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G. Giappichelli Editore

La nuova disciplina francese del dovere di informazione precontrattuale: un modello per l'Italia? (di Andrea Maria Garofalo. Ricercatore di Diritto privato – Università degli Studi di Trento)


Da tempo nei Paesi di civil law, e così anche in Francia, dottrina e giurisprudenza hanno ipotizzato l’esistenza di un dovere generale di informazione durante le trattative, i cui esatti contorni sono tuttavia alquanto dibattuti. La riforma francese del 2016 ha regolato espressamente questo dovere di informazione, con il nuovo art. 1112-1 Code civil. 

Il contributo prende in esame questa nuova disposizione, anche al fine di valutare se e in che limiti essa possa costituire il modello per una futura introduzione di una previsione analoga nel codice civile italiano.

The new french regulation on the duty of pre-contractual information: a model for Italy?

In the last few decades in civil law countries, including France, scholarship and case law have assumed the existence of a general duty of disclosure during negotiations, the exact scope of which are, however, quite debated. The 2016 French reform expressly regulated this duty of disclosure through the new Article 1112-1 Code civil. 

The paper deals with this new provision, also assessing whether and to what extent it may represent the model for a future introduction of a similar legislative rule in the Italian Civil Code.

 

Keywords: Duty of disclosure - negotiations - legislative reform

SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. Il dovere generale di informazione: linee essenziali della nuova disciplina francese - 3. Le scelte metodologiche e politiche del legislatore: l’approccio fondato sulla buona fede e l’ispirazione ordoliberale - 4. Le scelte tecniche del legislatore: l’esclusione del dovere informativo e il rinvio all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale - 5. Segue. La rilevanza causale dell’informazione e la restante disciplina del dovere informativo - 6. Le criticità della réforme: il mancato coordinamento del dovere generale di informazione francese con la disciplina dei vizi del consenso - 6.1. Il dol - 6.2. L’erreur - 7. Segue. Per una regolazione unitaria dell’informazione precontrattuale a fronte della duplicità dei rimedi attivabili. - 8. Conclusione


1. Introduzione

Da sempre nel diritto contrattuale convivono istanze contrapposte: l’una, volta ad assicurare che i contraenti in sede precontrattuale si scambino tutte le informazioni rilevanti per poter giudicare con precisione circa i termini dell’affare; l’altra, invece, di stampo liberale e diretta a consentire a ciascuna delle parti di tacere tutte queste informazioni, onde massimizzare il profitto che ciascuna intende trarre dall’affare.

È ben noto che la prima istanza corrisponde a una visione solidaristica del contratto e la seconda, invece, a una visione antagonista; che le giurisdizioni di civil law tradizionalmente hanno prediletto il primo approccio; e, infine, che negli ultimi decenni questa tensione solidaristica si è addirittura incrementata negli ordinamenti di civil law. Ciò si è tradotto, pressoché ovunque, in un maggior ruolo della buona fede precontrattuale e, in particolare, in più intensi obblighi di informazione a carico di ciascuna delle parti, di fonte ora legislativa, ora giurisprudenziale.

All’interprete italiano è ben noto il percorso che ha portato, tra l’altro, il legislatore a prevedere una miriade di obblighi di informazione (specie nel caso di contratti conclusi da consumatori o comunque tra parti in posizioni di squilibrio) [1] e che ha condotto dottrina e giurisprudenza prima ad ampliare l’ambito di applicazione riservato ai vizi del consenso (in particolare al dolo) [2] e poi a elaborare e accogliere la teoria dei vizi incompleti del consenso (stando alla quale è possibile chiedere il risarcimento per lesione di un obbligo precontrattuale di informazione anche se il contratto concluso è svantaggioso, ma valido) [3]. Ma un simile percorso si è riproposto, in termini assai simili, in tutti i principali ordinamenti continentali [4]: e così, in particolare, anche in Francia, ove l’intensa opera legislativa, volta a dettare numerose previsioni relative a specifici doveri informativi (per lo più nell’ambito di quello che, con linguaggio municipale, chiameremmo secondo o terzo contratto) [5], è stata preceduta e poi comunque affiancata dalla proposta dottrinale di estendere i vizi del consenso (e in particolare il dol[6] e di far assumere alla buona fede precontrattuale un ruolo di supplenza [7].

Non apparirà strano quindi che il legislatore francese, chiamato a riformare la disciplina delle obbligazioni e dei contratti del codice civile, si sia soffermato anche sul dovere precontrattuale di informazione, dettando un’apposita previsione, di applicazione generale, che ne stabilisce alcune coordinate essenziali. Tale disposizione – il nuovo art. 1112-1 Code civil [8] – appare di grande interesse anche per l’interprete italiano, costituendo la risposta a un interrogativo che pure in chiave interna si pone con estrema urgenza: è opportuno regolare espressamente, nell’ambito della disciplina generale del contratto, il dovere d’informazione precontrattuale?

Nel presente contributo descriveremo la nuova disciplina francese (tenendo anche in considerazione i commenti dottrinali che, nei cinque anni che ci separano dalla riforma del Code civil, vi sono stati dedicati) [9], per poi passare a valutarla dal punto di vista dell’interprete italiano, verificandone così i punti di forza e i lati deboli nella prospettiva di un possibile futuro intervento legislativo sul codice civile [10]. Le criticità della riforma francese, come vedremo, riguardano essenzialmente il mancato coordinamento tra il nuovo dovere d’informazione precontrattuale e la disciplina dei vizi del consenso: di esse dovremo interessarci da vicino, anche al fine di suggerire a chi eventualmente vorrà mettere mano al codice civile soluzioni che vi si sottraggano [11].

 

[1] Impossibile una, anche parziale, elencazione: basterà, a tal fine, compulsare i tantissimi testi legislativi che hanno regolato tali obblighi informativi (a partire dal codice del consumo, dalle leggi speciali dedicate alla disciplina di certi contratti tipici, dal testo unico della finanza e da quello in materia bancaria).

[2] In dottrina v. ad esempio G. Visintini, La reticenza nella formazione dei contratti, Padova, 1972, 98 ss. In letteratura è diffusa l’opinione secondo cui la giurisprudenza stessa ha allargato le maglie del dolo negli ultimi decenni (v. P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato22, Milano, 2018, 186 s.); tuttavia, vi è chi di recente ha criticato tale convinzione (v. in particolare M. De Poli, I mezzi dell’attività ingannatoria e la reticenza da Alberto Trabucchi alla stagione della “trasparenza contrattuale”, in Riv. dir. civ., 2011, I, 694.

[3] Cfr. in particolare M. Mantovani, ‘Vizi incompleti’ del contratto e rimedio risarcitorio, Torino, 1995, 187 ss. Non è vi è dubbio che la giurisprudenza abbia fatto proprio questa proposta, almeno a partire dalle notissime sentenze Rordorf (Cass. civ., sez. un., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725 in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 432); v. pure Cass. civ., sez. I, 23 marzo 2016, n. 5762, in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 1063.

[4] V. su questi profili R. Sefton-Green, Mistake, Fraud and Duties to Inform in European Contract Law, Cambridge, 2005. In particolare, sull’evoluzione tedesca del dolo (arglistige Täuschung) e dell’obbligo precontrattuale di informazione (poi trasfuso nel § 311 BGB dalla Schuldrechtsmodernisierung), che ha rappresentato il modello più noto di estensione dell’informazione precontrattuale per supplire alle lacune dei vizi del consenso (anche in virtù del fatto che, in Germania diversamente che in altri ordinamenti, si consente di chiedere una Naturalrestitution per il caso di violazione degli obblighi precontrattuale di informare, con conseguente caducazione del vincolo contrattuale), v. M.J. Schermaier, §§ 116-124. Willensmängel, in M. Schmoeckel-J. Rückert-R. Zimmermann, Historisch-kritischer Kommentar zum BGB, Tübingen, 2003, 495 ss.

[5] F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, Les obligations8, Paris, 2002, 260 ss.

[6] Per la Francia v. J. Ghestin, La formation du contrat3, in Id. (dir.), Traité de droit civil, Paris, 1993, 535 ss., e, in giurisprudenza, Cour de Cassation, Chambre civile 3, 15 janvier 1971, 69-12.180.

[7] Sempre per la Francia v. F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, Les obligations8, cit., 255 ss. e, in giurisprudenza, Cour de Cassation, Chambre civile 1, 18 avril 1989, 87-12.053.

[8] L’obbligo generale di informare veniva, prima della riforma, fondato sui vecchi artt. 1134, alinéa 3, e 1135 Code civil. Quanto ai progetti dottrinali, l’avant-projet Catala dedicava al dovere di informazione gli artt. 1110 e 1110-1; l’avant-projet Terré l’art. 33. Limitando i riferimenti bibliografici alla letteratura italiana che si è occupata nuovo art. 1112-1, v. E. Calzolaio, La responsabilità precontrattuale dopo la riforma del code civil francese. Profili comparatistici, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 1307 ss.; D. Di Sabato, La nuova disciplina della responsabilità precontrattuale francese, in Contr. impr., 2018, 96 ss.; A. Gorgoni, I vizi del consenso nella riforma del Code Civil: alcuni profili a confronto con la disciplina italiana, in Pers. merc., 2018, 88 ss.; P. Sirena, The New Design of the French Law of Contract and Obligations, in J. Cartwright, S. Whittaker (eds.), The Code Napoléon Rewritten. French Contract Law after the 2016 Reforms, London, 2017, 357 ss.

[9] § 2.

[10] §§ 3-5.

[11] §§ 6-8.


2. Il dovere generale di informazione: linee essenziali della nuova disciplina francese

Come si è detto, a fronte di una legislazione speciale a macchia di leopardo, che ha introdotto una miriade di obblighi di informazione speciali, e di un’interpretazione giurisprudenziale sempre più incline ad ammettere un generale dovere delle parti delle trattative di scambiarsi informazioni rilevanti, il legislatore francese ha sentito il bisogno di dettare un’apposita disposizione relativa agli obblighi di informazione: e, cioè, il nuovo art. 1112-1 [1].

La nuova previsione sul dovere di informazione, anzitutto in virtù della sua collocazione topografica, è di diritto comune e di portata generale: ne deriva che, da un lato, riguarda qualsiasi tipo di contratto e, da un altro lato, non esclude che specifici tipi di contrattazione possano prevedere obblighi di informazione più penetranti.

Nel suo primo alinéa, l’art. 1112-1 stabilisce che: “celle des parties qui connaît une information dont l’importance est déterminante pour le consentement de l’autre doit l’en informer dès lors que, légitimement, cette dernière ignore cette information ou fait confiance à son cocontractant”  [2].

Come si vede, la disposizione non solo conferma l’esistenza di penetranti obblighi di informazione tra le parti delle negoziazioni (indipendentemente dalla sussistenza di un vizio del consenso), ma individua pure un criterio per guidare la giurisprudenza nell’opera di concretizzazione di questo dovere, creando inoltre una cornice sistematica entro cui inserire gli obblighi già previsti dalla legge (i quali, infatti, talvolta specificano il dovere generale di informazione; altre volte – e qui si tratterà soprattutto dei casi dei contratti tra diseguali, come il contratto del consumo – lo estendono ulteriormente [3]).

Converrà indugiare sul criterio così posto, che costituisce il perno attorno a cui ruota tutto l’art. 1112-1 e che, in larghissima parte, consacra i risultati cui era giunta la giurisprudenza negli anni precedenti [4].

