Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Cipriano Cossu, Lèggere il danno. Grammatica di un concetto plurale, Pisa, Pacini Giuridica, 2022, pp. IX-348 (di Mauro Grondona)


La materia della responsabilità civile è vastissima e mobilissima (e forse, ma non per tutti, nobilissima). Lo sappiamo. Ovvio, dunque, che i manuali, ma anche i case-book, o, ben più spesso, e senza dubbio negli ultimi anni (del resto, tolto l’aureo secondo tomo del ‘Contratto’ di Gorla e qualche volume della famosa ‘collana azzurra’ di Galgano, di case-book intesi, in senso proprio, quali autentiche raccolte di ‘casi e materiali’– dunque commentati, collegati e letti criticamente –, il mercato giuridico italiano non è mai stato ricco), le compilazioni di giurisprudenza (più o meno ragionate) abbondino (detto poi tra parentesi – ma questo discorso sarà subito ripreso –, che i manuali, in materia di diritto civile, abbondino, e i case-book scarseggino, più che essere segno dei tempi, o delle varie riforme, è segno che la didattica del diritto civile risulta un po’ pigramente ripiegata su sé stessa, all’insegna di una eccessiva continuità con il passato che spesso non è giustificata, tanto più se, poi, l’approccio continuista si richiama a una vera o presunta tradizione, che però, sovente, è un cattivo ricordo di un desiderio irrealizzato).

Questo volume di Cipriano Cossu (allievo di Mario Bessone e da molti anni – per la precisione, dal 1995 – docente di ‘Diritto Civile II’, ovvero, il diritto della responsabilità civile, presso il Campus universitario di Imperia) merita di essere segnalato per più ragioni.

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Intanto, perché offre l’occasione (volendosi dunque impiegare il libro qui recensito quale tertium comparationis sotto più fronti) di svolgere qualche breve considerazione sulla didattica del diritto civile, e, più in generale, sulla didattica del diritto – tema, in Italia, abbastanza negletto, anche per un certo conservatorismo, espressione di quel provincialismo che affligge la cultura italiana, che ha negativamente contributo all’individuazione dell’archetipo dell’italianità (quanto alla didattica, v. però ora – senza che occorra condividerlo tutto quanto, dall’impostazione generale ai contenuti – V. Marzocco, S. Zullo, Th. Casadei, La didattica del diritto. Metodi, strumenti e prospettive, 2a ed., Pisa, Pacini, 2021).

Ora, il libro di Cossu è stato pensato e scritto, come si diceva una volta, ‘per la scuola’, cioè per ragazzi e ragazze del 5° anno del Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza. Persone che hanno una qualche base giuridica, ma che (come l’esperienza di ognuno di noi ben potrà confermare, almeno tendenzialmente) hanno anche una certa refrattarietà a fare direttamente i conti con i testi delle sentenze (soprattutto) della Corte di cassazione, o con articoli in senso proprio ‘scientifici’ (di ieri e di oggi). Serve allora uno strumento, per dir così, di intermediazione didattica (e del resto la didattica è come tale intermediazione) tra la realtà giuridica (volendosi intendere con questo termine l’insieme dei materiali di lavoro tipici del giurista, anche di quello in formazione: dal testo di una legge alla nota a sentenza) e la realtà sociale, che non necessita di ulteriori esplicitazioni.

Come ognun sa (e per riprendere il discorso di cui sopra), almeno in Italia, gli anni a noi più vicini hanno testimoniato il declino del case-book (pur con il cave già espresso), e il successo di compendi giurisprudenziali, da utilizzarsi, si immagina, quale base del lavoro collettivo da svolgersi in aula. Chi scrive non dispone di dati (ma direi che i dati mancano del tutto, o meglio: mancano i dati aggregati e, soprattutto, manca la loro libera, e agevole, fruibilità; l’approccio italiano ai problemi, come noto, è tendenzialmente refrattario, se non ostile, alla via empirico-statistica, o meglio: è refrattario a mettere a frutto gli elementi e gli aspetti quantitativi, anche quando conosciuti o conoscibili, dei problemi; se ciò sia un residuo del cosiddetto neoidealismo antiscientifico – come molti affermano, a mio avviso con qualche eccesso, e anche imprudenza –, oppure, e meno nobilmente, il non rimosso di una cultura inconscia, che è poi spesso nient’altro che una sintesi dell’assai precario ‘sentito dire’, non saprei; in controtendenza, può però essere richiamata la ricerca empirica condotta da una dottoranda dell’Università di Trento, Olga Gorodetskaya – https://srssurvey2.unitn.it/ls6/
limesurvey/index.php/723982?lang=it –, che si spera abbia successo; la tematica, di primario interesse accademico, e la sede telematica che mi ospita inducono alla condivisione) – ma dicevo: non ho dati circa la percezione, da parte degli studenti, delle singole materie. Materie e non insegnamenti, dunque ciò che è oggetto di studio e poi di esame, nella prospettiva, auspicabilmente, di una persona che dovrebbe essere spinta da qualche ambizione intellettuale, magari progressivamente sviluppata, grazie anche (o soprattutto) al lavoro comune che si fa (e si deve fare) in aula, e che non può mai sostituire la geometrica linearità (che è anche una tendenziale freddezza) di un manuale, pur se contenutisticamente eccellente.

