricerca – Università degli Studi di Roma Tor Vergata)


Accanto alla fondazione di erogazione, modello regolato dal codice civile, sono sorte negli anni nuove e diverse figure di fondazione. Il presente studio si sofferma sull’esame delle fondazioni di partecipazione e sui negozi costitutivi dell’ente, aventi la natura di contratti plurilaterali a comunione di scopo. In particolare, le fondazioni partecipate sono caratterizzate da un patrimonio suscettibile di progressivi incrementi e da eventuali e successive adesioni di soggetti terzi. Sono, dunque, fondazioni a “struttura aperta” che, sebbene presentino uno schema differente da quello previsto dal codice civile, presentano, comunque, i caratteri essenziali di una fondazione, i quali costituiscono un invalicabile limite all’autonomia statutaria.

Parole chiave: Fondazione – terzo settore – fondazione di partecipazione – contratti plurilaterali – associazioni – società – adesione al contratto – atto unilaterale – negozi di organizzazione – scopo ideale – scopo di lucro – patrimonio – comunione di scopo – autonomia privata.

Partecipatory foundations and multilateral contracts

Alongside the grantmaking foundation, a model governed by the civil code, as many foundation figures have sprung up over the years. This contribution focuses on the examination of the foundations and on the constitutive transactions of the entity, that is, the multilateral contracts with a common purpose. In particular, the partecipatory foundations are characterized by a patrimony susceptible to progressive increases and by possible and subsequent adhesions of third parties. It is therefore a question of “open structure” foundations which, far from qualifying as “atypical”, constitute only a few types which, in any case, manifest the essential characteristics of a foundation. The problem is, therefore, to identify what are the essential characteristics that cannot fail to be lacking in foundation and which constitute an insurmountable limit to the statutory autonomy that cannot affect the characteristics of the “type” foundation.

SOMMARIO:

1. La fondazione: da istituto “clandestino” a istituto di successo - 2. Principali distinzioni tra fondazioni e associazioni - 3. Le limitazioni all’autonomia privata del fondatore e lo scopo di pubblica utilità - 4. Le fondazioni e i fedecommessi - 4.1. Il caso della c.d. “fidecommisseria Giacomo Filippo Strizoli” - 5. Lo scopo lecito delle fondazioni - 6. Le Fondazioni e l’attività di impresa. La fondazione può produrre profitto? - 6.1. L’attività di impresa della fondazione e l’utilità sociale. Il caso della Fondazione Zeiss - 7. Le fondazioni e la soggezione al fallimento - 8. Le fondazioni possono distribuire il profitto generato? - 9. Dal Grant-making Foundation alla Operating Foundation - 10. “C’era una volta la fondazione”. L’erompere delle fondazioni partecipate - 11. Forme di partecipazione e “patrimoni in cerca di uno scopo comune” - 12. Gli organi della fondazione di partecipazione - 13. I contratti plurilaterali di fondazione - 14. La comunione di scopo e la causa del contratto della fondazione di partecipazione - 15. La sorte del contratto di fondazione e le vicende dell’ente - 16. Riflessioni conclusive: l’autonomia privata ed elementi tipici delle fondazioni - NOTE


1. La fondazione: da istituto “clandestino” a istituto di successo

Il codice civile non offre una definizione precisa di fondazione [1] e, peraltro, si limita a dettare una disciplina piuttosto incompleta e lacunosa, in parte comune all’associazione (artt. 14, comma 1; 16; 18; 19; 27; 29-32; 35 cod. civ.), in parte relativa alla sola fondazione (artt. 14, comma 2, 15, 25, 26, 28 cod. civ.) [2].

Invero, la scarna disciplina codicistica riservata alla fondazione si spiega alla luce di un atteggiamento ostile del legislatore del 1942 rispetto ai corpi intermedi tra individui e Stato alternativi al modello corporativo, dovuto ad un risalente discredito maturato, a partire dal XVIII secolo, in Francia.

Nello stato transalpino, come in Italia, le fondazioni apparivano un facile artificio giuridico per schermare il patrimonio del fondatore. Si riteneva che fosse ad esse immanente il pericolo di creare, attraverso la costituzione dell’ente, vincoli di destinazione patrimoniale di lunga durata se non, addirittura, perpetui, per il perseguimento di interessi egoistici, diretti a segregare il patrimonio, col rischio di frodare eredi e creditori e di sottrarre ingenti ricchezze alle dinamiche del mercato [3].

La fondazione si poneva, quindi, in netto contrasto con gli istituti di tutela del credito e con il più generale principio di favore per i meccanismi di circolazione e mobilità della ricchezza, diretti alla liberazione del soggetto di diritto e dei beni dai vincoli che ne avevano, sino alla codificazione borghese, impedito la partecipazione al traffico giuridico [4].

Tuttavia, anche alla luce dell’esperienza tedesca (nel libro I, titolo II, del BGB sono disciplinate in modo organico le fondazioni), il codice civile del ’42 ha preferito prendere atto della secolare e radicata diffusione dell’istituto e lo ha regolato sottoponendolo al controllo pubblico.

La scelta di porre la fondazione sotto l’egida dell’autorità governativa si spiega proprio in ragione della pericolosità dell’istituto, in grado di realizzare fenomeni di sottrazione di complessi patrimoniali individuali al comune traffico giuridico. Tale timore ha, quindi, indotto il legislatore del 1942 ad assoggettare la fondazione ad un pervasivo controllo della Pubblica Amministrazione, che si esplica sin dal momento della sua costituzione e poi per tutta la durata dell’ente, fino alla fase di liquidazione e scioglimento.

Il legislatore, nel dettare la disciplina della fondazione, ha fatto propria la classificazione al tempo dominante della fondazione quale universitas bonorum, ossia personificazione di un patrimonio separato e destinato ad uno scopo, in contrapposizione con l’universitas personarum delle organizzazioni di tipo associativo.

La distinzione tra i due tipi di enti rileva anche in termini di controllo [5]. Nelle associazioni, infatti, è presente un organo assembleare, avente funzione decisionale e di controllo sull’operato degli amministratori.

Le ragioni del controllo pubblico delle fondazioni non si spiegano per la sola mancanza di un organo assembleare, ma anche per lo scopo di interesse generale che la fondazione è tenuta a perseguire. Ebbene, sotto questo aspetto, le funzioni del guardiano pubblico assumono il compito di prevenire quegli abusi della personalità giuridica di cui le fondazioni, durante il previgente codice civile, erano sospettate [6]. Non solo, l’autorità governativa sarebbe anche chiamata ad una valutazione della pubblica utilità dello scopo, sì da poter negare il riconoscimento della personalità giuridica a tutte quelle fondazioni costituite per il perseguimento di scopi egoistici e non di pubblica utilità. Soltanto la pubblica utilità avrebbe potuto concedere personalità giuridica all’ente.

In ragione dello scopo non egoistico e con l’autunno dello Stato sociale, determinato da una generale incapacità dello Stato a soddisfare determinati bisogni della società, si è assistito – dagli anni Novanta in poi – ad un rilevante sviluppo delle fondazioni dirette a soddisfare i più disparati interessi di pubblica utilità.

L’importanza delle fondazioni è stata avvertita anche all’interno dell’Unione Europea che, con l’Euro­pean Foundation Statute, ha tentato di regolare le c.c.d.d. “Fondazioni Europee”, ossia quelle persone giuridiche che avrebbero potuto operare in qualsiasi Stato Membro dell’Unione Europea [7].

Purtroppo la Commissione Europea ha successivamente ritirato la proposta di regolamento che avrebbe dato vita al regime della “Fondazione Europea”, applicabile alle fondazioni attive in Europa, in seguito all’opposizione di alcuni Stati Membri, tra cui la Germania e il Portogallo. La proposta dell’European Foundation Statute, presentata nel 2012 e ritirata nel 2015, si è risolta in una ennesima occasione mancata diretta non solo a definire l’ente oggetto d’esame, ma anche a chiarirne gli scopi e le attività, soprattutto quelle economiche.

Sin dagli inizi del nuovo millennio si è assistito, però, allo sviluppo di un’area intermedia tra le due principali aree della vita sociale (da una parte, la pubblica amministrazione caratterizzata dal perseguimento di finalità non solo collettive ma anche pubbliche e, dall’altra parte, il mercato, caratterizzato dall’impiego di un capitale di rischio e dal perseguimento di finalità lucrative), tale è il c.d. Terzo settore, recentemente disciplinato dal d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117. In questo contesto, l’ente fondazionale non è rimasto immune da tali radicali cambiamenti.

Nell’epoca delle grandi riforme e nel contesto di un continuo e proficuo dialogo tra pubblico e privato, la fondazione non può più essere concepita solo ed esclusivamente, così come pensato dal codice civile del 1942, come il patrimonio destinato dalla volontà del fondatore al perseguimento di uno scopo di pubblica utilità [8], ma deve concepirsi come uno strumento molto più elastico e duttile col quale si sperimentano particolari forme di collaborazione tra enti pubblici e privati nei settori in cui l’intervento e la gestione del pubblico si è rilevata insufficiente [9].

Attualmente, la fondazione, lungi dal contrastare con i suddetti principi di politica economica, si pone come mezzo indispensabile per la crescita economica. Ad oggi, ancora, accanto alla fondazione “tradizionale” si conosce una varietà di figure, alcune delle quali presentano persino spiccati caratteri corporativi non dissimili da quelli delle associazioni, mentre altre superano quella convinzione secondo la quale agli enti del Libro I cod. civ. sarebbe precluso l’esercizio di un’attività di impresa [10].

Diversamente – oggi – le fondazioni hanno la possibilità di esercitare attività di impresa con l’unico limite del divieto di distribuzione degli utili conseguiti (c.d. lucro soggettivo) [11].

Il divieto di perseguire un lucro soggettivo da parte delle fondazioni è ribadito anche nel codice del “Terzo settore” (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117) che, nel disciplinare le attività di interesse generale degli enti (art. 5), consente a questi enti di esercitare anche attività diverse da quelle disciplinate all’art. 5, come l’attività di impresa, sempre che «l’atto costitutivo e lo statuto lo consentano e siano secondarie e strumentali rispetto alle attività di interesse generale» (art. 6). In particolare, all’art. 8, comma 2, viene ribadito il divieto della distribuzione, anche indiretta, di utili e avanzi di gestione, fondi e riserve comunque a fondatori (o associati), amministratori ed altri componenti degli organi sociali, anche nel caso di recesso o di ogni altra ipotesi di scioglimento individuale del rapporto associativo [12].

Ancora, da ultimo, con la presentazione di un disegno di legge delega (disegno di legge delega S. 1151 del 19 marzo 2019), avvenuta nel corso della XVIII legislatura, avente ad oggetto una parziale riforma del codice civile, vengono individuate alcune aree tematiche ritenute meritevoli di intervento; tra queste anche la disciplina degli enti contenuta nel Libro I del codice civile [13].

Il passaggio che riguarda la fondazione è così formulato: «Il Governo è delegato ad adottare […] uno o più decreti legislativi per la revisione e l’integrazione del codice civile […], nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) integrare la disciplina delle associazioni e fondazioni, ad esclusione delle fondazioni di origine bancaria con i necessari coordinamenti con la disciplina del Terzo settore e nel rispetto della libertà associativa, con particolare riferimento alle procedure per il riconoscimento, ai limiti dello svolgimento di attività lucrative, alle procedure di liquidazione degli enti».

In questi termini, in considerazione delle riforme legislative che hanno sostanzialmente ridisegnato le società di capitali (nel 2003) e gli enti del Terzo Settore (nel 2017), l’intenzione del legislatore risulta essere quella di adottare provvedimenti residuali, cioè di disciplinare tutto ciò che non è già stato regolato da altri interventi normativi, tra i quali vengono espressamente richiamati quelli in tema di fondazioni bancarie e di Terzo settore.

Si nota che il legislatore, nel delegare il Governo ad adottare provvedimenti per la revisione o l’inte­grazione del codice civile, abbia piena consapevolezza che il codice si pone come mero «contenitore» delle strutture fondamentali che reggono i rapporti privati, anche se buona parte della disciplina degli enti si trova oramai fuori dal codice [14].

La disciplina della fondazione è in continua evoluzione non solo in Italia ma anche in altri Stati. Tra le novità legislative straniere recenti, merita particolare menzione la legge di riforma del diritto delle fondazioni, varata dal Parlamento della Repubblica Federale Tedesca il 21 giugno 2021, destinata ad entrare in vigore nel 2023 [15]. La nuova legge introduce per la prima volta un quadro giuridico uniforme a livello federale per le fondazioni, prevedendo, tra l’altro, la definizione della fondazione come persona giuridica senza associati (nuovo testo del codice civile tedesco, par. 80: mitgliederlose juristische Person), nuove regole sulla loro amministrazione, e il loro scioglimento. Il codice civile tedesco accoglie dunque ai paragrafi parr. 80-87d una compiuta e ben più organica regolamentazione di queste istituzioni, di cui si è conservata la configurazione tradizionale, nel quadro di un regime ammodernato, con significative novità per far fronte a diverse esigenze della prassi.

Alla luce di tali premesse, il presente contributo è diretto a illustrare le linee evolutive della fondazione, nonché a indagare i confini oltre i quali non può spingersi l’autonomia privata. In altri termini, il lavoro intende chiarire il grado di elasticità della fondazione in presenza di nuovi interessi ed esigenze dei privati. La risposta a tale problematica, non può prescindere dalla descrizione degli elementi tipologici dell’ente e dei profili evolutivi che, nel tempo, ne hanno in parte mutato la fisionomia.


2. Principali distinzioni tra fondazioni e associazioni

La tradizione giuridica [16] distingue l’associazione, quale pluralità di persone unite per il perseguimento di uno scopo comune (universitas personarum), dalla fondazione, intesa come complesso di beni destinato al perseguimento di uno scopo (universitas bonorum) [17].

A ben vedere, però, stando alla concezione organica delle persone giuridiche [18], la fondazione non è, propriamente, il patrimonio destinato ad uno scopo, quanto l’organizzazione collettiva, formata da persone (gli amministratori della fondazione), che si avvale del patrimonio per realizzare lo scopo. In quest’ottica, le fondazioni vennero concepite come «organizzazioni di uomini», rispetto alle quali «il patrimonio è semplicemente un mezzo di attuazione dello scopo» [19].

La distinzione, dunque, tra associazioni e fondazioni cessò di risolversi in relazione alla prevalenza di elementi eterogenei (persone e patrimonio) per assumere una diversa configurazione all’interno della più ampia categoria delle organizzazioni collettive [20].

Ancora, sia l’associazione che la fondazione costituiscono espressione di autonomia negoziale: l’una e l’altra traggono vita da un negozio giuridico. Si tratterebbe, in particolare, di negozi giuridici di organizzazione che assumono la natura di contratto plurilaterale con comunione di scopo, nel caso delle associazioni, o la natura di negozi unilaterali, nel caso delle fondazioni.

L’attività diretta alla realizzazione dello scopo (ossia il comune scopo degli associati o lo scopo assegnato dal fondatore) costituisce un’attività esecutiva dei rispettivi negozi costitutivi.

Tali negozi costitutivi assumono la funzione di costituire e organizzare l’ente. Sono, pertanto, da considerarsi negozi di organizzazione, ossia negozi giuridici la cui esecuzione implica la costituzione di una struttura organizzativa [21].

Nonostante l’associazione e la fondazione siano accomunate dalla medesima genesi negoziale, sussistono tra i due enti differenze particolarmente evidenti. Esse attengono, anzitutto, alla diversa natura dei rispettivi negozi costitutivi e, in secondo luogo, ai diversi modi di esecuzione di tali negozi.

L’atto costitutivo dell’associazione è un contratto plurilaterale a comunione di scopo. L’atto costitutivo della fondazione ha sempre, di contro, natura di negozio unilaterale: unico negozio unilaterale, quando il fondatore sia una sola persona; pluralità di negozi unilaterali, quando si tratti di fondazione costituita da più persone [22].

In particolare, la fondazione trae origine dall’atto con il quale il fondatore destina in modo permanente taluni beni alla realizzazione di uno scopo di pubblica utilità, i quali, con l’acquisto della personalità giuridica, appartengono all’ente [23]. Peraltro, il fondatore non può riservarsi – con l’atto di fondazione– la facoltà di modificare successivamente lo statuto della fondazione [24].

In ragione di ciò, si ritiene che la gamma di scopi perseguibili attraverso la fondazione sia più ristretta di quella dell’associazione, essendo tenuta la fondazione a perseguire scopi non lucrativi nei quali sia riconoscibile una pubblica utilità. Per le fondazioni assume rilevanza la pubblica utilità che qualifica lo scopo non lucrativo dell’ente (ossia lo scopo di assistenza, beneficenza o culturale a vantaggio di determinate categorie di persone).

Le ulteriori differenze si manifestano, in secondo luogo, nei modi di esecuzione dell’uno e dell’altro negozio: il fondatore non partecipa, in quanto tale, all’esecuzione dell’atto di fondazione; egli si spoglia, in modo definitivo, della disponibilità dei beni che destina allo scopo e non concorre, come invece concorrono le parti del contratto di associazione, nella loro amministrazione.

Mentre nell’esecuzione del contratto associativo concorrono gli associati, l’esecuzione dell’atto di fondazione è, all’opposto, affidata a persone diverse dal fondatore: gli amministratori, ossia coloro che compongono l’elemento personale della fondazione, che costituiscono, al pari dell’associazione, una «organizzazione di uomini».

La posizione degli amministratori della fondazione è profondamente diversa da quella di coloro che compongono l’elemento personale dell’associazione: diversa tanto dalla posizione degli associati, quanto da quella degli amministratori dell’associazione. Gli elementi che li differenziano dai primi vengono tradizionalmente riassunti nell’affermazione secondo la quale l’associazione ha «organi dominanti» e la fondazione, invece, «organi serventi» [25].

Nell’associazione operano «organi dominanti», ai membri infatti è attribuito il potere, organizzato secondo la regola maggioritaria, di determinare e (eventualmente) modificare lo scopo dell’associazione. Nell’as­sociazione, al contrario, la destinazione allo scopo costituisce oggetto di un impegno contrattuale; e i membri dell’associazione, che di questo rapporto contrattuale sono le parti, fruiscono in ordine alla destinazione del patrimonio della medesima autonomia che è propria delle parti di ogni contratto: essi possono, a proprio arbitrio, modificare il contenuto del contratto, possono deliberare lo scioglimento dell’associazione, possono, in sede di estinzione, deliberare sulla devoluzione dei beni residui [26].

Invece, l’esecuzione dell’atto di fondazione rappresenta, per gli amministratori di questa, l’adempimento di un ufficio: essi sono vincolati, nel disporre dei beni della fondazione, al perseguimento dello scopo assegnato dal fondatore; e solo l’autorità governativa, che sull’amministrazione esercita il più penetrante controllo (art. 25), può modificare la destinazione del patrimonio [27].

Gli amministratori della fondazione sono, tuttavia, i soli arbitri della gestione: essi determinano a proprio piacimento i criteri che ritengono più opportuni per l’amministrazione del patrimonio e per la sua destinazione allo scopo; ad essi, e ad essi soltanto, è affidata l’esecuzione del negozio di fondazione.

La carica degli amministratori può essere a vita; il fondatore non può, come non possono i suoi eredi, ingerirsi in alcun modo nell’amministrazione. Lo statuto deve garantire l’autonomia degli amministratori, i quali non rappresentano coloro che li hanno nominati né ad essi rispondono (art. 10 d.lgs. 26 giugno 1996, n. 367, che regola le fondazioni operanti nel settore musicale, c.d. enti lirici).

A differenza delle associazioni, nelle quali i poteri degli amministratori trovano il limite nell’assemblea degli associati, la quale è chiamata ad esprimere periodicamente il gradimento dell’operato dell’organo di gestione, nelle fondazioni è assente una forma di controllo interno degli amministratori analogo a quello esercitato nelle associazioni, sicché l’art. 25 cod. civ. assoggetta le fondazioni a forme di controllo pubblico dirette a tutelare l’ente.

Il controllo dell’autorità governativa, per quanto penetrante, è solo un controllo di legittimità: essa non può intervenire fino a quando gli amministratori non abbiano violato lo statuto o la legge o non abbiano agito in difformità dallo scopo della fondazione [28].


3. Le limitazioni all’autonomia privata del fondatore e lo scopo di pubblica utilità

Nel codice civile del 1865, le associazioni e le fondazioni venivano denominate “corpi morali”. Ai corpi morali si affiancavano gli enti ecclesiastici e gli enti pubblici, questi ultimi comprensivi sia degli enti territoriali che di altre istituzioni.

Il nomen «corpi morali» voleva sottolineare che gli enti, segnatamente di diritto privato, trovavano, nel caso di fondazioni, fatta eccezione per quelle strettamente familiari, la loro giustificazione quali persone giuridiche nell’attività filantropica e nell’attenzione alle esigenze delle classi meno protette riposta dalle iniziative generose di persone e famiglie non irrilevanti nel tessuto sociale [29].

Ebbene, nell’attuale codice civile italiano, pur mancando il termine “corpo morale”, sono però presenti riferimenti alla utilità pubblica dell’ente-fondazione, quale misura della sua stessa esistenza o estinzione (art. 28 cod. civ.).

A ben vedere, però, la pubblica utilità non è, invero, presupposto necessario per la valida sussistenza della fondazione che trova nel suo fine altruistico il suo connotato principale.

La qualificazione dello scopo in termini di “pubblica utilità” ha storicamente assunto un ruolo essenziale nell’elaborazione dell’istituto della fondazione: vincolare l’esistenza stessa della fondazione al perseguimento di uno scopo non semplicemente non lucrativo, ma specificamente pubblico, era la condizione necessaria per legittimare l’esistenza delle fondazioni in uno Stato che avocava a sé il controllo delle attività volte a soddisfare i bisogni della collettività [30].

Sicché, a differenza dell’associazione il cui ambito di scopi perseguibili è sensibilmente ampio, comprendendovi ogni possibile scopo di natura ideale o, comunque, non economica; tradizionalmente, la fondazione potrebbe essere costituita solo per scopi di pubblica utilità.

I beni e le ricchezze possono essere assoggettati ad un vincolo di destinazione immutabile e tendenzialmente perpetuo solo per il perseguimento di finalità di pubblica utilità [31].

È stato avvertito, a tal riguardo, dai giuristi d’oltralpe che, «per quanto si sia partigiani dell’iniziativa privata in questa materia, si deve riconoscere che ogni fondazione riguarda uno scopo e un interesse collettivo, ristretta o ampia che sia la collettività interessata» [32].

Lo svilimento dell’autonomia privata, come si è detto, trovava ragione in una generale intransigenza del legislatore a forme di assoggettamento di beni a vincoli di destinazione, immutabili e tendenzialmente perpetui, impressi dal fondatore che si ponevano in manifesto contrasto con quei principi di politica economica (cui sono informate le codificazioni moderne) che danno stura alla libera circolazione dei beni e al libero sfruttamento delle risorse economiche.

Infatti, è stato già notato che il vincolo di destinazione non può cessare né per volontà del fondatore né, tantomeno, per deliberazione degli amministratori e né, fino a quando lo scopo possa essere attuato, per provvedimento dell’autorità governativa. Per tali ragioni, l’autonomia privata soffre, quanto all’utilizzabilità delle forme di fondazione, di limitazioni che non hanno, per contro, ragion d’essere in rapporto alle organizzazioni di tipo associativo, le quali invece sono caratterizzate dagli opposti principi della modificabilità, per deliberazione degli associati, dello scopo dell’ente nonché della risolubilità del rapporto associativo.

In ragione di ciò, anche per il nostro ordinamento il ricorso alle forme giuridiche della fondazione sarebbe stato ammissibile, con relativa accettazione degli inconvenienti economici che tale ente comporta, solo in presenza di uno scopo di pubblica utilità.


4. Le fondazioni e i fedecommessi

Se le norme del titolo II, Libro I del codice civile, in tema di fondazioni, non pongono limiti espressi all’autonomia privata, restrizioni particolari sono, invece, formulate – in termini di perseguimento di «fini di pubblica utilità» – da una norma contenuta nel secondo libro del codice civile, in tema di sostituzioni fedecommissarie: l’art. 699 cod. civ., ai sensi del quale «è valida la disposizione testamentaria avente per oggetto l’erogazione periodica, in perpetuo o a tempo, di somme determinate per premi di nuzialità o di natalità, sussidi per l’avviamento ad una professione o ad un’arte, opere di assistenza, o per altri fini di pubblica utilità, a favore di persone da scegliersi entro una determinata categoria o fra i discendenti di determinate famiglie».

Il tema delle fondazioni, per diversi aspetti, si lega alla tematica dei fedecommessi, in quanto entrambi gli istituti producono il medesimo effetto: imporre su determinati beni un vincolo di destinazione tendenzialmente perpetuo [33].

I due istituti, non a caso, sono legati da una medesima sorte. Difatti, quando, nella prima metà del Settecento, i legislatori europei abolirono i fedecommessi perché in contrasto con le esigenze di libero e proficuo sfruttamento della ricchezza, essi estesero la propria opera di repressione, in nome dei medesimi principi economici, anche alle fondazioni: in Inghilterra furono vietate le fondazioni immobiliari, mentre in Francia le fondazioni testamentarie [34].

Il legislatore italiano, dopo l’unificazione, disciplinava le sole “fondazioni pubbliche”, ossia le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza regolate dalla l. 17 luglio 1890, n. 6972 che, all’art. 2, espressamente sottraeva alle norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza le «fondazioni private destinate a pro di una o più famiglie, non soggette a devoluzione a favore della beneficenza pubblica»; e, in mancanza di una disciplina delle fondazioni private, non erano mancati autori che avevano dubitato della validità di tali fondazioni, siccome ricomprese nel divieto di sostituzione fidecommissaria [35].

Qualche dubbio fu, anche solo in parte, superato sulla base dell’art. 902 del codice civile del 1865, corrispondente all’attuale art. 699 cod. civ., che dopo aver vietato (con l’art. 899) le sostituzioni fidecommissarie e dopo aver esteso il divieto (con l’art. 901) all’usufrutto successivo e alle annualità successive, il codice civile previgente stabiliva, all’art. 902, che «non è vietato di stabilire annualità da convertirsi in perpetuo o a tempo in soccorsi all’indigenza, in premio alla virtù o al merito, od in altri oggetti di pubblica utilità, quantunque nella disposizione siano chiamate persone di una data qualità o di determinate famiglie». Sicché, veniva argomentato che, se da un lato le annualità successive sono comprese nel divieto di sostituzione fidecommissaria, dall’altro lato è vero pure che il divieto viene meno quando, come nel caso delle fondazioni, la disposizione presenti uno scopo di pubblica utilità [36].

Veniva, in tal modo così giustificata la validità del negozio di fondazione e, al tempo stesso, venivano imposti precisi limiti all’autonomia privata: «l’unica norma espressa che stabilisca e regoli l’istituzione di fondazioni private è sempre quella dell’art. 902 cod. civ. (…) Da essa si rileva una limitazione ai soli fini riflettenti il soccorso all’indigenza, il premio alla virtù od al merito, oppure ad altro scopo di pubblica utilità» [37].

Diverso è stato l’atteggiamento assunto dagli interpreti sotto la vigenza del codice civile del 1942. Essi hanno cessato di interpretare l’art. 699 come una norma attinente al negozio di fondazione: da un lato, si ammetteva che la disposizione testamentaria sia sottratta al divieto di annualità successive in ragione del fine di pubblica utilità che essa persegue; dall’altro lato, si negava che essa possa essere identificata nel negozio di fondazione, trattandosi di disposizione con effetti obbligatori a carico dell’erede, e non di un negozio che imprima sui beni un vincolo reale di destinazione [38].