Anzitutto, il legislatore esclude la sussistenza, nel diritto francese, di un generale obbligo di informarsi per informare. Per meglio dire: non vi è dubbio che un tale dovere può sussistere, ma ciò avverrà in casi specifici, che si porranno quindi al di fuori della nuova previsione codicistica [5]. Si tratta, peraltro, di una regola che in chiave comparatistica non è affatto nuova e, anzi, appare abbastanza diffusa [6]: il dovere di informarsi per informare non è mai “generale”, ma riguarda semmai casi “particolari” e, quindi, è anche di portata ristretta [7].

In Francia esiste invece oggi un generale obbligo di rivelare alla controparte le informazioni di cui una parte è (già) a conoscenza. Tale obbligo, o dovere (si useranno qui i due termini quali sinonimi), è generale, nel senso che non richiede particolari condizioni per sorgere, se non quelle relative al perimetro che ne definisce l’estensione. Perimetro che, per l’appunto, è rispecchiato dal criterio guida previsto dall’art. 1112-1 e che si declina in una triplice dimensione [8].

In primo luogo, si richiede che l’informazione abbia un’importanza déterminante; con “determinante” s’intende qualsiasi informazione che, più che semplicemente “pertinente” [9], sia tale da avere un’incidenza causale – un’influence – sul consenso dei contraenti (in altri termini: un’informazione che, se fornita, avrebbe fatto sì che non si sarebbe concluso il contratto o si sarebbe concluso il contratto a condizioni anche parzialmente diverse) [10].

È il legislatore stesso, all’alinéa 3, che specifica che sono “determinanti”, in questo senso, le informazioni che hanno un “ont une importance déterminante les informations qui ont un lien direct et nécessaire avec le contenu du contrat ou la qualité des parties” [11]. Secondo la dottrina, il riferimento al “contenuto” – che qui come altrove ha sostituito objet e cause – va inteso come all’oggetto delle obbligazioni, al prezzo, alle prestazioni attese [12]; a sua volta, il richiamo alla “qualità delle parti” viene ritenuto rilevante solo per i contratti intuitu personae [13].

In secondo luogo, è necessario che la controparte “legittimamente ignori l’informazione o faccia affidamento sul fatto di riceverla dalla sua controparte”.

Questa formula sottende, in realtà, due previsioni diverse: anzitutto implica che l’ambito dell’obbligo di informazione non è – o non è primariamente – quello dell’errore spontaneo, in cui una parte cade, ma è quello dell’errore per così dire causato. Si tratta dei casi in cui una parte “legittimamente” non conosce una certa informazione e, quindi, confida nel fatto che sarà la sua controparte a informarla: o, per meglio dire, nel fatto che la situazione – e così il bene o il servizio – abbia tutte le caratteristiche normali e che ci si può aspettare in base alle circostanze, salva una diversa informazione proveniente dalla controparte [14].

Quando sia tutelato un simile affidamento risponde, anzitutto, a una regola generale, che non è espressa a chiare lettere nel nuovo testo del Code civil, ma che sicuramente vi è implicita (corrispondendo, del resto, a un principio che ritroviamo in diversi ordinamenti): il dovere di informazione nasce ogni qual volta le parti, pur tra loro in posizione di equilibrio, risultino in posizione di asimmetria rispetto all’informazione [15], nel senso che una è – e appare essere – più vicina dell’altra all’informazione e, quindi, è tenuta a condividerla [16].

Ma la formula poc’anzi esposta – la controparte “legittimamente ignora l’informazione o fa affidamento sul fatto di riceverla dalla sua controparte” – richiama anche qualcosa di diverso e di ulteriore, che coincide con la terza dimensione in cui criterio generale fatto proprio dall’art. 1112-1 si esprime.

Non qualsiasi informazione può essere ignorata “legittimamente”: a prescindere dall’asimmetria rispetto alla stessa, vi sono informazioni rispetto alle quali il dovere di informare appare disattivato. In altri termini, non basta essere “più lontani” dall’informazione per potersi aspettare di venire informati; serve qualcosa in più, ossia che la parte non a conoscenza dell’informazione non sopporti il rischio relativo alla sua ignoranza.

Ovviamente, questa ulteriore precisazione richiede di comprendere quando si producano situazioni di questo tipo: quando, cioè, una parte debba senz’altro informarsi da sé.

Un chiarimento al riguardo si può rinvenire nello stesso art. 1112-1, all’alinéa 2, secondo cui “néanmoins, ce devoir d’information ne porte pas sur l’estimation de la valeur de la prestation”. Il dovere di informazione, quale che sia la distanza dalla fonte di informazione, non può mai riguardare “la stima del valore della prestazione”, rispetto alla quale ciascuna parte deve compiere le sue verifiche e deve adoperarsi per reperire informazioni, senza doverle condividere con la sua controparte [17]. Si tratta di una precisazione – che rimanda a quella che in chiave italiana chiameremmo “valutazione di convenienza del contratto” – fornita dal legislatore della riforma per “rassurer les milieux économiques” [18], nel solco della più recente giurisprudenza della Cour de Cassation [19].

In realtà, la specificazione così offerta, la cui importanza è comunque indiscutibile, si limita semplicemente a recepire un principio applicato in qualsiasi ordinamento fondato sull’autonomia privata: anzi, lo recepisce in modo abbastanza generico, senza nemmeno chiarire tutti i dubbi che vi si collegano [20]. Del resto, sebbene in ipotesi semplici sia assai chiaro a cosa si riferisca la stima del valore della prestazione – pagare 1 o 2 lo stesso bene è una valutazione di convenienza; non lo è, invece, sapere se un bene è d’oro o d’argento –, in altre ipotesi non è così banale rispondere [21]; per di più, non è scontato nemmeno comprendere se, accanto a questi casi, ve ne siano altri simili in cui il dovere di informazione si disattiva (dovendosi applicare allora un regime analogo a quello vigente per le valutazioni sulla convenienza) [22].

D’altro canto, lo stesso legislatore ammette, per quanto in modo non del tutto nitido, che l’area di quello che potremmo definire “diritto al silenzio” è variabile a seconda dei diversi casi. Infatti, l’alinéa 1 della disposizione in commento aggiunge, come già si è visto, che anche chi non ignora legittimamente un’informa­zione può aspettarsi di riceverla dalla controparte informata, se fa “legittimo” affidamento in ciò.

Si tratta di un’ulteriore indicazione che i giuristi francesi collegano a tutta una vasta congerie di casi in cui, visto il particolare rapporto che esiste tra due soggetti (è il caso di contratti conclusi tra membri della stessa famiglia oppure tra soci e presidente della stessa società) [23], l’uno può aspettarsi di ricevere più informazioni dall’altro di quanto non avverrebbe in una situazione normale e pienamente commerciale [24]. Così, tra le informazioni rispetto a cui in questi casi non opera l’esenzione – e che quindi ricadono a pieno titolo nel dovere di informazione – rientrano anche, e soprattutto, dati concernenti l’evoluzione prevista di un certo mercato, che in altre ipotesi non dovrebbero essere rivelati [25].

Ecco che, in casi simili, sembra che l’ampiezza della valutazione di convenienza, rispetto alla quale non è necessario fornire informazioni, si restringa: o, comunque, che alcune informazioni, per le quali di solito non sussiste un obbligo di divulgazione, debbano venire rivelate, sottraendosi all’esclusione del dovere di informazione, per rientrare nuovamente nell’obbligo generale [26].

Come si può appurare soprattutto considerando la terza dimensione in cui si declina il criterio volto a sovrintendere al dovere generale di informazione, il legislatore non ha voluto porre regole precise, ma solo clausole mobili, demandando alla giurisprudenza, con la sua stratificazione quotidiana, il compito di fissarle in prescrizioni più precise.

Esaminato il criterio attorno a cui ruota l’estensione del dovere di informazione, possiamo approfondire il resto della regolazione che trova spazio nell’art. 1112-1 e che si sostanzia nei commi 4, 5 e 6.

Secondo l’alinéa 4 l’onere della prova relativo all’esistenza del dovere di informazione grava su chi deve riceverla, mentre è chi doveva fornire l’informazione che deve dimostrare di aver tenuto la condotta richiesta [27].

La previsione segue i principi generali posti dal codice di procedura francese in tema di onere della prova (art. 9): incombe su chi fa valere un diritto dare la prova dei suoi fatti costitutivi (qui: la nascita del dovere di fornire una certa informazione), mentre, nel caso di prove di fatti negativi, in virtù del principio di vicinanza della prova è la controparte che deve dimostrare il corrispondente fatto positivo (qui: l’aver effettivamente condiviso l’informazione) [28].

Inoltre, l’alinéa 5 prevede che “les parties ne peuvent ni limiter, ni exclure ce devoir” (ossia, il dovere generale di informare).

La dottrina francese desume dalla previsione che il dovere di informare è di ordine pubblico e per tale ragione non può essere limitato, né escluso (così come non può essere esclusa o limitata la responsabilità che deriva dalla sua violazione) [29]. Ciò non toglie, ovviamente, che le parti possano indirettamente estendere il dovere di informare, ad esempio fornendo informazioni spontaneamente e, così, assumendo su di sé il rischio della loro inesattezza (tema, questo, non espressamente regolato dalla riforma francese) [30].

In ultimo, l’alinéa 6 stabilisce espressamente che la violazione dell’obbligo di informazione comporta una responsabilità risarcitoria, la cui natura è sicuramente extracontrattuale [31]; nondimeno, tale violazione può, se del caso, condurre anche alla caducazione del contratto [32].

In linea di massima, ciò viene inteso dalla dottrina nel senso che, se la mancanza d’informazione ha un’efficienza causale rispetto al contratto concluso (giacché l’informazione è déterminante), vi sarà risarcimento del danno in base alle regole della responsabilità extracontrattuale; se, però, il contratto concluso è – anche e addirittura – sostanzialmente diverso rispetto a quello che si sarebbe concluso se si fosse ricevuta l’informazione, l’ignoranza può ridondare addirittura in un erreur o in un dol, con conseguente nullità relativa dell’accordo (erreur e dol richiedono infatti che il vizio del consenso sia determinante, qui nel senso di non incidente, ossia tale da aver condotto a un contratto sostanzialmente diverso rispetto a quello ipotizzato). Insomma, e in breve, l’ignoranza, pur sempre causalmente efficiente, produce anche nullità relativa se va oltre la soglia del vizio incidente [33].

Da questa descrizione potrebbe sembrare che la réforme abbia creato, all’interno del dovere di informazione, un insieme più vasto, tutelato in via risarcitoria, e un sottoinsieme, cui sarebbe abbinato (anche) un rimedio caducatorio; il tutto, verrebbe fatto di pensare, a prescindere da altre ipotesi di caducazione del contratto (quelle, in particolare, in cui l’erreur o il dol non corrispondono alla violazione di un obbligo informativo gravante sulle parti della negoziazione in quanto tali). Tuttavia, così non è. Il legislatore francese non solo ha disciplinato in modo del tutto separato il dovere di informazione precontrattuale e i vizi del consenso (questi ultimi agli artt. 1130 ss. Code civil), ma addirittura ha previsto per quei vizi del consenso che potremmo chiamare “informazionali” (erreur e dol), e proprio nell’ambito dell’errore causato dalla violazione di un obbligo di informare gravante sulle parti della trattativa, condizioni di rilevanza non del tutto coincidenti con quelle del dovere generale di informazione [34].