Lo spettro di giudizio (dello studente) è molto ampio, andando esso dall’utilità soggettiva (magari fallace) all’interesse professionale, alla difficoltà logico-sistematica, e magari anche linguistica. Ma non bisogna avere paura di quel soggettivismo consustanziale a ogni giudizio; l’oggettività del giudizio – una oggettività storicamente connotata, ma che rimane oggettività –, nell’ambito delle scienze umane e sociali, si raggiunge, tendenzialmente, solo quale progressiva convergenza dei molteplici giudizi soggettivi. Una convergenza che diventa fonte di affidamento e dunque fondamento stesso e ragione del giudizio, che in tal modo acquisisce una portata oggettiva.

Un giudizio sulle materie, dunque, ma anche sulle specifiche modalità didattiche, anche quelle sperate. Peraltro, i ‘questionari della didattica’ non coprono tutto lo spettro di questioni che sarebbe invece interessante conoscere; e, forse, sarebbe anche opportuno intervenire, in senso naturalmente restrittivo, sul piano della cosiddetta libertà accademica e, qui in particolare, di insegnamento: una certa uniformità didattica, oggi più che mai, è necessaria; e per molte buone ragioni: intanto, non esiste il giurista italiano; esiste il giurista; da questo punto di vista, una certa standardizzazione delle modalità comunicative e didattiche faciliterebbe non solo l’apprendimento (tenuto conto che il numero delle matricole provenienti dal cosiddetto liceo classico è tendenzialmente decrescente), ma anche la varietà e la diversificazione dei contenuti (però, allora, dovendosi distinguere molto bene, tra formazione ‘undergraduate’ e ‘postgraduate’: soprattutto quest’ultima è oggi, non raramente, un guazzabuglio – alludo evidentemente alle scuole di specializzazione – assai poco formativo, cioè critico, dove si ripetono nozioni, spesso tediose, già insegnate nel quinquennio; donde le consuete lamentele degli iscritti); poi, una certa uniformità (quantomeno nel quinquennio magistrale) di impostazione e di approccio didattico (e quindi anche valutativa) consentirebbe, da un lato, di disporre di parametri, se non altro, maggiormente omogenei (e forse anche maggiormente trasparenti), onde accertare la preparazione degli studenti e, dall’altro lato, legittimerebbe la decisione (apparentemente elitista e dunque discriminatoria, quando è soltanto ragionevole) di permettere l’iscrizione agli anni successivi al primo soltanto a chi abbia sostenuto tutti gli esami di entrambi i semestri del relativo anno di corso.

Ovvio che nel libro di Cipriano Cossu non si possa trovare una soluzione a questi (gravi) problemi, non solo didattici, ma culturali, e tuttavia, a partire dallo stile con cui è scritto, ha sicuramente il merito di avvicinare il lettore (che, appunto, si immagina e deve immaginarsi giovane) alla materia, e soprattutto ai problemi che in essa si sviluppano e che essa è chiamata a risolvere. Il che, proprio rispetto al discorso di taglio più generale che qui si è – al più – impostato, non è certo poco.

Il periodare della pagina scritta ha un andamento che, se non è la mera trasposizione di ciò che è stato detto a lezione (e questo non solo è ovvio, ma anche opportuno: nessuno, del resto, ha mai creduto a quei corsi di lezioni ‘raccolte’, ovvero ‘trascritte’, dagli studenti. O meglio, raccolte, sì; trascritte, certamente no, richiedendo esse una rielaborazione effettuata necessariamente dal docente), è però molto piano. Frasi brevi; ragionamenti semplici e sequenziali (che sono poi vieppù sviluppati nei capitoli successivi, ma senza mai abbandonare l’immediatezza del porgere, che è anche efficacia didattica); qua e là, qualche lieve tono ironico, che non guasta; sicurezza della linea espositiva, nel senso che l’autore sa quel che vuole: essere chiaro; non risultare inutilmente pesante (il che è tipico, a volte, di un certo compiacimento, non solo intellettuale ma anche stilistico); interessare il lettore; mostrare allo studente che la bellezza della responsabilità civile sta nel suo essere (direi in misura paritaria al contratto, nonostante i numerosi, ma ormai superati, snobismi ‘antiresponsabilisti’) una seconda pelle della società, e dunque del vivere aggregato. Così come il contratto, infatti, è la seconda pelle dell’azione sociale, la responsabilità civile è la seconda pelle della reazione sociale.