La dottrina odierna [39] riconosce, infatti, che l’art. 699 cod. civ. (il quale riproduce l’art. 902 del codice previgente) prevede unicamente una disposizione a titolo particolare con effetti obbligatori a carico dell’erede; esso, quindi, non si applica all’atto di fondazione, il cui effetto è quello di imprimere sui beni un vincolo di destinazione.

Ciononostante, l’art. 699 cod. civ., per quanto non applicabile direttamente alle fondazioni, ha esercitato – anche nei primi anni di vigenza dell’attuale codice civile – una efficacia decisiva in sede di trattazione dei limiti all’autonomia del fondatore.

L’esempio che ben connetteva i due istituti era quello in cui una disposizione testamentaria trasferiva i beni ad una persona giuridica con l’onere di corrispondere, una generazione dopo l’altra, annualità ai discendenti del disponente [40]. Ebbene siffatta disposizione sarebbe stata valida solo se conforme ai limiti previsti dall’art. 698 cod. civ., rubricato usufrutto successivo («la disposizione con la quale è lasciato a più persone successivamente l’usufrutto, una rendita o un’annualità, ha valore soltanto a favore di quelli che alla morte del testatore si trovano chiamati per primi a goderne»).

Una diversa ipotesi [41] che connette comunque i due istituti è la seguente: il disponente, anziché lasciare i beni ad una preesistente persona giuridica, dà vita ad una fondazione [42] che abbia lo scopo di amministrare i medesimi beni ed erogarne le rendite, una generazione dopo l’altra, ai discendenti del fondatore. Per tale ultima ipotesi, occorrerebbe analizzare se si realizzino i medesimi risultati preclusi dal divieto posto all’art. 698 cod. civ.

Nella prima ipotesi, relativa al fenomeno della fondazione indiretta, la disposizione è, ai sensi dell’art. 699 cod. civ., valida senza limiti solo se diretta a «fini di pubblica utilità», quantunque fatta «a favore di persone da scegliersi entro una determinata categoria o fra i discendenti di determinate famiglie»: costoro ne saranno beneficiari non in quanto tali, ma in relazione all’appartenenza ad una determinata categoria (ad esempio, quella dei dipendenti dell’impresa del disponente) o ad una determinata famiglia si aggiunga un ulteriore estremo (della necessità di assistenza, della qualità di studente avviato ad una professione o ad un’arte) idoneo a far sì che la disposizione si rilevi diretta a realizzare, sia pure in un ambito ristretto, uno scopo di pubblica utilità.

Del pari il negozio di fondazione – che potrà essere anche istitutivo di una fondazione di famiglia, ossia «destinata a vantaggio soltanto di una o più famiglie determinate» (art. 28 ult. cpv.) – sarà valido solo se preordinato al perseguimento di uno scopo di pubblica utilità.

In questi termini, la cerchia dei beneficiari è sì circoscritta agli appartenenti alla famiglia del fondatore, ma proprio in virtù dello scopo di pubblica utilità perseguito dalla fondazione, i beneficiari dell’ente non potranno essere i discendenti del fondatore in quanto tali, ma solo i discendenti che versino in una particolare situazione soggettiva (di indigenza, meritevolezza in rapporto agli studi o al lavoro ecc.) che il negozio di fondazione abbia preso in considerazione; di modo che la conservazione del patrimonio all’interno di una data famiglia non sia, come è nel caso del fedecommesso, lo scopo della disposizione, ma sia lo strumento necessario per realizzare finalità di utilità sociale [43].


4.1. Il caso della c.d. “fidecommisseria Giacomo Filippo Strizoli”

In questi termini, l’atto di fondazione che dà luogo ad una fondazione di famiglia dovrà considerarsi valido soltanto se diretto al perseguimento di uno scopo di pubblica utilità: i beneficiari dell’ente, infatti, potranno essere soltanto coloro che appartengono alla cerchia della famiglia, ma per poter usufruire dei benefici dell’ente dovranno trovarsi in una determinata situazione (indigenza, meritevolezza), che l’atto di fondazione avrà preso in considerazione. In tal modo la conservazione del patrimonio all’interno di una data famiglia non è, come nel fedecommesso, lo scopo della disposizione, ma il mezzo per realizzare un fine socialmente utile [44].

Tale tesi ha trovato conferma in alcune pronunce, rese nei diversi gradi di giudizio, relative ad una causa iniziata nel 1800 e terminata, davanti ai giudici legittimità, nel 1979.

Il riferimento è al caso della “fidecommisseria Giacomo Filippo Strizoli”. In particolare, il giorno 16 aprile del 1792 moriva a Genova, senza figli, Giacomo Filippo Strizoli.

Nel testamento veniva previsto, una volta adempiute le disposizioni pie e alcuni legali, la formazione di un «fedecommesso perpetuo da cantare sempre sotto il nome di Giacomo Filippo Strizoli». I redditi del fedecommesso sarebbero andati in perpetuo ai figli e ai discendenti dello Strizoli.

Il Tribunale di Genova, con sent. del 9 luglio 1971 [45], ha ravvisato nella disposizione testamentaria l’ere­zione di una fondazione di famiglia, sottoforma di fedecommesso “perpetuo”.

Il fedecommesso perpetuo era diretto ad attribuire i frutti dei beni patrimoniali ai discendenti di sesso maschile del cugino dello Strizoli. Il Tribunale di Genova così disponeva: «le fondazioni di famiglia il cui fine esclusivo sia il lucro di una determinata discendenza, al di fuori dello scopo di pubblica utilità, sono in contrasto con l’ordinamento giuridico».

Pur accogliendo la disposizione enunciata dal Tribunale, la Corte d’Appello di Genova (sent. 10 aprile 1975, inedita) non ha condiviso le ulteriori conseguenze dello scioglimento della fondazione e della divisione dei beni fra i beneficiari delle rendite.

La Corte d’Appello precisava che il divieto posto dagli artt. 692 e 698 ed i limiti posti dall’art. 699 cod. civ. riguardano soltanto le disposizioni testamentarie adottate nell’ordinamento giuridico attuale e non quelle previste sotto la vigenza delle leggi anteriori.

All’esito di questa complessa vicenda, i giudici di legittimità hanno cassato la sentenza di secondo grado [46]. Il presupposto da cui muove la Suprema Corte è che nel vigente ordinamento lo scopo della disposizione testamentaria costituisce elemento essenziale ai fini della qualificazione della fondazione.

La necessità dello scopo di pubblica utilità si ricava dall’intera disciplina delle persone giuridiche di cui al Primo libro del codice civile e, in particolare, dagli artt. 16, 25 e 27 cod. civ., quest’ultimo eleva a causa di estinzione della persona giuridica il raggiungimento della finalità o il verificarsi della sua impossibilità. Lo scopo cui queste norme si riferiscono, aggiunge la Corte, «deve essere uno scopo esterno, per così dire, al patrimonio, perché solo uno scopo esterno può dar luogo a quel vincolo di destinazione che si assume come elemento unificante; ed è altrettanto chiaro che, sotto questo aspetto, lo scopo non può essere costituito dal puro e semplice godimento dei beni che compongono il patrimonio, giacché è connaturale ai beni la loro destinazione ad essere goduti».

Nel caso in esame, stando alla citata pronuncia della S.C. di Cassazione, mancherebbe del tutto uno scopo, se si prescinde dalla volontà del testatore di attribuire il suo patrimonio ereditario in perpetuo a tutti i discendenti del cugino. Queste considerazioni sono state ritenute sufficienti, a detta della S.C. di Cassazione, per escludere l’ammissibilità, nel nostro ordinamento, di un ente come “il fidecommesso Strizoli”.

In questa prospettiva, andrebbe osservato che la fondazione che persegua uno scopo lecito e gestisca un’impresa al fine di devolvere gli utili al fondatore finché questi è in vita e, successivamente, ai suoi eredi altro non farebbe se non riprodurre, nella logica della moderna società industriale, un fenomeno che nella società dell’economia fondiaria assumerebbe gli aspetti del fedecommesso, perché, come quest’ultimo che aveva la funzione di perpetuare nel tempo il nome e lo splendore di determinati casati [47], anche la fondazione d’impresa avrebbe avuto l’analoga funzione di perpetuare la potenza industriale di determinate famiglie.

In Germania non è mancato chi ha avvertito come tali fondazioni (Familienstiftung) si prestino a dare vita, in forme nuove, a veri e propri fedecommessi e pongano, in sede legislativa, la necessità di un riesame delle scelte operate di fronte all’istituto storico delle sostituzioni fedecommissarie [48]. In Spagna, in cui vige una espressa norma che impone alla fondazione il perseguimento dello scopo di pubblica utilità (art. 35 cod. civ. spagnolo: fundaciones de interés público reconocidas por la ley), non si è mancato di precisare come tale requisito derivi dalla necessità di evitare che la fondazione venga utilizzata per eludere i limiti posti dalle sostituzioni fidecommissarie [49], lo stesso vale per l’ordinamento francese che fa riferimento al perseguimento di fini di interesse generale (art. 18, loi 87-571 del 23 luglio 1987).

Si aggiunga, inoltre, che il già citato progetto di “Fondazione europea”, elaborato sulla base del Feasibility Study on a European Foundation Statute (si tratta di uno studio pubblicato nel 2008 dalla Commissione europea e condotto dal Centre for social Investiment dell’Università di Heidelberg, insieme al Max Planck Institute for Comparative and International Private Law), individua nel “public benefit purpose” la finalità caratteristica dell’istituto fondazionale.

Resta dunque la finalità di pubblica utilità a distinguere la fondazione dal fedecommesso e alla luce di tale distinzione, è stato avvertito [50] che fino a quando non venga modificata la disciplina dei fedecommessi, oppure la disciplina delle fondazioni, all’autonomia privata non si potrà riconoscere, in tema di fondazioni, la medesima estensione che le è concessa in fatto di costituzione dei rapporti associativi.


5. Lo scopo lecito delle fondazioni

Molto più liberali sono gli altri ordinamenti, peraltro non appartenenti – usando una espressione ricorrente in giurisprudenza – ad una “civiltà giuridica affine” alla nostra, dove le fondazioni possono esercitare attività di impresa e possono anche distribuire utili ai fondatori [51].

In Italia, la rigidità delle fondazioni e la necessità di perseguire esclusivamente uno scopo di pubblica utilità, si fondavano sul rilievo della immutabilità dello scopo del fondatore, che «spiega perché il ricorso alle forme giuridiche della fondazione sia ammissibile, e gli inconvenienti economici che esse comportano siano accettabili, solo in presenza di uno scopo di pubblica utilità» [52].

Peraltro, il vincolo di destinazione non può cessare né per volontà del fondatore né per deliberazione degli amministratori né, fino a quando lo scopo sia attuabile, per provvedimento dell’autorità governativa: il che spiega perché l’autonomia privata soffra, quanto all’utilizzabilità delle forme giuridiche della fondazione, di limitazioni che non avrebbero alcuna ragione di esistere per le organizzazioni di tipo associativo caratterizzate, invece, dagli opposti principi di modificabilità, per deliberazione degli associati, dello scopo originario e della risolubilità del vincolo contrattuale rimessa all’arbitrio degli stessi associati.

L’immutabilità del vincolo patrimoniale è, quindi, stata la ragione per cui si è ritenuto che il ricorso alla fondazione sia ammissibile solo in presenza di uno scopo di pubblica utilità.

La fondazione è caratterizzata dal rivolgersi dell’ente ad una comunità, per promuoverne il benessere nelle sue molteplici dimensioni, materiali e spirituali [53]. Notava, infatti, Giorgio Giorgi nella sua estesa opera di fine diciannovesimo secolo sulle persone giuridiche: «Adamo nel Paradiso terrestre, secondo la tradizione biblica, Robinson Crusoe’ nell’isola deserta, secondo il romanziere, non avrebbero potuto fare una fondazione: perché non avrebbero trovato il popolo a cui dedicarla» [54].

Ciò nonostante, un’autorevole dottrina, però, valorizzando l’assenza di regole di funzionalizzazione delle fondazioni, ha sostenuto che le fondazioni possono essere dirette al perseguimento di interessi anche egoistici [55]: ad esempio interessi imprenditoriali, come accade nelle c.c.d.d. fondazioni di impresa [56].

Sul punto, infatti, occorre notare che – nell’analizzare il dato normativo – non vi è traccia del requisito di pubblica utilità. Il d.P.R. n. 361/2000, abrogato l’art. 12 cod. civ., disciplina all’art. 1, comma 3, il procedimento di riconoscimento delle fondazioni e, a tal proposito, prevede: «ai fini del riconoscimento è necessario che siano state soddisfatte le condizioni previste da norme di legge o di regolamento per la costituzione dell’ente, che lo scopo sia possibile e lecito e che il patrimonio risulti adeguato alla realizzazione dello scopo».

Ebbene, alla luce del dato normativo, non sembra che possa assumere carattere essenziale, ai fini della costituzione dell’ente fondazionale, il perseguimento di scopi di pubblica utilità. In particolare, il citato art. 1, comma 3, d.P.R. n. 361/2000 richiede esclusivamente la possibilità e la liceità in relazione allo scopo [57].

La legge esige, dunque, che le fondazioni perseguano uno scopo lecito e non menziona una utilità sociale.

Infatti, al silenzio del codice civile ha supplito poi, nella direzione opposta alla tesi dello scopo di pubblica utilità, la citata riforma del 2000 che, al fine di riconoscere la personalità giuridica alle fondazioni, con iscrizione nell’apposito registro, è richiesta solo «la soddisfazione delle condizioni previste dalle norme di legge o di regolamento per la costituzione dell’ente, che lo scopo sia possibile e lecito e che il patrimonio risulti adeguato alla realizzazione dello scopo» (art. 1, comma 3, d.P.R. n. 361/2000).

Scopo lecito e non, dunque, più di utilità sociale, tanto che si parla di neutralità del modello fondazionale, «adattabile ad ogni tipo di attività e di scopo, purché non di lucro» [58], senza alcun margine di discrezionalità in capo alle autorità cui è demandato il riconoscimento [59].

Con l’entrata in vigore del codice del terzo settore, rileva la necessità del perseguimento di una utilità sociale e il divieto di distribuzione di utili ai partecipanti [60].

In questi termini, la libertà del fondatore di determinare scopo statutari a suo piacimento assume particolare rilievo: la fondazione ben può perseguire interessi anche egoistici ed economici accanto a quelli altruistici ed ideali [61].

Non può, infatti, ignorarsi che le distanze tra associazione e fondazione, in punto di scopi perseguibili, si riducono a vista d’occhio: anche per la fondazione va riconosciuta la possibilità di perseguire una gran varietà di scopi, pure di carattere personale, e non solo di pubblica utilità [62].


6. Le Fondazioni e l’attività di impresa. La fondazione può produrre profitto?

I concetti di “rendita” e di “erogazione”, richiamati dall’art. 16 cod. civ., illustrano il modello originario ed elementare della fondazione la cui attività si risolve nella gestione del patrimonio e nella mera erogazione di ricchezze a beneficio di soggetti terzi. Mentre la rendita, risolvendosi nell’acquisizione originaria di frutti naturali o derivativa di frutti civili, designa l’utile originato dall’amministrazione del patrimonio, l’erogazione indica il carattere necessitato della proiezione all’esterno del risultato.

Tale originario modello di fondazione, come disciplinato dal codice civile, è oramai diventato marginale rispetto alla gamma di fondazioni con organizzazioni particolarmente strutturate che esercitano attività d’impresa.

Sin dagli anni Settanta dello scorso secolo, infatti, diverse fondazioni hanno ottenuto personalità giuridica pur essendo molto distanti dal rigido modello tradizione del patrimonio vincolato ad uno scopo di pubblica utilità. Sicché, hanno ottenuto personalità giuridica anche le fondazioni che svolgono attività d’impresa e le fondazioni-holding [63].

Nonostante le anamorfosi che presenta la fondazione del nuovo millennio, va comunque tenuta distinta l’attività dell’ente dagli scopi perseguiti che debbono pur sempre soddisfare un’esigenza di pubblica utilità.

In mancanza di limiti statutari e sfruttando lo spazio esistente nello scarno impianto codicistico, occorre ammettere che le fondazioni possano considerarsi libere di esercitare qualsiasi attività idonea al conseguimento degli scopi loro consentiti: potrà trattarsi, come generalmente si tratta, di attività non economiche, ma potrà anche trattarsi di attività economiche, ossia organizzate per la produzione e lo scambio di beni o di servizi, sempre che preordinate, s’intende, al conseguimento degli scopi ideali che sono propri della fondazione.

Se da un lato, considerando l’identità sostanziale della disciplina della fondazione nel codice civile del 1942 e il BGB [64], l’“impresa di fondazione” (Stiftungsunternehmen) era già conosciuto nella Germania del secondo dopoguerra anche con riguardo alla possibilità di usare lo strumento della fondazione per “socializzare” alcune industrie chiavi dell’economia [65]; dall’altro lato, è stato ritenuto che il codice civile nulla dispone sulle modalità di perseguimento dello scopo della fondazione, cioè nulla dispone sull’attività – o, secondo la terminologia usata dal codice per le società, sull’oggetto – esercitata dalle associazioni e fondazioni; né vi è traccia nell’art. 16 cod. civ. che elenca gli elementi essenziali dell’atto costitutivo e dello statuto delle fondazioni.

Può dunque essere notato che la nozione di oggetto non ha, per le associazioni e per le fondazioni, la medesima importanza che assume per le società: la determinazione di “oggetto” non rientra tra i requisiti dell’atto costitutivo e dello statuto di una fondazione, non è – come per le società (cfr. artt. 2295, n. 5; 2328, n.3; 2475, n. 3; 2518, n. 3, cod. civ.) – necessario elemento di identificazione del rapporto, destinato a segnare i limiti del vincolo sociale e, quindi, dei poteri degli organi della società [66].

Particolare rilievo per le fondazioni assumono, invece, lo scopo e il patrimonio. Per tali ragioni, la fondazione, in linea di principio, può intraprendere qualsiasi attività che appaia astrattamente idonea al raggiungimento, anche in via mediata, dello scopo enunciato nell’atto costitutivo. Le attività della fondazione, dunque, saranno tanto ampie ed eterogenee quanto più generico sia lo scopo illustrato nello statuto dell’ente [67].

Mentre alle società, in quanto imprese esercitate in forma collettiva, è imposto– quale oggetto – l’esercizio di una «attività economica» (art. 2247 cod. civ.); per le fondazioni (ma anche per le associazioni) manca, invece, ogni determinazione legislativa della specie di attività esercitabile. Sicché, le fondazioni sono libere di esercitare qualsiasi attività idonea al conseguimento degli scopi loro consentiti: potrà trattarsi, al pari che nelle società, di attività economiche, ossia organizzate per la produzione o lo scambio di beni o servizi, sempre che preordinate al conseguimento di quegli scopi ideali della fondazione [68].


6.1. L’attività di impresa della fondazione e l’utilità sociale. Il caso della Fondazione Zeiss

La possibilità che una fondazione eserciti un’attività di impresa non deriva solo da una assenza di norme codicistiche che escludano espressamente l’esercizio di tali attività ad una fondazione, ma anche da ulteriori ragioni.

Non può certo escludersi che un’impresa, pur naturalmente diretta ad un lucro soggettivo, in quanto produttrice di beni e servizi in grado di soddisfare una domanda di mercato, non abbia la sua utilità sociale [69]. La questione fu sollevata, in particolare, con la nota Fondazione Zeiss, costituita in Germania per assicurare la continuità dell’impresa di lavorazione, ad alta definizione, di materiali di vetro. Attraverso la fondazione si ebbe modo di costituire uno scudo alla continuazione dell’attività di impresa che si sarebbe mostrata fragile alle tentazioni di dissoluzione degli eredi del fondatore dell’impresa [70].

L’esperienza della Fondazione Zeiss ha dimostrato come lo svolgimento dell’attività di impresa attraverso lo strumento della fondazione può assicurare, tra l’altro, una maggiore attenzione alle ragioni dei lavoratori, allorché esse siano consacrate attraverso espresse disposizioni statutarie, che gli organi della fondazione, nell’adempimento del loro ufficio, sono tenuti a rispettare.

Ancora, un certo grado di promiscuità tra enti non profit e attività di impresa è peraltro ben visibile in tema di trasformazione. In particolare, la trasformabilità di società di capitali, tra l’altro, in fondazioni è prevista dall’art. 2500-septies cod. civ. [71].

L’istituto della trasformazione eterogenea consente, attraverso il tipo della fondazione, di mantenere e tutelare un significativo grado di stabilità dell’impresa in un determinato territorio. In particolare, attraverso la trasformazione eterogenea da società di capitali in fondazioni, si avverte un mutamento del contenitore (da società a fondazione), ma non del contenuto che resta l’attività di impresa. Resta inalterato, quindi, l’oggetto dell’attività imprenditoriale con la differenza che – rispetto alla società di capitali – alla fondazione sarà inibita la realizzazione di un lucro soggettivo.

Al di là dell’inammissibilità di distribuire gli utili al fondatore, deve ritenersi che la trasformazione eterogenea di una società di capitali in fondazioni potrebbe considerarsi foriera di ulteriori conseguenze, da tenere in considerazione allorché ci si ponga la questione dell’opportunità o meno di attivare un processo di modifica organizzativa e strutturale attraverso il quale esercitare l’attività di impresa.

La società di capitali è inevitabilmente legata ad una logica di mercato che impone scelte persino drastiche (come lo scioglimento della società, la modifica dell’oggetto sociale o la fusione) quando alcuni indici rivelatori (primo tra tutti gli utili percepiti) non diano i risultati sperati. Il pericolo si pone allorquando una società di capitali, storicamente legata ad un territorio e che contribuisca allo sviluppo economico di una comunità (contribuendo alla ricchezza e all’occupazione), deliberi lo scioglimento dell’ente. In tali ipotesi, l’adozione della forma della fondazione potrebbe assicurare il mantenimento dell’attività di impresa in realtà locali in cui si intenda dare voce ad iniziative e istanze che non siano riconducibili alla logica del profitto: la fondazione potrebbe costituire uno strumento eccellente per la soddisfazione di determinate esigenze occupazionali nello stesso modo che ha riguardato la Fondazione Carl Zeiss [72].


7. Le fondazioni e la soggezione al fallimento

Con riferimento alla fondazione, l’esercizio dell’impresa si pone, talvolta, in rapporto soltanto indiretto agli scopi dell’ente e presenta carattere di strumentalità rispetto allo svolgimento di attività ulteriori, non economiche, che sole realizzeranno gli scopi istituzionali della fondazione: l’impresa è, in questi casi, esercitata con il generico intento di procurare, mediante il corrispettivo dei beni o dei servizi prodotti, i mezzi patrimoniali necessari per il perseguimento degli specifici scopi statutari.

L’esercizio dell’impresa, inoltre, può porsi anche in rapporto diretto con gli scopi istituzionali dell’ente ed atteggiarsi quale mezzo idoneo alla sua immediata realizzazione: così l’impresa editoriale gestita da una fondazione culturale realizza direttamente lo scopo della fondazione.

Ancora, siccome il nostro ordinamento non include lo scopo di lucro fra i connotati della figura giuridica dell’imprenditore, le attività economiche – esercitate secondo il modello economico, ossia in modo che i costi siano coperti dai ricavi – ben possono essere svolte da una fondazione che opera con una propria organizzazione, intesa come utilizzo di fattori produttivi come capitale proprio o altrui e lavoro proprio o altrui [73].

La fondazione, in quest’ultima ipotesi, produce non più delle rendite, come avviene nel caso delle fondazioni di erogazione, bensì dei profitti.

Da ultimo, la fondazione che sia caratterizzata con gli stessi connotati di una impresa, provocherebbe finanche tutte quelle conseguenze che si ricollegano all’acquisto della qualità di imprenditore.

Sotto quest’ultimo aspetto, se l’impresa svolta dalla fondazione costituisce l’oggetto esclusivo o, comunque, principale dell’ente, si porrà il problema di applicare l’art. 2201 cod. civ., in modo non dissimile agli enti pubblici economici, e si porrà il problema di essere in presenza di un imprenditore commerciale, sottoposto alla disciplina speciale degli artt. 2188-2221, inclusa la soggezione al fallimento in caso di insolvenza.

Se da un lato, «può essere riconosciuto il carattere di fondazione ad un ente che abbia il compito di amministrare un patrimonio le cui rendite siano assegnate, da altre fondazioni, per compensare iniziative meritorie in campo umanitario, scientifico, artistico e sociale» [74]; dall’altro lato, diversa è l’ipotesi in cui, come si noterà nel prosieguo, la fondazione (holding) non si limita ad amministrare il patrimonio della fondazione, ma utilizzi lo stesso per l’esercizio di un’impresa commerciale: si sarà, allora, al cospetto di un ente che ha ad oggetto esclusivo l’esercizio di un’impresa e, perciò, sottoposto allo «statuto» dell’imprenditore commerciale, in analogia con quanto disposto per gli enti pubblici economici dall’art. 2201 cod. civ [75].

A corroborare la tesi della sottoposizione della fondazione che eserciti attività di impresa allo statuto dell’imprenditore commerciale è lo stesso art. 11 comma 2, del Codice del Terzo settore (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117), il quale chiarisce che «oltre che nel registro unico nazionale del Terzo settore, gli enti del terzo settore che esercitano la propria attività esclusivamente o principalmente in forma di impresa commerciale sono soggetti all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese».

La suddetta disposizione si applica a tutti gli enti del terzo settore di cui all’art. 4 C.T.S. (dunque anche alle fondazioni), posto che l’esercizio “in forma di impresa”, non va riferito alla veste adottata dall’ente ma all’esercizio dell’attività economica.

Diversamente, se si dovesse accedere alla tesi per cui la fondazione che eserciti attività economica non debba sottostare allo statuto dell’imprenditore commerciale, si dovrebbe concludere nel senso di una generale esenzione dagli obblighi per tutti quei soggetti che, pur non perseguendo uno scopo di lucro, opererebbero però secondo un metodo economico e, quindi, secondo un modello imprenditoriale. Senonché, quest’ultima tesi, presenterebbe talune fragilità in punto di diritto della concorrenza: se l’ente venisse esentato dagli obblighi derivanti dall’applicazione dello “statuto” dell’imprenditore, si consentirebbe un rapporto di concorrenza sleale nei confronti di chi opera sul mercato fornendo il medesimo prodotto o servizio.

Sul punto, anche la Suprema Corte [76] ha chiarito che non occorra affatto uno scopo di lucro soggettivo per assoggettare a fallimento un ente del primo libro del codice civile, essendo sufficiente il requisito dell’e­conomicità dell’attività di impresa, ossia che le entrate coprano tendenzialmente le spese, venendone esentati dunque i soli enti che prestino la loro attività gratuitamente, ovvero escludendo fin dall’inizio che l’attività possa per tale ragione essere ritenuta d’impresa [77].


8. Le fondazioni possono distribuire il profitto generato?

Il discorso della fondazione che esercita attività di impresa, richiama ulteriori fenomeni. Sussistono, infatti, ipotesi in cui l’impresa costituisca l’attività prevalente della fondazione è il caso della fondazione holding. In tale ipotesi, è particolarmente avvertita l’esigenza di tenere distinta, sotto l’aspetto organizzativo, l’una e l’altra attività; e tale esigenza è ancora più acuta quando la fondazione tragga dall’esercizio di impresa i mezzi finanziari per svolgere la propria azione.