Così facendo, il legislatore francese ha rifiutato, per lo meno all’apparenza, l’idea per cui l’informazione precontrattuale conosce e deve conoscere una disciplina unitaria, che pur si accompagna a un duplice ordine di rimedi (risarcimento del danno e caducazione del vincolo contrattuale, a seconda dei casi). Il che, di riflesso, fa emergere altre questioni: è inevitabile chiedersi se la duplicità formale di disciplina non debba essere superata in via interpretativa (in particolare, integrando le indicazioni che provengono dall’art. 1112-1 e dagli artt. 1130 ss. al fine di dar vita a una disciplina unitaria) oppure se i due gruppi di regole debbano rimanere in tutto o in parte reciprocamente autonomi (sussistendo ragioni sufficienti per distinguere le condizioni di rilevanza del dovere di informazione, da un lato, e di erreur e dol, dall’altro o, comunque, non esistendo margini ermeneutici sufficienti per procedere a tale integrazione, pur necessaria o per lo meno opportuna da un punto di vista funzionale) [35].

L’interrogativo è assai delicato e l’alinéa 6 non ci offre risposta definitiva: su di esso, allora, dovremo tornare nel prosieguo.

 

[1] Inserito nella sotto-sezione del Code civil riformato dedicata alle negoziazioni, subito dopo l’art. 1112, che riguarda la rottura delle trattative, e l’art. 1112-2, sulla divulgazione di informazioni riservate apprese durante le trattative.

[2] Ossia: “la parte che conosce una informazione di importanza determinante per il consenso dell’altra parte, deve condividerla, se quest’ultima legittimamente la ignora o fa affidamento nella sua controparte”.

[3] V. in linea generale F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, Paris, 2019, 375 ss.

[4] V. Ph. Malaurie, L. Aynés, Ph. Stoffel-Munck, Droit des obligations10, Paris, 2018, 425.

[5] V. M. Fabre-Magnan, Le devoir d’information dans les contrats: essai de tableau général après la réforme, in JCP, 2016, 706; G. Cattalano-Cloarec, Obligation d’information et réticence dolosive: une obscure clarté?, in M. Latina (dir.), La réforme du droit des contrats en pratique, Paris, 2017, 41. L’obbligo di informarsi per informare può sorgere anche in virtù di un’informa­zione non dovuta e spontaneamente offerta (ipotesi di cui parleremo ampiamente nel prosieguo): v., prima della réforme, Cour de Cassation, Chambre civile 2, 19 juin 1996, 94-12.777.

[6] V. D. Kästle-Lamparter, Art. 2:401: Duty to Disclose Information, in R. Zimmermann, N. Jansen (eds.), Commentaries on European Contract Laws, Oxford, 2018, 418 s.

[7] Il progetto Catala aveva, invece, esteso il dovere generale di informazione sino ad abbracciare l’obbligo di informarsi per informare (cfr. l’art. 1110, secondo cui «celui des contractants qui connaît ou aurait dû connaître une information dont il sait l’importance déterminante pour l’autre a l’obligation de le renseigner»). Così, peraltro, pure il progetto di ordonnance del febbraio 2015, all’art. 1129.

[8] V. Ph. Malaurie, L. Aynés, Ph. Stoffel-Munck, Droit des obligations10, cit., 425.

[9] Così invece l’avant-projet Catala, all’art. 1110, alinéa 3, che riprendeva l’espressione di M. Fabre-Magnan, De l’obligation d’information dans les contrats, Paris, 1992, 132 s.

[10] G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit des obligations. Commentaire théorique et pratique dans l’ordre du Code civil2, Paris, 2018, 164.

[11] Ossia che “hanno un legame diretto e necessario con il contenuto del contratto o la qualità delle parti”. Caio compra da Tizio una villetta solo perché l’albero che è sul fondo del vicino è una magnolia che ricorda la sua gioventù; Tizio, che in ipotesi nulla sa di questa motivazione, non sarà tenuto a dire a Caio che il vicino di casa sta per sradicare l’albero.

[12] Cfr. art. 1162 ss., nonché G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 164.

[13] V. F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette F. Chénedé, Les obligations12, cit., 370.

[14] Sempre il progetto Catala aggiungeva, all’art. 1110, comma 2, che «cette obligation de renseignement n’existe cependant qu’en faveur de celui qui a été dans l’impossibilité de se renseigner par lui-même ou qui a légitimement pu faire confiance à son cocontractant, en raison, notamment, de la nature du contrat, ou de la qualité des parties».

[15] La dottrina francese esprime in modo vario questo principio, senza però incidere sulla sostanza. Ad esempio, F. Terré-Ph. Simler Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, cit., 372, sottolineano come il dovere di informazione nasca se una delle due parti è nell’impossibilità di ottenere un’informazione o anche semplicemente se per essa è difficile ottenerla, così come se sussiste una relazione di particolare affidamento, in particolare perché una delle parti del contratto agisce professionalmente.

[16] Ad esempio: Tizio vende a Caio una villetta senza rivelargli che sta per venire costruita proprio di fronte una superstrada, sebbene tale informazione non sia “de la connaissance de tout” (così Cour de Cassation, Chambre civile 3, 6 mars 2002, 99-20.637; v. pure Cour de Cassation, Chambre commerciale, 17 juillet 2001, 97-17.259, a proposito di un’autorizzazione comunale oggetto di una campagna di stampa tale per cui essa ha beneficiato “d’une très grande notoriété”).

[17] Il testo fa espresso riferimento a “valutazioni”, sicché sembrerebbe che il dovere di informazione non riguardi quelle opinioni personali, e per loro natura spesso incerte, sull’evoluzione del mercato. La dottrina, tuttavia, intende la disposizione come estesa anche ai veri e propri “dati” relativi all’esistenza di un mercato e alle sue possibilità di futuro sfruttamento: v. F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, cit., 370. Del resto, una gran parte delle opinioni personali sfuggono, già a monte, dall’am­bito di applicazione dell’art. 1112-1, che si riferisce solo a “informazioni” (tra le quali possono rientrare, a tutto voler concedere, perizie di terzi, avvertimenti circa fatti che presentano un margine di incertezza, ma non già semplici consigli: v. G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit, cit., 164).

[18] V. F. Terré, Ph. Simler,Y. Lequette F. Chénedé, Les obligations12, cit., 370. Del resto, la réforme non è rimasta affatto sorda alla necessità di assicurare l’“efficacia economica”, anche aderendo a scelte politiche liberali (sul rapporto tra scelte politiche e riforma francese v. oltre, § 3): su tutto ciò v. in particolare D. Mazeaud, Diritto dei contratti: la riforma all’orizzonte!, in Riv. dir. civ., 2014, 808 ss.

[19] V. in particolare il noto arrêt Baldus (Cour de Cassation, Chambre civile 1, 3 mai 2000, 98-11.381). Questi i fatti: un venditore aveva alienato, in un’asta pubblica, al prezzo di 1.000 franchi l’una, cinquanta fotografie di Baldus (fotografo famosissimo: informazione ignorata dal venditore, che aveva perciò richiesto un prezzo irrisorio). L’acquirente, poi, aveva comprato altre trentacinque e poi altre cinquanta fotografie allo stesso prezzo. Il venditore, venuto a scoprire dell’autore delle fotografie, chiedeva di dichiarare la nullità delle ultime vendite per dolo; peraltro, si scopriva che dopo il primo acquisto il compratore aveva già rivenduto alcune delle prime cinquanta fotografie a un prezzo molto più alto di quello d’acquisto. Secondo la Cassazione, tuttavia, non esisteva alcun dovere di informare circa la propria stima del valore di un bene: sicché la Corte cassava la sentenza d’appello, che aveva dichiarato nulla la vendita.

[20] Basti pensare che, poco dopo aver deciso il caso Baldus, la Corte di cassazione francese aveva pronunciato una sentenza apparentemente contrastante (Cour de Cassation, Chambre civile 3, 15 novembre 2000, 99-11.203), in cui si dichiarava nulla una vendita, per dolo, a causa del fatto che l’acquirente – una società, che agiva però per il tramite di un incaricato avvalendosi di una clause de substitution – non aveva informato i venditori delle qualità del loro terreno e in particolare della ricchezza della composizione del sottosuolo. In dottrina, un autore – E. Savaux, in Rép. Defrénois, 2001, 243 ss. – aveva provato a far convivere le due decisioni, sostenendo che la prima riguardava un’ignoranza relativa al valore di un bene, la seconda invece un’ignoranza relativa a certe qualità.

[21] Mancando una vera e propria nozione di “informazione sulla convenienza”. Ci chiederemo oltre, però, se sia compito del legislatore o piuttosto di dottrina e giurisprudenza costruire questa nozione.

[22] Torneremo sul punto, nella prospettiva italiana, nel § 4; per il momento, v. F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, cit., 373, che notano come i confini dell’ignoranza legittima non siano semplici da tracciare, tanto che si rinvengono numerose decisioni giurisprudenziali all’apparenza contrastanti.

[23] A tal riguardo si richiama spesso il caso Vilgrain, in cui un soggetto, avendo ereditato alcune azioni, si era rivolto al presidente della società, a cui aveva chiesto di cercare un acquirente; il presidente, sig. Vilgrain, assieme ad altri azionisti, aveva acquistato quelle azioni, per poi rivederle immediatamente a terzi a un prezzo molto più alto. Secondo la Cassazione francese (Cour de Cassation, Chambre commerciale, 27 février 1996, 94-11.241) il silenzio serbato dal sig. Vilgrain non era conforme a correttezza, visto il suo particolare ruolo nella società.

[24] Ad esempio: Tizio vende al fratello Caio un bistrot, senza rivelargli che negli anni a seguire gli avventori nel quartiere caleranno, perché alcuni uffici pubblici si sposteranno in un altro quartiere.

[25] V. G. Chantepie M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 169.

[26] In effetti, non è del tutto chiaro se tali informazioni rientrino in sé e per sé in una nozione a perimetro fisso di “valutazione di convenienza” oppure siano, in virtù di altre ragioni, normalmente escluse dal generale dovere di trasparenza e, quindi, dall’ignoranza “legittima”: ma su questo v. § 4.

[27] “Il incombe à celui qui prétend qu’une information lui était due de prouver que l’autre partie la lui devait, à charge pour cette autre partie de prouver qu’elle l’a fournie”.

[28] V. F. Terré, Ph. Simler,Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, cit., 374.

[29] V. F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, cit., 373.

[30] V. ancora F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, cit., 373, nonché M. Mekki, Les incidences de la réforme du droit des obligations sur le droit des sociétés: rupture ou continuité ? Le contrat, in Rev. Sociétés, 2016, 483.

[31] Giacché tale forma di responsabilità è assai estesa nell’ordinamento francese: v. sul punto G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 170. Nella giurisprudenza precedente alla riforma v. Cour de Cassation, Chambre civile 1, 28 mai 2008, 07-13.487.

[32] “Outre la responsabilité de celui qui en était tenu, le manquement à ce devoir d’information peut entraîner l’annulation du contrat dans les conditions prévues aux articles 1130 et suivants”.

[33] V. F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, cit., 374.

[34] Cfr. § 6. Tali differenze, beninteso, vanno oltre quella distinzione generale, relativa al carattere necessariamente “determinante” del vizio del consenso, che potrebbe ben giustificarsi in virtù di un “doppio binario” di rimedi: anche quelli caducatori, per i vizi più rilevanti (determinanti); solo quelli risarcitori, per i vizi meno rilevanti (incidenti).