Ho fatto prima cenno all’attuale eclissi dei case-book. La risposta (ma è una risposta in certa misura affrettata, si limita al ‘quia’, senza aver alcunché di poetico) secondo la quale le banche dati sono sostitutive, ad esempio, delle rassegne di giurisprudenza, delle raccolte dei ‘grandi orientamenti’ della giurisprudenza, è errata nel senso che è semplicistica. Le banche dati sono un eccellente (e oggi senza dubbio irrinunciabile) strumento di ricerca, ma hanno bisogno (prima e dopo) di un lavoro che sarebbe riduttivo definire di ‘affinamento’. Chi utilizza le banche dati, nel momento della ricerca (ecco il ‘prima’) e nel momento dell’im­piego dei risultati della ricerca (ecco il ‘dopo’) deve essere già in possesso di quella capacità di giudizio e di elaborazione individuale affinché il lavoro di ricerca sia efficiente, utile e, diciamo pure, consapevole.

Il che porta, nuovamente, a espandere lo sguardo, così allora imbattendosi nel variegato mondo (e soprattutto nella varia umanità che lo frequenta) di Google. Non pochi sono usi a pensare che Google sia, in sé, uno strumento di autoeducazione, addirittura la consacrazione dell’autodidattismo. È una convinzione del tutto errata, spesso tinta di pregiudizio pseudoscientifico, ma in realtà ottusamente scientista. È sufficiente richiamare l’autorità di Carlo Ginzburg, il quale non perde occasione per dire e per scrivere, che, in senso lato, la rete è la realizzazione del motto, politicamente scorretto, di Gesù Cristo: ‘a chi ha, sarà dato’; nel senso che è indispensabile la mediazione culturale, dunque la scuola, in tutte le sue espressioni e forme. Si impara anche da sé stessi, certo, ma soprattutto si impara dagli altri; e non è affatto detto che la capacità di apprendere sia innata; certamente, può essere trasmessa e dunque insegnata, a partire da una educazione, anche fisica (gramscianamente), al lavoro intellettuale, che richiede una certa dose di fatica.

Questo dico perché il libro di Cossu, facile nello stile e, per dir così, nella simpatia che guadagna al lettore l’immediatezza della parola scritta, è poi concettualmente impegnativo (del resto, la facilità dell’appren­dere è altamente apprezzabile quando sia una dote della persona, non già quando sia una degradazione del sapere, cioè una banalizzazione del sapere; il conoscere è come tale un impegno non solo intellettuale ma anche etico, in certa misura; un impegno se non, almeno per tutti, ‘di vita’, quantomeno pro tempore, come appunto dovrebbe accadere nell’attuale quinquennio del corso di laurea magistrale), dato che lo studente si imbatte non solo in una grande varietà di fattispecie riconducibili alla dimensione dell’illecito, ma anche in un numero elevato di pronunce, di questioni e di problemi.

Ora, sotto il profilo dell’analisi giurisprudenziale, è bene essere chiari: siamo ormai tutti d’accordo, dopo decenni di discussioni, che la distinzione tra obiter dictum e ratio decidendi è, da un lato, essenziale, ma, dall’altro lato, elementare. Non occorre essere raffinati teorici o coltissimi pratici per comprenderla (cito sempre con piacere, perché bello da leggere e perché da esso molto si può apprendere, il seguente scritto di M. Lupoi, L’interesse per la giurisprudenza: è tutto oro?, in Contr. impr., 1999, p. 234 ss.: scritto che, al di là degli intrinseci meriti teorici e scientifici, è altamente formativo, ed è un ‘materiale’ ideale da suggerire in un corso di scrittura giuridica, su cui qualcosa dirò velocemente tra poco). Dunque, uno studente del 5° anno, che, si confida, nel corso dei quattro anni alle spalle, avrà già avuto modo di leggere non poche sentenze, è ormai provvisto di quell’occhio clinico idoneo a fargli individuare il cuore del fatto e il cuore del­l’argomentazione.