Può accadere che si dia vita, all’interno della medesima fondazione, a separati organi di gestione; ma può, altresì, accadere che si costituiscano diverse fondazioni: l’una ha per oggetto l’amministrazione del patrimonio o la gestione dell’impresa, con l’obbligo, impostole dallo statuto, di devolvere le rendite del patrimonio o gli utili dell’impresa all’altra fondazione, o eventualmente ad una pluralità di altre fondazioni, a loro volta distinte tra loro in ragione dei diversi settori di attività; queste ultime utilizzano le rendite o gli utili ricevuti per la diretta realizzazione degli scopi di fondazione.

In questo ultimo caso, non può essere sollevata alcuna perplessità sulla fondazione holding che, in conformità al proprio statuto, devolva le rendite del proprio patrimonio o gli utili della propria attività di impresa ad altre fondazioni: lo scopo ideale e altruistico è qui perseguito in via mediata perché, benché sia enunciato nello stesso statuto della fondazione holding, la sua attuazione è rimessa ad altre fondazioni finanziate dalla holding [78].

In questo contesto, lo scopo di pubblica utilità non trova una collocazione funzionale dirimente [79]; semmai può essere riassuntivo, come sineddoche, di ciò che non può essere una fondazione, perché se ad es. la fondazione di impresa si proponesse di attribuire ogni utile al fondatore, allora non si dovrebbe discutere di fondazione.

Nel nostro ordinamento, non esiste un istituto assimilabile all’Anstalt [80], presente invece nell’ordinamento del Liechtenstein. La particolarità di questo istituto, assimilabile alla nostra fondazione, consiste nel fatto che il soggetto di diritto (anch’esso frutto di una entificazione del patrimonio) può svolgere qualsiasi tipo di attività, anche con scopo di lucro, quest’ultimo scopo, come si è detto, è invece precluso alle fondazioni nella generalità degli ordinamenti (lo stesso ordinamento del Liechtenstein prevede anche una forma di fondazione, lo Stiftung, senza scopo di lucro).

Qualora, invece, si volesse ammettere nel nostro ordinamento una fondazione con scopo di lucro, si dovrebbe procedere ad una riqualificazione dell’ente in una società unipersonale a responsabilità limitata. Non a caso, le società unipersonali sono state tradizionalmente, date le somiglianze (almeno in sede di costituzione) all’ente fondazionale, assimilate ad una sorta di “fondazioni lucrative” che consentirebbero «una forma di separazione patrimoniale personificata con scopo di lucro […] costituita da un singolo soggetto» [81].


9. Dal Grant-making Foundation alla Operating Foundation

Può darsi come assunto che la fondazione, almeno nel nostro ordinamento giuridico, non può, come l’Anstalt, perseguire uno scopo di lucro. Non può – però– nemmeno essere ignorato l’evidente rapporto di complementarietà e strumentalità che lega la fondazione all’impresa, rapporto che è stato oggetto di studio da parte di autorevoli giuristi sin dagli anni Sessanta dello scorso secolo [82].

Tale era il periodo in cui l’istituto della fondazione viveva una nuova epoque che lo rinnovava e lo mutava a seconda delle emergenti esigenze dei privati [83].

La fondazione iniziò a mutare i connotati delineati dal codice civile e incominciò ad avvicinarsi ai modelli delle foundations statunitensi [84].

In particolare, negli States, le più importanti Grant-Making foundations presentavano caratteri differenti rispetto alla fondazione come disciplinata dal codice civile italiano. Le indipendent foundation statunitensi, infatti, potevano essere amministrate direttamente dal fondatore o dai membri della sua famiglia (family foundation). Le decisioni venivano assunte dall’organo amministrativo che in genere include i fondatori, o i membri delle famiglie dei fondatori, oppure gli “associati” del fondo che hanno contribuito alle attività della fondazione.

Ebbene, nell’emulare le family foundations, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, le più importanti famiglie imprenditoriali della realtà economica italiana – come la famiglia Agnelli, Olivetti e Pirelli – conformavano gli statuti delle proprie fondazioni evitando il completo distacco dell’ente dal fondatore. La dottrina, attenta alla prassi statutaria del tempo, notava che il controllo del fondatore – o dei fondatori – avveniva con criteri differenti che prevedevano: a) la partecipazione diretta del fondatore o dei fondatori al consiglio di amministrazione; b) l’elezione di propri rappresentanti nel consiglio di amministrazione; c) la riserva del diritto di nomina in seno al consiglio di amministrazione, in virtù del maggior contributo versato all’atto della costituzione della fondazione.

La fondazione, sin dagli anni Cinquanta, non si è solo posta come risposta soddisfacente all’attuazione di particolari strategie manageriali di impresa, ma ha subito persino mutamenti che hanno posto in discussione la necessaria sussistenza dei dati fisionomici rispetto ai quali, sino ad allora, gli studiosi qualificavano l’ente in termini di fondazione. Più in particolare, già nello scorso secolo, gli studiosi notavano che le fondazioni non comportavano più quel distacco dell’ente dal fondatore.

Il fondatore o i fondatori tendevano invero, seppure con criteri diversi, ad assicurarsi un controllo costante sull’attività della persona giuridica: partecipando direttamente al consiglio di amministrazione, ovvero eleggendovi un proprio rappresentante, o ancora, in ragione del maggior contributo versato all’atto di costituzione della fondazione, riservandosi il diritto di nominare in seno all’organo di amministrazione un maggior numero di consiglieri.

Ancora, una ulteriore emulazione della fondazione americana è avvenuta con l’adozione di tutte le forme di operating foundation.

In particolare, negli States, ai fini fiscali, si distinguono – tra le private foundations – le “operating foundations” dalle “grant-making foundations”.

Invero, la distinzione tra le fondazioni operative (operating foundations) e le fondazioni di erogazione (grant-making foundations), era già chiara alla dottrina tedesca che operava la classificazione tra Hauptgeldstiftung (fondazione di erogazione) e Anstaltstiftung (fondazione operativa), intendendo col primo termine la fondazione che si limiti ad erogare le rendite di un patrimonio e con il secondo termine la fondazione che dia vita ad una istituzione (estranea alla sua struttura) mediante la quale assolve le proprie finalità [85].

Negli States, per grant-making foundation, si fa riferimento a quel tipo di fondazione che, finanziando altri soggetti, persegue indirettamente gli scopi statutari. Tali fondazioni, come la Ford Foundation e la Rockefeller Foundation, non partecipano direttamente alle attività, ma si limitano a finanziare altri soggetti o enti.

Per quanto attiene alle operating foundations, si tratta di fondazioni costituite con la finalità di svolgere una o più attività con scopo di utilità sociale, abbinando talvolta ai fondi ottenuti con l’investimento del patrimonio a disposizione, altri fondi raccolti da enti pubblici e privati.

Tali organizzazioni, anziché finanziare soggetti diversi dalla fondazione, provvedono direttamente alla realizzazione di tutti gli scopi della fondazione. In ogni caso, non è esclusa alle operating foundations la possibilità di erogare contributi a soggetti terzi.

Alla luce delle particolari tipologie di fondazioni operative americane, le fondazioni più importanti costituite in Italia nell’arco della seconda metà del Novecento, traggono origine, prevalentemente, da un negozio di fondazione inter vivos posto in essere da una pluralità di fondatori [86] e, gran parte di queste fondazioni (soprattutto quelle culturali [87]), si sono costituite per iniziativa di un comitato promotore e, intorno al nucleo patrimoniale iniziale, si sono aggregati ulteriori sottoscrittori. I sottoscrittori si sono, poi, distinti in soci fondatori, soci ordinari, sostenitori o benemeriti, in ragione del contributo versato [88]; è stato previsto, in alcuni statuti, che tali soci si costituiscano in assemblea o vi nominino i loro rappresentanti.

Passaggio particolarmente significativo delle nuove fondazioni può collocarsi nel periodo storico in cui i relativi atti costitutivi prevedano, per la dotazione patrimoniale delle fondazioni, la sottoscrizione da parte dei fondatori di una quota di capitale, alla quale veniva commisurato il potere di gestione dell’ente [89]: la grande fondazione, non diversamente dalla grande impresa, avrebbe bisogno – per venire ad esistenza – di una raccolta di fondi ampia e costante.

In questo contesto, sin dai primi anni di debutto del codice civile del 1942, si avvertiva che le disposizioni sulle fondazioni offerte dal codice civile avevano ad oggetto un istituto vetusto e superato. Difatti, l’ipotesi dell’individuo che costituisce una fondazione, apparentemente, per fini di utilità generale, ma con il vero intento di essere ricordato anche dopo la morte – ipotesi che aveva appunto ispirato la disciplina normativa al legislatore del ’42 – costituiva una rarità.

Il dato invece che affiorava, sin dai primi anni di vigenza del codice civile, con maggiore frequenza era quello della partecipazione di grossi enti alla costituzione di fondazioni, ove l’intreccio degli interessi ego-altruistici che sorreggono l’iniziativa dei fondatori palesa una connotazione del tutto diversa rispetto al passato.

Le società di grandi dimensioni, sin dagli anni Sessanta, hanno fatto sovente ricorso allo strumento delle fondazioni al fine di migliorare le proprie attività e la propria produzione. Non sono mancate ipotesi in cui le grandi casi farmaceutiche procedevano alla costituzione di fondazioni per la ricerca scientifica nel settore farmacologico (come il caso della Fondazione Hoechst costituita dalla Hoechst S.p.A.) nell’intento strategico di affidare alla fondazione la funzione di istruire professionalmente gli uomini destinati a comporre il quadro manageriale delle aziende nazionali.

Il fenomeno della strumentalità della fondazione rispetto alla grande impresa che l’ha costituita ha assunto rilievo persino nel mondo dello sport anch’esse caratterizzate da intento ego-altruistici come il sostegno a giovani bisognosi, la diffusione del marchio dell’impresa sportiva e la ricerca di nuovi talenti [90].

Ancora, la sinergia derivante dalla strumentalità della fondazione rispetto alla attività di impresa può concretizzarsi in un’ampia gamma di servizi; per esempio, le ricerche e i sondaggi condotti dalla fondazione consentono all’impresa di conoscere i limiti di collocabilità di un certo prodotto e di orientare la propria attività e la propria produzione in un dato settore piuttosto che in un altro.

Non vi è dubbio alcuno che gli studi, le indagini, le statistiche compiute dalla fondazione forniscono ai managers della impresa un quadro completo dei dati relativi al contesto socioeconomico in cui deve inserirsi la loro politica imprenditoriale.

In un’epoca in cui l’imprenditore deve largamente programmare la propria attività economica, ispirandosi non più al criterio esclusivo della massimizzazione del profitto, ma valutando un complesso di fattori politici, sociali, ecologici, ed ora anche tecnologici (il riferimento è alla necessità di utilizzo degli strumenti della Intelligenza Artificiale all’interno delle realtà imprenditoriali), la fondazione, come strumento di ricerca e quindi di conoscenza, si colloca come fonte importantissima di suggerimento e di ispirazione per le scelte dei dirigenti dell’impresa; in questa prospettiva, l’iniziativa di creare delle fondazioni, costituisce oggi tipica manifestazione del management style da cui è improntata la gestione delle grandi imprese nazionali.

Sulla spinta di una prassi statutaria, oramai ultradecennale, sin dagli anni Novanta, il legislatore ha disciplinato diverse tipologie di fondazioni che non si limitano ad una mera erogazione di rendite, né comportavano un distacco della fondazione dai fondatori. Ebbene, le fondazioni degli anni Novanta non si riducevano solo ed esclusivamente ad una mera erogazione di rendite (grantmaking foundation) [91], ma svolgevano attività dirette a perseguire il loro scopo avvalendosi della propria organizzazione (operating foundation[92].

In Italia, le prime forme di “fondazioni operative” disciplinate dal legislatore sono state le fondazioni bancarie, le fondazioni universitarie e le fondazioni lirico-sinfoniche.

Invero, tali tipi di fondazioni hanno decretato la crisi dell’unico modello di fondazione intesa come ente di mera erogazione di rendite.

Le fondazioni di fine secolo perseguivano sempre più interessi economici e sono sempre state strutturate in conformità ai modelli delle società di capitali con poteri di controllo dell’operato degli amministratori da parte dei fondatori che partecipavano economicamente all’ente. Sicché, nelle più grandi fondazioni italiane, la quota sottoscritta dal fondatore all’atto di costituzione della fondazione misura il potere di decidere della gestione dell’ente.

In questo contesto, in modo non affatto dissimile a quanto avviene nelle società, la partecipazione del fondatore si misura in relazione alla propria quota sottoscritta. Tale nuova governance, ha reso la fondazione uno strumento nelle mani dei fondatori i cui amministratori, quando i fondatori non rivestano anche l’ufficio gestorio, sono mandatari dei primi.


10. “C’era una volta la fondazione”. L’erompere delle fondazioni partecipate

Alla luce di quanto sino ad ora detto, è possibile iniziare il presente paragrafo affermando che «c’era una volta» la fondazione [93]. L’istituto, infatti, sin dall’entrata in vigore del codice civile del 1942 ha subito notevoli mutamenti.

Se al tempo della codificazione civile le fondazioni erano caratterizzate dal “distacco” dell’ente dal fondatore e, dunque, dall’estraneità del fondatore dalla vita dell’ente, egli infatti non aveva alcun potere di sciogliere il consiglio di amministrazione della fondazione, né poteva riservarsi il potere di modificare l’atto costitutivo o lo statuto della fondazione [94], negli ultimi decenni si è assistito ad una metamorfosi dell’istituto che ha modificato i suoi tratti caratteristici disciplinati dal codice civile.

È venuto, infatti, sempre meno il distacco dell’ente dal fondatore; gli statuti sempre spesso riservano al fondatore (o ai fondatori) un potere di controllo sull’attività dell’ente. È divenuta una costante della prassi statutaria delle fondazioni la partecipazione diretta del fondatore o dei fondatori al consiglio di amministrazione, nonché il potere dei fondatori di eleggere in seno al consiglio di amministrazione i propri rappresentanti.

Si è assistito, quindi, a forme miste tra fondazioni e corporazioni (Hybridstiftung) che, invero, hanno avuto origine dalle fondazioni d’oltreoceano dove opera la c.d. Private Operating Foundation che si caratterizza per un rapporto diretto tra incidenza dell’apporto di capitale, quindi di controllo dell’ente, e rilevanza dell’apporto di lavoro. In tali tipi di fondazioni è presente, non solo un consiglio di amministrazione (o di gestione), ma anche un’assemblea di fondatori e soci sovventori.

Ancora, nel tempo, si è notato che la fondazione “tradizionale”, cui fa riferimento il codice civile, intesa come un complesso di beni destinati durevolmente al perseguimento di uno scopo di pubblica utilità (nulla più di una universitas bonorum), presenta alcune criticità. La fondazione non solo realizzerebbe un distacco definitivo del fondatore dal patrimonio conferito senza alcuna possibilità intromettersi nel governo dell’ente, ma sussisterebbe finanche il pericolo di una sopravvenuta insufficienza dei mezzi disponibili che potrebbe decretare lo scioglimento dell’ente.

Per far fronte a tali inconvenienze, la prassi notarile ha dato vita, combinando gli elementi della fondazione di erogazione e le strutture di partecipazione attiva ed organizzativa delle corporazioni, ad una contaminazione strutturale consistente nella “fondazione partecipata” che, in virtù dei suoi marcati tratti associativi, mutua diversi istituti propri dell’associazione: assemblea, organo amministrativo (oltre che organo di controllo), nonché l’esclusione e il recesso dei diversi partecipanti.

Il rinnovato modello fondazionale non può non essere letto alla luce di un chiasmo che ha coinvolto non solo le fondazioni, ma anche le società a responsabilità limitata e, in un secondo momento, le società per azioni.

Da un lato, l’approdo all’unipersonalità genetica nelle s.r.l. è stato frutto dell’imposizione europea rivolta a consentire lo svolgimento dell’attività d’impresa in condizioni di rischio limitato, dall’altro, gli ampi margini di manovra – tacitamente concessi dal codice civile che offre alle fondazioni una scarna disciplina – hanno svelato la possibilità per più fondatori, anche in momenti successivi nel tempo, di dare vita ad un ente beneficiando dell’autonomia patrimoniale perfetta e della possibilità di alimentare il fondo patrimoniale affinché perseguisse un’attività.

In questo contesto, sotto il profilo genetico (o meglio, con riguardo ai negozi di organizzazione) si è avvertito che mentre le società, ossia le corporazioni lucrative, ben possono costituirsi – come le fondazioni regolate dal codice civile – con atto unilaterale, le fondazioni partecipate si costituiscono, come le associazioni e le società, con contratto plurilaterale [95]. Sul punto, autorevole dottrina sostiene che «sull’impossibilità di riconoscere un contratto nell’atto plurilaterale costitutivo della fondazione ha, probabilmente, pesato il pregiudizio dell’immedesimazione tra contratto e fenomeno associativo; ma, ammessa oggi la costituzione della società per atto unilaterale, non dovrebbero esserci resistenze a concludere nel senso della contrattualità dell’atto plurilaterale istitutivo della fondazione» [96].

Quanto alla governance, la fondazione di partecipazione si caratterizza per il particolare rapporto gestorio tra assemblea ed amministrazione, non dissimile al modello dualistico delle società commerciali (artt. 2409 octies e ss. cod. civ.), nonché per la costante stabilità patrimoniale che rende maggiormente attuabile lo scopo dell’ente e permette l’incremento delle garanzie patrimoniali dei terzi e dei creditori dell’ente. In quest’ottica, la fondazione di partecipazione si è rilevato un ottimo strumento per far fronte a situazioni di sottopatrimonializzazione dell’ente.

Ebbene, nel solco della diffusione di nuove fondazioni operative (operating foundation[97], hanno fatto ingresso le fondazioni di partecipazione che, essendo caratterizzate da un’articolata organizzazione funzionale alla partecipazione attiva e alla gestione dell’ente da parte dei fondatori ed anche degli aderenti successivi, mettono in crisi gli indiscutibili elementi che distinguono le associazioni dalle fondazioni, due enti – questi – che oramai vedono sempre più ridotte le distanze.

Le fondazioni partecipate (o fondazioni di partecipazione [98]) sono enti fondazionali diversi da quelli regolati dal codice civile e non sono così distanti dalle associazioni [99]. Anzi, le fondazioni partecipate costituiscono un ibrido tra fondazione e associazione (Hybridstiftung) [100].

Lo schema di tale tipologia di fondazione involge forme partecipative e di controllo mutuate dalla disciplina delle associazioni che permettono una partecipazione attiva e diretta di soggetti pubblici e privati, volta al perseguimento di finalità statutarie non necessariamente limitate ad una mera erogazione di rendite [101].

Questa tipologia di fondazione, benché non sia stata nemmeno nominata dal legislatore, è contemplata dal codice del terzo settore (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, da ora, più brevemente, CTS) che fa riferimento, soprattutto alla luce degli artt. 23-26, «alle fondazioni (…) il cui statuto preveda la costituzione di un organo assembleare o di indirizzo». Il nuovo codice ammette, dunque, un modello fondazionale con una pluralità di organi atti a consentire la partecipazione attiva di tutti gli aderenti alla fase gestionale [102].

La fondazione di partecipazione non è nemmeno sfuggita all’esame dei giudici. Dapprima, essa è stata qualificata, dal Giudice Amministrativo [103], come un modello atipico di persona giuridica privata che sintetizza l’elemento personale, tipico delle associazioni, e l’elemento patrimoniale, caratteristico delle fondazioni. Successivamente, la Corte dei Conti [104] ha sostenuto che la fondazione di partecipazione rappresenta lo strumento attraverso cui un ente pubblico persegue uno scopo di utilità generale, nel tentativo di creare un connubio pubblico-privato e consentire d’usufruire di maggiori disponibilità finanziarie e di attività di management nella gestione dei servizi sociali, venendosi così a ridurre il rischio associato all’attività di produzione di servizi.

Una più recente pronuncia [105] ha evidenziato la natura ibrida e complessa della fondazione di partecipazione qualificandola come un modello di organizzazione sociale atipico che racchiude caratteri propri della fondazione e dell’associazione.

In particolare, nelle suddette decisioni, si evidenzia la struttura aperta della fondazione di partecipazione alla quale i soggetti possono senz’altro aderire ai sensi e per gli effetti dell’art. 1332 cod. civ. e dalla quale possono recedere ai sensi dell’art. 24, comma 2, cod. civ., fermo l’obbligo di adempiere alle obbligazioni certe ed esigibili al tempo del recesso con esclusione della ripetizione dei versamenti effettuati.


11. Forme di partecipazione e “patrimoni in cerca di uno scopo comune”

I soggetti delle fondazioni partecipate – persone fisiche o enti, pubblici o privati – sono riconducibili sostanzialmente a due categorie: i fondatori e i partecipanti.

Mentre i fondatori sono coloro che assumono l’iniziativa di costituire l’ente fondazionale, l’ammissione dei partecipanti sostenitori avviene solo a seguito di adesione ai sensi dell’art. 1332 cod. civ., quindi successivamente alla costituzione dell’ente [106].

L’atto costitutivo della fondazione di partecipazione, che assume la natura di contratto plurilaterale “aperto” – per la presenza di una clausola di adesione ex art. 1332 cod. civ. – è pur sempre accompagnato, oltre che dallo statuto (ai sensi e per gli effetti dell’art. 16 cod. civ.), anche da atti di dotazione, ossia da atti di disposizione patrimoniale accessori al contratto di fondazione con i quali i fondatori attribuiscono alla fondazione i mezzi necessari per il perseguimento dello scopo [107].

In particolare, il patrimonio delle fondazioni in esame si compone di una parte originaria, costituita per effetto degli atti di dotazione e in modo non dissimile alla costituzione del patrimonio della fondazione “tradizionale”, e una parte successiva, costituita da veri e propri contributi di chi, avvalendosi della clausola di apertura del contratto di fondazione di partecipazione, aderisce alla fondazione impegnandosi a contributi di denaro, annuali o pluriennali, che confluiscono in un fondo di gestione.

I partecipanti sostenitori, contribuiscono periodicamente alla costituzione e al successivo accrescimento del fondo di gestione impiegato per il funzionamento dell’ente e per finanziare ogni iniziativa necessaria per la realizzazione dei suoi scopi.

Alla luce di quanto descritto, posto che l’adeguatezza e la sufficienza patrimoniale rileva come condizione ai fini dell’acquisto della personalità giuridica (ai sensi dell’art. 1, comma 3, d.P.R. n. 361/2000), occorre ritenere che, nell’ipotesi di fondazione partecipata, l’adeguatezza patrimoniale non viene solo valutata al momento della sua costituzione, ma anche tenendo conto delle successive partecipazioni, posto che la formazione del patrimonio è aperta ad incrementi per effetto di adesioni successive da parte di soggetti ulteriori rispetto ai fondatori [108].


12. Gli organi della fondazione di partecipazione

Al progressivo abbandono del concetto di fondazione quale ente di mera erogazione (grantmaking foundation), si è giunti, trent’anni fa, a disciplinare le fondazioni bancarie [109] e vent’anni fa a disciplinare le fondazioni universitarie [110] e le fondazioni lirico-sinfoniche [111].

Ebbene, in modo non dissimile dalle citate tipologie di fondazioni (caratterizzate dalla presenza di organi distinti: organi di amministrazione, di indirizzo e di controllo) [112], le fondazioni di partecipazione sono contraddistinte anch’esse da forme di partecipazione e controllo mutuate dalla disciplina delle associazioni, al fine di garantire una partecipazione attiva dei soggetti pubblici e privati, diretta al perseguimento di finalità statutarie non limitate alla sola erogazione di somme di denaro.

Il recente Codice del Terzo settore (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117) ha disciplinato le competenze dell’assem­blea e dell’organo di amministrazione nelle fondazioni.

Il nuovo codice, pur mostrando una certa timidezza nell’utilizzo del termine “fondazione di partecipazione”, ha apertamente disciplinato il fenomeno delle fondazioni partecipate da più soggetti: fondatori, partecipanti e volontari. In presenza della molteplicità di partecipanti, lo statuto può prevedere e disciplinare le funzioni dell’organo assembleare il quale può esercitare gli specifici poteri attribuiti dallo statuto all’assemblea secondo le composizioni previste (a seconda che l’assemblea sia formata dai soli partecipanti sostenitori o dai fondatori) e secondo determinati quorum.

L’art. 24, comma 4, del codice del terzo settore, però, prevede che le disposizioni relative all’assemblea trovino applicazione nel solo caso in cui «lo statuto preveda la costituzione di un organo assembleare o di indirizzo, comunque denominato, in quanto compatibili ed ove non derogate dallo statuto». La norma chiarisce che l’organo assembleare, a differenza dell’organo amministrativo, è soltanto eventuale nelle fondazioni.

Ancora, l’art. 25 del Codice del Terzo settore disciplina le “competenze inderogabili dell’assemblea”, attribuendo alla stessa i poteri di nomina e revoca degli organi sociali, di promuovere l’azione di responsabilità nei confronti degli organi sociali; approvazione del bilancio; delibera sull’esclusione degli associati (se l’atto costitutivo o lo statuto non attribuiscono la relativa competenza ad altri organi da essa nominati).

Si ritiene, inoltre, che se da un lato l’assemblea può deliberare lo scioglimento e la trasformazione della fondazione; dall’altro lato, è attribuito un limitato potere di modificazione dell’atto costitutivo o dello statuto.

Infatti, anche alla luce dell’ultimo comma dell’art. 25 del codice del Terzo Settore che dispone che al­l’organo assembleare delle fondazioni possono essere attribuiti i summenzionati poteri «nei limiti in cui ciò sia compatibile con la natura dell’ente quale fondazione e nel rispetto della volontà del fondatore». Sicché, deve ritenersi che all’assemblea non è attribuito il potere di modificare lo scopo dell’ente in quanto risulterebbe leso il principio di stabilità e definitività della destinazione patrimoniale dell’ente [113].

In particolare, il codice del terzo settore, facendo salva «la natura dell’ente quale fondazione», non sottrae la disciplina dell’ente dal disegno del legislatore del 1942 che lo concepiva come un patrimonio destinato dalla volontà del fondatore (o dei fondatori) al perseguimento di uno scopo di pubblica utilità.

In questi termini, va sostenuto che l’autonomia statutaria, anche nel suo massimo grado di elasticità, non potrebbe mai cozzare con la tipicità dell’ente fondazionale che non contempla la dominanza dei propri organi fino a renderli arbitri dello scopo dell’ente così come non sarebbe nemmeno ammissibile che i fondatori, o un determinato fondatore, si riservino il diritto di disporre del patrimonio o dei risultati [114].

In questi termini, nonostante per la fondazione di partecipazione sussistano elementi tipici delle associazioni (mischformen), la dottrina prevalente esclude che si possano travalicare quei limiti che definiscono la natura dell’ente fondazionale [115]. Benché la fondazione di partecipazione si caratterizzi, come si è detto, per la struttura aperta del patrimonio di destinazione, potendo successivamente aderire, secondo regole fissate in sede di statuto, enti pubblici e soggetti privati apportando beni, denaro, servizi e lavoro, si ritiene che la disciplina applicabile sia comunque quella della fondazione e non quella dell’associazione. Con la conseguenza che lo scopo fissato al momento della costituzione dell’ente deve considerarsi immutabile.