[35] Leggendo l’alinéa 6 – secondo cui erreur e dol rilevano alle loro proprie “condizioni” – sembrerebbe corretta la seconda opzione. Tuttavia, come oltre vedremo, non c’è ragione alcuna per creare due discipline indipendenti dell’informazione precontrattuale dovuta tra le parti delle negoziazioni in quanto tali (due discipline, cioè, dell’obbligo generale di informazione, l’una rilevante a fini risarcitori e l’altra a fini caducatori): a fronte di ciò l’indice testuale ricavabile dall’alinéa 6 appare troppo debole per sostenere la seconda scelta ricostruttiva.


3. Le scelte metodologiche e politiche del legislatore: l’approccio fondato sulla buona fede e l’ispirazione ordoliberale

Vale la pena di considerare più da vicino la disposizione dell’art. 1112-1, valutandola soprattutto nella prospettiva di una futura riforma del codice civile [1]. E conviene farlo prima soffermandoci sulle opzioni di teoria generale seguite dal legislatore francese [2], per poi interessarci più puntualmente delle singole regole poste [3].

È diffusa convinzione che l’informazione rappresenti economicamente un “valore”: essa, cioè, ha un suo valore di scambio e, per chi la possiede, rappresenta un vantaggio. A fronte di ciò, il tema dell’informazione precontrattuale viene spesso indagato chiedendosi perché una parte delle trattative deve condividere un’infor­mazione, perdendo così un valore che per essa può aver rappresentato anche un costo [4]; e a tale quesito altrettanto spesso si risponde verificando quale sia la regola migliore, perché più efficiente (quella, cioè, che consente di massimizzare l’informazione, riducendo i costi di transazione) [5].

Questo approccio, se portato ai suoi esiti estremi, conduce a creare una regola ispirata dalla sola efficienza, trascurando l’importanza che rivestono invece altri fattori della dinamica sociale. Rispetto a questa prospettiva la nuova disciplina legislativa francese appare impostata su un modo di vedere più tradizionale, peraltro assai simile a quello diffuso nella giurisprudenza italiana: un modo di vedere che ha al suo centro la buona fede, intesa come normalità dei commerci, letta e ricostruita alla luce di una scelta politica generale posta in essere dall’ordinamento (e, in particolare, dal legislatore codicistico) [6].

Proviamo a descrivere allora questo modo di vedere, per poi indicare in che modo la réforme appaia condividerlo.

Come noto, molte – e molto diverse – sono le opinioni a riguardo della buona fede, che, intesa come clausola generale, è stata vista ora quale rimando a un’etica estranea all’ordinamento (e solo sociale), ora quale strumento di autointegrazione dell’ordinamento (a prescindere da tutto ciò che avviene nella società). Probabilmente entrambe queste opinioni sono, se estremizzate, insoddisfacenti: con la buona fede il legislatore vuole effettivamente rifarsi a una normalità dei rapporti, che non è però solo sociale; si tratta di una normalità che per sua natura si proietta sull’ordinamento, ambendo alla sanzione giuridica (e che in tal senso è già di per sé socio-giuridica), e che comunque all’interno dell’ordinamento trova una migliore definizione, superando le ambiguità che altrimenti le sono connaturate.

Tali ambiguità, a loro volta, appaiono di due tipologie differenti [7]: da un lato, vi è un margine di vaghezza che richiede una scelta davvero politica, giacché questa normalità dei rapporti può venire colorata in senso ora più solidarista, ora più liberale [8]; da un altro lato, il margine di vaghezza dipende dal fatto che, pur data una certa scelta politica (o pur non essendovene necessità in un certo caso), può accadere che in una data ipotesi risulti difficile ricostruire la regola di buona fede, che pur necessita solo di venire ‘rinvenuta’ tramite un ragionamento tecnico (più che pratico) [9]. Ed è anche per risolvere queste ambiguità che l’ordinamento interviene: o, meglio, che intervengono i suoi formanti, ciascuno con le specificità che gli sono proprie alla luce dell’assetto istituzionale – spesso implicito e non verbalizzato – di quel sistema.

A chi si chiedesse, poi, come nasce una simile deontologia spontanea, verrebbe fatto di rispondere – pur con la brevità imposta dalla presente sede – che chiunque viva in una certa società assorbe dei patterns, dei modelli di comportamento, associati a situazioni tipiche; questi, a loro volta, non nascono dal nulla, ma piuttosto in base a processi sociali, che a loro volta assorbono, collegano e proiettano razionalmente in regole i valori accettati (pur con il loro margine di ambiguità, di cui si è detto) [10]. Di fronte alla buona fede, del resto, ciò che fa l’interprete non è altro che scomporre questa stratificazione razionale, chiedendosi perché in certi casi tipici s’imponga socio-giuridicamente prima e giuridicamente poi una certa regola e fino a che punto le rationes su cui tale regola poggia si ripresentino con una forza analoga, o maggiore o minore, in altri casi [11].

Una simile visione, imperniata sulla buona fede come deontologia spontanea, è tradizionale nei Paesi di civil law, in cui l’interprete – a fronte di una data scelta politica generale, di norma moderatamente solidaristica – trae spunto da casi tipici, per cercarne i principi giustificatori e verificarne l’estendibilità [12]. A questo processo partecipano, in realtà, tutti i formanti ordinamentali: il legislatore, declinando in parte la buona fede in precetti specifici (in particolare per porre alcune scelte generali di ordine politico, ma anche per munire di autorità alcune opzioni fondamentali di stampo tecnico); la dottrina, inserendo questi precetti in un sistema compiuto che dia conto dell’assetto deontologico complessivo cui la buona fede dà vita (e così colmando gli spazi di discrezionalità politica lasciati aperti dal legislatore e, soprattutto, ricostruendo i principi giustificatori che fondano il sistema sotteso alla clausola generale); la giurisprudenza, decidendo casi specifici e quindi indicando cosa la buona fede richieda in concreto (tanto che le decisioni concrete ripetute potranno venire inserite in “gruppi di casi” dalla dottrina, onde ridurre l’ambito di incertezza che, nonostante qualsiasi intervento politico e tecnico, necessariamente residua a fronte dell’applicazione di una clausola generale) [13].

Tornando alla riforma francese, ci accorgiamo che proprio su questo terreno si muove l’ordinamento d’oltralpe anche dopo il 2016.

Anzitutto, in Francia è tuttora riconosciuto che il dovere di informazione poggia sulla buona fede, costituendone una specificazione [14]: del resto, il legislatore in larghissima parte non ha fatto altro che ratificare orientamenti giurisprudenziali, al fine di rendere le disposizioni del codice maggiormente corrispondenti al diritto vivente [15]; e al fondo di tali orientamenti si rinveniva proprio l’idea per cui il dovere di informazione precontrattuale costituisce una declinazione del principio di buona fede nelle trattative [16].

Nel farlo, il legislatore ha ritenuto evidentemente corretto che la clausola generale di buona fede venisse in parte già declinata dal codice civile, così da ridurre l’evidente genericità coessenziale a una simile regola. Leggendo il testo dell’art. 1112-1, come le altre previsioni dell’ordonnance di riforma, ci rendiamo conto che il legislatore francese si è voluto ispirare a una scelta politica ordoliberale (o moderatamente solidaristica), che coniuga libertà dei traffici e tutela delle parti deboli [17]: ne è espressione, per stare al solo obbligo di informazione precontrattuale, l’ampiezza con cui il dovere generale è previsto e, in pari tempo, l’esclusione di qualsiasi obbligo informativo relativo alle valutazioni di convenienza; la subordinazione del dovere di informazione alla previa conoscenza dell’informazione da parte di chi è chiamato a condividerla e, al contempo, la necessità che l’ignoranza della sua controparte sia legittima [18].

Una simile scelta politica, di cui si può trovare conferma anche in altre parti della réforme, non è stata però completata nel dettaglio dall’estensore dell’art. 1112-1, che ha presumibilmente ritenuto che ogni ulteriore specificazione fosse di stampo tecnico e potesse essere meglio risolta da dottrina e giurisprudenza. Così, in particolare, non è chiaro – lo si è già detto – fino a dove si spinga quella stima del valore della prestazione che si sottrae all’obbligo di informazione, così come quale sia l’estensione dell’area in cui l’ignoranza è legittima o comunque è protetto l’affidamento nell’attività informatrice di controparte. Il testo dell’art. 1112-1 non offre nessun aiuto in tal senso, non comparendo alcun esempio o alcuna altra indicazione; semplicemente, esso rinvia all’opera degli altri formanti per mezzo di ulteriori clausole generali [19].

Al contempo, però, la disposizione contiene alcune precisazioni che non sembrano di stampo prettamente politico, ma che al contrario appaiono per lo più tecniche. Evidentemente, il legislatore ha apparentemente sentito la necessità di troncare ogni dibattito al riguardo, prevedendo regole apposite, da un lato, a proposito della rilevanza dell’informazione per cui sussiste il dovere di informazione e, da un altro lato, in merito alla deroga dell’obbligo informativo, all’onere della prova e pure al cumulo di rimedi (risarcitori e caducatori: questi ultimi, però, affidati a un insieme ulteriore di previsioni, formalmente autonomo da quella sul dovere generale di informazione) [20].

Tirando le somme, la scelta francese appare da un punto di vista squisitamente politico persuasiva (in base a un ragionamento pratico che vada oltre la semplice giustificazione autoritaria) e anche importabile in Italia (quanto meno nel senso che essa collima con le opzioni di fondo del sistema italiano attuale). Convincente è anche il fatto che il codice civile abbia inteso regolare l’obbligo generale di informazione, chiarendo in modo esplicito – in un’area massimamente importante per i privati – la posizione del sistema giuridico.

A fronte di ciò, però, restano aperti molti interrogativi, che dovremo ora sciogliere: in che modo possa completarsi tecnicamente la disciplina del perimetro dell’obbligo di informazione e se sia condivisibile l’omissione di precisi riferimenti a tal riguardo da parte del legislatore; fino a che punto siano importabili le altre regole di disciplina, inerenti non solo al rilievo dell’informazione, ma anche alla deroga dell’obbligo informativo, all’onere della prova e ai rimedi garantiti dall’ordinamento; se sia convincente la tecnica legislativa adottata relativamente a tali regole.

 

[1] Ciò che, del resto, pare consentito anche da un punto di vista metodologico: l’orizzonte culturale e giuridico in cui si muove il giurista italiano è, per quel che qui rileva, quasi identico a quello del suo omologo francese. Analoghe sono infatti le strutture socio-economiche, così come molto simile è l’assetto del sistema giuridico (e in particolare il reciproco rapporto tra formanti); molto rassomigliante, poi, è la disciplina di fonte giurisprudenziale che, in tema di dovere generale di informazione, vigeva in Francia sino al 2016 e quella che vige tuttora in Italia. Le differenze, comunque esistenti, possono quindi ai nostri fini considerarsi trascurabili e non essere prese in considerazione.

[2] § 3

[3] §§ 4-5.

[4] V. G.J. Stigler, The Economics of Information, in J. Pol. Econ., 1961, 213 ss.

[5] Spesso tale regola porta a collocare il rischio dell’ignoranza sulla parte per cui era più semplice reperire l’informazione. V. su questi temi R.A. Posner, Economic Analysis of Law2, Boston, 1977, 73 ss.

[6] Su questo si veda anche M. Mantovani, ‘Vizi incompleti’, cit., 240.

[7] Proprio con riferimento alla réforme, H. Muir Watt, The Reform of the French Civil Code at a Distance: an International and Comparative Perspective, in Eur. Rev. Contr. Law, 2017, 456 s., mette in guardia da un approccio comparatistico che non tenga in debita considerazione la presenza, al fondo di ogni diritto dei contratti, di certe scelte politiche.

