1.– ‘Logica’ è parola impegnativa.
Se si pensa all’uso più colloquiale del termine, l’espressione «è logico» indica qualcosa di coerente, lineare, razionale. Ma – come ha di recente insegnato Natalino Irti [1] – gli anni della pandemia hanno mostrato come il susseguirsi impetuoso di provvedimenti normativi, «arbitrari nel contenuto, oscuri nel linguaggio, tremolanti nella durata», genera il fenomeno della anomia, che è in realtà la negazione della razionalità. Negli ultimi mesi l’eccesso di regole ha rischiato più volte di rovesciarsi in assenza di norme. Sicché già tornare a pensare il diritto come un sistema ‘logico’ e coerente ha un che di tranquillizzante.
Ma è evidente che, nel titolo del volume di Mauro Orlandi, il riferimento alla ‘logica’ è a una scienza che studi le condizioni per le quali un ragionamento risulta corretto; all’insieme di principî che stanno alla base di un sistema razionale; e a «tutti quei problemi riflessi e generali che sorgono nel campo dell’umano conoscere: quali sono gli oggetti del mio conoscere, con quali mezzi e entro quali limiti di validità li posso conoscere, e con quale criterio quindi distinguo la verità dall’errore, ecc.?» [2].
segue
2. – Il libro si colloca nella nobile tradizione delle ‘Introduzioni’: che rappresentano un genere a sé della letteratura scientifica e giuridica. Penso alla ‘Introduzione alle scienze giuridiche’ di Angelo Falzea[3], o alla ‘Introduzione allo studio del diritto privato’ dello stesso Irti[4]: testi che hanno segnato intere epoche dei nostri studî.
Nelle ‘Introduzioni’, l’autore racchiude, soltanto apparentemente a beneficio di chi vi si avvicini per la prima volta, concetti e nozioni essenziali di una materia. In uno sforzo estremo di sintesi e chiarezza, in modo da dare un quadro che, sebbene iniziale, aspira a una qualche completezza.
E innanzitutto la completezza, pur nella concisione, distingue le ‘Introduzioni’ da un altro genere, quello delle ‘Prime lezioni’: nelle quali l’autore disegna, quasi tratteggia con fare espressionista, il primo abbozzo di un talvolta soltanto ipotetico corso.
Di qui una prima domanda: a chi è rivolto il saggio di M.O.?
Come tutti i libri importanti e serî, esso si presta a più letture, a più livelli di lettura. Riprendendo una felice espressione di Antonio Punzi [5], anche di questa ‘Introduzione alla logica giuridica’ va detto che «si può percorrere a diverse “altezze”». Ma qui la sensazione è che l’A. voglia prendere per mano il lettore, esperto o inesperto che sia; guidandolo gradualmente ai temi e ai problemi, tanto che lo scritto pare sì pensato per gli studenti; ma poi la profondità del ragionamento induce il convincimento che di certo non può essere ad essi riservato in via esclusiva. Sicché si può forse dire che – come chiariscono certe zelanti presentazioni di film o serie televisive – è opportuno che lo spettatore più giovane vi assista ‘accompagnato’.
3. – L’’Introduzione alla logica giuridica’ muove da un patrimonio di conoscenze diffuso e comune, almeno in una certa cerchia di studiosi; per poi proporre riflessioni e soluzioni che, rispetto a quel patrimonio, non sono eccentriche né incoerenti, ma presentano innegabili tratti di novità, e finiscono per legarsi fortemente alla personalità dell’A. che le propone.
Per poco che si rifletta sulla struttura del volume, del resto, lo studio si presenta al lettore come un cammino di ricerca.
E i primi due capitoli sono intitolati e dedicati proprio «alla ricerca»: «della norma», cioè di quella indispensabile unità di misura del ragionamento giuridico, il primo; «del significato», il secondo.
Andando ‘alla ricerca della norma’ (cap. 1, pp. 13-61) M.O. inevitabilmente si confronta con istituti e concetti che fanno da sempre parte dello strumentario del giurista (fatto, fattispecie ed effetto; obbligo e fonte; situazione giuridica; rilevanza).
Virando ‘alla ricerca del significato’ (cap. 2, pp. 63-104), la prospettiva cambia. Il cammino procede e muta il panorama: si entra nel ‘regno’ dell’ermeneutica. Ragionando di altre nozioni fondamentali per il giurista (di nuovo i fatti, e il nesso di causalità tra di essi), l’A. segue sempre più un proprio percorso, che lo porta a rivisitare nell’attualità taluni concetti tralatizi; ed il respiro si fa via via più originale.
In tal modo, fermando, in apertura del capitolo, due linee ricostruttive che caratterizzano la letteratura degli ultimi anni, M.O. registra quella che definisce una «divaricazione»: tra «ermeneutica dei fatti» e «semantica dei testi», in una riflessione che davvero impone l’accompagnamento del lettore meno esperto.