Fa bene, allora, Cossu, a lasciare da parte un’analisi teoricamente sofisticata delle sentenze, e dunque della loro motivazione. Altre dovrebbero essere le occasioni per analizzare e smembrare le motivazioni: soprattutto, insegnamenti di teoria e tecnica dell’argomentazione e seminari di scrittura giuridica, i quali ultimi – e questo è sicuramente un dato positivo – stanno aumentando in numero e in qualità. Del resto, il tempo presente, in cui la scrittura a penna sa quasi di provocazione snobistica (ma anche qui, come sempre accade, si stanno registrando segnali in controtendenza, soprattutto nella psicologia dell’apprendimento e nella conseguente didattica), in cui la comunicazione linguisticamente frammentaria e sincopata vince largamente sull’approccio, per dir così, filologico, consistente nel leggere lentamente e nel voler capire tutto (il che, ovviamente, non esime il lettore dallo sforzo; troppo facile pretendere dall’autore, o dall’autrice, quella cristallinità contenutistica che, spesso, fa il paio con la banalità, tanto del pensiero quanto del­l’espressione).

Fa bene, poi, Cossu, ad accompagnare il lettore, guidandolo, a volte, all’interno di un passaggio motivazionale (e non si tratta, quasi mai, di passaggi eccessivamente lunghi); altre volte, in un percorso, che può anche essere un po’ tortuoso, tra numerose pronunce giurisprudenziali sintetizzate dall’autore. Dunque, il rapporto con la giurisprudenza e con la modalità didattica dell’impiego della giurisprudenza varia (e giustamente), a seconda del problema e della rilevanza delle questioni, tenuto fermo, quale orizzonte di riferimento, il tema della responsabilità e, in senso ancora più ampio, quello del danno.

È opportuno che, a questo punto, il lettore abbia di fronte a sé l’oggetto della materia trattata nel volume; non serve dar conto del contenuto di tutti i ventitré capitoli; ma, ad esempio, si va dal classico della lesione del diritto di credito alla responsabilità per lite temeraria (questione, oggi, di particolare significato, anche prospettico), passando per il diritto (e per il conseguente) danno all’immagine, nonché per l’imputabilità del danneggiante.

Il volume di Cossu non sostituisce (ed è bene che sia così) la lezione svolta dal docente, che, nelle pagine dell’opera, potrà al limite anche reperire frammenti di sentenze che poi, in aula, potranno essere invece lette nella loro integralità, a mo’ di seminario, adattabile alle esigenze e alla sensibilità della classe (sempre variabile). Potrei anche dire che il volume di Cossu è un case-book assai ben ritagliato sulle esigenze della stragrande maggioranza degli studenti di giurisprudenza. Altra cosa, è ovvio ed è ben noto, sono i case-book statunitensi, ma lì gli studenti sono destinatari di letture obbligatorie da discutere in classe; prospettiva destinata, almeno al momento, a rivelarsi fallimentare, da noi, anche per la diffusa convinzione che il diritto al­l’educazione e allo studio debba essere poi tradotto nel senso che tutti hanno il diritto di completare con successo qualunque ciclo universitario di studi intrapreso e, soprattutto, che l’istruzione (in specie quella universitaria), sia un bene extra commercium, e dunque debba costare poco, per chi la produce e per chi ne usufruisce.

Il libro di Cipriano Cossu, mi pare, raggiunge un ottimo equilibrio tra lo stile italiano (anche di insegnamento; nonché sotto il profilo quantitativo, che ha la sua importanza, non foss’altro per la spinosa questione dei crediti formativi) e quello statunitense: credo perché è il genuino frutto di un venticinquennio di lezioni. Non è, dunque, né un manuale improvvisato, né la mera trasposizione sulla pagina scritta della parola detta a lezione. È un autentico strumento didattico, e cioè, da un lato, contiene numerosi ‘casi’ (in senso lato: a volte, quando è necessario, l’autore si diffonde nel descrivere la fattispecie concreta; altre volte, si limita a riferire il principio di diritto, certo non lasciato isolato: la funzione didattica del volume resta sempre in primo piano, ed è indubitabilmente il suo maggior pregio), anche tratti da esperienze giuridiche diverse da quella italiana; dall’altro, ha la capacità di trasmettere allo studente, al di là di alcune indispensabili nozioni (ma a questo scopo la lezione resta imprescindibile), prospettive, traiettorie, intersezioni, che hanno uno spiccato valore formativo, disegnando così il giurista quale solutore di problemi; e, sperabilmente, anche persuadendo il lettore del carattere creativo del lavoro del giurista.

Fascicolo 2 - 2022