[8] La scelta politica è necessaria ogniqualvolta non vi sia condivisione rispetto agli assunti valoriali di base. Nel caso della buona fede ciò si esprime nel fatto che tutta la normalità dei rapporti – la regola deontologica che corrisponde a tale normalità – può assumere note più solidaristiche oppure più liberali (ossia, più etiche o meno repressivo). Non si tratta, cioè, di creare una regola ex novo sulla base di scelte politiche, ma di far assumere a un sistema di regole, che già nasce spontaneamente, tinte che vadano più in un senso o più nell’altro. Così, ad esempio, nessuno dubiterebbe oggi che sia “sbagliato” tacere certe informazioni nella fase delle trattative; tuttavia, scelte più solidaristiche oppure più liberali sposterebbero tutto il sistema dell’informazione precontrattuale (tutte le regole che gli sono interne, con tutte le loro reciproche implicazioni) più verso l’estensione del dovere di informare o verso il diritto al silenzio.

[9] La scelta tecnica è richiesta di fronte a casi difficili, che si pongono sulla linea di confine tra regole diverse, tanto che non è chiaro come essi andrebbero risolti (sono gli hard cases di Dworkin). Nell’ambito della buona fede emergono vari casi difficili, giacché, a fronte di ipotesi in cui è chiaro come specificare la clausola generale, ve ne sono altre in cui invece, pur essendo nota la scelta politica di fondo, tale chiarezza si perde. Ad esempio, ammesso che un ordinamento segua una linea politica ordoliberale (o moderatamente solidaristica), può non essere immediatamente evidente se l’acquirente di un violino usato deve informare il suo venditore (in ipotesi: un erede che sta liquidando i beni dell’eredità) che si tratta in realtà di uno Stradivari (v. oltre, nt. 75). Beninteso: una scelta politica appena più o appena meno solidaristica – all’interno di un’opzione generalmente ordoliberale – potrebbe spingere nell’uno o nell’altro senso; nondimeno, data la scelta politica (o, comunque, laddove la scelta politica non consenta di superare il dubbio), non si può che cercare una risposta nel sistema, inteso come insieme ordinato di regole che seguono una logica e che si tengono reciprocamente.

[10] Del resto, la deontologia spontanea si forma, in assenza di bias cognitivi, proprio riflettendo la razionalità di mercato; e anche dove sussistono bias, se essi assurgono a veri e propri valori, è necessario rispettarli, onde non dar vita a scelte di politica del diritto che, nell’ambito di un certo orizzonte culturale, appaiono irragionevoli.

[11] Queste rationes – o principi giustificatori – non sono quindi le ragioni per cui viene posta una regola dall’alto, ma semmai quelle in virtù delle quali nasce dal basso, e spontaneamente, una regola; si tratta di una giustificazione della deontologia spontanea, che però al tempo stesso aiuta l’interprete a verificarne l’applicabilità ad altri casi (ossia, in una parola, a intenderla). Così, chiedersi perché appare naturale che il venditore di una casa informi l’acquirente del fatto che le sue travi di legno sono abitate da tarme risulta necessario per poter comprendere fino a che punto si possa applicare una regola analoga (ossia, fino a che punto si possa onerare la parte informata di condividere l’informazione con la sua controparte durante le trattative).

[12] Si potrebbe supporre che negli ordinamenti di common law le cose stiano diversamente. Tuttavia, anche leggendo testi di autori inclini all’analisi economica del diritto – come noto, particolarmente apprezzata soprattutto oltreoceano –, si ha l’impressione che essi spesso siano volti a giustificare certe regole spontanee di buona fede, individuate dai giudici e facenti parte del case law, più che a ricercare regole nuove, da imporre e sovrapporre a questa deontologia spontanea in nome del solo valore dell’efficienza. In questo senso possono leggersi, ad esempio, i testi di E.H. Rabin, A Proposed Black-Letter Rule Concerning Mistaken Assumptions in Bargain Transactions, in Texas Law Rev., 1967, 1273 ss. e spec. 1292 ss., e di A.T. Kronman, Mistake, Disclosure, Information, and the Law of Contracts, in J. Legal Stud., 1978, 1 ss.

[13] Sul diverso ruolo dei formanti si consenta il rinvio ad A.M. Garofalo, Principi, formanti e ricodificazione, in P. Sirena, Dal ‘fitness check’ alla riforma del codice civile. Profili metodologici della ricodificazione, Napoli, 2019, 227 ss.

[14] Espressamente in tal senso G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 163.

[15] Così espressamente il Rapport au President de la République, secondo cui “la sécurité juridique est le premier objectif poursuivi par l’ordonnance, qui vise tout d’abord à rendre plus lisible et plus accessible le droit des contrats, du régime des obligations, et de la preuve”; e ancora: “la sécurité juridique impose également la prise en considération de la jurisprudence développée depuis deux cents ans. Force est de constater que les textes actuels ne permettent pas d’appréhender le droit positif, tant la jurisprudence a dû les interpréter, par analogie, a contrario, voire contra legem. La compréhension de nombreuses dispositions passe ainsi nécessairement par la consultation des décisions rendues par les tribunaux, voire par l’interprétation qu’en fait la doctrine. Par ailleurs, la jurisprudence est par essence fluctuante, et ne permet pas d’assurer la sécurité juridique que seul peut offrir un droit écrit. C’est la raison pour laquelle l’ordonnance prévoit, pour sa majeure partie, une codification à droit constant de la jurisprudence, reprenant des solutions bien ancrées dans le paysage juridique français bien que non écrites. Il restitue ainsi au droit commun des contrats, sans bouleversement, la caractéristique essentielle des systèmes de droit continental. L’ordonnance prévoit notamment de reconnaître expressément la réticence dolosive aux côtés du dol comme cause de vice du consentement, la faculté de fixation unilatérale du prix, ou encore l’enrichissement injustifié. L’ordonnance met également fin à certaines hésitations jurisprudentielles nuisibles à la sécurité juridique, en déterminant par exemple à quelle date se forme le contrat”. Insomma, non vi è dubbio che uno degli scopi della réforme, volontariamente ed esplicitamente perseguito, era quello di incrementare la certezza, consacrando soluzioni giurisprudenziali che si erano allontanate dal testo scritto delle disposizioni del 1804: v. M. Mekki, The French Reform of Contract Law: The Art of Redoing Without Undoing, in J. Civil Law Stud, 2017, 227.

[16] V. Ph. Malaurie, L. Aynés, Ph. Stoffel, Munck, Droit des obligations4, Paris, 2009, 398.

[17] Secondo G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 280, l’ispirazione dell’art. 1112-1 è liberale; B. Fauvarque-Cosson, The French Contract Law Reform and the Political Process, in Eur. Rev. Contr. Law, 2017, 350, aggiunge che però lo stesso è stato criticato dal mondo del commercio. Sulle scelte politiche di fondo della réforme v. pure G. Helleringer, The Anatomy of the New French Law of Contract, ivi, 355 ss., nonché il già menzionato Rapport, che spiega come la riforma abbia mirato a coniugare libertà privata, efficienza economica e giustizia contrattuale, anche per rendere il diritto francese attrattivo a livello internazionale (non soltanto quale modello per legislazioni estere, ma anche quale possibile legge scelta dalle parti per il loro contratto).

[18] Ovviamente, le scelte politiche del legislatore sono espresse tramite la posizione di precetti: il cui tasso di contenuto politico è però, ovviamente, molto alto.

[19] In tal senso si parla di ignoranza legittima o di legittimo affidamento nella controparte.

[20] Sono le regole dei commi 3-6 (e del comma 1, quanto al requisito di importanza “determinante” dell’informazione).


4. Le scelte tecniche del legislatore: l’esclusione del dovere informativo e il rinvio all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale

Con i primi tre commi dell’art. 1112-1, come si è visto, il legislatore francese ha inteso perimetrare l’obbligo di informazione precontrattuale, in particolare esprimendo alcune scelte politiche di forte rilievo, tutte pienamente convincenti (anche nella prospettiva italiana): persuade, anzitutto, che solo chi è informato sia soggetto a un generale dovere di condividere informazioni (mentre solo in casi particolari può sussistere un dovere di informarsi per informare  [1]); persuade, inoltre, che la disposizione richieda un’asimmetria tra le parti della negoziazione perché sorga l’obbligo di informare (ciò che avviene, secondo l’interpretazione più condivisibile, allorché una delle due parti è – e appare essere – più vicina a fonte di informazione, come tipicamente accade per chi è e appare nell’ambito della trattativa più esperto dell’altra parte [2] oppure, in casi diversi o comunque per informazioni differenti, per colui che presta un bene o un servizio e che per ciò stesso ne conosce più da vicino alcune caratteristiche [3]).

A fronte di ciò, però, il legislatore francese non ha chiarito in modo esaustivo quando non sussiste l’obbligo di informazione, venendo disattivato in virtù del suo particolare oggetto o delle altre particolari circostanze: le uniche, laconiche, disposizioni precisano che l’ignoranza dev’essere “legittima” o che dev’es­servi un “legittimo” affidamento nella controparte e che l’informazione non può attenere alla valutazione di convenienza.

Per poter apprezzare – e valutare – il drafting della disposizione francese, verificando se il livello di specificità scelto nella riforma sia ottimale, conviene allora allargare lo sguardo e soffermarsi, più in generale, sull’esclusione del dovere di informazione [4]. Per la precisione, ci chiederemo quali siano le ipotesi in cui, ferma restando una scelta politica analoga a quella compiuta dal legislatore francese e quindi ragionando su un piano il più possibile tecnico, potrebbero dirsi esclusi gli obblighi informativi, per poi verificare se il legislatore francese avrebbe potuto, con una presa di posizione meno vaga, aiutare a superare le incertezze che qualsiasi svolgimento di disciplina a livello interpretativo porta con sé oppure se sarebbe stato comunque inevitabile affidarsi all’opera di dottrina e giurisprudenza, risultando impossibile o controproducente adottare una disposizione maggiormente analitica.

Iniziamo allora a domandarci quando, in astratto (in un ordinamento analogo a quello italiano o a quello francese, ispirato da scelte politiche corrispondenti in ambito contrattuale), l’obbligo generale informativo potrebbe essere disattivato.

Anzitutto, esistono sicuramente alcune ipotesi in cui non si può richiedere a una parte di scambiare certe informazioni con l’altra parte, sussistendo altri principi che già in una dimensione socio-giuridica e poi anche, e con miglior precisione, dall’interno dell’ordinamento vi si oppongono. Si tratta di ipotesi in cui il diritto al silenzio appare imposto da una fonte diversa, esterna alla logica contrattuale: pensiamo ad esempio al caso in cui il dovere di informazione confligge con un obbligo di riservatezza di carattere personale [5] o, anche e addirittura, di carattere patrimoniale [6].

Le ipotesi testé menzionate, comunque, non sono le più importanti. Ben più centrale è il diritto al silenzio collegato a quell’area di informazioni relative alla valutazione di convenienza di un affare: nelle situazioni “normali” (perché assunte, di base, a paradigma), ossia nella contrattazione di parte generale, la valutazione sulla convenienza deve essere lasciata a ciascuna parte, perché tramite essa si esercita il gioco del mercato. E tale valutazione va intesa come ogni scambio di informazioni – o anche solo di opinioni – sul “mercato”: o, per meglio dire, su quelle “qualità economiche” dell’affare che gli derivano dalla situazione del mercato e dalle sue evoluzioni future [7].