Se, diversamente, l’ente prevede la presenza di organi collegiali (assemblee, consigli generali, comitati esecutivi, ecc.) dotati del potere di mutare anche soltanto in parte lo scopo della fondazione, si ricadrebbe inevitabilmente nell’ambito del fenomeno associativo.

Va, infatti, osservato che il modello dell’associazione è sufficientemente ampio da comprendere agevolmente ogni ipotesi in cui più persone gestiscono insieme un patrimonio per il perseguimento di un fine non lucrativo conservando la possibilità di modificare in tutto o in parte l’impegno originariamente assunto.


13. I contratti plurilaterali di fondazione

In relazione all’esercizio dell’autonomia privata che si esplica tra gli argini segnati dallo ius cogens che caratterizza la disciplina delle fondazioni (c.d. Idealtyplus [116]), va osservato che sussiste una evidente particolarità delle fondazioni partecipate: esse si costituiscono in virtù di un contratto aperto a successive adesioni.

La presenza di una clausola che permetta l’adesione di soggetti terzi al contratto originariamente stipulato tra le parti (fondatori) induce a qualificare lo stesso come contratto plurilaterale. In dottrina è comune la convinzione che ad avere carattere aperto (come dice la Relazione Ministeriale al codice n. 611: “contratti aperti all’adesione di altri”) è solo il contratto plurilaterale con comunione di scopo [117].

In particolare, il contratto di fondazione di partecipazione è caratterizzato, sotto il profilo causale, da uno scopo comune, definito al momento della sottoscrizione dell’atto costitutivo (negozio di organizzazione) da parte dei soci fondatori e immodificabile nel tempo (neppure da parte degli stessi fondatori), e dalla possibilità di future adesioni da parte di soggetti terzi (i quali possono essere sia soggetti pubblici che privati) che, nel condividere le finalità della fondazione, vi partecipano apportando beni mobili, immobili, denaro, oppure servizi. L’atto costitutivo di una fondazione di partecipazione si caratterizza per essere, a differenza dell’atto unilaterale della fondazione “tradizionale”, un contratto aperto destinato a rimanere immutato nel contenuto nonostante le future adesioni [118].

Non sono peraltro mancate voci contrarie, secondo cui si tratterebbe di un atto unilaterale a parte soggettivamente complessa [119].

Tale interpretazione, ad avviso di chi scrive, non poggerebbe su basi ben solide, perché sostenere che la fondazione di partecipazione possa essere costituita con atto unilaterale finirebbe per ammettere che la clausola di adesione ex art. 1332 cod. civ. possa essere inserita anche negli atti unilaterali.

Se è vero, infatti, che l’eventuale applicabilità della clausola ex art. 1332 cod. civ. possa essere mediata dall’art. 1324 cod. civ., è vero anche che non si rinvengono nel nostro ordinamento ipotesi di costituzione unilaterale di enti con successiva adesione di soggetti terzi. L’atto unilaterale non ammette, infatti, successive adesioni.

Tale ultimo assunto trova affermazione anche in tema di società che si costituiscono con atto unilaterale. Se da un lato, infatti, il rapporto contrattuale tra soci può instaurarsi nel corso della vita societaria; dall’altro lato, va osservato che la successiva costituzione della pluralità dei soci non può essere inquadrata nei termini dell’adesione del terzo ex art. 1332 cod. civ. e bisogna constatare che il rapporto contrattuale tra i soci scaturisce da un atto causalmente differente, come la vendita o la cessione ad altro titolo o l’aggiudicazione o assegnazione forzata o la divisione ereditaria di una partecipazione, o la sottoscrizione da parte di un terzo dell’aumento di capitale deliberato dall’unico socio [120].

In conclusione, uno degli aspetti principali del contratto di fondazione di partecipazione è proprio l’esi­stenza di una clausola di apertura a nuove adesioni (art. 1332 cod. civ.). L’apertura del contratto può permettere l’ingresso di partecipanti che conferiscono denaro, beni o servizi per l’esercizio di una comune attività di pubblica utilità.

Ebbene, non può essere discusso che un negozio contenente una clausola di apertura debba ritenersi un negozio plurilaterale, perché è solo il contratto plurilaterale che è funzionalmente esteso all’adesione altrui [121].

Peraltro, se da un lato alcuni autori ammettono l’applicabilità dell’art. 1332 cod. civ. ai contratti di scambio [122], dall’altro lato, sembra che nessuno mai abbia ammesso che un atto unilaterale possa contenere una clausola di apertura a successive adesioni [123].

In considerazione della natura aperta del negozio di fondazione di partecipazione, ovvero della possibilità di soggetti terzi “aventi uguale interesse” [124], deve ammettersi la sua natura di contratto plurilaterale, posto che tra i fondatori (contraenti originari) e terzi aderenti sussista una comunanza di interessi.

Come per i contratti associativi, si tratterebbe di un contratto aperto che resta immutato nel contenuto nonostante le future adesioni.

In quanto tale, il contratto è caratterizzato dalla variabilità delle parti sia in aumento, permettendo l’in­gresso di nuovi partecipanti, che in diminuzione, ammettendo il recesso o l’esclusione dei partecipanti senza che il contratto costitutivo della fondazione subisca mutazioni contenutistiche. Sicché, dopo l’adesione di ulteriori partecipanti, il contratto rimarrà immutato dal punto di vista oggettivo e semplicemente variato in aumento da un punto di vista soggettivo [125].

Oltre che essere aperto, il contratto di fondazione di partecipazione è – per di più – un contratto a comunione di scopo, laddove i fondatori e i successivi partecipanti uniscono insieme le proprie ricchezze e associano le proprie prestazioni per il raggiungimento di un medesimo scopo non lucrativo. Ogni contraente troverà soddisfazione dal risultato utile ottenuto attraverso l’attività esercitata per mezzo delle ricchezze e prestazioni accomunate.

Così qualificando il contratto plurilaterale della fondazione di partecipazione, la sua funzione –diversamente dalle esaminate fondazioni di erogazione – non si esaurisce con l’esecuzione delle obbligazioni, dotazioni e contributi, dei fondatori, che costituiscono solo la premessa per un’attività ulteriore che si sostanzia nella finalità del contratto e nello scopo dell’ente.

È ovvio, come si è detto, che l’interesse dei partecipanti – differentemente dalle società (funzionali ad un lucro soggettivo dei soci) – non ha natura patrimoniale, ma solo ideale ed esso non si realizza per effetto della prestazione, ma presuppone un ulteriore elemento, e precisamente lo svolgimento di un’attività in comune che, attraverso la prestazione delle parti, viene ad essere consentita [126]. In questo tipo di contratto, la soddisfazione dell’interesse (non patrimoniale) dipende dallo svolgimento in comune di un’attività.

In quest’ottica, il contratto di fondazione di partecipazione assume la natura di negozio di organizzazione, la cui esecuzione implica lo svolgimento, in forma organizzata, di un’attività, le modalità della quale sono determinate dai fondatori.

Nelle fondazioni di partecipazione, infatti, il rapporto tra l’elemento patrimoniale e l’elemento organizzativo si atteggia in modo differente rispetto alle fondazioni tradizionali. In queste ultime, il patrimonio assume un rilievo preponderante rispetto alla organizzazione, soprattutto se la fondazione si riduca ad un’attività di mera erogazione – di premi, borse di studio o, comunque, rendite del patrimonio – a favore dei destinatari finali [127].

Diversamente, nelle fondazioni di partecipazione, l’elemento organizzativo resta centrale. In tale ipotesi, il patrimonio assolve la funzione strumentale di consentire il funzionamento di una complessa organizzazione, l’attività della quale realizzerà lo scopo perseguito dai fondatori. Infatti, come si è notato, gli atti di disposizione patrimoniale dei diversi fondatori sono solo mediatamente diretti a realizzare lo scopo, perseguito in via diretta dall’organizzazione.

Che il contratto plurilaterale della fondazione di partecipazione sia un contratto con comunione di scopo e, in particolare, un contratto di organizzazione trova conferma negli effetti dallo stesso prodotti: la realizzazione di una fondazione-organizzazione. In particolare, il contratto disciplina una stabile organizzazione di persone e di attività, unitariamente collegata all’organizzazione di beni, che resta comunque elemento indefettibile di ogni fondazione.

Questa organizzazione di persone e attività ne costituisce l’elemento caratterizzante sul piano fattuale. Il patrimonio è reso dinamico da tale attività che è determinante sul piano della struttura e dell’operatività del­l’ente e il cui statuto si preoccupa di disciplinarla.


14. La comunione di scopo e la causa del contratto della fondazione di partecipazione

Come per tutti i contratti plurilaterali con comunione di scopo, anche il contratto della fondazione di partecipazione è sottoposto alla disciplina che il codice civile riserva ai contratti associativi [128].

Anche per le fondazioni di partecipazione, assume quindi rilevanza la particolare struttura contrattuale tipica dei contratti associativi, che renderebbe in astratto non essenziali le singole partecipazioni, atteso che, se nonostante il venir meno di una prestazione, le altre sono sufficienti a consentire lo svolgimento in comune dell’attività, la mancata prestazione non influisce sulla realizzabilità dell’interesse delle altre e quindi consente al contratto (e all’ente) di conservare la propria efficienza (a tale logica si ispirano le disposizioni di seguito citate).

Ebbene, anche il contratto di fondazione di partecipazione si sottopone alle medesime regole previste in tema di contratti plurilaterali.

In particolare, è noto che il codice civile, pur non offrendo una disciplina organica per i contratti plurilaterali, ha riservato ad essi la disciplina di alcuni profili patologici genetici o funzionali (in tema di nullità: art. 1420 cod. civ.; in tema di annullabilità: art. 1446 cod. civ.; in tema di risoluzione per inadempimento: art. 1459 cod. civ.; in tema di risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione: art. 1466 cod. civ.) in conformità del principio di «conservazione del contratto».

È vero anche che particolari problematiche sussistono in tema di fondazione che, essendo disciplinata come persona giuridica, pone problemi di invalidità o vizi negoziali che rileverebbero in epoca successiva al riconoscimento.

Se da un lato non può dubitarsi che l’invalidità o, comunque, le patologie del contratto di fondazione di partecipazione possano comunque determinare anche la revoca del riconoscimento e, quindi, l’estinzione dell’ente; dall’altro lato, occorre tenere ben distinti i profili negoziali e le vicende dell’ente.

Difatti, l’atto costitutivo della fondazione di partecipazione, in quanto atto plurilaterale con comunione di scopo, ben può presentare cause di invalidità e profili patologici così come tutti i contratti.

La questione, soprattutto quella della risoluzione del contratto, induce a trarre qualche considerazione sulla causa dei contratti con comunione di scopo. Non vi è dubbio, infatti, che proprio al cospetto del rimedio risolutorio è possibile “misurare” la causa di tali contratti [129]. La disciplina della risoluzione del contratto plurilaterale permette di ricercare la specifica “giustificazione” causale che si vuol attribuire al contributo del partecipante.

Non può, sotto quest’ultimo aspetto, essere sottaciuto che la dottrina ravvisa nel contratto a comunione di scopo opera un particolare “sinallagma” in cui rileva una particolare interdipendenza di interessi, la realizzazione dei quali è mediata dall’attività di organizzazione comune [130]. Il che sposta il discorso su un piano decisamente oggettivo: dire che il contratto non si scioglie se non quando la prestazione che viene a mancare è essenziale per il raggiungimento dello scopo comune, significa far dipendere lo scioglimento dal venir meno di un equilibrio contrattuale che è oggettivamente apprezzabile solo con riferimento primario allo scopo comune, mentre gli interessi delle parti sono relegati sullo sfondo.

In particolare, per i contratti plurilaterali, rileva una subordinazione dell’interesse individuale al programmato equilibrio economico del contratto allo scopo comune.

Proprio in tema di risoluzione dei contratti plurilaterali, la comunanza di scopo assume caratteri peculiari. La comunanza di scopo indica la modalità in virtù della quale l’interesse individuale di ciascun partecipante può essere soddisfatto all’interno di una struttura contrattuale comune.

In questi termini, va rilevato che la comunanza di scopo che colora la causa del contratto non è diretta solo a soddisfare interessi economici dei partecipanti, come nella società, ma anche interessi non economici e semplicemente ideali, come avviene per il contratto di fondazione di partecipazione e per il contratto associativo.

In altri termini, quando sussiste una comunanza di scopo, il bisogno individuale di un contraente consegue indirettamente, ossia in virtù del fatto che la propria opera o il proprio sacrificio patrimoniale contribuisce causalmente a perseguire lo scopo comune [131].

Aver disciplinato che l’inadempimento o l’impossibilità sopravvenuta della prestazione di una delle parti non importa la risoluzione del contratto rispetto alle altre, salvo che la prestazione mancata debba considerarsi essenziale, manifesta il peso che il legislatore ha voluto attribuire alla “comunione di scopo”: l’interesse di una parte non può realizzarsi senza che siano parimenti soddisfatti anche gli interessi degli altri partecipanti in quanto tutte le partecipazioni sono dirette ad un unico scopo, nel senso che realizzano l’interesse comune programmato [132]. In questa prospettiva, lo scopo comune si pone come strumento di misura, alternativo allo scambio sinallagmatico, della posizione delle parti rispetto all’interesse da ciascuna perseguito [133].

Non stonano, in questa sede, le osservazioni di un’autorevole dottrina che – sia pur attenzionando i contratti di società (d’altronde il contratto di società sembra essere la principale – ma non unica – nozione codicistica alla luce della quale si tenta di ricostruire la categoria dei contratti plurilaterali) – fa riferimento ad un particolare “sinallagma” [134] relativo ai contratti con comunione di scopo consistente in un rapporto, non tra le singole prestazioni dei vari contraenti, ma tra la prestazione di ciascun contraente e la realizzazione dello scopo comune: «contratto con comunione di scopo, o rapporto che ne discende, vengono meno, quando vengano meno il vincolo, o la prestazione, di una parte, che debba considerarsi (secondo le circostanze) essenziale per il conseguimento dello scopo comune. È il venir meno della realizzabilità dello scopo comune che fa venir meno il contratto o il rapporto, non – direttamente – il venir meno del vincolo o della prestazione della singola parte» [135].

Alla luce della “comunanza di scopo”, intesa nei termini di rapporto tra sacrificio patrimoniale e realizzazione degli interessi comuni, va notato che le regole della risoluzione, riguardando l’intero rapporto derivante dal contratto, attengono all’intero contratto e non alla singola partecipazione; sicché, rileva un diverso “sinallagma” consistente generalmente nello scambio tra la prestazione di ciascun contraente e la realizzazione dello scopo comune [136].

In questi termini, proprio in ragione della subordinazione dell’interesse individuale allo scopo comune, il legislatore, in tema di inadempimento e impossibilità sopravvenuta di una singola prestazione, prevede lo scioglimento della singola partecipazione e, solo nel caso in cui quest’ultima risulti essere essenziale, lo scioglimento dell’intero contratto plurilaterale.

In questi termini, nell’ottica di una fondazione operating, come la fondazione di partecipazione, l’essen­zialità di una prestazione va valutata non solo in relazione alle sue caratteristiche oggettive, ma anche in relazione alla natura del contratto e alle caratteristiche del singolo partecipante.

In particolare, va osservato che per valutare l’essenzialità della prestazione mancata o inadempiuta è necessario fare riferimento sia alla struttura contrattuale astratta, sia alla prestazione concretamente venuta a mancare [137].

Con riferimento alle fondazioni partecipate, va considerata essenziale la dotazione o la contribuzione che permette al patrimonio della fondazione di essere maggiore al limite legale (così come previsto dall’art. 21, co. IV, del Codice del terzo settore, che stabilisce che il patrimonio minimo, per le fondazioni, non sia inferiore a 30.000 euro) o che garantisca un patrimonio “adeguato” per lo scopo da realizzare (il che costituisce non solo condizione essenziale per l’acquisto della personalità giuridica ex art. 1, comma 3, d.P.R. n. 361/2000, ma eviterebbe che la fondazione possa essere dichiarata estinta o possa trasformarsi ex art. 28 cod. civ.), ma va anche considerata essenziale una particolare opera o servizio apportato da un partecipante “volontario” che si rilevi necessaria per il conseguimento dello scopo.


15. La sorte del contratto di fondazione e le vicende dell’ente

Come si è detto, la particolarità dei negozi costitutivi delle fondazioni, è che essi costituiscono negozi di organizzazione.

Per tale tipologia di negozi, in modo non dissimile a quel processo di “solidificazione” per cui l’acqua diventa ghiaccio, l’autonomia privata dà avvio ad un processo di “entificazione” in cui la regola negoziale rileva esclusivamente in una fase genetica, mentre le regole dell’organizzazione rilevano in una fase funzionale [138]. Ciò spiega perché la disciplina dei negozi di organizzazione va spesso contemperata con la disciplina propria dell’ente. Per tali ragioni, anche nell’ipotesi di contratti plurilaterali delle fondazioni di partecipazione, le relative regole negoziali vanno contemperate con tutte quelle norme che – lungi dal disciplinare il vincolo contrattuale – disciplinano le vicende dell’ente e la partecipazione dei soggetti.

Sotto questo specifico aspetto, nell’ottica di una dialettica tra comunione di scopo e fenomeno organizzativo, si percepisce la funzionalizzazione dello strumento contrattuale alla «realizzazione di interessi comuni a più soggetti» [139] e, in particolare, con il fenomeno associativo che, come si è notato, rileva anche in tema di fondazione partecipata.

Anche il contratto posto a base della fondazione di partecipazione è diretto a dar forma ad un’organiz­zazione di persone, ossia ad un gruppo caratterizzato da un fondo comune dotato del carattere di patrimonio autonomo, da una unitaria organizzazione interna e da una unitaria rappresentanza del “gruppo” nei rapporti esterni [140].

Come per tanti altri contratti plurilaterali a comunione di scopo, anche il contratto di fondazione di partecipazione viene concluso in funzione della creazione di un ente e, par tali ragioni, nemmeno il contratto in esame si sottrae al problema del fenomeno dell’organizzazione.

Proprio in ragione della costituzione di un ente e, più in particolare, di una persona giuridica (fondazione) che si costituisce successivamente con l’iscrizione in pubblici registri, l’aspetto contrattuale – proprio dell’atto costitutivo della fondazione di partecipazione – assumerebbe rilevanza solo nel momento genetico della fondazione, ossia quando il contratto è stato concluso, ma la persona giuridica non si è ancora costituita.

Sicché, venuta la fondazione ad esistenza, anche in questo caso, il substrato contrattuale – functus est munere suo – ha assolto la sua funzione; dopo di che «gli originari contraenti assumono la posizione di membri della persona giuridica» [141].

In questa prospettiva, si vuole ammettere che in relazione al contratto di fondazione di partecipazione, così come i più diffusi contratti a comunione di scopo (id est contratto di associazione e contratto di società), non troverebbero applicazione le norme codicistiche riservate ai contratti plurilaterali (artt. 1420, 1446, 1459 e 1466 cod. civ.), ma – una volta costituitasi la persona giuridica – particolari istituti che, pur regolando a volte le medesime fattispecie previste nella disciplina generale dei contratti, prevedono rimedi diversi che rispondono a logiche organizzative dell’ente anziché contrattuali.

La legge, infatti, pone l’accento sulla funzione strumentale del contratto alla realizzazione di un vincolo (di durata) tra i partecipanti in funzione dell’attività da svolgere: si creano poteri, diritti, obblighi, si disciplina – quindi – un gruppo organizzato [142].

In questi termini, l’ente acquista una propria autonomia e vitalità e il contratto assumerebbe una particolare funzione nella sola fase genetica che si esaurirebbe col creare l’ente stesso. Sicché, l’organizzazione, una volta costituita, ha regole proprie che non si riconducono al contratto. Scriveva, infatti, Lorenzo Mossa: «il contratto genera la personalità, ma questa, una volta fatta viva, si regola con le sue proprie leggi» [143].

Sicché, una volta acquistata la personalità giuridica, successivamente al riconoscimento della fondazione di partecipazione, può accadere che venga accertata l’invalidità del contratto di fondazione di partecipazione.

L’autorità giudiziaria, una volta accertata la nullità del contratto, provvederà, analogamente a quanto previsto dall’art. 2332 cod. civ., alla nomina dei liquidatori ed alla successiva estinzione dell’ente.

È noto, infatti, che l’art. 2332 cod. civ. prevede ipotesi tassative di nullità che opererebbero solo dopo che sia avvenuta l’iscrizione nel registro delle imprese della società di capitali [144], ma, come sostenuto da autorevolissima dottrina, la norma detta principi che assumerebbero valore per tutte le persone giuridiche [145].

In particolare, l’invalidità del negozio di fondazione di partecipazione è governata dai principi propri del contratto in genere. Ma esso, come si è detto, presenta la peculiarità di essere un contratto la cui esecuzione implica lo svolgimento di un’attività esterna diretta ad instaurare rapporti con i terzi (perciò è opportuno qualificarlo come “contratto di organizzazione”). Per tali ragioni, si avverte anche l’esigenza di salvaguardare e tutelare la posizione di chi, prima dell’accertamento dell’invalidità dell’atto costitutivo, abbia posto in essere rapporti con l’ente. Sicché anche al contratto di fondazione di partecipazione [146] deve ritenersi applicabile il principio ispiratore dell’art. 2332 cod. civ., per cui le cause di nullità negoziale, qualora travolgano totalmente il contratto (art. 1420 cod. civ.), si traducono, se accertate in epoca successiva al riconoscimento della fondazione, in cause di scioglimento del rapporto e di estinzione dell’ente [147].

Ancora, la specialità delle norme previste negli statuti delle fondazioni di partecipazione avrebbero rilievo anche in sede di risoluzione del contratto plurilaterale. In particolare, diversi statuti delle fondazioni di partecipazione attribuiscono al consiglio di amministrazione il potere di decidere, con voto favorevole dei membri della fondazione (quindi dei fondatori e di tutti i partecipanti), sulla esclusione di singoli fondatori e partecipanti. In ogni caso, si ritiene che l’esclusione, in modo non dissimile a quanto previsto dall’art. 24 cod. civ., non può avvenire che per “gravi motivi”, salva la possibilità per il singolo partecipante di ricorrere all’au­torità giudiziaria entro sei mesi dal giorno in cui gli è stata notificata la deliberazione (art. 24, comma 3, cod. civ.).

Occorre ora delineare i motivi gravi che possano giustificare l’esclusione del partecipante dall’ente di cui fa parte.

Chi scrive ritiene che per “gravi motivi” debba farsi riferimento agli stessi motivi che legittimano l’esclusione di un socio dalla società. Sicché, in modo non dissimile da quanto previsto dall’art. 2286 cod. civ. (richiamato, peraltro, anche dall’art. 2533 cod. civ. in tema di società cooperative), l’esclusione del partecipante può avere luogo per gravi inadempienze che derivano dalla legge o dal contratto.

Peraltro, l’istituto dell’esclusione, pur ricomprendendo anche le ipotesi di inadempimento contrattuale, si presenta molto più vasto in quanto considera anche cause che non sono tutte riconducibili ad inadempienze imputabili al partecipante [148].

L’esclusione potrebbe assorbire anche le ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione che – mentre per i contratti plurilaterali darebbero luogo (ai sensi dell’art. 1466 cod. civ.) ad una risoluzione parziale mantenendo in vita il contratto depurato dalla partecipazione colpita da una sopraggiunta impossibilità materiale o giuridica – per l’ente fondazione permettono appunto di escluderlo [149].

La disciplina della risoluzione per inadempimento è pertanto inapplicabile in tema di fondazioni di partecipazione, alle quali andrebbero applicati taluni istituti previsti in tema di associazioni, tra cui appunto l’esclusione del partecipante.

Per la fondazione di partecipazione sussistono rimedi specifici previsti dalla legge contro l’inadem­pimento dei soci e l’impossibilità sopravvenuta di contribuire, che non lasciano spazio all’applicazione dei rimedi risolutivi previsti dagli artt. 1453 ss. [150].

Parimenti, si ritiene che possa essere applicata per analogia anche alle fondazioni di partecipazione, la disciplina del recesso che il codice civile – art. 24, comma 2 – riserva alle associazioni [151].

Infatti, ammessa la natura contrattuale (plurilaterale) dell’atto costitutivo delle fondazioni di partecipazione, le parti possono recedere nei soli casi previsti dalla legge o dal contratto (siano essi soggetti privati ex art. 1373 cod. civ. o enti pubblici ex art. 21-sexies l. 7 agosto 1990, n. 241).

In diversi statuti di fondazioni di partecipazione, è stata rilevata l’assenza di una disciplina sul recesso da parte del singolo partecipante [152]. Tuttavia, nonostante le lacune statutarie, deve ritenersi applicabile (analogicamente) l’art. 24 cod. civ. nella parte in cui viene disciplinato il recesso, ancorché la fondazione sia stata costituita a tempo indeterminato.

In ragione di una generale intolleranza del legislatore a veder vincolati i soggetti a rapporti (anche solo tendenzialmente) perpetui, si ritiene che ogni contraente, in tal caso il fondatore può esercitare il recesso ai sensi dell’art. 24, comma 2, cod. civ.

Dovrebbe, quindi, ritenersi nullo ogni patto che imponga ai partecipanti dell’ente a rimanere nella fondazione a tempo indeterminato [153].


16. Riflessioni conclusive: l’autonomia privata ed elementi tipici delle fondazioni

All’esito di tale analisi, preme effettuare alcune può essere notato che la disciplina della fondazione è morfologicamente neutra e che, quindi, consente all’autonomia privata di esplicarsi nei limiti di elasticità tipologica concessi dalla legge, onde evitare che con lo sconfinamento associativo della Fondazione partecipata si possa incorrere in una ipotesi di abuso della forma giuridica [154].

La fondazione, benché partecipata da più soggetti e benché – sotto alcuni aspetti – sia molto meno distante dall’associazione, resta comunque un tipo normativo (Typuszwang) che, come tale, non ammette alcuna possibilità di alterazione di quei caratteri tipici che li distinguono dall’associazione [155].

Il “modello ideale” (Idealtypus) della fondazione è delineato da un contenuto precettivo minimo (Rechtsform) che si caratterizza per alcuni elementi base; anzitutto, quello patrimoniale al quale la volontà del fondatore imprime un vincolo di destinazione in funzione del perseguimento di uno scopo lecito e non lucrativo.

Ebbene, se è oramai ammesso che i fondatori amministrino direttamente l’ente e/o si riservino la facoltà di nominare gli amministratori, risultano essere incompatibile con il “tipo fondazione” qualsivoglia potere del fondatore di disporre del patrimonio e dei risultati da esso provenienti.

In particolare, il vincolo di destinazione è, poi, indisponibile: esso non può cessare né per volontà del fondatore, né per volontà dell’organo amministrativo e nemmeno per volontà dell’autorità (governativa) preposta al controllo finché è attuabile lo scopo. Tale caratteristica distingue l’associazione dalla fondazione.

Tali caratteristiche sono, peraltro, chiaramente riconosciuti dal codice del terzo settore che, facendo salva «la natura dell’ente quale fondazione» (art. 25 CTS), afferma l’immutabilità dello scopo: all’assemblea (o agli amministratori) non può attribuirsi il potere di disposizione dello scopo della fondazione. In questi termini, l’organo amministrativo della fondazione resta un organo “servente” posta la necessità del rispetto dello scopo al quale la fondazione è preordinata.