Per Orlandi, l’ermeneutica dei fatti è – in parte riprendendo Emilio Betti [6] – la comprensione causale di essi. Ma poiché la «diagnosi causale dei fenomeni naturali» prescinde dal linguaggio, è soltanto in una fase successiva che la semantica dei testi consente di studiare «la formalizzazione simbolica dei concetti in un ordine linguistico di corrispondenza»: così consentendo di comprendere in che modo il testo è vòlto in un ordine linguistico.
Di qui il problema dell’interpretazione (nella prospettiva «eziologica», più che «ontologica»: pp. 72-77); affrontato attraverso l’analisi di altri concetti decisivi per il metodo del giurista (concludenza, causalità), e soprattutto ponendo al centro quello che è «il problema essenziale del diritto»: la lingua. «L’ermeneutica è il prodromo della semantica», si conclude in un paragrafo intitolato, in modo assai significativo, alla «prigione semantica» (pp. 84-86).
In questo tratto è, ancóra, l’incontro – un incontro sempre nuovo – con Betti e con la sua metodologia dell’interpretazione, piegata all’attualità in modo da garantire la oggettiva verificabilità del relativo esito. E qui sono, altresì, le belle e dense pagine sulla polemica tra lo stesso Betti e H.G. Gadamer, e sul confronto tra l’ermeneutica metodologica del primo e l’ermeneutica ontologica dell’altro, che studiano il medesimo fenomeno «da due angoli; e non si rinnegano reciprocamente» (p. 92). Qui vi è la riscoperta, anche nel dialogo con G. Benedetti [7], di pagine per certi versi sorprendenti di ‘Verità e metodo’ [8], sull’ordine giuridico e sulle caratteristiche proprie dell’ermeneutica giuridica. La conclusione è la verificabilità o la falsificabilità del significare, anche del significare del giudice: sicché il discorso si ricongiunge con la riflessione sulla prevedibilità e sulla verificabilità dell’applicazione della legge [9].
4. – Si giunge, per tale via, all’intimo rapporto esistente tra diritto e linguaggio, e tra «legge linguistica» e «legge giuridica» (pp. 102-104).
Ruolo centrale assume, nell’àmbito di questo rapporto, la scrittura, cui il saggio riserva prolungata e ponderata attenzione.
Anche nel capitolo 3, sulla «semantica della scrittura» (pp. 105-144), l’A. arricchisce ulteriormente il vocabolario del giurista: soffermandosi sulla forma scritta; sul sempre affascinante rapporto tra testo e contesto (ed il dialogo con Irti si fa più serrato, l’Irti di ‘Testo e contesto’ [10] e del più recente ‘Riconoscersi nella parola’ [11]); sul concetto di «significazione», sui «codici di senso». Neppure qui mancano intuizioni personali e sviluppi innovativi dei risultati della migliore dottrina: che sono da O. fatti proprî, studiati e rivisitati, in una feconda rilettura che è il frutto di una ricca fantasia ricostruttiva.
In questo senso la distinzione tra «interpretazione forte» e «interpretazione debole» (pp. 114-119), a seconda del contesto – pubblico o privato – giuridicamente rilevante, e cioè in funzione dell’insieme di circostanze linguistiche opponibili e utilizzabili. Ed inevitabile, in tale prospettiva, è la riflessione intorno all’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale: e da lì il passaggio dall’esegesi, dal senso primario e dagli «strati di senso» (con la distinzione tra testo, co-testo e con-testo) alla sistematica; e interessanti spunti l’A. offre sul silenzio del legislatore e sul suo specifico linguaggio.
5. – Ma è nel capitolo 4, dedicato alla «Analitica del giudizio» (pp. 145-227), che il cammino raggiunge la meta: intesa come formulazione di una compiuta «teoria delle fasi», attraverso le quali l’interprete «consegue la conoscenza giuridica del mondo».
Muovendo dalla distinzione tra «forma esterna o semiotica» e «forma interna o teoretica»; e riconoscendo alla fattispecie il persistente ruolo di «forma del conoscere giuridico», sebbene ammetta che essa non esaurisce la complessità del ragionamento del giurista; O. giunge a distinguere «quattro fasi» – non cronologiche, ma logiche – del giudizio giuridico (pp. 153-167): la «nomologica», che riguarda la «posizione del congegno normativo»; la «ontologica», volta all’accertamento giuridico dell’esistente; la fase «del giudizio tautologico o tassonomico», indispensabile per «classificare il fatto», nei due momenti, della prova e della sussunzione; infine, la fase del «giudizio eziologico o normativo», necessaria per «dimostr[are] l’intero circuito della rilevanza», e quindi la «combinazione» di fattispecie ed effetti posti dalla norma.