Più precisamente, potremo definire valutazione sulla convenienza quella che corrisponde all’andamento futuro del mercato, inteso a livello generale (ad esempio, l’aumento di tutti i prezzi o dei prezzi di quella categoria di beni [8]) o a livello più particolare (ad esempio, l’aumento dei prezzi di beni di quella categoria ristretta, per vicende più specificamente inerenti agli stessi [9]). Le informazioni che la riguardano sono, quindi, tutte quelle relative all’andamento del mercato generale o particolare [10].

In quest’ottica la convenienza appare essere una nozione per così dire fissa. Ciò non toglie che, al contrario, l’esenzione dall’obbligo di informare risulta avere un perimetro variabile, solo tendenzialmente coincidente – quanto al diritto al silenzio imposto dalla logica contrattuale – con le valutazioni sulla convenienza dell’affare.

Infatti, vi possono essere casi in cui certe informazioni, queste sì relative a qualità non economiche, non sono comunque oggetto di un obbligo di informazione. Si tratta di situazioni in cui ciascun contraente può tacere, mentre la sua controparte non può confidare di essere informata; situazioni che costituiscono specificazioni, in casi tipici e come tali generalizzabili laddove si ripresentino caratteristiche simili, della necessità di assicurare il libero gioco del mercato [11].

I casi in cui ciò può avvenire sono diversi e molteplici: ciascuno di essi riproduce un certo pattern e ha una sua logica di fondo, che, una volta identificata, può venire esportata a ipotesi simili (in tanto in quanto ne riproducano la predetta logica di fondo).

Anzitutto, può accadere che sia oggettivamente incerto se un bene o un servizio abbiano una certa qualità e che tale incertezza si rifletta sulla negoziazione (e, poi, sul contratto) [12]. In tali ipotesi bene e servizio non vengono scambiati per l’una o l’altra qualità: al contrario, anche sul contratto – e prima ancora sulla contrattazione – si proietta l’ambiguità, a sua volta oggetto di valutazioni discrezionali dall’esito incerto. Di conseguenza, si disattivano eventuali obblighi di informazione di chi vende il bene o presta il servizio (così come eventuali garanzie contrattuali nella vendita di beni): l’esatta individuazione di quelle qualità diviene oggetto di una conoscenza personale che questi, per quanto più vicino all’informazione, può sfruttare anche a scapito della sua controparte, senza con ciò abusarne.

In secondo luogo, in determinate circostanze – in particolare laddove si assista a operazioni tra parti esperte, assai complesse e dal contenuto ampio – la parte più vicina all’informazione è tenuta a scambiare informazioni per così dire di primo livello, anche se di difficile lettura, ma non a interpretarle e a rivelarne l’esatto contenuto (che rimane in un secondo livello, rispetto a cui incombe sulla controparte un onere di diligenza) [13]. In un certo senso, si rimane qui in un’area di libertà, in cui non opera un dovere di cooperazione nel selezionare le informazioni più importanti e nel condividere solo queste onde non abusare della propria conoscenza: con la conseguenza che, anche in simili ipotesi, si disattivano i corrispondenti doveri di informazione (e così pure eventuali garanzie).

Un terzo esempio riguarda i casi in cui, per la serialità della contrattazione, lo scambio prescinde da qualità del bene o del servizio (intese in senso amplissimo, ossia materiali e immateriali, ma pur sempre non meramente economiche) che in altre ipotesi avrebbero invece un diverso rilievo [14]. La situazione particolare fa sì che chi vende si avvantaggi della serialità della sua operazione, più che del prezzo applicato in virtù delle caratteristiche dei beni o dei servizi, e chi compra invece possa approfittare delle circostanze per porre in essere un ottimo affare, quantunque appaia in seno alla contrattazione come contraente esperto e addirittura più esperto, e quindi più vicino alla fonte di informazione, senza che ciò concreti un abuso perpetrato a scapito della controparte (la quale, a sua volta, preferisce puntare sulla quantità degli scambi, anziché sulla loro qualità): per il che si disattivano, anche qui, eventuali doveri informativi.

Un ultimo esempio attiene alle ipotesi in cui la presenza di qualità in un bene o in un servizio è riconosciuta da colui che se lo procura, in virtù di una sua conoscenza non casuale e accidentale, ma acquisita sostenendo un costo [15] o addirittura direttamente acquisita, sempre sostenendo un costo, con riferimento al caso specifico [16]. Taluno ha supposto che questo soggetto non sia tenuto a divulgare la sua conoscenza: tuttavia, nel nostro contesto ordinamentale appare probabile che l’obbligo di informazione in fattispecie del genere non venga meno, per quanto ciò possa comportare un’inefficienza economica; difatti, oltre alla difficoltà di comprendere se una parte ha acquistato un’informazione casualmente o meno [17], appare maggiormente in linea con l’approccio solidaristico di civil law imporre a chi è – e soprattutto appare nell’ambito della negoziazione – più esperto la condivisione dell’informazione [18].

Come si vede, nei primi tre casi il dovere di informazione viene meno: benché l’informazione non riguardi una valutazione di convenienza, ma anzi si riferisca direttamente a una qualità del bene o del servizio (qualità intesa in senso ampio, ma pur sempre come “qualità reale” e non come “qualità economica”), essa resta oggetto di una conoscenza prettamente individuale e individualistica, che non va condivisa anzitutto perché tramite il suo possesso si esercita il gioco del mercato (nel duplice senso che a venire premiata sarà, per lo meno su base statistica, la parte che possiede la migliore conoscenza e che necessariamente va garantito che ciascuna parte possa approfittare di tale conoscenza e non debba condividerla). Nell’ultimo caso, invece, l’informazione va condivisa, perché, quantunque il suo possesso coincida con una “bravura” commerciale, una simile maggiore competenza, se non collegata a un dovere di divulgazione, verrebbe sfruttata abusivamente a danno della controparte: la differenza, se ben si vede, è che le parti, iniziando la contrattazione, non hanno accettato come “regola di quel particolare mercato” il silenzio su certi connotati del bene o del servizio [19] (né, peraltro, tale silenzio è oggetto di una regola applicabile in via generale: come s’è detto, di norma la maggiore esperienza di una parte, apparente e visibile, la pone immediatamente in una maggiore vicinanza alla fonte di informazione, con ogni ovvia conseguenza in tema di affidamento della controparte).

Peraltro, la coincidenza solo tendenziale di informazioni inerenti alla valutazione di convenienza e dovere informativo non vale solo “in aumento”, ossia per dilatare i casi di esclusione di un siffatto dovere; essa vale anche “in diminuzione”, ossia per restringerli (e di conseguenza estendere il corrispondente dovere).

Il riferimento va qui proprio a quei casi menzionati dalla riforma francese: casi abbastanza specifici (e sicuramente assai più specifici rispetto alle altre ipotesi di cui ai primi due commi dell’art. 1112-1), in cui il dovere informativo aumenta di perimetro in forza del fatto che tra le parti del contratto sussiste un particolare rapporto di affidamento.

Sono le ipotesi dei contratti conclusi tra parenti stretti [20]; ma anche le ipotesi – potrebbe aggiungersi – in cui un soggetto si avvicina a un’altra parte non solo proponendole di acquistare un bene o un servizio, ma anzitutto chiedendole di indicarne il valore di mercato sulla base di una valutazione esperta, e l’altra parte esplicitamente o implicitamente accetta (caso in cui si crea un evidente conflitto di interessi, che nondimeno impone anzitutto un’informazione esatta rispetto al valore di mercato o, per meglio dire, una valutazione informata e diligente da condividere con chi la richiede) [21].

Non è il caso di soffermarci oltre su queste fattispecie, per cui si potrebbero ripetere considerazioni analoghe a quelle poc’anzi svolte. È meglio procedere, tirando le fila complessive del discorso.

Abbiamo visto come il diritto al silenzio potrebbe essere ricostruito: anzi, abbiamo provato a formulare una ipotesi al riguardo. Nel farlo, di ci siamo accorti della complessità del fenomeno oggetto di studio: non è semplice comprendere quando sussiste il dovere informativo e quando è escluso; è difficile ricorrere, per definirlo, a formule generali; è necessario, invece, comprendere la ratio giustificatrice di una certa casistica, scomponendo quei fattori che spontaneamente danno vita a certe regole (alla luce di un portato socio-giuridico, che si proietta sull’ordinamento e lì viene colorato da una certa scelta politica).

Alla luce di tutto ciò e, soprattutto, della complessità incontrata, possiamo e dobbiamo tornare all’inter­rogativo da cui prendevamo le mosse all’inizio del paragrafo, chiedendoci cioè se la scelta di drafting del legislatore francese, volta a rimandare la disciplina specifica dell’esclusione del dovere generale informativo all’opera costante, attenta e premurosa di dottrina e giurisprudenza, sia o meno convincente.

Di norma si ritiene che al legislatore spettino compiti politici, nell’ambito di un dibattito parlamentare volto ad assicurare il rispetto dei principi democratici, e a dottrina e giurisprudenza compiti tecnici, rispetto ai quali esse sono meglio attrezzate (per il tempo che hanno a disposizione per formulare le loro considerazioni, così come per la possibilità di migliorarle e aggiornarle). Tuttavia, questa visione può apparire semplificante: non solo perché oggi si riconosce pacificamente che dottrina e giurisprudenza sconfinino nel politico, quanto meno negli spazi lasciati liberi dal legislatore, ma anche perché il legislatore spesso adotta scelte formalizzanti che hanno una ricaduta tecnica: a volte perché ciò è inevitabile per porre regole dal sapore anche, e prevalentemente, politico; altre volte perché ciò è funzionale a troncare o a evitare un dibattito tecnico che, per la difficoltà della materia e l’ambiguità delle soluzioni (tutte magari potenzialmente “buone” e nessuna sufficientemente “migliore”), potrebbe creare incertezza.

L’art. 1112-1, quanto ai temi di cui si va ora discorrendo, demanda numerose scelte tecniche, di completamento, a dottrina e giurisprudenza, affidandosi a due ulteriori clausole generali (l’ignoranza legittima e l’affidamento legittimo). Probabilmente sarebbe stato più proficuo, pur senza addentrarsi nei rivoli di una disciplina eccessivamente analitica (e quindi troppo rigida a fronte di regole che mutano con il mutare della società e che, comunque, solo una riflessione pacata e corale può contribuire a individuare e precisare), scendere a un livello maggiore di dettaglio, specificando alcune delle cause generali di esclusione del dovere di informazione (così anche da chiarire che il diritto di tacere circa le informazioni sulla convenienza è solo un’ipotesi del generale diritto al silenzio, per quanto sia la più importante) [22].

Così, gli alinéas 1 e 2 dell’art. 1112-1 Code civil e i primi due commi di un eventuale art. 1337-bis cod. civ. basato sull’art. 1112-1 francese rispettivamente avrebbero potuto e potrebbero così suonare:

“La parte che conosce informazioni determinanti per la conclusione del contratto è tenuta a darne notizia all’altra parte che le ignora, salvo che ciò non dipenda da colpa [23].

Il dovere di informazione non attiene a tutto ciò che riguarda le valutazioni di convenienza dell’affare, nonché alle informazioni che un contraente può mantenere riservate, quali quelle inerenti a situazioni personali e riservate di altri soggetti e quelle che, in virtù del contenuto del contratto da concludere, della qualità delle parti e delle altre circostanze, risultano necessariamente oggetto di una ricerca individuale, salvo che il particolare rapporto di fiducia tra le parti non implichi comunque l’esistenza di un dovere di informazione”.

Possiamo, a questo punto, procedere oltre. Del resto, il testo proposto corrisponde solo ai primi due commi dell’art. 1112-1: dobbiamo ora proseguire nella nostra valutazione della disposizione francese, guardando più da vicino ai quattro restanti alinéas.