In conclusione, va affermato che il più importante elemento che distingue la fondazione e l’associazione è il potere riconosciuto ai soli membri dell’associazione, esercitato secondo la regola maggioritaria, di determinare e modificare lo scopo dell’ente (Zweckorientierung[156].

Nella fondazione il vincolo di destinazione è indisponibile: esso non può cessare né per volontà del fondatore, né per volontà dell’organo amministrativo e nemmeno per volontà dell’autorità (governativa) preposta al controllo finché è attuabile lo scopo.

Se, diversamente, la fondazione di partecipazione prevede la presenza di organi collegiali (assemblee, consigli generali, comitati esecutivi, ecc.) dotati del potere di mutare anche soltanto in parte lo scopo della fondazione, si ricadrebbe inevitabilmente nell’ambito del fenomeno associativo [157].


NOTE

[1] La prima definizione di fondazione risale ad A. Heise, Grundriss eines Systems des gemeinen Civilrecht, Heidelberg, 1907, 25, che la distingueva dalle associazioni. La distinzione in termini di contrapposizione tra la più antica figura dell’ente associativo, da un lato, e della fondazione, dall’altro, è il portato delle elaborazioni dottrinali della pandettistica tedesca. La prima teorizzazione in tali termini della distinzione tra enti associativi e fondazionali viene attribuita generalmente ad A. Heise, op. cit., sebbene il ricorso al concetto di universitas e la sistematizzazione della distinzione tra universitas bonorum e personarum, si devono compiutamente a G.F. Puchta, Corso delle Istituzioni, Napoli, 1854, II, 8 ss. Ciononostante il nostro codice non offre una definizione di fondazione. R. Senigaglia, voce Fondazione (I agg.), Dig. disc. priv., VII Aggiornamento, Torino, 2012, 514. Altrettanto accade per l’associazione. Non è priva di significato questa doppia assenza, specie per quanto interessa qui mettere in evidenza. Associazione e fondazione sono modelli legali che riproducono figure organizzative che hanno una tradizione plurisecolare. Anche per quanto subito si noterà a proposito dell’atteggiamento ideologico del legislatore del 1942 nei confronti di questi enti, è significativo che il legislatore non abbia sentito la necessità di fornirne una definizione normativa. La lacunosa disciplina delle fondazioni, frutto di una chiara avversione del legislatore verso tale tipo di ente, ha – da sempre – attratto la curiosità e l’attenzione degli studiosi. In argomento i contributi della dottrina sono molto numerosi. Oltre alle opere che verranno citate nel prosieguo, si vedano: A. Zoppini, M. Maltoni (a cura di), La nuova disciplina delle associazioni e delle fondazioni, in Quad. riv. dir. civ., Padova, 2007; F. Galgano, Delle persone giuridiche, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, II ed., 2006; C.M. Bianca, Diritto civile, 1, La norma giuridica. I soggetti, II ed., Milano, 2002, 339 ss.; G. Ponzanelli, Gli enti collettivi senza scopo di lucro, Torino, II ed., 2000; Id., Le “non profit organizations”, Milano, 1985; P. Rescigno, Persone e comunità, Saggi di diritto privato, II, (1967-1987), Padova, 1988; Id., voce Fondazione (diritto civile), in Enc. dir., XVII, Milano, 1968, 791 ss.; Id., Fondazione e impresa, in Riv. soc., 1967, 811 ss. G. Alpa, Le Fondazioni. Tradizione e modernità. Materiali raccolti da Guido Alpa, in Quaderni di diritto comparato, Padova, 1988; M.V. De Giorgi, Le persone giuridiche in generale. Le associazioni e le fondazioni, in Tratt. Rescigno, II.1, Torino, 1982, 193 ss.; Id., Scopo della fondazione e fondazione di famiglia, in Giur. it., 1980, I; Id., Fondazione di famiglia, in Riv. Dir. Civ., 1972, II; D. Vittoria, Le fondazioni culturali ed il consiglio di amministrazione. Evoluzione della prassi statutaria e prospettive della tecnica fondazionale, in Studi in onore di Leonardo Coviello, Napoli, 1978, 605 ss.; A. Barba, Associazione, fondazione e titolarità d’impresa, Napoli, 1996; V.M. Romanelli, Il negozio di fondazione nel diritto privato e nel diritto pubblico, I, Natura giuridica, Napoli, 1935; N. Rondinone, Il caso della fondazione «abusiva» d’impresa quale paradigma di applicazione della teoria dell’impresa agli enti del Libro I del codice civile, in Dir. fall., 2005, 6; A. Zoppini, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, Napoli, 1995; V. Scalisi, Le fondazioni: A) il negozio di fondazione. La distinzione tra associazioni e fondazioni e l’abuso della personalità giuridica, in Casi e Questioni di Diritto Privato, diretto da M. Bessone, I, 1993, 449.

[2] Anche l’attuale codice civile della Repubblica cinese, entrato in vigore il 1° gennaio 2021, offre una disciplina scarna dell’istituto (sul punto Diyu Xi, Codice civile della Repubblica Popolare Cinese, trad. it. di M. Huang, Pisa 2021, VI e VII). Con riferimento alla fondazione, differentemente dal codice civile italiano, il codice civile cinese la definisce come «persona giuridica (…) costituita con una dotazione di beni allo scopo di perseguire il benessere pubblico» (art. 92, comma 1, cod. civ. cin.). Nemmeno il codice civile cinese si mostra generoso nel disciplinare la fondazione presentando poche norme sulle persone giuridiche e circa quattro articoli in tema di fondazione. Anche il legislatore cinese, come quello italiano, ha operato la scelta di sottoporre la fondazione sotto l’egida dell’autorità governativa. Tale scelta – che si concretizza nella possibilità di chiedere l’annullamento della delibera dell’organo esecutivo (94 cod. civ. cin.) o di devolvere il patrimonio residuo ad altre persone giuridiche con identica finalità (art. 95 cod. civ. cin.) – si spiega proprio in ragione della pericolosità dell’istituto in grado di realizzare fenomeni del tutto eccezionali (nonché privilegiati) di sottrazione di complessi patrimoniali individuali dall’applicazione di regole comuni. Sicché anche nel codice civile cinese, il controllo pubblico si esplica sin dal momento della sua costituzione (art. 58 cod. civ. cin.) e poi per tutta la durata della fondazione, fino alla fase di liquidazione e scioglimento dell’ente.

[3] Al momento della redazione del code civil il ripudio dell’istituto ha trovato giustificazione e fondamento nell’ostilità del pensiero illuminista, che aveva identificato lo spirito corporativo illiberale dell’Ancien Régime nei corpi sociali intermedi, considerati elemento disgregante dell’unità statale e ostacolo al rapporto diretto tra cittadino e Stato. L’atomismo sociale, fatto proprio dalla dottrina fisiocratica e poi dalla codificazione borghese, è strettamente connesso sul piano della riflessione teorica al contratto sociale, cui partecipano gli individui come singoli e non i gruppi sociali.

[4] L’idea di fondazione, inoltre, restituirebbe un fenomeno di moltiplicazioni dei diritti sulle cose, a danno della esclusività e unicità del diritto di proprietà, il che si manifesterebbe in modo del tutto incompatibile col programma politico diretto a favorire e agevolare la circolazione nonché lo sfruttamento delle ricchezze. Da tale impostazione si ricava un ulteriore elemento di diffidenza verso le fondazioni qual era la minaccia ad uno dei cardini della politica economica del Code: il vincolo di destinazione contrasterebbe il dogma dell’unità del patrimonio inscindibilmente legato alla persona (il concetto di patrimonio quale proiezione della personalità del soggetto è frutto dell’elaborazione teorica di G. Aubry, G. Rau, Cours de droit civil français, d’aprés l’ouvrage de M. C.S. Zacharie, Paris, 1856-1858). Autori, come Aubry e Dana sostenevano che «il patrimonio è un diritto» che «trova il suo fondamento nella stessa personalità» del proprietario: in questa prospettiva, il soggetto non ha un diritto sul patrimonio, ma è un patrimonio, nel senso che esso stesso s’identifica con la vicenda patrimoniale che gli compete (Cours de droit civil français, cit., § 575).

[5] Sul sistema dei controlli è particolarmente interessante la lettura di G. Zanchi, Autorità e autonomia nelle fondazioni: i controlli gestori, in Riv. dir. priv., 2020, n. 3, 449 s.

[6] Si parlerebbe di “abuso della forma giuridica” ogniqualvolta emerga che il fondatore tragga un vantaggio patrimoniale diretto dalla gestione della fondazione, realizzandosi la violazione dell’obbligo di non distribuire utili, così come abusive possono indubbiamente essere le ingerenze del fondatore nell’amministrazione, tanto da sollecitare – in una logica inaccessibile a chi non prenda atto dei mutamenti intervenuti – il problema della “tutela” della fondazione dal soverchiante influsso del fondatore vivente. Cfr. A. Zoppini, Le fondazioni, cit., 68-69.

[7] Il progetto è consultabile su https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52012PC0035&from=EN. Proposta di Regolamento del Consiglio sullo statuto della fondazione europea (FE) /* COM/2012/035 final – 2012/0022 (APP) */. L’atto con cui il regolamento è stato ritirato risale al 07/03/2015: OJ C 80, 7.3.2015, 17-23. Tra gli studi che prepararono il terreno per la proposta: K. J. Hopt, W. R. Walz, T. von Hippel, V. Then (eds.), The European foundation: A new legal approach, Cambridge, 2006.

[8] F. Ferrara, Le persone giuridiche, in Tratt. Vassalli, Torino, II ed., 1956, con note di Ferrara jr., 66 e 67.

[9] Il modello fondazione è stato adottato sia per sperimentare forme di collaborazione pubblico-privato in settori di attività nei quali la gestione da parte dello Stato si era rivelata palesemente insufficiente, sia per esternalizzare e privatizzare ambiti di intervento, resisi necessari per far fronte alla contingente crisi economica. Come è avvenuto per le fondazioni bancarie di cui alla l. n. 218/90 ed al d.lgs. n. 153/1999; per le fondazioni di enti lirici di cui al d.lgs. n. 367/1996; per le fondazioni universitarie di cui alla l. n. 388/00 ed al d.P.R. n. 254/2001. In argomento: F. Merusi, La privatizzazione per fondazioni tra pubblico e privato, in Dir. amm., 2004, 447. Cfr. anche: M. Buquicchio, Le fondazioni nell’attuale assetto economico e giuridico del “terzo settore”, in Riv. not., 2013, 1031.

[10] La fondazione è, dai più, vista come modello neutro. Cfr. G. Zanchi, Interpretazione e ruolo della prassi nello statuto soggettivo della fondazione, in questa Rivista, 2017/6, 518. Non sono mancate istanze, in dottrina, dirette a rappresentare l’esigenza di un nuovo diritto delle fondazioni, deputato a disciplinare le nuove figure. In tal senso, per tutti: G. Ponzanelli, Gli enti collettivi senza scopo di lucro, in Giur. comm., I, 1995, 575 ss.; Id., Le fondazioni tra riforma del codice civile e legislazione speciale, in Riv. not., 1998, 641 e 645; P. Rescigno, Sulla riforma del diritto delle associazioni e delle fondazioni, in Vita not., 2005, 61 ss.

[11] La possibilità di esercitare l’attività di impresa ha una chiara risposta positiva soprattutto alla luce dell’entrata in vigore del d.lgs. 24 marzo 2006 n. 155 sul riconoscimento dell’impresa sociale. Sicché, anche nel codice del terzo settore restano degli elementi che li distinguono nettamente dalle società: assenza di un lucro soggettivo e assenza di un’attività economica a condizione che lo statuto non preveda l’esercizio di tale attività come del tutto marginale e strumentale per il perseguimento di una finalità civica, solidaristica e di utilità sociale.

[12] Quest’ultima disposizione resta, peraltro, fedele al divieto già previsto dal codice civile all’art. 24: gli associati, che abbiano receduto o siano stati esclusi dall’associazione, non possono ripetere i contributi versati e non possono vantare, comunque, diritti sul patrimonio dell’associazione. La regola della irripetibilità si spiega non solo alla luce della natura non economica degli interessi perseguiti dal singolo attraverso la partecipazione all’associazione, ma anche in ragione del fatto che il singolo partecipante non certo è comproprietario dei beni costituenti il “fondo comune”, che – invece – appartengono all’ente.

[13] Sul punto, si veda A. Nervi, In margine all’ipotesi di riformare la disciplina del codice civile in tema di associazioni e fondazioni, in Annali Sisdic, 5/2020, 127 ss.

[14] C. Castronovo, Il Codice civile italiano: significato storico e ideale, in Eur. dir. priv., 2019, 1183.

[15] Il progetto di legge è stato accompagnato da un vivace dibattito, alcune critiche sono state espresse già in sede di audizione parlamentare; si consultano sul sito del Bundestag: https://www.bundestag.de/dokumente/textarchiv/2021/kw18-pa-recht-stiftungszivi
lrecht-835690
.

[16] Aveva posto in luce, tra i primi, l’irriducibilità della fondazione allo schema della corporazione F. Savigny, Sistema del diritto romano attuale, trad. it., III, Torino 1900, 247-275. Ad un allievo del Savigny, G.F. Puchta, Corso di istituzioni, trad. it., Napoli, 1854, 8, è dovuta la più compiuta elaborazione di un concetto unitario di persona giuridica, idoneo a comprendere le specie dell’uni­versitas personarum e dell’universitas rerum. Tale distinzione è anche consolidata nella tradizione didattica universitaria, dove appare la distinzione tra “tipi” associativi e “tipi” istituzionali (o amministrativi), i primi connotati dalla pluralità di persone, i secondi dalla presenza di un patrimonio vincolato ad uno scopo di pubblica utilità.

[17] Nell’epoca intermedia mancava un’autonoma concezione delle fondazioni, esse venivano ricondotte al più ampio genere delle universitas, ma venivano concepite come associazioni formate dai destinatari della fondazione, ossia da coloro che beneficiano e traggono vantaggi dall’attività dell’ente: così si parlava degli ospedali come collegia miserabilium personarum xenodochiis degentium o dei monti di pietà come universitas pauperum, come riporta O. Von Gierke, Die Genossenschaftstheorie und die deutsche Rechtsprechung, Weidmann, 1887, 22 ss.

[18] Si attribuisce alle riflessioni di O. Von Gierke, Die Genossenschaftstheorie, cit., 22 ss. il merito di aver sottolineato l’essen­zialità dell’elemento organizzativo nella fondazione, pur mantenendo ben chiara la distinzione rispetto all’associazione proprio e sempre sul piano organizzativo, ove quest’ultima presenta la peculiarità dell’organo assembleare, mancante invece nel modello (organizzativo) della fondazione. La dottrina italiana ha raccolto questa sollecitazione anche al di là della condivisione della concezione organica di Gierke, riconoscendo il patrimonio come mezzo per il raggiungimento dello scopo statutario anche nel caso delle fondazioni: F. Ferrara sr., Teoria delle persone giuridiche, Napoli, 1923, 375 ss.

[19] Così, ma indipendentemente ormai dall’accoglimento della concezione organica, F. Ferrara sr., Le persone giuridiche, cit.

[20] Per definire il comune genere, del quale associazioni e fondazioni sono specie, si suole impiegare il concetto di “istituzione”, il quale designa ogni «ente o corpo sociale», ossia ogni rapporto fra più soggetti dal quale trae origine una «superstruttura sociale» (su questa terminologia si veda – con indifferenziato riferimento alle associazioni e alle fondazioni – Santi Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze 1945, 55 ss.). Si può anche impiegare il più recente concetto di “formazione sociale”, cioè di gruppo sociale intermedio tra l’individuo e la società generale. Sull’appartenenza delle fondazioni alle “formazioni sociali” di cui all’art. 2 Cost., vd. P. Rescigno, voce Fondazione, cit., nt. 2 e 3.

[21] Col termine “negozi di organizzazione” si intende fare riferimento a tutti quei negozi diretti a costituire un’organizzazione che si renderebbe autonoma e distinta rispetto al negozio stesso, acquistando soggettività giuridica (cfr., sul punto, M. Basile, A. Falzea, voce «Persona giuridica (dir. priv.)», in Enc. dir., Milano 1983, XXXIII, 234 ss., spec. 238; F. D’Alessandro, Persone giuridiche ed analisi del linguaggio, Milano, 1963, 40 ss.). I negozi di organizzazione sono diretti alla costituzione di un ente, sottoposto ad un processo di “soggettivazione”, quale tecnica e modello per meglio organizzare l’imputazione (A. Zoppini, Autonomia e separazione del patrimonio, nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, in Riv. dir. civ., 2002, I, 558). Ebbene, in modo non dissimile a quel processo di “solidificazione” per cui l’acqua diventa ghiaccio, anche per i negozi di organizzazione, l’autonomia privata dà avvio ad un processo di “entificazione” in cui la regola negoziale rileva esclusivamente in una fase genetica, mentre le regole dell’organizzazione rilevano in una fase funzionale. Ciò spiega perché la disciplina dei negozi di organizzazione va spesso contemperata con la disciplina propria dell’ente. Con riferimento ai negozi costituitivi di enti che acquisteranno personalità giuridica, rientrano nella categoria dei negozi di organizzazione sia gli atti unilaterali (come i negozi di fondazione oppure gli atti costitutivi di società unipersonali) che i contratti associativi e i contratti di società. Costituiscono, poi, parte integrante dei negozi in esame gli statuti che esprimono tutte le regole, dirette a disciplinarne la struttura, l’attività, gli scopi e le vicende, senza le quali l’ente non potrebbe operare. A connotare imprescindibilmente tali negozi è il momento organizzativo: la creazione di un ente o, in altri termini, di una organizzazione. Risulta, invece, molto più complicato definire l’organizzazione. Quest’ultima, come avverte Santi Romano (in L’ordina­mento giuridico, Roma 1946, 40), «non sarebbe un ente naturale, dotato di vita propria, ma un ente che servirebbe al raggiungimento di determinati scopi che verrebbe pensato o considerato come subbietto di diritto». Il raggiungimento di scopi e la relativa attività necessitano di regole negoziali. Le regole di fonte negoziale attribuiscono agli organi vitali dell’ente (es. assemblea e organo di gestione) funzioni sì differenti, ma complementari per la realizzazione di un medesimo risultato. Tale concetto di organizzazione, o meglio di “comunità organizzata”, non sfuggiva nemmeno ad Hans Kelsen (La dottrina pura del diritto, III ed., Torino 2021, 206-207), il quale individuava le comunità “organizzate” come quelle dotate di “organi” funzionanti: la comunità è organizzata quando in essa operano organi, ossia gli individui particolarmente qualificati che assolvono la loro funzione secondo le regole della divisione del lavoro. Può, quindi, essere osservato che i contratti, oltre che regolare scambi, permettono di creare e regolare autonomi gruppi di beni e persone, attribuendo loro la qualità di atteggiarsi come autonomi centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive. L’organizzazione, avente soggettività giuridica, è ancor più evidente se si pensa che la stessa si sovrappone (e, per certi aspetti, addirittura si contrappone) a chi abbia concluso il negozio, a chi vi partecipa o a chi la amministra. Anzi, l’organizzazione, proprio perché dotata di soggettività giuridica, può esigere l’adempimento degli impegni assunti dai partecipanti con il negozio di organizzazione ed esercita tutte le attività per le quali è stato costituito l’ente. Tali attività, invero, pur essendo esercitate da chi partecipi o gestisca l’ente, sono direttamente imputate allo stesso ente e di queste direttamente ne risponde (H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, cit., 236 s). Proprio in ragione del processo di entificazione provocato dai negozi in esame, la disciplina di questi ultimi spesso si confronta e si misura con la disciplina propria dell’ente.

[22] La fondazione può, a differenza dell’associazione, essere costituita da una sola persona; ma le differenze tra le due figure permangono anche nelle ipotesi in cui la fondazione sia costituita da più persone o, come accade allorché essa venga costituita, per pubblica sottoscrizione, da una moltitudine di persone. L’atto pubblico costitutivo di una fondazione, ai sensi dell’art. 14 cod. civ., avendo struttura di negozio unilaterale ed autonoma causa, consistente nella destinazione di beni per lo svolgimento in forma organizzata dello scopo statutario, non dà luogo ad un atto di donazione e non rientra, pertanto, fra gli atti per i quali è sempre necessaria la presenza di due testimoni, agli effetti dell’art. 48 della l. n. 89/1913, nella formulazione antecedente alla sostituzione operata dalla l. n. 246/2005 (Cass. civ., sez. II, 4 luglio 2017, n. 16409).

[23] Così Trib. Firenze, sez. spec. prop. industr. ed intell., ord. 16 giugno 2008. I beni, per effetto dell’atto di fondazione, non appartengono più alla persona del fondatore. I beni, come sottolineava efficacemente il Ferrara, sono «senza padrone (…) e la ragione sta nello scopo per cui il patrimonio sussiste» (F. Ferrara Sr., Teoria delle persone giuridiche, cit., 153-154). Ordunque, per effetto dell’atto di fondazione, i beni, non appartenendo più alla persona del fondatore, sono affidati ai gestori. Gli amministratori non gestiscono il patrimonio né per sé stessi né amministrano per alcun proprietario, individuo o associazione, ma amministrano per il vantaggio della fondazione. I gestori «sono chiamati alla carica per titoli e qualità diversi, non hanno uno scopo proprio da raggiungere, ma uno estraneo alla loro cerchia di interessi, di cui è loro imposta l’attuazione» (F. Ferrara Sr., Teoria delle persone giuridiche, cit., 379). L’amministratore si considera rappresentante dell’ente e servente i suoi interessi. In definitiva, è stato osservato che, al cospetto di una fondazione, si è in presenza di un patrimonio rispetto al quale nessun individuo, o nessuna serie di individui, occupa una posizione giuridica corrispondente al diritto di proprietà (così R. Costi, Fondazione e impresa, in Riv. dir. civ., 1968, 1, 8 ss., si veda anche S. Rodotà, Note critiche in tema di proprietà, in Riv. trim., 1960, 1311). Gli amministratori sono chiamati all’adempimento di un ufficio: essi sono “serventi” alla volontà del fondatore, essi possono, infatti, disporre dei beni della fondazione per il perseguimento del solo scopo assegnato dal fondatore. La proprietà-funzione si risolve nel potere di godimento e di uso dei beni per la realizzazione di uno scopo determinato dal fondatore. Ordunque, la facoltà di godimento è attribuita in funzione della possibilità di ricavare un reddito dal bene: la proprietà, cioè, si atteggia a fonte di acquisto, a titolo originario, di nuovi beni, e quindi di nuovi diritti di proprietà. Se, poi, si nota che nella fondazione, l’originario proprietario si sia spogliato dei propri “beni economici” per assoggettarli ad un vincolo di destinazione immutabile e perpetuo per il solo perseguimento di finalità di pubblica utilità, si nota una situazione del tutto differente. Il diritto di proprietà sui beni, formalmente, è di titolarità della persona giuridica (fondazione), che agisce per mezzo di chi ne abbia il potere di gestione. Il godimento dei beni e l’esercizio dell’attività di gestione degli stessi è diretta, differentemente dalla produzione e dalla divisione degli utili nelle società commerciali, alla produzione ed erogazione delle rendite patrimoniali a soggetti terzi (beneficiari). In questi termini, la fondazione, servendosi dell’opera dei suoi gestori, produce rendite che eroga e destina a favore di terzi. Lo schema non è differente dal comune concetto di proprietà: la fondazione proprietaria dei beni, acquista anche la proprietà dei relativi frutti che, per conseguire gli scopi espressi nell’atto di fondazione, vengono successivamente erogati a soggetti terzi. L’interesse che si persegue è l’interesse del fondatore che trova, peraltro, espressione nello scopo e nelle attività stabilite nell’atto di fondazione, mentre le rendite – cioè i frutti dell’attività – sono diretti a soggetti terzi beneficiari. Nella fondazione i beneficiari della gestione dell’ente, siano essi i destinatari o coloro che in qualche modo troveranno vantaggio economico o morale dall’opus realizzato dalla fondazione, non hanno alcun potere di gestione. La titolarità della proprietà, spettante alla fondazione ed esercitata dai suoi organi, attribuisce agli amministratori il potere di gestione dei beni della fondazione, ma non concede agli stessi i vantaggi (e gli svantaggi) che a tale gestione conseguono.

[24] Cfr. Cons. Stato 1° giugno 1960. Difatti, nella fondazione, il vincolo di destinazione non può cessare né per volontà del fondatore, né per deliberazione degli amministratori né, fino a quando lo scopo sia attuabile, per provvedimento dell’autorità governativa, mentre il vincolo associativo è sempre modificabile su deliberazione degli associati. La fondazione, rispetto alla quale manca una definizione positiva nel codice civile, rimanda all’idea, mossa dall’immagine romanistica dell’«universitas bonorum», di un complesso di beni destinati ad uno scopo. Alla luce della centralità dell’elemento patrimoniale si spiega il distacco dell’ente dal fondatore che non assume un ruolo dominante come quello assunto dagli associati all’interno dell’associazione.

[25] Tale terminologia è adoperata da F. Ferrara, Teoria delle persone giuridiche, in Il diritto civile italiano secondo la dottrina e la giurisprudenza, a cura di P. Fiore e continuato da B. Brugi, Napoli-Torino, 1915, 732 che afferma: «gli organi direttivi, nelle associazioni, sono dominanti, nelle fondazioni sono sottoposti alla volontà di chi ha costituito l’ente». Alla stregua di tale criterio distintivo è, persino, giustificata la necessità di una ingerenza dell’autorità governativa nell’attività della fondazione.

[26] Sulla “sovranità” dell’assemblea dei membri come connotato tipico dell’associazione vd. S. Pugliatti, Gli istituti del diritto civile, Milano 1943, 114 ss.

[27] Perciò, è associazione, e non fondazione «l’istituzione dotata di una assemblea dei soci, competente ad adottare i principali atti di indirizzo finanziario» (Cons. Stato 22 novembre 1995, in Cons. Stato, 1997, I, 1156). Diverso è il caso in cui lo statuto della fondazione preveda una assemblea, composta dai rappresentanti dei beneficiari della fondazione o di enti esponenziali della comunità locale o nazionale, dotata di poteri solo consultivi. Nel senso che «gli amministratori di una fondazione non possono devolvere le rendite a finalità diverse da quelle volute dal fondatore e consacrate nelle tavole di fondazione» (Cass. 19 ottobre 1964).

[28] La fondazione è espressione di autonomia privata e, per tale ragione, i poteri dell’autorità amministrativa, di cui all’art. 25 cod. civ., non possono spingersi fino al controllo del merito o al controllo sulla mera opportunità delle determinazioni o gestionale o di indirizzo. Il potere di vigilanza, consistendo in un controllo sulla legittimità dell’operato degli amministratori rispetto alla legge e all’atto di fondazione, deve essere funzionale alla salvaguardia dell’interesse interno e istituzionale dell’ente e cioè alla preservazione del vincolo di destinazione del patrimonio allo scopo voluto dal fondatore e a suo tempo considerato meritevole di separazione di responsabilità con l’atto di riconoscimento della fondazione.