Digressioni e corollari si susseguono in un ritmo serrato, sintomo di un’ansia ricostruttiva che non vuole tralasciare alcun esito della teoria formulata. L’A. propone un «concetto di statuto», da intendere come «nucleo» o «plesso» di «effetti strutturali o essenziali» richiamati ellitticamente (pp. 167-169). Si sofferma a lungo, e densamente, sull’analogia, «interna» ed «esterna», e di nuovo sui concetti di silenzio, lacuna ed eccezione; per poi chiudere il cerchio, in modo che il lettore – a questo punto dotato di un apparato concettuale adeguato – possa cogliere fino in fondo le approfondite riflessioni sulla interpretazione costituzionalmente orientata, nonché su valori e principî: cioè su alcuni tra i temi che la civilistica ha studiato di più negli ultimi anni.
D’accordo o in disaccordo che si sia con le tesi proposte, il ragionare dell’A. si svolge, nel capitolo 4, con respiro assai ampio, mai banale, fortemente coerente con la impostazione metodologica dichiarata all’inizio del volume, e poi seguìta fino alla fine.
Esemplare la riflessione sul fenomeno che viene descritto come «crisi dell’effetto» (p. 210 s.). Perché se la dottrina ha conosciuto, negli ultimi anni, un profondo ragionare sulla ‘crisi della fattispecie’ [12], M.O. ribalta, con motto arguto e fare quasi provocatorio, la prospettiva. Crisi dell’effetto si dà quando il giudice interprete, non arrestandosi ai confini segnati dalla fattispecie e dalla norma, sfocia nell’arbitrio, rompe il legame di causalità giuridica che la norma crea tra fatto ed effetto e pone, egli, una conseguenza non prevista.
Ma qui siamo fuori dal diritto. O almeno dal diritto, se inteso come rigorosa applicazione di conseguenze giuridiche al verificarsi di dati fatti: descritti, le une e gli altri, e “imprigionati” in enunciati, in parole e nei relativi significati (donde, di nuovo, l’idea di «prigione», «semiotica» e «semantica»).
Fino a quando ci si collochi all’interno del sistema della logica giuridica, possono ordinarsi le «quattro leggi» della conoscenza che riepilogano il percorso: legge «della conformità»; «della prossimità»; «del limite»; e «della lingua». E in queste asserzioni, utili per fermare, in fine, la «essenza della legge», anche il lettore più giovane potrà agevolmente individuare le tappe nodali del cammino.
6.– I «casi perplessi» affrontati nel capitolo 5 (pp. 229-255) fanno stringente applicazione della logica del saggio ad alcune tra le vicende giurisprudenziali più dibattute negli ultimi anni: in materia di prevedibilità del danno di cui all’art. 1225 c.c., di autoresponsabilità imposta dall’art. 1227 c.c., di riducibilità della caparra ex artt. 1384 e 1385 c.c. e di abuso del diritto.
Verrebbe da pensare che, con questa più che coerente analisi sul campo, il percorso giunga a conclusione: perché M.O. ha fissato e dichiarato, in apertura, l’adesione ad un metodo; sulla base di esso ha (ri)costruito concetti e categorie; grazie ai quali ha educato il lettore – specie il più giovane – ad una sobria e assai definita sensibilità critica, e con ciò ad una attitudine a ragionare con un ben preciso strumentario; del quale, infine, ha mostrato la utilizzazione, per così dire, pratica.
Ma in realtà, al di là della esemplificatrice analisi di casi giurisprudenziali, l’approdo finale del cammino è affidato ad un più che appassionato paragrafo, il settantacinquesimo (ed ultimo: pp. 255-260). Dove ad essere indagato è il problema di sempre del giurista, la domanda di senso di chiunque operi nel e col diritto: il rapporto tra legge e giustizia.
Il «viaggio nelle categorie della ragione», svelandosi progressivamente come «cammino di spoliazione e denudamento», conduce più in là del diritto: «oltre il diritto», secondo quel che suggerisce appunto il titolo del paragrafo 75.
Ma giunto a questa altitudine, il giurista ripiega su sé stesso. E si rende conto che «[l]a povertà del diritto» si rivela proprio nel «“cercare giustizia” nella logica giuridica»; sennonché – questa è la più profonda conclusione di O. – la «vera Giustizia» appare «troppo grande per essere custodita dalla logica giuridica», e si «trasfigura in misericordia».
La conclusione, estremamente personale, arresta e chiude il percorso: il cammino razionale finisce perché ha toccato l’estremo confine, oltre il quale la logica giuridica non può spingersi.