 

[1] Ovviamente, il discorso che si va svolgendo vale nell’ambito di quello che, con terminologia italiana, definiremmo “primo contratto”; e, in particolare, con riferimento all’area del contratto di scambio. È evidente che più ci si allontana dallo scambio (in particolare se ciò avviene per entrare nell’area della liberalità), più il dovere informativo ne risente e deve venire modulato di conseguenza. Al contempo, è ovvio che, nell’ambito del “secondo” e del “terzo” contratto la logica informativa di parte generale non può più applicarsi; le particolarità di queste diverse aree di regolazione, infatti, impongono non solo di adattare il dovere informativo di cui alla disciplina generale, ma piuttosto di adottare logiche diverse, proporzionate rispetto alle peculiarità delle situazioni. In altri termini: la formalizzazione di due dimensioni ulteriori del contratto impone anche di regolare in modo autonomo – per quanto coordinato rispetto alla disciplina del contratto in generale – tutto ciò che riguarda il dovere di informazione precontrattuale.

[2] Non si tratta di colui che accidentalmente è a conoscenza di una certa informazione, ma di chi riveste nelle trattative un ruolo – verrebbe da dire istituzionalmente – di “esperto” (ad esempio, perché agisce professionalmente o perché assume la posizione di chi è particolarmente esperto di una certa materia).

[3] Ciò vale anche nel caso del contratto di assicurazione, ove l’assicurato, nel trasferire un rischio, è maggiormente vicino rispetto all’altra parte alle informazioni che attengono a tale rischio (artt. 1892 s. cod. civ.).

[4] Non sarà inutile, a tal riguardo, citare parte dell’amplissima bibliografia in tema di obbligo di informazione. V. allora in particolare, in Italia, gli studi di G. Grisi, L’obbligo precontrattuale di informazione, Napoli, 1990; A.M. Musy, Il dovere di informazione. Saggio di diritto comparato, Trento, 1999; P. Gallo, Asimmetrie informative e doveri di informazione, in Riv. dir. civ., 2007, I, 641 ss.; R. Senigaglia, Accesso alle informazioni e trasparenza. Profili della conoscenza nel diritto dei contratti, Padova, 2007, 1 ss.; G. Vettori, Le asimmetrie informative tra regole di validità e regole di responsabilità, in Riv. dir. priv., 2009, 241 ss.; in Germania, v. S. Breidenbach, Die Voraussetzungen von Informationspflichten beim Vertragsschluß, München, 1989; R. Schwarze, Vorvertragliche Verständigungspflichten, Tübingen, 2001; H. Fleischer, Informationsasymmetrie im Vertragsrecht. Eine rechtsvergleichende und interdisziplinäre Abhandlung zu Reichweite und Grenzen vertragsschlußbezogener Aufklärungspflichten, München, 2001; nel diritto privato europeo, v. S. Grundmann, L’autonomia private nel mercato interno: le regole d’informazione come strumento, in Eur. dir. priv., 2001, 257 ss.; C. Castronovo, Information Duties and Precontractual Good Faith, in Eur. Rev. Priv. Law, 2009, 560 ss.; D. Kästle-Lamparter, Art. 2:401: Duty to Disclose Information, cit., 415 ss.

[5] Ad esempio: un gioielliere vende un anello prezioso a un suo cliente, sapendo che questi ne farà dono alla fidanzata, la quale tuttavia – come ben noto al gioielliere, ma non al cliente – da qualche giorno ha deciso di troncare la relazione e si è definitivamente trasferita all’estero.

[6] Ad esempio: il concessionario che vende un’automobile non è tenuto a rivelare che la casa madre sta per lanciare sul mercato un nuovo modello. Più in generale, un soggetto non è tenuto a dare un’informazione qualora, nel farlo, svelerebbe un proprio segreto oppure comprometterebbe i suoi piani commerciali, che al contrario debbono essere tutelati perché proprio su di essi si fonda il gioco del mercato. Nonostante l’apparenza, non si rientra qui nella casistica di cui parleremo a breve, connessa all’esclusione del dovere informativo onde evitare di comprimere il ruolo del contratto quale strumento di un’economia di mercato: nei casi ora in esame, infatti, il diritto al silenzio non è implicato direttamente dalla necessità di preservare un’area, all’interno del contratto, in cui ciascun soggetto fa valere la propria migliore conoscenza del mercato e di altre circostanze a scapito della controparte; al contrario, nelle ipotesi ora in discorso il diritto il silenzio si impone proprio per tutelare un interesse contrastante della parte che, se obbligata a rivelare un’informazione, vedrebbe sfumare alternativamente l’affare oppure la possibilità di produrre o vendere nuovi beni.

[7] La ragione, come si vede, sta nel fatto che una certa area della contrattazione più da vicino coincide con quella in cui si esercita il gioco di mercato: quella, cioè, in cui ciascuna parte confida di aver fatto un “buon” affare. Spesso, peraltro, la valutazione sulla convenienza è anche assai opinabile e soggettiva e, anche per tale motivo, non potrebbe essere oggetto di un obbligo di informazione: tuttavia, questa seconda considerazione è solo accessoria e non è il fulcro della ratio per cui il dovere di informazione non emerge. Del resto, anche quando la valutazione sulla convenienza precipita in vere e proprie informazioni – del tipo: altri contraenti hanno offerto cifre maggiori o minori per lo stesso bene – non sorge il dovere di informazione (e, viceversa, sussiste un diritto al silenzio). Si veda il caso deciso da Cass. civ. 3, 17 janvier 2007, n° 06-10.442, in cui è stato ritenuto che una parte, pur agendo professionalmente e da esperta, non dovesse informare l’altra parte circa il valore di un fondo.

[8] Ad esempio: l’andamento dell’inflazione o l’aumento dei prezzi delle case in Italia o in una specifica Regione o in una determinata città (tenendo presente che, più si va nel dettaglio, più ci si avvicina alla casistica di cui alla nota successiva).

[9] Ad esempio: l’apertura, nei pressi di una pizzeria, di nuovi uffici pubblici, con conseguente aumento della clientela. Qui il confine tra informazioni che attengono alla valutazione di convenienza e informazioni che invece si collegano a una qualità anche immateriale della prestazione può diventare più sfumato: tuttavia, la differenza esiste. Si tratta di qualità se l’informazione attiene, alla luce delle circostanze particolari della contrattazione, a maggiore bellezza, comodità, pregio, decoro e così via; di convenienza, invece, se riguarda la redditività, ossia la capacità di produrre entrate.

[10] In tal senso v. pure F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, cit., 370, che menzionano i dati “propres à l’existence d’un marché et aux perspectives d’exploitation qui y sont attachées, en d’autres termes ce qui a trait à la rentabilité économique de l’opération”. La dottrina francese, a tal riguardo, nota comunemente che nel caso di contratti di cooperazione (come quelli di distribuzione) l’obbligo di informazione si estende anche a (taluni) dati relativi al mercato di riferimento: la ragione, si afferma, è che in virtù del particolare assetto d’interessi essi entrano nello “champ contractuel” (ossia, sono oggetto non tanto della valutazione di convenienza, quanto di quella sull’oggetto e sul contenuto del contratto). Del resto, si aggiunge, per contratti come quelli di distribuzione è il legislatore stesso a prevedere appositi obblighi informativi (cfr. art. L330-3 Code de commerce, sugli obblighi informativi nel caso in cui un soggetto “met à la disposition d’une autre personne un nom commercial, une marque ou une enseigne, en exigeant d’elle un engagement d’exclusivité ou de quasi-exclusivité pour l’exercice de son activité”; in Italia, v. ad esempio gli artt. 6 e 8, l. 129/2004, sul franchising).

[11] In Cour de Cassation, Chambre civile 3, 15 novembre 2000, 99-11.203, su cui già ci siamo soffermati, la mancata informazione riguardava certe qualità del fondo e, di conseguenza, si era applicata la disciplina del dol. Tuttavia, come subito vedremo, non sempre la mancata informazione relativa a qualità può considerarsi irrispettosa dell’obbligo generale di informazione.

[12] Ad esempio: viene compravenduto un quadro di cui non è chiaro l’autore; viene alienato un fondo in cui non è chiaro se è presente petrolio o meno (la réforme si riferisce a questi casi nell’art. 1133, alinéa 3, in tema di erreur; e sul punto v. pure il noto arrêt Verrou de Fragonard: Cour de Cassation, Chambre civile 1, 24 mars 1987, 85-15.736). In entrambi i casi le parti sono a conoscenza dell’ambiguità oggettivamente esistente, che apre la strada a valutazioni necessariamente discrezionali (e non sicure), e ciascuna se ne assume pienamente il rischio (e anche se, grazie alla sua maggiore conoscenza, una parte risolvesse con certezza la questione dubbia, non dovrebbe comunque condividere l’informazione finale). Ne consegue che anche chi aliena o presta, pur essendo più vicino alla fonte di informazione, non deve informare l’altra parte circa la sua valutazione. Ove, peraltro, una delle due parti agisca quale esperto, sarà tenuta solo ad additare all’altra parte l’incertezza della valutazione (salvo che la relazione tra le parti non si innesti su un particolare rapporto fiduciario, su cui v. allora infra, nell’ultima parte di questo paragrafo).

[13] È la posizione, ad esempio, in cui si trova l’alienante nelle operazioni di merger and acquisition e quindi, in particolare, nel sale and purchase agreement, ossia nel contratto di cessione di quote o azioni negoziato tra operatori economici di un certo livello (o anche tra un privato e un operatore economico di un certo livello, ma nell’ambito di una dimensione commerciale di alto profilo). Spesso si dice che le garanzie – e in parte anche i doveri informativi – non operano in queste operazioni perché si tratta di beni a due livelli: si osserva che ciò che viene venduto sono quote o azioni e non già l’azienda. Tuttavia, tale logica potrebbe spiegare (forse) perché non sussistono le garanzie, ma non certo perché i doveri informativi, a volerli ritenere esistenti, si considerano comunque assolti semplicemente mettendo il potenziale acquirente in condizione di visionare, nella cd. data room, la documentazione della società target condivisa dal futuro venditore (normalmente consistente in diversi metri cubi di documenti, necessariamente oggetto di un’accurata due diligence). È da notare che, secondo la giurisprudenza francese, l’obbligazione tra parti esperte non sussiste che “dans la mesure où la compétence de cet acheteur ne lui donne pas le moyens d’apprécier la portée exacte des caractéristiques techniques des biens qui lui sont livrés”: così Cour de Cassation, Chambre civile 1, 3 juin 1998, 96-16.439).

[14] È il caso delle compravendite ai mercati delle pulci, ove chi vende nulla dichiara (e nemmeno garantisce in alcun modo) e chi compra nulla deve dichiarare: anche se, come nel famoso caso deciso da AG Coburg, 24 April 1992, 14 C 1485/91, in NJW, 1993, 938, si rinvengono fogli di spartiti di Mozart (a tal proposito v., anche da un punto di vista di analisi economica del diritto, G. Wagner, Lügen im Vertragsrecht, in R. Zimmermann (Hrsg.), Störungen der Willensbildung bei Vertragsschluss, Tübingen, 2007, 94 s.). Ma è il caso pure, ad altro livello, delle compravendite poste in essere da un grande operatore e relative a centinaia di fondi, alienati magari a lotti, rispetto ai quali le circostanze particolari esimono da qualsiasi dichiarazione reciproca rispetto a qualità positive o negative (ad esempio: la presenza di petrolio o, al contrario, di inquinamento). Probabilmente tale è anche il caso dell’acquisto a un’asta pubblica, connotato da una spersonalizzazione e da una procedura tali per cui mancherebbe anche lo spazio per offrire informazioni.