[29] Medesima considerazione delle fondazioni andrebbe svolta anche per le fondazioni del Common law, laddove per fondazione (charitable foundation) si fa riferimento ad organizzazioni che non perseguono scopo di lucro oppure al già menzionato un charitable trust, ossia a un trust di beneficenza. Lo scopo di pubblica utilità caratterizza, ancora oggi, importanti fondazioni che operano nel tessuto economico e sociale del Nord Europa. Recentemente, per esempio, il Financial Times (si veda l’edizione del 21 giugno 2021) ha riportato che alcune fondazioni costituite dalle grandi imprese, dotate di ampissime disponibilità economiche (come Ikea e Rockeffeler), si sono impegnate per realizzare progetti di energia rinnovabile a beneficio di oltre un miliardo di persone residenti in India, Nigeria ed Etiopia.

[30] Così G. Zanchi, Interpretazione e ruolo, cit., 507.

[31] In questo contesto, tradizionalmente, è sempre stato negato al fondatore la possibilità di perseguire un fine esclusivamente egoistico, nemmeno attraverso la costituzione di una fondazione di famiglia (art. 28 cod. civ.). Per il dibattito in dottrina sullo scopo, si rinvia a: A.A. Carrabba, Destinazione, scopo e autonomia privata nelle fondazioni, in Riv. dir. priv., 2016, 35 ss.; Id., Lo scopo delle associazioni e delle fondazioni (art. 1, co. 3, D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 36), in Riv. not., 2001, 763 ss. La dottrina più risalente ha parlato di “entificazione” del vincolo di destinazione. In argomento, per tutti: F. Ferrara, La teoria della persona giuridica, in Riv. dir. civ., 1911, 659.

[32] R. Saleilles, Personnalité juridique. Histoire et theories, Parigi, 1922, 276. Significativa, in sede storica, è la circostanza che la proclamazione della libertà di associazione, fatta dagli illuministi quale diritto inviolabile dell’uomo, si accompagnò con un severo giudizio di condanna della fondazione: le ragioni di questo discriminante atteggiamento – che si trovano in di A.R.J. Turgot, Fondation, in Encyclopédie, VII, 235 ss. – si riportavano, appunto, alla considerazione che le forme giuridiche della fondazione comportano, a differenza di quelle dell’associazione, che un patrimonio venga in perpetuo sottratto alla circolazione.

[33] La connessione tra fedecommessi e fondazioni era presente anche nelle valutazioni della dottrina italiana tra la fine dell’Ot­tocento ed i primi del Novecento del secolo scorso: la legge prevedeva espressamente le fondazioni pubbliche (IPAB), mentre non disciplinava le fondazioni private. Si dubitava, infatti, che queste ultime potessero essere ricomprese nel divieto di sostituzione fidecommissaria.

[34] Per ampi riferimenti storici, si veda R. Saleilles, Personnalité juridique, cit., 259 ss.

[35] In altre parole, non si scioglieva il dubbio se, ferme restando le fondazioni di antica istituzione, fosse concesso crearne nuove. Lo avevano negato sul presupposto della nullità della fidecommissione: O. Luchini, C. Roselli, M. Pegna, Le istituzioni di beneficenza nella legislazione italiana, Firenze, 1894, 16.

[36] G. Giorgi, Dottrina delle persone giuridiche esposta con speciale considerazione del diritto moderno italiano, Firenze, 1913, vol. I, 477; S. D’Amelio, La beneficenza nel diritto italiano. Storia delle leggi. Testo delle leggi vigenti coordinate ed unificate. Glossa, Padova, 1931, 408 s.; V.M. Romanelli, Il negozio di fondazione nel diritto privato e nel diritto pubblico, Napoli, 1935, 50 s.

[37] Così V.M. Romanelli, Il negozio di fondazione, cit., 58.

[38] Così M. Talamanca, Delle successioni e delle donazioni, artt. 679-712, in Commentario cod. civ. Scialoja-Branca, a cura di Galgano, Roma-Bologna 1965, sub art. 699.

[39] Il riferimento è a F. Galgano, Le persone giuridiche, cit., 230.

[40] Esempio ripreso da F. Galgano, Le persone giuridiche, cit., 230.

[41] Sempre richiamata da F. Galgano, Le persone giuridiche, cit., 230-231.

[42] In tal caso si tratterebbe di distinguere tra il fenomeno della fondazione autonoma (diretta) dalla fondazione indiretta (o fiduciaria). Diversamente dalla fondazione oggetto d’esame, la fondazione indiretta non implicherebbe (come, diversamente, per la fonda-zione autonoma) l’istituzione di una nuova persona giuridica, ma si risolverebbe in una disposizione modale mediante la quale il fondatore trasferisce beni ad un soggetto preesistente, di regola una persona giuridica, con l’onere di impiegarli per il perseguimento di un determinato scopo. Le ragioni di tale distinzione consistono nel fatto che la fondazione non autonoma non ha una propria organizzazione, ma si avvale dell’organizzazione di un ente preesistente; mentre la fondazione autonoma ha propri amministratori che compongono un organo avente la funzione esclusiva di perseguire lo scopo della fondazione. Una ipotesi di fondazione indiretta è stata ravvisata nell’art. 32 cod. civ., in cui il legislatore, pur usando imprecisi termini come “donazioni” o “lasciti”, abbia voluto fare riferimento al vincolo reale che si costituisce sui beni donati o “lasciati”. In altre parole, il legislatore ha voluto fare riferimento alla figura della fondazione fiduciaria (così F. Galgano, Persone giuridiche, cit., 429). Il vincolo reale permane perfino nell’ipotesi di estinzione dell’ente posto che i beni sono devoluti, dall’autorità amministrativa e con il medesimo “onere”, ad altri enti che abbiano finalità analoghe a quello estinto. Il vincolo reale si riduce ad una sottrazione dei beni “con destinazione particolare” alla generale applicazione delle norme statutarie circa la devoluzione del patrimonio residuo dell’ente. La dottrina, in sede di esame dell’art. 32 cod. civ, ritiene che si faccia riferimento alle fondazioni non riconosciute e, in particolare, alle fondazioni fiduciarie in forza delle quali il fondatore trasferisce ad altri, per atto tra vivi o mortis causa, i beni e le attività che intende destinare ad uno scopo di pubblica utilità. Come è stato chiaramente avvertito (F. Galgano, Persone giuridiche, cit., 435), diventa quindi evidente come il “lascito” o la “donazione” sia in realtà un vero e proprio atto di fondazione. L’ente che riceve i beni amministra nient’altro che una fondazione che si distingue dalle altre fondazioni del codice per la particolarità che essa non è riconosciuta come persona giuridica, ma è amministrata da una persona giuridica. Alla sua qualificazione come fondazione conseguirà che il soggetto investito della proprietà (fiduciaria) del patrimonio non potrà disporne se non per realizzare lo scopo di fondazione e che su tale patrimonio non potranno soddisfarsi i suoi creditori personali; alla sua qualificazione come fondazione non riconosciuta si connetterà l’assenza del beneficio del-la responsabilità limitata: il gestore risponderà con tutto il suo patrimonio, e non solo con il patrimonio di fondazione, nei confronti di coloro che abbiano acquistato nei suoi confronti ragioni di credito in dipendenza dell’attività svolta per realizzare lo scopo della fondazione (F. Galgano, Persone giuridiche, cit., 436).

[43] S. D’Amelio, La beneficenza nel diritto italiano, cit., 414 ss.

[44] Non dissimile a tali prospettazioni è anche l’art. 335 del codice civile svizzero nella parte in cui dispone: «Ein Vermögen kann mit einer Familie dadurch verbunden werden, dass zur Bestreitung der Kosten der Erziehung, Ausstattung oder Unterstützung von Familienangehörigen oder zu ähnlichen Zwecken eine Familienstiftung nach den Regeln des Personenrechts oder des Erbrechts errichtet wird (1° co.). Die Errichtung von Familienfideikommissen ist nicht mehr gestattet (2° co)».

[45] In Giur. it., 1972, 556 s.

[46] Cass. 10 luglio 1979, n. 3969, in Giur. it., 1980, I, 866.

[47] Come ben sottolinea F. Ferrara, Teoria delle persone giuridiche, 670 il fidecommesso persegue «il movente aristocratico di continuare il lustro d’una famiglia mediante la conservazione d’un ricco patrimonio da godersi da uno dei membri», mentre la fondazione «si propone di prestare aiuto e soccorsi ai discendenti d’una data famiglia in caso di bisogno, per doti, per sussidio agli studiosi ecc.».

[48] Liermann, in Verhandlungen des vierundvierzigsten deutschen Juristentages, II, 60.

[49] Lopez Jacoiste, La fundación y su estructura a la luz de sus nuevas funciones, in Rev. Der. Priv., 1965, 580 s.

[50] P. Rescigno, Fondazione e impresa, in Riv. soc., 1967, 818.

[51] Tra gli ordinamenti non appartenenti ad una “civiltà giuridica affine” alla nostra, va annoverato quello del piccolo principato del Liechtenstein. Quest’ultimo possiede uno dei più monumentali codici (Personen- und Gesellschaftsrecht: PGR) dedicati alle persone giuridiche ed altre forme organizzative. Tale codice, che risale al 1926 (riformato poi nel 2009) prevalentemente opera di un avvocato locale (Wilhelm Bech), contempla una grandissima varietà di figure giuridiche, dotate o meno di personalità giuridica e destinate ad esercitare i più diversi tipi di attività. Tra i tanti enti, particolare importanza è assunta dall’Anstalt che, secondo il PGR, è una Verbandsperson, cioè una persona giuridica dotata di patrimonio autonomo. Quanto al substrato personale, l’Anstalt ha la possibilità di essere costituito da un solo fondatore, così come da una pluralità di soggetti (artt. 535-536). Corrispondentemente, vi può essere un organo assembleare, oppure l’organo supremo (oberste Organ) – così come avviene di solito – può identificarsi con il fondatore (Gründer), il quale assomma, allora, in sé tutti i poteri sull’Anstalt, ovvero può, ancora, assumere caratteri simili a quelli di una fondazione (ed in tal caso la modifica dello statuto spetta al giudice). Il capitale (Grundkapital) può essere fisso o variabile; indiviso, ovvero suddiviso in quote (Anteile) che possano eventualmente assumere anche la forma di titoli di credito (artt. 540-541). Di regola, delle obbligazioni dell’Anstalt risponde esclusivamente il patrimonio di questa: tuttavia ne possono rispondere (ma si tratta di responsabilità limitata), in quanto ciò sia previsto, anche i fondatori, i partecipanti, ed eventualmente anche terzi. Particolarità dell’Anstalt è lo scopo. L’art. 534 PGR dispone infatti che l’Anstalt può essere destinata «dauernden wirtschaftlichen oder anderen Zwecken»; c’è quindi spazio per l’esercizio di un’impresa commerciale, così come per scopi non economici. Tutti questi elementi possono risultare fra di loro variamente combinati, così che si può realizzare tutta una serie di ipotesi che, sotto un profilo tipologico, finiscono con l’apparire estremamente diverse l’una dall’altra. Si aggiunga che, se in certi casi si può avere un’autodestinazione degli utili e del patrimonio, in altri è possibile una loro eterodestinazione a favore di terzi beneficiari. Volendo, infine, comparare l’Anstalt con gli enti di diritto privato disciplinati dal codice civile italiano, si giungerebbe a pensare ad una fondazione per un’Anstalt uni-personale che persegue uno scopo ideale, o ad una società un’Anstalt a base pluripersonale, la quale svolge un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili fra i partecipanti. Ancora, il Codice civile olandese ha elaborato una propria versione di fondazione, o stichting, sulla cui base si è sviluppata in Olanda ed in Belgio la pratica dello stichiting administratiekantoor (Stak), particolarmente utile nel caso di una fondazione che controlla una partecipazione societaria. Lo Stak detiene una partecipazione di controllo in una società ed emette “certificati”, ossia titoli di credito ad essa legati, cosicché i pagamenti dei dividendi della società sono trasferiti direttamente ai detentori dei “certificati”. Si realizza così una separazione tra la proprietà e l’esercizio del diritto di voto in assemblea, che restano in capo alla fondazione ed al suo consiglio di amministrazione, ed il godimento, ossia la percezione dei dividendi, che sono attribuiti ai beneficiari nella loro qualità di titolari dei “certificati”. Ancora, differenti dal modello di fondazione come disciplinato dal codice civile italiano, sono le fondazioni dell’Europa settentrionale. Non va ignorato, infatti, che soprattutto nell’Europa settentrionale le partecipazioni delle più importanti società come Rolex, Victorinox, Sandoz, Ikea, Bosch, Lego e Carlsberg sono detenute da fondazioni. Si tratterebbe del fenomeno delle “shareholder foundation” e delle “holding foundation”, ossia di fondazioni o di gruppi formati da fondazioni e società che avrebbero interessi persino commerciali (Cfr. D. Bottge, Shareholder Foundations (Holding Foundations) in Switzerland. Overview from a legal perspective, in https://www.unige.ch/philanthropie/files/6215/5292/2768/
Shareholder_Foundations_Holding_Foundations_in_Switzerland.pdf.).
Uno sguardo comparatistico tra le fondazioni in Europa è offerto da H.K. Anheier, Foundations in Europe: a comparative perspective, in A. Schlüter, V. Then, P. Walkenhorst, Foundations in Europe, London, 2001, 35 ss. Sulle fondazioni e la charitable trust, tra i contributi italiani, si veda V. Bancone, Le organizzazioni non profit, Napoli, 2011, 181 e s.

[52] F. Galgano, Tratt. dir. civile, Padova, 2010, I, 277, n. 27.

[53] Così M. Graziadei, Le fondazioni di partecipazione nel prisma della comparazione, in Giur. it., 2021, 2502. Si tratta di un radicamento sociale della beneficenza che si inscriveva in un’idea di ordine universale, in cui lo Stato era inizialmente di là da venire. P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, III ed., Bari-Roma, 2017.

[54] G. Giorgi, La dottrina delle persone giuridiche o corpi morali, I, II ed., Firenze, 1899, 58, in nota.

[55] A. Zoppini, Le fondazioni, 54 ss. e 75.

[56] Ciò è stato possibile grazie all’affermazione del principio della neutralità delle forme giuridiche rispetto ai contenuti sostenuta da: P. Rescigno, Fondazione e impresa, cit., 832 ss. Sulla possibilità per le fondazioni di esercitare un’attività d’impresa, in dottrina, per tutti: R. Costi, Fondazione e impresa, in Riv. dir. civ., I, 1968, 11 ss.; G. Mariconda, A.A. Carrabba, Su alcuni profili di documentazione delle associazioni e fondazioni svolgenti attività commerciale, in AA.VV., Impresa e tecniche di documentazione giuridica, vol. I, 1990, Milano, 37 ss.; A. Zoppini, Enti senza scopo di lucro e attività economiche, in AA.VV., Fondazioni e associazioni. Proposte per una riforma del libro primo del codice civile, Rimini, 1995, 207 ss. Per la giurisprudenza: App. Venezia 20 luglio 2015, in Giur. comm., 2017, 140, con nota di Cavallaro, La fondazione come imprenditore commerciale e il fallimento; Cass. 27 maggio 2011, n. 11777, in Giur. it., 2012, 4, 786.

[57] La legge richiedendo che lo scopo dell’ente debba essere possibile e lecito, non avrebbe altro significato se non quello di chiarire in senso negativo il dubbio sulla persistenza del requisito di pubblica utilità dello scopo.

[58] M.V. De Giorgi, La scelta degli enti: riconoscimento civilistico e/o registrazione speciale?, ora in Enti del primo settore e del terzo settore, Pisa, 2021, 131.

[59] Non mancano autori indisponibili a questa apertura, giacché si evidenzia che il permanere intonso dell’art. 28 cod. civ., ove si prevede la trasformazione della fondazione in caso di sua “scarsa utilità”, dimostrerebbe la sopravvivenza del requisito di una qualche utilità socialmente necessaria dello scopo. Tale disposizione va però interpretata alla luce dell’art. 1 del d.P.R. n. 361/2000. In tal senso, «l’utilità che deve sussistere per evitare la trasformazione della fondazione, andrà riferita allo scopo lecito previsto dal fondatore, che può dissolversi nel tempo, venendo così a mancare le ragioni per tenere in vita l’ente, anziché collegarla alla necessità che lo scopo sia di pubblica utilità, quando la legge non lo impone affatto», così G. Sicchiero, Lo scopo delle fondazioni, in Giur. it., 2021, 11, 2517.

[60] Sullo scopo delle fondazioni e l’attività economica, si veda: A.A. Carrabba, Lo scopo delle associazioni e delle fondazioni (art. 1 co. 3 d.p.r. 10 febbraio 2000, n. 361), in Riv. not., 2001, 4; Id., Fondazione e impresa, in Fondazione e impresa, Atti del XXXV Congresso nazionale del Notariato, Stresa-Lago Maggiore 26-29 settembre 1996, Roma, 1996; G. Carraro, Questioni in tema di trasformazione eterogenea e pubblicità, in Giur. it., 2008, 3; R. Costi, Fondazione e impresa, in Riv. dir. civ., 1968, I.

[61] La dottrina, a tal proposito, parla di scopi “ego-altruistici” della fondazione, così D. Vittoria, Le fondazioni culturali ed il consiglio di amministrazione: evoluzione della prassi statutaria e prospettive della tecnica fondazionale, in Riv. dir. comm., 1975, 301 ss., ma in precedenza era stata già utilizzata, sia pure in un diverso contesto, da W. Bigiavi, La professionalità dell’imprenditore, Padova, 1948, 66. Nella stessa direzione G. Mariconda, A.A. Carrabba, Su alcuni profili di documentazione delle associazioni e fondazioni svolgenti attività commerciale, in AA.VV. Impresa e tecniche di documentazione giuridica, vol. I., Milano, 1990, 37 ss.; G. Marasà, Le società senza scopo di lucro, Milano, 1984, 178; A. Zoppini, Le fondazioni, cit., 55 ss.

[62] Peraltro, occorre notare che negli ultimi decenni si sono moltiplicate le ipotesi legislative di vincoli di destinazione patrimoniale (si pensi ai patrimoni destinati ad uno specifico affare ex art. 2447-bis cod. civ. e agli atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela ex art. 2645-ter cod. civ.), così come hanno passato il vaglio di compatibilità con l’ordinamento interno soluzioni negoziali provenienti da esperienze straniere (primo tra tutti il trust) o sulla cui ammissibilità erano state espresse perplessità (come nel caso delle intestazioni fiduciarie di beni o di quote sociali). Invero in alcuni di questi casi la destinazione patrimoniale è ammessa in funzione del raggiungimento di fini meritevoli di tutela, ma non in tutti i casi, come nel trust o nell’intestazione fiduciaria, e comunque i fini di tutela non sono qualificabili necessariamente a protezione di pubblici interessi.

[63] D. Vittoria, Le fondazioni, cit., 316 ss.; M.V. De Giorgi, Le persone, cit., 253 ss.; A. Fusaro, Fondazione, in Dig. disc. priv., VIII, Torino, 1992, 360.

[64] In Germania come in Italia, e a differenza di quel che rileva il modello della società pluralista americana, è stato a lungo dominante l’idea della istituzionale pertinenza allo Stato delle attività e dei compiti che la fondazione privata, tradizionalmente, cerca di avocare a sé e di esercitare in piena libertà ed autonomia. Per questo motivo si è predisposta, sulle fondazioni di diritto privato, una serie di controlli del potere pubblico, che vanno dal momento della costituzione a quello dello scioglimento e della devoluzione dei beni. Come si è detto, vi è sostanziale identità delle discipline contenute nei rispettivi codici civili, il BGB tedesco del 1900 e il codice civile italiano del 1942; a quest’ultimo sono rimaste estranee esperienze legislative posteriori al codice tedesco e di ispirazione chiaramente più liberale, come, per esempio, quella del codice svizzero. Quest’ultimo prevede per le persone giuridiche private un sistema di registrazioni, a richiesta di parte, ai soli fini di pubblicità, e non già per provocare, come avviene invece in Germania e in Italia, controlli di legalità e di merito sulla vita dell’ente da parte dell’autorità governativa.

[65] P. Rescigno, Fondazione e impresa, in Società, 1967, 813.

[66] Sul punto si veda F. Galgano, Persone giuridiche, cit., 234.

[67] Così Cass. 11 settembre 1997 (in Mass. Foro it., 1997, n. 8963).

[68] L’art. 2082 cod. civ. nel definire l’imprenditore, descrive l’impresa come attività oggettivamente considerata. In punto di qualificazione si registrano tesi contrastanti in tema di impresa: la dottrina privatistica colloca l’impresa nell’area del diritto soggettivo volgendo l’attenzione al fenomeno di concreta utilizzazione dei beni ai fini della produzione; gran parte della dottrina commercialistica, al contrario, accogliendo la nozione economica di impresa, intesa come attività di intermediazione del mercato, inquadra la fattispecie nell’area dell’atto giuridico in senso stretto argomentando sulla base delle norme in materia di capacità. Ad ogni modo, la fattispecie delineata dall’art. 2082 cod. civ., definisce l’impresa come attività economica: complesso di atti unificati dalla comune destinazione ad un risultato. Con riferimento al carattere di economicità dell’attività economica costituisca sinonimo di attività di produzione e individua nello scopo di lucro oggettivo un ulteriore requisito idoneo ad identificare l’impresa. Si ritiene che l’attività di impresa debba essere svolta secondo modalità astrattamente lucrative, non rilevando che in concreto il profitto venga effettivamente conseguito. Secondo una concezione più attuale, l’economicità dell’attività non deve essere intesa come risultato, quanto con riferimento al metodo: per essere economica, l’attività deve svolgersi in modo che i costi siano coperti dai ricavi.

[69] Non va infatti sottaciuto che l’accostamento del concetto di iniziativa economica a quello di “utilità sociale” e di “fine sociale” è peraltro contenuto, come è noto, nella Carta Costituzionale: per l’art. 41 Cost. «l’iniziativa economica privata è libera (1° co.). Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (2° co.). La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (3° co.)».

[70] Si veda S. de Gotzen, G. Iorio, sub art. 28, in Comm. Gabrielli al codice civile, Delle persone, a cura di A. Barba, Pagliantini, Torino, 2014, 274 e s.

[71] Sul punto si vd. G. Iorio, Le trasformazioni eterogenee e le fondazioni, Milano, 2010, 89 ss.

[72] S. de Gotzen, G. Iorio, sub art. 28, cit., 27-278.

[73] Sulla neutralità della fattispecie di impresa e gli enti del terzo settore, si vd. G. Marasà, L’imprenditore. Artt. 2082-2083, in Comm. Schlesinger, Milano, 2021, 20 ss.

[74] Cons. Stato 12 dicembre 1961, n. 2186, in Cons. Stato, 1963, 1, 656.

[75] Ricorre sovente in dottrina l’assimilazione della fondazione che eserciti un’impresa con gli enti pubblici economici. Autorevole dottrina (P. Rescigno, voce Fondazione, cit., 812), infatti, considera in maniera incidentale il tema della fondazione che eserciti un’impresa: di solito (e lo stesso accade per le associazioni) è il tema degli enti pubblici-imprenditori a sollecitare un accenno alle fondazioni, poiché gli uni, gli enti pubblici, e le altre le fondazioni, presenterebbero l’elemento comune, quando esercitano una impresa, di un’attività lucrativa per fini altruistici. Sulla via di tale assimilazione agli enti pubblici economici, la fondazione d’impresa (la fondazione che esaurisce nell’esercizio dell’impresa i suoi fini e le sue attività) è soggetta all’obbligo d’iscrizione nel registro delle imprese, al pari degli enti pubblici «che hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale» (art. 2201 cod. civ.). La conseguenza pratica è l’integrale applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, senza che possano valere per la fondazione le eccezioni testualmente previste (art. 2221 cod. civ.) per gli enti pubblici.

[76] Cass. 21 ottobre 2020 n. 22955, in Giur. it., 2021, 888. Tale orientamento è criticato da Bonfante, Associazioni, nuove imprenditorialità e fallimento. Un nodo da sciogliere, in Giur. it., 2021, 892.

[77] La questione, ordunque, avrebbe risvolti particolari anche in tema di fallimento. In particolare, con l’estinzione della fondazione si apre una fase di liquidazione (artt. 11 ss. disp. att. cod. civ.), in cui vengono nominati uno più commissari liquidatori (art. 11, comma 1, disp. att. cod. civ.), i quali, non appena investiti dell’incarico, devono valutare, attraverso la redazione di un apposito inventario (art. 13, comma 1, disp. att. cod. civ.), se l’attivo disponibile è sufficiente a pagare il passivo in essere (art. 14, comma 1, disp. att. cod. civ.). All’esito di questa valutazione, se emerge un’eccedenza delle attività rispetto alle passività, i liquidatori procederanno ad una liquidazione ordinaria, che si sostanzia in una trasformazione delle attività (beni e crediti) in denaro e nella conseguente definizione delle passività. Se, diversamente, emerge l’insufficienza delle risorse patrimoniali rispetto ad un regolare adempimento degli impegni assunti, si otterrà la certezza dello stato di insolvenza dell’ente. In tal caso, i liquidatori dovranno procedere con modalità differenti rispetto alla liquidazione ordinaria, ossia con modalità che assicurino il soddisfacimento delle obbligazioni pendenti nel pieno rispetto della par condicio creditorum. Al riguardo, il dato normativo prescrive ai liquidatori di sollecitare l’apertura della c.d. liquidazione generale (art. 14, comma 1, disp. att. cod. civ.), che si sostanzia nell’applicare alla liquidazione ordinaria alcune regole previste per la procedura concorsuale di liquidazione coatta amministrativa (art. 16 disp. att. cod. civ.): il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali (art. 201 l. fall., che rinvia agli artt. 55 ss. l. fall.), sostituendole con i precetti su cui riposa la giustizia distributiva in punto di modalità di realizzazione dell’attivo (art. 210 l. fall.) e la distribuzione delle somme realizzate secondo le priorità sancite dall’art. 111 l. fall. (richiamata dall’art. 212 l. fall.).

[78] L’autonomia giuridica della fondazione holding rispetto alle fondazioni da essa finanziate fa sì che la prima si presenti come una fondazione priva, in sé considerata, di uno scopo rientrante fra quelli perseguibili nelle forme giuridiche della fondazione: essa agisce per ricavare rendite da un patrimonio o, addirittura, per ritrarre utili dall’esercizio di un’impresa; mentre le forme giuridiche della fondazione sono, nel nostro sistema, utilizzabili solo per il perseguimento di pubblica utilità.

[79] La tesi sembra oggi prevalere: v. ad es. la ricostruzione di G. Dinacci, Lo scopo dell’associazione e della fondazione, in Comm. Gabrielli al codice civile, Delle persone, a cura di Barba, Pagliantini, sub art. 16 cod. civ., Torino, 2014, 96 ss., 107 ss.