Un’immagine cinematografica soccorre a descrivere la sensazione suscitata da questa pagina finale. Quella sensazione è legata a The Truman Show [13], noto film del 1998, il cui personaggio principale è l’inconsapevole protagonista di un programma televisivo che consente agli spettatori di seguirlo minuto per minuto, dalla sua nascita in poi, 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno.
Nella indimenticabile scena finale, Truman ha compreso che qualcosa non torna, nella sua diuturna esistenza. E allora fugge dalla cittadina artificiale in cui vive, ed in cui tutto si ripete incessantemente; sale su una piccola barca a vela e salpa su un mare che, in realtà, è un immenso bacino artificiale costruito appositamente per lo show, all’interno degli studi televisivi. Truman si mette alla ricerca di qualcosa che avverte, ma che non conosce; Truman vuole vedere fin dove riesce ad arrivare. Ed è in quel momento che la perfida regia del programma gli scatena addosso una tempesta per farlo tornare indietro, alla sua quotidianità programmata per essere seguìta in diretta; ma Truman mette a rischio la vita, pur di andare avanti. Fino a che, placata la tempesta, la sua barchetta urta qualcosa, che non è altro che la parete del bacino artificiale. Truman, novello Ulisse, ha toccato il limite del suo mondo.
A me sembra che, in questo encomiabile sforzo di sintesi e rigore, il volume di M.O. conduca la logica giuridica al confine dei propri limiti. Ma ciò «non significa rifiuto del diritto», cioè negazione di esso o ammissione di una sua qualche insufficienza; significa, al contrario, piena consapevolezza, da parte del giurista, del proprio limite.
Il saggio educa, dunque, alla consapevolezza del metodo, degli strumenti, degli obiettivi e, appunto, anche dei limiti del giurista. Ciò che – in un momento storico come l’attuale, in cui non soltanto i civilisti si interrogano sulle cause dell’incertezza del diritto e sul modo di superarla, ritrovando un nuovo e diverso fondamento, anche metodologico [14] – non è poco. Anzi.
NOTE
[1] N. Irti, Viaggio tra gli obbedienti, Milano, 2021.
[2] N. Bobbio, Teoria della scienza giuridica, Torino, prima edizione del ‘corso universitario’ dattiloscritto, Torino, 1950, 5, ove la ‘logica’ è anche considerata quella «parte della filosofia» intrinsecamente legata al «saper di sapere» dell’uomo.
[3] A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche. Il concetto di diritto, nuova ed. ampliata, Milano, 2008; ma v. anche M. Nuzzo, Introduzione alle scienze giuridiche. Norme – Soggetti – Attività, III ed., Torino, 2009.
[4] N. Irti, Introduzione allo studio del diritto privato, Padova, 1990. E poi R. Clarizia, Introduzione allo studio del diritto privato, Torino, 2017.
[5] A. Punzi, Prefazione a G. Benedetti, Oggettività esistenziale dell’interpretazione. Studi su ermeneutica e diritto, Torino, 2014, XV.
[6] E. Betti, Le categorie civilistiche dell’interpretazione (1948), da ultimo in Riv. it. sc. giur., 2014, 5, 11 ss.
[7] G. Benedetti, Oggettività esistenziale dell’interpretazione, cit., 121 ss.
[8] H.G. Gadamer, Verità e metodo, trad. e cura di G. Vattimo, Milano, 1994, 380 ss.
[9] Cfr. N. Irti, Un diritto incalcolabile, Torino, 2016.
[10] N. Irti, Testo e contesto. Una lettura dell’articolo 1362 codice civile, Padova, 1996.
[11] Cfr. N. Irti, Riconoscersi nella parola. Saggio giuridico, Bologna-Napoli, 2020.
[12] Cfr. N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., 2014, 42 ss.; ora in Id., Un diritto incalcolabile, cit., 19 ss., ove anche Id., ‘Calcolabilità’ weberiana e crisi della fattispecie, 33 s. Dell’ampio dibattito che ne è seguìto, emergono le voci dissonanti di N. Lipari, I civilisti e la certezza del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 1115 ss., ora in Id., Il diritto civile tra legge e giudizio, Milano, 2017, 155 ss.; C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, 29, nota 34; P. Grossi, Ritorno al diritto, Roma-Bari, 2015; Id., L’invenzione del diritto, Roma-Bari, 2017.
[13] The Truman Show (1998), diretto da Peter Weir su un soggetto di Andrew Niccol, con Jim Carrey nel ruolo del protagonista Truman Burbank.
[14] Cfr. C. Castronovo, op. cit., passim; C. Camardi, Certezza e incertezza nel diritto privato contemporaneo, Torino, 2017; G. Benedetti, Sull’in-certezza del diritto. Dal dogma della certezza a un’ermeneutica critica, in Id., Oltre l’incertezza. Un cammino di ermeneutica giuridica, Bologna, 2020, 137 ss.