[80] Sull’Anstalt, si veda A. Borgioli, voce Anstalt, in Digesto comm., I, Torino, 1997. In particolare, il piccolo principato del Liechtenstein possiede uno dei più monumentali codici (Personen-und Gesellschaftsrecht: PGR) dedicati alle persone giuridiche ed altre forme organizzative. Tale codice, che risale al 1926 ed è prevalentemente opera di un avvocato locale (Wilhelm Bech), contempla una grandissima varietà di figure giuridiche, dotate o meno di personalità giuridica e destinate ad esercitare i più diversi tipi di attività. Tra i tanti enti, particolare importanza è assunta dall’Anstalt che, secondo il PGR, è una Verbandsperson, cioè una persona giuridica dotata di patrimonio autonomo. Quanto al substrato personale, l’Anstalt ha la possibilità di essere costituito da un solo fondatore, così come da una pluralità di soggetti (artt. 535-536). Corrispondentemente, vi può essere un organo assembleare, oppure l’organo supremo (oberste Organ) – così come avviene di solito – può identificarsi con il fondatore (Gründer), il quale assomma, allora, in sé tutti i poteri sull’Anstalt, ovvero può, ancora, assumere caratteri simili a quelli di una fondazione (ed in tal caso la modifica dello statuto spetta al giudice). Il capitale (Grundkapital) può essere fisso o variabile; indiviso, ovvero suddiviso in quote (Anteile) che possano eventualmente assumere anche la forma di titoli di credito (artt. 540-541). Di regola, delle obbligazioni dell’Anstalt risponde esclusivamente il patrimonio di questa: tuttavia ne possono rispondere (ma si tratta di responsabilità limitata), in quanto ciò sia previsto, anche i fondatori, i partecipanti, ed eventualmente anche terzi. Particolarità dell’Anstalt è lo scopo. L’art. 534 PGR dispone infatti che l’Anstalt può essere destinata «dauernden wirtschaftlichen oder anderen Zwecken»; c’è quindi spazio per l’esercizio di un’impresa commerciale, così come per scopi non economici. Tutti questi elementi possono risultare fra di loro variamente combinati, così che si può realizzare tutta una serie di ipotesi che, sotto un profilo tipologico, finiscono con l’apparire estremamente diverse l’una dall’altra. Si aggiunga che, se in certi casi si può avere un’autodestinazione degli utili e del patrimonio, in altri è possibile una loro eterodestinazione a favore di terzi beneficiari. Volendo, infine, comparare l’Anstalt con gli enti di diritto privato disciplinati dal codice civile, si giungerebbe a pensare ad una fondazione per un’Anstalt uni-personale che persegue uno scopo ideale, o ad una società un’Anstalt a base pluripersonale, la quale svolge un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili fra i partecipanti.

[81] Così G. Scalfi, I c.d. rapporti interni nelle società con un solo socio e la successione dell’unico azionista, in Riv. dir. comm., 1950, II, 56. Non a caso, illustre dottrina ha suggestivamente parlato della società capitalistica unipersonale come di una “fondazione lucrativa”: G. Oppo, Le grandi opzioni della riforma e le società per azioni, in Riv. dir. civ., 2003, I, 473, e già, in precedenza, Id., Società, contratto, responsabilità (a proposito della nuova società a responsabilità limitata), ivi, 1993, II, 187.

[82] P. Rescigno, Fondazione e impresa, in Società, 1967, 813; R. Costi, Fondazione e impresa, in Riv. dir. civ., I, 1968, 11 ss.

[83] D. Vittoria, Le fondazioni culturali ed il consiglio di amministrazione: evoluzione della prassi statutaria e prospettive della tecnica fondazionale, in Riv. dir. comm., 1975, 301 ss.

[84] Invero la distinzione tra le due tipologie di fondazione ha avuto piede dall’esperienza delle private foundations americane. Tra le private foundations rientrano le fondazioni indipendenti, le fondazioni di impresa e le fondazioni operative, mentre nella categoria delle public foundations rientrano le community fondation. Di norma le fondazioni private sono costituite da fondatori individuali o famiglie oppure da imprese a scopo di lucro. Il fondatore nomina l’organo amministrativo che determina il modo in cui le risorse devono essere impiegate per il raggiungimento di attività istituzionali; peraltro al fondatore la legislazione statunitense riconosce (diversamente da quella italiana) ampi poteri di intervento sulla private foundation nonché di controllo nella selezione dei beneficiari delle erogazioni. Per public foundation, invece, s’intende un tipo di fondazione i cui patrimonio è creato da un numero molto elevato di individui e alla cui amministrazione partecipa un numero cospicuo di cittadini. Le public foundations sono caratterizzate da una rilevante partecipazione della cittadinanza (community foundation) sia ai fini delle dotazioni patrimoniali che ai fini dell’amministrazione. Generalmente nei paesi di Common Law, le finalità benefiche possono essere perseguite oltre che col charitable trust, anche con la foundation (uno sguardo comparatistico tra le fondazioni in Europa è offerto da H.K. Anheier, Foundations in Europe: a comparative perspective, in A. Schlüter, V. Then, P. Walkenhorst, Foundations in Europe, London, 2001, 35 ss. Sulle fondazioni e la charitable trust, tra i contributi italiani, si veda V. Bancone, Le organizzazioni non profit, Napoli, 2011, 181 s.). Nel Regno Unito e in Irlanda il vocabolo “foundation”, pur correntemente utilizzato, non ha infatti una precisa valenza giuridica. La disciplina predisposta per enti che corrispondono funzionalmente alle fondazioni orientate al perseguimento di finalità benefiche per il pubblico è di carattere trasversale, ed è riconducibile alla multiforme nozione di charity, la quale abbraccia istituti aventi struttura diversa: dal trust, all’associazione con o priva di personalità giuridica (unincorporated association e la incorporated association), alla company limited by guarantee, alla nuova figura giuridica munita di personalità giuridica, introdotta nel diritto inglese dal 2013, la Charitable Incorporated Organisation. Il discorso non muta nemmeno per le fondazioni nordamericane, le quali sono normalmente costituite nella forma del trust, ovvero come corporations; è in realtà il diritto fiscale ad utilizzare la nozione di “foundation”; nuovamente si tratta di un approccio funzionale, senza riferimento univoco ad una precisa forma organizzativa. In particolare, negli States, ai fini fiscali, si distinguono – tra le private foundations – le “operating foundations” dalle “grant-making foundations”. Le fondazioni operative (operating foundations) utilizzano le loro dotazioni per raggiungere direttamente i propri obiettivi, mentre le grant-making foundations, utilizzano la loro dotazione per concedere sovvenzioni ad altre organizzazioni. Queste ultime sono sì finanziate dalla grant-making foundation, ma debbono effettuare le attività e raggiungere gli scopi predisposti dallo statuto della grant-making foundation. Sicché, negli States, per grant-making foundation, si fa riferimento a quel tipo di fondazione che, finanziando altri soggetti, persegue indirettamente gli scopi statutari. Tali fondazioni, come la Ford Foundation e la Rockefeller Foundation, non partecipano direttamente alle attività, ma si limitano a finanziare altri soggetti o enti. Le Grant-Making foundation americane presentavano caratteri differenti rispetto alla fondazione come disciplinata dal codice civile italiano. Le indipendent foundation statunitensi, infatti, potevano essere amministrate direttamente dal fondatore o dai membri della sua famiglia (family foundation). Le decisioni venivano assunte dall’organo amministrativo che in genere include i fondatori, o i membri delle famiglie dei fondatori, oppure gli “associati” del fondo che hanno contribuito alle attività della fondazione. Le corporate foundations, ossia le fondazioni create da società commerciali che svolgono la propria attività di utilità sociale e che hanno il fine di promuovere l’immagine e l’attività dell’impresa fondatrice. Si tratterebbe di un nuovo modo per le società di ottenere un ritorno di immagine anche al di fuori del settore di mercato in cui operano. Le corporate foundation sono amministrate dai medesimi gestori dell’impresa fondatrice. Per quanto attiene alle operating foundations, si tratta di fondazioni costituite con la finalità di svolgere una o più attività con scopo di utilità sociale, abbinando talvolta ai fondi ottenuti con l’investimento del patrimonio a disposizione, altri fondi raccolti da enti pubblici e privati. Tali organizzazioni, anziché finanziare soggetti diversi dalla fondazione, provvedono direttamente alla realizzazione di tutti gli scopi della fondazione. In ogni caso non è esclusa alle operating foundations la possibilità di erogare contributi a soggetti terzi.

[85] P. Rescigno, voce Fondazione, cit., 809.

[86] Sin dagli anni Cinquanta vennero costituite diverse come la fondazione Della Rocca (istituita nel 1954 da un gruppo di amici dell’ingegnere Della Rocca per ricordarne la memoria: il movente individualistico dell’atto di costituzione consente di collocare fondazioni come queste nel tipico momento di trapasso dell’istituto dal passato al presente); la fondazione Giulio Pastore; la Olivetti; la Pirelli; le fondazioni Einaudi di Roma e di Torino, ecc.

[87] Ne dà ampia e completa disamina D. Vittoria, Le fondazioni culturali ed il consiglio di amministrazione, cit.

[88] Significativo era l’art. 3 dello Statuto Rui: «Sono fondatori coloro che concorrono alla costituzione e coloro che cooperano allo sviluppo della Fondazione con la loro opera e con una elargizione di almeno due milioni di lire. Sono sostenitori coloro che contribuiscono con una elargizione non inferiore a centomila lire; analogamente v. anche art. 7 statuto Fondazione Einaudi di Roma ed altre.

[89] L’espressione capitale, il cui uso era limitato al solo diritto delle società e della impresa, ritornava con sempre maggiore insistenza nella prassi statutaria delle più importanti fondazioni “culturali” del Novecento, che preferivano usare il termine “capitale” in luogo di “patrimonio”. L’art. 9 dello statuto della Fondazione Einaudi di Roma disponeva: tutti coloro che hanno diritto ad intervenire all’assemblea dispongono di un voto per ogni L. 100.000 di capitale versato. I quorum costitutivi e deliberativi dell’assemblea sono computati in base alla maggioranza pro quota e non pro capite.

[90] Il riferimento, quanto meno in Italia, è alla Fondazione Milan costituita nel 2003.

[91] Le quali comunque risultano disciplinate anche nel codice del Terzo settore, in particolare all’art. 37 che, con riguardo agli enti filantropici, fa menzione delle fondazioni che abbiano la finalità di erogare denaro, beni o servizi, anche di investimento, a sostegno di categorie di persone svantaggiate o di attività di interesse generale.

[92] Riferimenti in P. Manes, Le nuove prospettive in materia di fondazioni, in Cont. e Impr., 2004, 1, 265 s.

[93] Così come è stato detto a seguito della riforma del diritto societario, così può dirsi per le fondazioni. Il riferimento è a P. Spada, C’era una volta la società, in Riv. not., 2004, n. 1, 1 ss. Sui diversi modelli di fondazione, si veda il recentissimo A. Fusaro, Le varianti al tipo fondazione, in Not., 2022, n.1, 57 s.

[94] Sul punto vd. Cons. Stato, 1° giugno 1960, n. 148, in Cons. Stato, 1961, 645.

[95] Ebbene, come si noterà nel prosieguo, la particolarità delle fondazioni partecipate è che esse si costituiscono in virtù di un contratto aperto a successive adesioni. In particolare, il contratto di fondazione di partecipazione è caratterizzato, sotto il profilo causale, da uno scopo comune, definito al momento della sottoscrizione dell’atto costitutivo da parte dei soci fondatori e immodificabile nel tempo (neppure da parte degli stessi fondatori), e dalla possibilità di future adesioni da parte di soggetti terzi (i quali possono essere sia pubblici che privati) che, nel condividere le finalità della fondazione, vi partecipano apportando beni mobili, immobili, denaro, oppure servizi.

[96] A. Zoppini, Note sulla costituzione della fondazione, in Riv. dir. comm., 1997, 3-4, 300.

[97] Tali fondazioni perseguono i propri scopi in via diretta avvalendosi della propria organizzazione, nell’ultimo decennio, la prassi notarile ha conosciuto le fondazioni c.c.d.d. “aperte”, in cui è possibile partecipare in momenti successivi rispetto a quello della costituzione dell’ente, caratterizzate quindi dalla presenza di aderenti successivi, anche enti pubblici, che decidono di condividere, mediante le loro contribuzioni, un progetto intrapreso in precedenza da altri. Esse sono diverse dalle Grantmaking foundation, ossia il modello regolato dal codice civile. Queste ultime si limitano solo ad un’attività di erogazione di rendite ad esse fa riferimento il codice civile che, all’art. 16, detta che «l’atto costitutivo e lo statuto devono contenere (…), quando trattasi di fondazioni, i criteri e le modalità di erogazione delle rendite».

[98] Così definite dal notaio Enrico Bellezza (vd. A. Zoppini, Profili evolutivi della fondazione di partecipazione nella moderna prassi e nella legislazione speciale, in A.A.V.V., Fondazioni di partecipazione, Milano 2007, 21). Sulle fondazioni di partecipazione si veda: G. Sicchiero, Le fondazioni di partecipazione, in Contr. impr., 1, 2020, 19 ss.; M. Romano, I limiti all’autonomia statutaria nelle fondazioni di partecipazione alla luce della riforma del terzo settore, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 2, 345; F. Succi, Profili operativi della fondazione di partecipazione quale istituto idoneo alla gestione di servizi culturali alla luce della vigente situazione socio-economica, in Not., 2014, 6, 627; M. D’Auria, Fondazione di partecipazione e recesso dell’ente pubblico: profili problematici, in Corr. giur., 2019, 2, 215; P. Merli, Persone giuridiche – «il recesso dalla fondazione di partecipazione: una disciplina sfuggente», in Nuova giur. civ., 2018, 7-8, 1039. Si veda, da ultimo, la sezione “Dottrina e Attualità giuridiche” della rivista Giurisprudenza Italiana, dedicata alla tematica delle “Fondazioni di partecipazione”, nov. 2021, 2492 e s. La sezione raccoglie i contributi di:A. Di Sapio, Le parole delle fondazioni di partecipazione, 2493 s.; M. Graziadei, Le fondazioni di partecipazione nel prisma della comparazione, 2502 s.; G. Posio, Norme del CTS applicabili a tutte le fondazioni di partecipazione, cit., 2507 s.; G. Sicchiero, Lo scopo delle fondazioni, 2513 ss.; A. Fusaro, Organi delle fondazioni di partecipazione, 2521 ss.; L. Tosi, E.M. Bagarotto, Il trattamento fiscale delle fondazioni di partecipazione, 2525 ss.; A. Laudonio, Fondazioni di partecipazione: fase estintiva ed operazioni straordinarie, 2534 e s.

[99] A tal proposito, alcuni A. hanno parlato di fenomeno di “ibridazione” della fondazione con il modello associativo. Così A. Zoppini, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, cit., 62 ss.

[100] Rifiuta l’idea di forme miste tra associazione e fondazione, A. Zoppini, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, Napoli 1995, 111. Per alcuni, M. Tamponi, Persone giuridiche, in Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano, 2018, 156, si tratterebbe di un ente fondazionale nato dall’interpretazione degli artt. 12 e 1332 cod. civ., combinati con l’art. 45 della Costituzione; mentre, tra i gius­pubblicisti (P. Forte, Le fondazioni come autonomie amministrative sociale, in Fondazioni, a cura di Palma, Forte, Torino 2008, 67 ss.), vi è la convinzione della fondazione come un’amministrazione di interessi non individuali, in quanto espressione di autonomia non tanto privata, quanto “collettiva o sociale”.

[101] La fondazione di partecipazione è stato un fenomeno che si è affermato e diffuso nella pratica ed in esse, molto frequentemente, vi è stata la presenza di enti pubblici, spesso con ruoli rilevanti (sul punto si vedano: A. Saporito, Le fondazioni tra pubblico e privato. Discipline applicabili e modelli evolutivi, Napoli, 2020, in particolare 13 ss. in tema di sussidiarietà tra pubblico e privato; S. De Götzen, Le “fondazioni legali” tra diritto amministrativo e diritto privato, Milano, 2011, spec. 48). Il fenomeno della convergenza tra interessi pubblici e interessi privati è stato difatti spesso riassunto anche nella forma di fondazioni di partecipazione, sia come risultato della trasformazione per legge di enti pubblici, sia a seguito della decisione dell’ente pubblico di esternalizzare servizi ed attività in precedenza gestite direttamente. In tal senso: M.P. Chiti, La presenza degli enti pubblici nelle fondazioni di partecipazione tra diritto nazionale e diritto comunitario, in Fondazione di partecipazione, I Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, 2/2007, 32 ss. È stato altresì segnalato che la forma di fondazione di partecipazione è stata particolarmente apprezzata dagli enti pubblici poiché questi sono tenuti più di ogni altro soggetto a garantire l’esito positivo dell’impiego di denaro pubblico che è stato destinato a quella specifica attività. Così: M. Maltoni, La fondazione di partecipazione: natura giuridica e legittimità, in Fondazione di partecipazione, cit., 29. In ordine alle finalità, la forma della fondazione di partecipazione si qualifica poi, in ragione delle sue peculiarità, quale soggetto particolarmente adatto alla gestione dei servizi sociali; in tal senso: B. Di Giacomo Russo, La fondazione di partecipazione per gestire il “sociale”, in Cooperative e Enti non profit, 2/2015, 21 ss.

[102] Peraltro il Codice del Terzo Settore disciplina anche la Fondazione Italia Sociale, nominata dall’art. 9 CTS. Essa è una particolare fondazione di partecipazione tipizzata dal legislatore con d.P.R del 28 luglio 2017, pubblicato sulla G.U. del 9 settembre 2017, in attuazione dell’art. 10, comma 4, della legge delega n. 106/2016, con cui ha disposto lo statuto della Fondazione Italia Sociale, ente al quale, nel disegno della riforma, è stato attribuito il compito di promuovere la cultura del sociale.

[103] Così Cons. Stato, sent. 20 dicembre 2000, n. 288, Min. sanità, in Repertorio Foro Italiano 2001, Persona giuridica, n. 29, in Cons. Stato, 2001, I, 490, in Ragiusan, 2001, fasc. 202, 36. Per il Consiglio di Stato, l’istituto della fondazione di partecipazione rinviene la propria disciplina nel disposto dell’art. 12 cod. civ. (ora art. 1 d.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361), nella parte in cui affianca alle associazioni e alle fondazioni le «altre persone giuridiche private», senza che sia quindi necessario definire una disciplina che contenga una commistione tra la normativa prescritta per le associazioni e quella prevista per le fondazioni, perché sarà quest’ultima a fornire le coordinate fondamentali ed uniche della fondazione di partecipazione. Ancora, si veda anche sentenza del TAR Piemonte, sez. I, 7 novembre 2012, n. 1159, in Rep. Foro it., 2013, Persona giuridica, n. 10, in Mass. red., in Giur. amm., 2012, II, 1737. Per il TAR Piemonte, la fondazione di partecipazione, benché strutturalmente atipica, presenta di norma alcune caratteristiche proprie della fondazione in senso tradizionale (in particolare la dotazione di un elemento patrimoniale iniziale), combinate con alcune caratteristiche delle associazioni (in particolare la dinamicità dell’elemento personale, in quanto aperta all’adesione di nuovi soggetti pubblici o del c.d. «terzo settore», di tempo in tempo interessati a parteciparvi per contribuire allo sviluppo del fine attribuito statutariamente); ne discende che il perseguimento di finalità non industriali né commerciali, caratteristico dell’organismo di diritto pubblico, emerge dallo stesso d.n.a. della fondazione di partecipazione.

[104] Corte dei Conti Lombardia, Del. 19 settembre 2017, n. 250, in studiolegale.leggiditalia.it.

[105] Ord. Trib. Belluno 15 febbraio 2018, in Rep. Foro it., 2018, Persona giuridica, n. 15, in Nuova giur. civ., 2018, 1039, in Corr. giur. 2019, 215. Per il Tribunale di Belluno, la fondazione di partecipazione è un modello di organizzazione sociale atipico che racchiude i caratteri propri della fondazione e dell’associazione; ad essa si applicano per analogia le norme in materia di fondazione e di associazione, purché compatibili, avendosi particolare riguardo alle clausole statutarie; la struttura aperta della fondazione di partecipazione legittima pertanto il fondatore a recedervi ex art. 24, comma 2, cod. civ., fermo l’obbligo di adempiere alle obbligazioni certe ed esigibili al tempo del recesso ed esclusa la ripetizione dei versamenti effettuati; non è abusivo il recesso dell’ente pubblico fondatore per ragioni di contenimento della spesa pubblica.

[106] Sul piano della sua costituzione, la fondazione, così come disciplinata dal codice civile, può essere disposta ai sensi dell’art. 14 cod. civ. solo con atto unilaterale avente forma di atto pubblico (inter vivos). Inoltre, l’atto costitutivo della fondazione – e solo esso – può essere revocato nelle more del procedimento di riconoscimento ovvero nell’ipotesi in cui l’attività non sia stata ancora esercitata (art. 15 cod. civ.). Nelle ipotesi di fondazioni partecipate, non vi è ragione per non ritenere che in tal caso si sia di fronte ad un contratto di fondazione, come nel caso dell’associazione. Sul punto, vd. G. Zanchi, Interpretazione e ruolo, cit., 503-504. La gran parte degli statuti delle fondazioni di partecipazione prevedono, oltre ai fondatori (soggetti pubblici o privati che hanno avviato, partecipato o contribuito a realizzare il progetto della fondazione) i quali si impegnano a costituire un fondo di dotazione, anche i “partecipanti sostenitori” (persone fisiche, singole o associate, o giuridiche, pubbliche o private, e gli enti) che, condividendo le finalità della fondazione, contribuiscono alla sopravvivenza della medesima ed alla realizzazione dei suoi scopi mediante contributi in denaro, annuali o pluriennali, che confluiscono nel fondo di gestione con le modalità ed in misura non inferiore a quella stabilita. Si avrebbe pertanto una partecipazione attiva alla gestione dell’ente sia da parte dei fondatori, che dei partecipanti, e l’organizzazione risulterebbe strutturata proprio per consentire tale partecipazione, così: M. Maltoni, La fondazione di partecipazione, cit., 25 ss.

[107] In particolare gli atti di dotazione, ossia gli atti di destinazione di beni allo scopo della fondazione, sono diretti a costituire un patrimonio sufficiente alla realizzazione dello scopo. La sufficienza del patrimonio, da valutarsi in termini di adeguatezza dei beni per la realizzazione dello scopo dell’ente, rileva ai fini del riconoscimento della persona giuridica. La fondazione, infatti, deve godere di “sufficienza” patrimoniale necessaria per il soddisfacimento dello scopo (tale è la condizione essenziale per l’acquisto della personalità giuridica ex art. 1, comma 3, d.P.R. n. 361/2000). In assenza di un patrimonio sufficiente, non potrà procedersi ad alcuna iscrizione e, dunque, alla costituzione della persona giuridica.

[108] Ebbene, proprio a fronte della necessità di un patrimonio sufficiente e adeguato, la fondazione partecipata costituisce uno strumento di “formazione progressiva del patrimonio”. Il patrimonio, pur mantenendo la sua centralità nella caratterizzazione del tipo, può essere anche “a formazione progressiva” in modo tale che la dotazione iniziale possa aumentare per effetto di adesioni successive. La prassi ha proposto la distinzione tra fondo di dotazione, che sarebbe “non spendibile”, che è costituito dai conferimenti in denaro o di beni mobili o immobili effettuati da fondatori promotori, e fondo di gestione, che sarebbe costituito dalle rendite e dai proventi dell’attività istituzionale e che è adoperato per il funzionamento dell’ente. In questi termini, si nota che l’apertura soggettiva di tali fondazioni ha anche un risvolto patrimoniale che permette non solo il perseguimento dello scopo dell’ente ma anche una maggiore garanzia patrimoniale per i terzi. La fondazione non potrebbe infatti perseguire lo scopo in mancanza dei mezzi necessari, né potrebbe sopravvivere astenendosi dal costituire rapporti giuridici, a fronte dei quali deve sussistere una garanzia patrimoniale, ancorché i singoli partecipanti alla fondazione non rispondano solidalmente e illimitatamente alle obbligazioni contratte dall’ente.

[109] Sul vd. F. Grande Stevens, voce Fondazioni bancarie, in Enc. dir., Annali I, Milano, 2007, p.608.

[110] La disciplina è contenuta nella l. 23 dicembre 2000, n. 388.

[111] Con il d.lgs. 29 giugno 1996 n. 367 è stato disposto l’avvio alla trasformazione degli Enti Lirici in Fondazioni di diritto privato, mentre l’art. 1 del d.l. 24 novembre 2000, n. 345 (convertito in l. 26 gennaio 2001, n.6) ne ha stabilito la trasformazione a decorrere dal 23 maggio 1998. Prosegue con il d.l. 30 aprile 2010, n. 64 coordinato con la l. di conversione 29 giugno 2010, n. 100 ed in vigore dal 1° luglio 2010 la rivisitazione dell’assetto delle Fondazioni.

[112] La fondazione bancaria – essendo una operating foundation – ha una governance piuttosto strutturata e simile al modello dualistico (artt. 2409-octies ss. cod. civ.) delle società commerciali dove è previsto un Consiglio di sorveglianza e un Consiglio di gestione.

[113] Vd. G. Iorio, Le fondazioni, in Il diritto privato oggi, a cura di P. Cendon, Milano, 1997, 212 ss., secondo cui, ricorrendo tale ipotesi si potrebbe, al più, propendere per la riqualificazione del fenomeno in chiave associativa.

[114] Per tali ragioni, A. Zoppini, Le fondazioni Dalla tipicità alle tipologia, Napoli, 1995, 111: «ritengo, dunque, di dover concludere per l’impossibilità d’identificare forme miste tra associazione e fondazione: tertium non datur, salvo attribuire al sintagma una valenza puramente sociologica e descrittiva, come tale giuridicamente irrilevante» (ribadendo quanto anticipato in Quattro tesi per una rilettura delle norme sulle fondazioni, in Gli enti “non profit” in Italia, a cura di Ponzanelli, Padova, 1994, 61 ss.); in epoca successiva tra gli autori contrari v. B.N. Romano, Le fondazioni nell’evoluzione del diritto privato, in Fondazioni, a cura di Palma, Forte, cit., 208-209. Nel passato Cons. Stato, 22 novembre 1995, n. 2898/95, in Cons. Stato, 1997, I, 1156 ha detto che «ha carattere di associazione, e non di fondazione, l’istituzione che, pur avendo un patrimonio sufficiente al perseguimento dei fini istituzionali, sia costituita da varie categorie di soci e da un’assemblea sociale competente ad adottare i principali atti di indirizzo finanziario, con scissione fra base sociale ed amministrazione e con funzione dominante dell’elemento personalistico».

[115] Così M. Maltoni, op. cit., 25.

[116]Così A. Zoppini, Le fondazioni, cit., 105.

[117] E. Cesàro, Contratto aperto e adesione del terzo, Napoli, 1979, 35. In questo senso era anche il suggerimento dei codificatori: nella relazione al codice (n. 611) si specifica che tra i contraenti originari e il terzo aderente vi è comunanza di interesse.

[118] La clausola di apertura, ex art. 1332 cod. civ., può presentare sia un contenuto sostanziale relativo al “se” dell’adesione, cioè i requisiti richiesti al terzo per entrare nel contratto. Ne fanno menzione le regole delle corporazioni agli artt. 16; 2521, comma 3, n. 6; 2603, comma 2, n. 5, cod. civ. parlando di “condizioni di ammissione”. La clausola di apertura può avere solo tale contenuto. Ad esempio, la clausola di apertura inserita nell’atto costitutivo di società cooperativa può prevedere i requisiti soggettivi di ammissione e nulla dire sulle regole procedimentali, con conseguente applicabilità piena dell’art. 2598 cod. civ. Il contenuto procedimentale della clausola d’adesione riguarda invece il “come” dell’adesione, ossia le regole secondo cui s’articola il procedimento di adesione. Di ciò ne parla espressamente l’art. 1332 cod. civ., affermando che i contraenti possono “determinare le modalità dell’adesione”.

[119] R. Viglione, Se siano ammissibili nel nostro ordinamento fondazioni a struttura associativa, in Studium iuris, 2003, 1362; F. Succi, Profili operativi della fondazione di partecipazione quale istituto idoneo alla gestione di servizi culturali alla luce della vigente situazione socio– economica, in Not., 2014, 628.

[120] Va infatti respinta quella tesi che ammette l’apertura “in senso ampio”, laddove intenderebbe le attività di aumento di capitale o cessione di partecipazioni come manifestazione di adesione del terzo, sul punto A. Gnani, L’adesione del terzo al contratto, in Il codice civile. Commentario Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2014, 55.

[121] E. Cesàro, Contratto aperto, cit., 35-36.

[122] Cfr. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2021, 857, per il quale l’art. 1332 cod. civ. si applica ai contratti di scambio. Anche rispetto ai contratti bilaterali si è posto il problema dell’apertura di terzi al contratto. L’attenzione ha riguardato la cessione dei beni ai creditori che può nascere da un contratto aperto, acconsentendo debitore e creditore a nuove adesioni, ma può nascere anche da un contratto chiuso, avendo pattuito creditori e debitori che altri creditori non debbono aggiungersi al contratto.

[123] R. Scognamiglio, Dei contratti in generale, in Comm. del cod. civ., diretto da Scialoja-Branca, Libro IV, Delle obbligazioni (artt. 1321-1352), Bologna-Roma, 1976, 159 sembra ammettere l’applicabilità dell’art. 1332 ai contratti con parte soggettivamente complessa, ma non agli atti unilaterali.

[124] Così la Relazione al codice civile (n. 611).

[125] E. Cesàro, op. cit., 35: «l’adesione del terzo nel contratto plurilaterale non incide minimamente “sul regolamento oggettivo” del contratto». Per quest’ultimo A., il contratto plurilaterale nasce funzionalmente per essere esteso ad altri: l’adesione successiva non incide sul regolamento oggettivo.

[126] Così G. Ferri, Contratto plurilaterale, in Nov. dig. it., Torino, 1959, 680.

[127] La fondazione per l’assegnazione di premi o di borse di studio si suddivide in due sottotipi di fondazioni in cui è costituita nel negozio di fondazione, o altrimenti, una commissione che attribuisce i premi (c.d. fondazione per premi decidente), oppure fondazioni che attribuiscono ad altri enti criteri e poteri di assegnazione (c.d. fondazione per premi erogante).

[128] Prima del codice civile del 1942, non si aveva una compiuta definizione di contratto plurilaterale, né tantomeno di “comunanza di scopo”. Perlomeno in Italia, ad Ascarelli deve essere attribuito il merito di aver dimostrato la piena compatibilità della nozione di contratto alla struttura plurilaterale. Egli individuò nella comunione di scopo l’essenza del contratto plurilaterale, unitamente a quella della «possibile partecipazione di più parti». T. Ascarelli, Il contratto plurilaterale, in Saggi giudici, Milano, 1949; ora in Studi in tema di contratti, Milano, 1952, 108. Sul tema dei contratti plurilaterali: T. Ascarelli, La liceità dei sindacati azionari, in Riv. dir. comm., 1931, II, 258 ss.; Id., Contratto plurilaterale e negozio plurilaterale, in F. lomb., 1932, 439 ss.; Id., Appunti di diritto commerciale, Roma, 1933, spec. 145; Id., Note preliminari sulle intese industriali, in R. it. sc. giur., 1933, 106 ss.; Id., Le unioni di imprese, in Riv. dir. comm., 1935, II, 152 ss., spec. 178 ss.; Id., I consorzi volontari tra imprenditori, Milano, 1937, spec. 37; Id., Il contratto plurilaterale, in Id., Saggi giuridici, Milano, 1949, 259 ss.; ora anche in Id., Studi in tema di contratti, Milano, 1952, 97 ss. (da cui le successive citazioni); Id., Contratto plurilaterale e totalizzatore, in Riv. dir. comm., 1949, I, 169 ss.; ora anche in Id., Studi in tema di contratti, cit., 169 ss.; Id., Notarelle critiche in tema contratti plurilaterali, in Riv. dir. comm., 1950, I, 265 ss.; ora anche in Id., Studi in tema di contratti, cit., 157 ss.; Id., Occhio ai concetti, in Riv. dir. comm., 1951, I, 71 ss.; ora anche in Id., Studi in tema di contratti, cit., 175 ss.; Id., Contratto plurilaterale; comunione di interessi; società di due soci; morte di un socio in una società personale di due soci, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1953, 727 ss.; Id., Teoria della concorrenza e dei beni materiali, Milano 1960, spec. 86 ss.; V. Salandra, Il contratto plurilaterale e la società di due soci, in R. trim. d. proc. civ., 1949, 836 ss.; F. Carnelutti, Occhio ai concetti!, in Riv. dir. comm., 1950, I, 450 ss.; G. Ferri, La società di due soci, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1952, 609 ss.; Id., voce Contratto plurilaterale, in Nov. dig. it., IV, Torino, 1959, 678 ss.; F. Carresi, Gli atti plurisoggettivi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1957, 1241 ss.; F. Messineo, Il negozio giuridico plurilaterale, Milano 1927; Id., voce Contratto plurilaterale, in Enc. dir., X, Milano, 1962, 140 ss.; Id., Il contratto in genere, 2, in Tratt. Cicu-Messineo, XXI, 1, Milano, 1973, 589 ss.; A. Carlo, Il contratto plurilaterale associativo, Napoli 1967; A. Belvedere, La categoria contrattuale di cui agli artt. 1420, 1446, 1459, 1466 cod. civ., in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, 660 ss.; Id., voce Contratto plurilaterale, in Dig. disc. priv. – sez. civ., IV, Torino 1989, 270 ss.; B. Inzitari, Riflessioni sul contratto plurilaterale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1973, 476 ss.; F. Galgano, Il negozio giuridico, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, III, 1, Milano, 1988, 169 ss. e 465 ss.; G. Villa, Inadempimento e contratto plurilaterale, Milano, 1999; V. Barba, Appunti per uno studio sui contratti plurilaterali di scambio, in Riv. dir. civ., 2010, 531 ss.

[129] Sotto questo aspetto va rilevato che non è un caso che il Guardasigilli abbia trattato il sinallagma proprio in tema di risoluzione. Così si legge nella Relazione del Guardasigilli (n. 660): «la risoluzione può verificarsi esclusivamente rispetto ai contratti con prestazioni corrispettive, e cioè non soltanto rispetto ai contratti che implicano complicazioni per entrambe le parti, secondo la definizione dell’art. 1099 cod. civ. del 1865, ma rispetto ad ogni contratto che abbia per oggetto attribuzioni patrimoniali reciproche in situazione di sinallagma, ossia in ogni caso in cui l’attribuzione procurata o promessa da una parte è scopo dell’attribuzione procurata o promessa all’altra. Qualunque anomalia che alteri questo rapporto di interdipendenza, può ripecuotersi sulla vita del contratto, se impedisce che questo realizzi il bisogno per la cui soddisfazione era stato concluso. Anomalie influenti sul sinallagma sono l’inadempienza di una delle parti e l’impossibilità o l’eccessiva onerosità della prestazione dovuta da una di esse». Ebbene, la Relazione fa riferimento ai contratti sinallagmatici in cui si avverte l’esigenza di apprestare rimedio ogniqualvolta venga meno il rapporto funzionale tra le reciproche attribuzioni e, dunque, considerato il rimedio risolutorio (o manutentivo) come destinato a far fronte a disfunzioni dello scambio.

[130] Avvertono, nei contratti plurilaterali con comunione di scopo, un particolare “sinallagma”: S. Maiorca, voce «Contratto plurilaterale», cit., 20; A. Belvedere, Contratto plurilaterale, in Digesto, cit., 274. A tal riguardo, si sostiene che in tali contratti la prestazione di ciascuna parte non viene scambiata con quella delle altre, ma tutte insieme concorrono alla realizzazione dello scopo comune, cosicché l’interesse di ognuno si realizza attraverso l’attività o l’organizzazione che persegue lo scopo comune (Cfr. F. Di Sabato, Le società in generale, società di persone, Napoli, 2004 82-83). Che nella comunanza di scopo si ravvisi un sinallagma è un’osservazione costante della dottrina del diritto commerciale che non esclude che il contratto di società sia da considerarsi come contratto a prestazioni corrispettive (A. Graziani, Diritto delle Società, Napoli, 1963, 35). È controverso però in che cosa sia ravvisabile la corrispettività. La dottrina prevalente nega che possa esistere un rapporto sinallagmatico tra le prestazioni dei singoli soci, che costituiscono semplicemente un mezzo per il conseguimento dello scopo comune. La corrispettività è stata invece individuata ora tra conferimento e conseguimento dello scopo comune (V. Buonocore, Le situazioni giuridiche soggettive dell’azionista, Napoli 1960, 38 ss.); ora tra conferimento ed acquisizione dello status di socio (F. Di Sabato, op. cit., 82 ss.) ora tra conferimento e partecipazione sociale; ora tra conferimento e partecipazione ai risultati dell’attività comune (G. Auletta, Il contratto di società commerciale, cit., 53). A fronte delle diverse teorie, occorre fare proprio riferimento alla disciplina della risoluzione del contratto plurilaterale per ricercare la specifica “giustificazione” causale che si vuol attribuire al conferimento. Non può, sotto quest’ultimo aspetto, essere sottaciuto che nel contratto a comunione di scopo opera un particolare sinallagma in cui rileva una particolare interdipendenza di interessi, la realizzazione dei quali è mediata dall’attività di organizzazione comune. Il che sposta il discorso su un piano decisamente oggettivo: dire che il contratto non si scioglie se non quando la prestazione che viene a mancare è essenziale per il raggiungimento dello scopo comune, significa far dipendere lo scioglimento dal venir meno di un equilibrio contrattuale che è oggettivamente apprezzabile con riferimento primario allo scopo comune, mentre gli interessi delle parti sono relegati sullo sfondo. In particolare, per i contratti plurilaterali, rileva una subordinazione dell’interesse individuale al programmato equilibrio economico del contratto allo scopo comune. Proprio in tema di risoluzione dei contratti plurilaterali, la comunanza di scopo assume caratteri peculiari. La comunanza di scopo indica la modalità in virtù della quale l’interesse individuale di ciascun partecipante può essere soddisfatto all’interno di una struttura contrattuale comune. Diverso è quanto si ravvisa nei contratti di scambio: l’interesse è direttamente soddisfatto mediante il ricevimento della prestazione contrattualmente dedotta (G. Auletta, La comunanza di scopo e la causa nel contratto di società, in Riv. dir. civ., 1937, 1 ss.). In altri termini, quando sussiste una comunanza di scopo, il bisogno individuale di un contraente consegue indirettamente, ossia in virtù del fatto che quella prestazione contribuisce causalmente a perseguire lo scopo comune. Aver disciplinato che l’inadempimento o l’impossibilità sopravvenuta della prestazione di una delle parti non importa la risoluzione del contratto rispetto alle altre, salvo che la prestazione mancata debba considerarsi essenziale, manifesta che il legislatore ha attribuito alla “comunione di scopo”, il significato che l’interesse di una parte non può realizzarsi senza che siano parimenti soddisfatti anche l’interesse degli altri partecipanti in quanto tutte le partecipazioni sono dirette ad un unico di scopo, nel senso che realizzano l’interesse comune programmato. In questa prospettiva, lo scopo comune si pone come strumento di misura, alternativo allo scambio sinallagmatico, della posizione delle parti rispetto all’interesse da ciascuna perseguito. Sotto questo aspetto, il sinallagma al quale il legislatore si riferisce con la disciplina dei rimedi risolutori del contratto a comunione di scopo, riguarda un rapporto di corrispettività non tra le singole prestazioni dei vari contraenti, ma tra la prestazione di ciascun contraente e la realizzazione dello scopo comune.

[131] Ancor prima che il codice del 1942 cod. civ. disciplinasse, all’art. 2247 cod. civ., il contratto di società, Giuseppe G. Auletta (G. Auletta, La comunanza di scopo e la causa nel contratto di società, in Riv. dir. civ., 1937, 1 ss.) distingueva gli interessi dei contraenti di un contratto di società dagli interessi dei contraenti di un contratto di scambio nel seguente modo: «i contraenti sono indotti alla conclusione del negozio di società da un identico scopo, onde ne scaturisce un’armonia di collaborazione, mentre nei contratti di scambio lo scopo d’una delle parti è diverso, anzi spesso antitetico a quello dell’altra». Alla luce di tale osservazione, guardando agli intenti empirici dei contraenti, occorre notare che perché sia possibile la conclusione di un contratto di scambio, è necessario che i contraenti muovano da una valutazione inversa delle utilità delle rispettive prestazioni. Ognuno ritiene, dal proprio punto di vista soggettivo, che la prestazione che riceve sia maggiormente utile rispetto alla prestazione che offre, sicché ognuno si sottopone allo scambio per il bisogno di ricevere la prestazione della controparte. Diversamente, nel contratto di società, in quanto contratto con comunione di scopo, ogni soggetto vuole raggiungere il medesimo scopo di produzione, che costituisce l’oggetto dell’attività sociale, e cerca, mediante la conclusione del negozio, la collaborazione di altre forze economiche che, in unione con le proprie, possano realizzare il medesimo scopo. In seguito alla conclusione di un contratto di scambio, avviene, nel patrimonio di ciascuna delle parti, la sostituzione di un’entità patrimoniale, che esce, con una entità patrimoniale che la sostituisce. Ogni parte è intenta ad attuare tale sostituzione per soddisfare il proprio interesse, tali sono le ragioni per cui si concepisce il contratto come una composizione di conflitti economici tra i soggetti. Tali conflitti non sono ravvisabili nei contratti a comunione di scopo, laddove l’intento di ogni parte consiste nel raggiungimento di quello scopo che, per essere comune a tutte, è altresì l’intento degli altri contraenti. Sicché, «nel contratto di società, le parti uniscono insieme e associano le loro prestazioni per il raggiungimento dello scopo sociale; ogni contraente (…) trova il proprio corrispettivo non nelle prestazioni degli altri, ma nella partecipazione al risultato utile ottenuto attraverso l’associazione di prestazioni» (G. Auletta, op. cit., 7). La nota contrapposizione tra i contratti di scambio e contratti a comunione di scopo è ancora più significativa se si pensa, nel comune modo di intendere il contratto, che quest’ultimo sia sinonimo di scambio. Costituirebbe, dunque, un’eccezione il contratto plurilaterale, posto che, sostanzialmente, i fenomeni associativi (a cui i contratti plurilaterali a comunione di scopo sono funzionali) sono regolati in libri diversi del codice.

[132] G. Auletta, La comunione di scopo e la causa del contratto di società, in Riv. dir. civ., 1937, 1 ss.: nel concludere il contratto, le parti mirano ad un unico risultato, il raggiungimento del quale consente la soddisfazione degli interessi di ciascuna.

[133] V. Barba, Appunti per uno studio sui contratti plurilaterali di scambio, in Riv. dir. civ., 2010, 531 ss., spec. 546.

[134]Sul particolare “sinallagma” dei contratti plurilaterali con comunione di scopo si è detto sub nt. 131.

[135] A. Graziani, Diritto delle Società, Napoli 1963, 35-36.

[136] V. Buonocore, Le situazioni giuridiche soggettive dell’azionista, cit., 38 ss.

[137] G. Ferri, voce Contratto plurilaterale, in Nov. dig. it., 680 ss.; S. Maiorca, voce Contratto plurilaterale, in Enc. giur., 18 ss.; L. Cabella Pisu, Dell’impossibilità sopravvenuta, Artt. 1463-1466, in Comm. Cod. Civ. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2002, 179. Di particolare rilevanza, sul punto, è il caso Mondadori, la Pret. Milano (15 gennaio 1990, in Giur. it., 1990, I, 2, 227) ritenne che la parziale sterilizzazione della maggioranza delle azioni sindacate non sciogliesse il sindacato di voto, perché nell’accordo era prevista l’eventualità che parte delle azioni fosse colpita da “sequestri, pignoramenti e/o altri vincoli”, con la sola conseguenza che i partecipanti erano tenuti “a fare tutto ciò che sarà nelle loro possibilità per liberare le loro azioni”.

[138] L’organizzazione, avente soggettività giuridica, è ancor più evidente se si pensa che la stessa si sovrappone (e, per certi aspetti, addirittura si contrappone) a chi abbia concluso il negozio, a chi vi partecipa o a chi la amministra. Anzi, l’organizzazione, proprio perché dotata di soggettività giuridica, può esigere l’adempimento degli impegni assunti dai partecipanti con il negozio di organizzazione ed esercita tutte le attività per le quali è stato costituito l’ente.

[139] F. Galgano, Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1976, 18; Id., Il negozio giuridico, in Tratt. Cicu-Messineo, III, t. 1, Milano, 1988, 175. In particolare, da un punto di vista normativo, l’A. osservava che la dottrina non è riuscita «ad enucleare una disciplina unitaria dei contratti con comunione di scopo, diversa dalla disciplina dei contratti di scambio ed applicabile ai primi in quanto caratterizzati dalla comunione di scopo. Si è scritto che la disciplina generale dei contratti, contenuta nel libro delle obbligazioni, è formulata con riguardo ai contratti di scambio: non si è, tuttavia, stati in grado di individuare, in questa disciplina, norme sicuramente inapplicabili ai contratti con comunione di scopo».

[140] Così F. Galgano, Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, cit., 12 ss.; Id., Il negozio giuridico, in Tratt. Cicu-Messineo, III, t. 1, Milano, 1988, 178-179.

[141] La questione è stata per lo più indagata in tema di società, sul punto: A. Graziani, Diritto delle Società, Napoli, 1963, 86; come B. Scorza, Gli statuti degli enti di tipo associativo, Roma, 1934, 143 ss.; A. Gambino, Il principio di correttezza nell’ordina­mento della società per azioni, Milano, 1987, 109 ss. In tema di società, infatti, si è avvertito un contrasto contrasto tra tesi contrattualistica e tesi istituzionalistica della società che è emerso anche in relazione agli studi sull’interesse sociale (fondamentali sono le letture di A. Asquini, I battelli del Reno, in Riv. soc., 1959, 617 ss.; T. Ascarelli, L’interesse sociale dell’art. 2441 cod. civ., in Riv. soc., 1956, 93 ss.; P.G. Jaeger, L’interesse sociale, Milano, 1967) la cui teoria ha origine dagli studi, effettuati a cavallo tra XIX e XX secolo, di Rathenau, il quale fu tra i primi a teorizzare la supremazia dell’interesse dell’”impresa in sé” su ogni altro interesse satellitare ad essa (teoria dell’Unternehmen an sich), in specie su quello dei soci, sulla base di argomentazioni di matrice spiccatamente autoritaria e corporativa, ispirate ad un “oblio” del contratto sociale. Anche in Italia la nozione di interesse sociale ha animato il dibattito dottrinario sin dall’epoca del vigore del codice di commercio del 1882, in materia di società anonime, per accendersi poi maggiormente dopo l’unificazione dei codici operata col codice civile del 1942. Si rintracciavano due diverse teorie in relazione all’interesse sociale, la prima istituzionalista che – muovendo dalla notazione che il contratto di società si esaurisca con l’erezione dell’ente societario che diverrebbe così un’organizzazione capace di vita autonoma che inizia e continua ad operare nel rispetto di regole che son proprie – individua l’interesse sociale nell’interesse dell’organizzazione autonoma generata dal contratto sociale, dunque contrapposta e scissa dalle persone dei soci e dai rispettivi interessi individuali; a contrapporsi a questa teoria si poneva la tesi contrattualistica che individuava l’interesse sociale nell’interesse comune a tutti i soci alla migliore realizzazione dello scopo sociale comune, inteso come programma economico unitario, mediante lo strumento dell’organizzazione societaria. A ben vedere, il conflitto tra le due teorie affonda le proprie radici ben più profondamente, poiché rappresenta il portato logico della contrapposizione fra le diverse teorie dell’impresa e della persona giuridica. Secondo una più recente dottrina (vd. F. Galgano, voce Società, in Enc. dir., Milano, 1990) l’interesse sociale indica lo scopo del contratto di società. In particolare, per quest’ultimo A., lo scopo della società è quello di trasformare la ricchezza conferita dai soci in efficiente organizzazione imprenditoriale: esso è tanto più intensamente realizzato quanto maggiore è l’efficienza produttiva o distributiva dell’impresa collettiva. È interesse sociale, l’interesse ad aumentare il volume della produzione o degli scambi, l’interesse alla conquista di nuovi mercati, l’interesse ad accrescere la potenza economica della società, nonché l’interesse alla massimizzazione del profitto e l’interesse alla massimizzazione del dividendo, come interesse a che i profitti realizzati vengano il più frequentemente e nella misura più alta possibile distribuiti ai soci.

[142] Il riferimento è ad A. Asquini, I battelli del Reno, in Riv. soc., 1959, 617 ss. (il quale riferisce una frase del Norddeutscher Lloyd: «scopo della società non è quello di distribuire gli utili agli azionisti, ma di far navigare i battelli sul Reno»).

[143] L. Mossa, Società commerciali personali, in Trattato del nuovo diritto commerciale, 2, Padova, 1951, 185.

[144] L’art. 2332 cod. civ. dispone che, intervenuta l’iscrizione nel Registro delle Imprese, la società per azioni, attualmente, può essere dichiarata nulla solo nei seguenti casi tassativamente elencati: mancata stipulazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico; illiceità dell’oggetto sociale; mancanza nell’atto costitutivo o nello statuto di ogni indicazione riguardante la denominazione della società, o i conferimenti, o l’ammontare del capitale sociale o l’oggetto sociale. Solo prima della registrazione vi è un contratto di società; un atto di autonomia privata che per il momento è destinato a produrre effetto solo tra le parti contraenti, e pertanto, tale contratto, può essere dichiarato nullo o annullato nei casi e con gli effetti previsti dalla disciplina dei contratti (artt. 1418 ss.) e salva l’applicazione delle norme specificatamente dettate per i contratti associativi (art. 1420 e art. 1446).

[145] In questo senso F. Galgano, Delle persone giuridiche. Artt. 11-35, in Comm. Cod. civ. Scialoja-Branca, Bologna-Roma 2006, 188.

[146] Così come è stato sostenuto anche con riferimento all’atto unilaterale di fondazione. Nel senso che, analogamente a quanto accade per le associazioni ed in applicazione del principio ispiratore dell’art. 2332 cod. civ., «la dichiarazione di nullità e annullamento del negozio di fondazione avviene solo col rispetto dei diritti dei creditori dell’ente» così F. Ferrara sr., Le persone giuridiche, in Tratt. Vassalli, vol. II, t. 2, 252; P. Rescigno, voce Fondazione, in Enc. dir., cit., nt. 8.

[147] Produrrà, del pari, l’estinzione dell’ente – e non l’originaria inefficacia dell’atto di fondazione – l’esperimento, successivo al riconoscimento della personalità giuridica, dell’azione revocatoria da parte dei creditori del fondatore o dell’azione di riduzione da parte dei legittimari lesi dal negozio di fondazione: la sentenza che accoglie l’una o l’altra azione dichiara estinta la fondazione, e creditori e legittimari eserciteranno le rispettive azioni esecutive e di restituzione sui beni che residuano dopo l’esaurimento della liquidazione. Corrispondente orientamento in F. Ferrara sr., ult. op. cit., 252.

[148] Come osserva G. Ferri, Delle società, in Comm. Scialoja-Branca, sub artt. 2247-2324, Bologna-Roma, 1981, 324.

[149] Per esempio, l’esclusione potrebbe essere deliberata – con modalità non dissimili da quelle previste dall’art. 2286 cod. civ. per le società di persone – al partecipante volontario, che pur essendosi impegnato a contribuire all’attività della fondazione con una propria opera professionale, sarà impossibilitato ad eseguire la prestazione per sopraggiunta inidoneità fisica a svolgere l’opera oggetto di contribuzione. Tali ipotesi determinano – al pari della risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione – l’esclusione dall’ente (dunque lo scioglimento del vincolo contrattuale relativamente al singolo socio) per impossibilità sopravvenuta di adempiere gli impegni (Cass. 14 aprile 1958, n. 1204). Nonostante il rimedio sia finalizzato all’estromissione di un singolo socio dall’orga­nizzazione, la giurisprudenza, fuoriuscendo dalla logica “istituzionalistica” delle società e analizzando i particolari istituti da un punto di vista negoziale, ha più volte ritenuto che nelle società di persone le norme sulla esclusione del socio «per gravi inadempienze» hanno carattere speciale e sostituiscono quelle generali sulla risoluzione per inadempimento dei contratti con prestazioni corrispettive, di cui agli artt. 1453 ss.(App. Genova 20 ottobre 2006).

[150] Trib. Milano 22 ottobre 1990.

[151] La dichiarazione di recesso è un negozio giuridico unilaterale recettizio. Deve essere fatta in forma scritta e deve essere comunicata agli amministratori. Il recesso non ha effetto immediato, esso «ha effetto con lo scadere dell’anno in corso, purché sia stato fatto almeno tre mesi prima» (art. 24, comma 2, cod. civ.); altrimenti, avrà effetto allo scadere dell’anno successivo. Una volta esercitato il recesso o avvenuta l’esclusione, il partecipante che abbia receduto o che sia stato escluso o che comunque abbia cessato di appartenere all’ente, non potrà ripetere i contributi versati, né potrà vantare alcun diritto sul patrimonio dell’ente (art. 24, ult. co., cod. civ.). La ragione dell’irripetibilità dei contributi versati e dell’esclusione di alcun diritto sul patrimonio dell’associazione in ogni caso di cessazione della partecipazione consegue alla natura non economica degli interessi perseguibili dal partecipante all’ente. Peraltro, va osservato che il partecipante non è comproprietario dei beni della fondazione, i quali appartengono alla persona giuridica.

[152] Sul punto Trib. Belluno, ord. 15 febbraio 2018, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 7-8, con nota di P. Merli, 1039.

[153] Sarebbe parimenti nullo ogni patto col quale il partecipante rinunci preventivamente ad esercitare il recesso per un tempo che, benché determinato, sia talmente esteso da farlo ritenere una elusione del divieto di rinuncia del recesso a tempo indeterminato. La valutazione di validità della clausola che esclude l’esercizio del diritto di recesso da un’associazione per un tempo determinato è, in altri termini, subordinata alla verifica, da una parte, della sussistenza di un termine compatibile con la natura e la funzione del contratto associativo, e, dall’altra, alla insussistenza di lesione di diritti costituzionalmente garantiti (Cass. 4 giugno 1998, n. 5476, in Giur. it., 1999, 488, con nota di F. Riccio).

[154] Zoppini, Le fondazioni, cit., 68. L’A. riferisce che il problema dell’abuso (Formenmißbrauch) è in particolare emerso quando il fondatore tragga un vantaggio patrimoniale diretto dalla gestione della fondazione, realizzandosi la violazione dell’obbligo di non distribuire utili, così come sarebbero abusive le ingerenze del fondatore nell’amministrazione, tanto da sollecitare il problema della “tutela” della fondazione dal soverchiante influsso del fondatore “vivente”.

[155] Si parla, soprattutto nel diritto commerciale, di «teoria imperativistica del tipo» quando si vuole rendere il contenuto della fattispecie omogeneo al tipo normativo, che assurge così a limite dell’autonomia privata.

[156] Zoppini, Le fondazioni, cit., 103 s.

[157] Così Zoppini, Le fondazioni, cit., 105.

Fascicolo 2 - 2022