[15] È il noto caso, immaginato – sulla scorta dalla legislazione statunitense e in particolare del Restatement (Second) of Torts al § 5551(2)(e) – da A.T. Kronman, Mistake, cit., 29, in cui un soggetto, esperto di musica classica, scopre un violino di Stradivari in vendita, senza che l’alienante ne sia a conoscenza. Secondo l’autore in quest’ipotesi il potenziale compratore deve poter tenere per sé l’informazione, giacché, per acquisirla, egli ha studiato molti anni. Altri autori (v. ad esempio R. Schwarze, Das Recht der Leistungsstörungen, Berlin, 2008, 380) criticano quest’impostazione, notando come solitamente si acquisiscono nozioni di musica classica o anche di arte liutaia non già per scovare Stradivari persi in cantine, ma piuttosto per altri fini; e che tali conoscenze sono solitamente compensate in altri modi. Va solo apparentemente in senso contrario alle considerazioni svolte l’arrêt Baldus (v. sopra, nt. 28): è vero che in quel caso l’acquirente esperto aveva taciuto al venditore la circostanza che le fotografie oggetto di compravendita erano state scattate da un noto fotografo, ma in quel caso lo scambio (almeno il primo scambio) era avvenuto in un’asta pubblica; inoltre, il venditore non ignorava una qualità del bene (egli conosceva l’autore delle fotografie), ma semmai non sapeva che, in virtù della fama del fotografo, il prezzo poteva essere ben più alto. L’informazione omessa, quindi, riguardava la convenienza dell’ope­razione ed era esclusa già di per sé per tale ragione. Certo, si sarebbe potuto ritenere che l’ignoranza sul fatto che Baldus fosse un fotografo così importante ridondasse in un’informazione non già sulla convenienza, ma sulle qualità. Forse, allora, sarebbe stato più corretto utilizzare un criterio parzialmente diverso, chiedendosi se vi fosse una differenza sostanziale tra le foto di un fotografo famoso e quelle di un maestro della fotografia a livello mondiale e, in caso di risposta positiva, se il venditore collocava Baldus tra i “fotografi famosi” o tra i “maestri mondiali della fotografia”.

[16] Si pensi al caso in cui un soggetto, avendo compiuto analisi approfondite, sa – a differenza del potenziale alienante – che sotto un certo fondo si trova un giacimento di petrolio. Sempre secondo A.T. Kronman, Mistake, cit., 21, in queste ipotesi non sorgerebbe alcun dovere di informazione, salve le ipotesi in cui sussiste un particolare rapporto fiduciario tra le parti (su cui comunque v. infra, al termine di questo paragrafo).

[17] A.T. Kronman, Mistake, cit., 24, immagina il caso in cui un soggetto possiede un’abitazione le cui travi sono mangiate da termiti: in questa ipotesi, secondo l’autore, la conoscenza è acquisita per assicurare la manutenzione dell’edificio e non già in sede di compravendita (o per valutarne la convenienza). Tuttavia, ci si potrebbe chiedere se questo è vero anche allorché il proprietario alienante commercia professionalmente abitazioni, che compra e immediatamente rivende, e quindi reperisce l’informazione non già per vivere nella casa, ma piuttosto – e proprio – in un’ottica commerciale.

[18] La posizione di Kronman, cui più volte si è fatto riferimento, si ispira a un liberismo maggiore, tipico del common law, ma estraneo alle scelte di fondo – per lo meno, alle scelte di fondo attuali – degli ordinamenti continentali.

[19] L’intento delle parti di accettare le regole di un certo mercato non va certo inteso in senso eccessivamente volontaristico: si tratta di una formula breviloquente per avvertire che, se le parti entrano in un mercato particolare con una sua logica manifesta, esse necessariamente vi si sottopongono.

[20] Quale esempio, può citarsi nuovamente il caso di cui alla nt. 33.

[21] Si pensi all’ipotesi in cui un privato chiede una stima di un suo dipinto a un mercante d’arte, proponendogli contestualmente di acquistare il dipinto. Nel caso Baldus (v. nt. 28) anche la mancanza di un tale rapporto fiduciario può aver convinto la Cour de Cassation a escludere ogni obbligo informativo della parte più esperta.

[22] La presumibile ragione per cui il legislatore non vi ha provveduto è la stessa, di cui parleremo nel § 8: la riforma francese è avvenuta “a giurisprudenza costante” e a essa non ha corrisposto uno sforzo normativo, e innovativo, del legislatore.

[23] Il riferimento all’ignoranza non dovuta a colpa corrisponde, utilizzando il lessico dell’art. 1338 cod. civ., a quello della maggiore vicinanza di una parte all’informazione; peraltro, la precisazione non esclude che nel caso di errori di tipo diverso (errore spontaneo riconoscibile e/o riconosciuto o errore comune) possano emergere altri rimedi (ma sul punto v. il § 7). Da un altro punto di vista, va rilevato che nella disposizione potrebbe farsi riferimento anche alla parte che “dovrebbe conoscere” certe informazioni (così come fa oggi l’art. 1338 cod. civ.). Il legislatore francese, in realtà, ha omesso questo riferimento, per non dare troppo risalto all’ob­bligo di informarsi per informare, ritenuto eccezionale. La scelta è condivisibile; tuttavia, anche una diversa opzione risulterebbe, per altri versi, persuasiva (soprattutto perché, altrimenti, i casi di informazione da reperire per fornirla risulterebbero privi di un appiglio normativo). In ultimo, sulle informazioni “determinanti”, si rinvia al prossimo paragrafo.


5. Segue. La rilevanza causale dell’informazione e la restante disciplina del dovere informativo

Tra le previsioni di cui agli ultimi quattro alinéas dell’art. 1112-1 occupa un ruolo di rilievo l’alinéa 3, il quale stabilisce che sono di importanza determinante le informazioni qui ont un lien direct et nécessaire avec le contenu du contrat ou la qualité des parties (così completando di contenuto quella parte dell’alinéa 1 in cui si prevede che l’informazione da divulgare è solo quella déterminante pour le consentement de l’autre partie).

Anche questa specificazione appare per lo più tecnica, non spostando molto dal punto di vista politico: essa appare più che altro ispirata alla necessità di superare ogni dibattito (per l’appunto, tecnico) sull’indivi­duazione dell’informazione da divulgare, ferma la scelta politica ordoliberale contenuta in altre parti dell’art. 1112-1.

Nel merito, appare sicuramente condivisibile l’indicazione fatta propria dal legislatore francese: non ogni informazione dev’essere oggetto di rivelazione, ma solo quella sufficientemente importante o, per meglio dire, quella che esercita un’efficacia causale sulla conclusione del contratto, nel senso che, se fosse stata fornita, la controparte avrebbe deciso di non concludere quell’esatto contratto che poi ha invece concluso. Si tratta, del resto, di una regola che recepisce un’indicazione proveniente dalla comparazione: in tutti i principali sistemi giuridici le informazioni prive di rilevanza causale non sono oggetto di un dovere di informazione [1].

Tuttavia, nonostante l’apparente banalità della disposizione, vi sono almeno due fronti su cui emergono dei dubbi.

Anzitutto, dal tenore della previsione sembrerebbe che l’interprete debba chiedersi se realmente il contraente, se fosse stato informato, avrebbe accettato comunque quel contratto oppure avrebbe rifiutato di concluderlo. Se però così si ragionasse, si cadrebbe in una serie di verifiche controfattuali assai ardue, che per di più potrebbero addirittura condurre ad esiti non del tutto convincenti (ad esempio, la controparte informata potrebbe dimostrare, in certi casi, che avrebbe avuto la forza di imporre un contratto anche notevolmente diverso da quanto ipotizzato dall’altro contraente) [2].

In secondo luogo, e nonostante il chiarimento fornito dal comma 2, l’art. 1112-1 non consente di comprendere se la verifica di efficienza causale vada compiuta sulla base di interessi, gusti e aspettative assolutamente normali oppure, e in quali termini, sulla base dei particolari interessi, gusti e aspettative dell’altra parte. D’altro canto, l’alinéa 2 aggiunge qualcosa di abbastanza scontato (l’informazione ha un’efficienza causale se riguarda il contenuto del contratto e – sottinteso: nei soli contratti intuitu personae – la qualità delle parti), ma non chiarisce in modo definitivo se tale contenuto va guardato in modo rigidamente oggettivo oppure sulla base di un criterio soggettivo-oggettivo [3].

Entrambi i quesiti vengono, evidentemente, lasciati a dottrina e giurisprudenza. Possiamo allora provare a chiederci come essi dovrebbero essere risolti e se non sarebbe stato conveniente prendere posizione sugli stessi (e se non sarà conveniente che il legislatore della riforma del codice italiano, in sede di disciplina legislativa dell’obbligo di informazione nel nostro ordinamento, li dirima in modo espresso).

Quanto al primo, sarebbe preferibile ritenere che il giudizio di efficienza causale sia condotto valutando se tra il contratto concluso e quello ipotizzato dal contraente non informato (o, comunque, tra le situazioni di fatto reali e quelle ipotizzate) vi sia uno scarto non indifferente. Deve, cioè, aprirsi uno spazio tale per cui i due accordi non sembrino praticamente collimanti, ma siano sufficientemente diversi, così da ritenere che il consenso relativo all’uno non implichi, naturalmente, consenso anche all’altro, in ragione della differenza sostanziale – anche se minima – tra i contratti (vedremo oltre che il requisito dell’efficienza causale non va confuso con quello della “determinanza” del vizio del consenso) [4].

Con riferimento al secondo quesito, apparirebbe più congruo utilizzare un criterio soggettivo-oggettivo per valutare se una certa informazione è dotata di rilevanza causale. Tale rilevanza, quindi, deve ritenersi propria non solo delle informazioni attinenti a qualità (in senso lato e anche immateriali) normalmente ricercate in un bene o in un servizio, ma anche di tutte quelle qualità (sempre in senso lato e anche immateriali) specificamente ricercate da un contraente, in virtù dei suoi particolari gusti e delle sue particolari esigenze, di cui sia stata messa seriamente a conoscenza la sua controparte (a prescindere dal fatto che tali qualità rientrino o meno nell’assetto di interessi pattizio) [5].

Del resto, queste sono le soluzioni cui addiviene la dottrina francese sulla base della generale scelta politica ordinamentale e al fine di completare i precetti posti dall’art. 1112-1. Gli autori, infatti, guardano all’ef­ficienza causale dell’informazione più che altro come discrepanza sostanziale tra il contratto concluso e quello ipotizzato [6]; essi, inoltre, intendono l’espressione déterminante proprio facendo applicazione di un criterio soggettivo-oggettivo [7].

A questo punto, e passando a valutare la formulazione dell’art. 1112-1 quanto al requisito della rilevanza causale dell’informazione, apparirà chiaro perché – quanto meno nell’ottica di una futura riforma del codice civile italiano – la disposizione sembri, da un lato, ridondante e, da un altro lato, poco utile. Quel che la previsione dice, infatti, è banale e scontato; quello che non dice, invece, avrebbe forse necessitato di una regola espressa.

Vero è che si tratta di profili per lo più tecnici: i punti che restano aperti, infatti, sono limitati e la scelta di una soluzione o dell’altra non appare davvero espressione di una preferenza politica, ma più che altro di uno svolgimento a rime obbligate di certi valori già posti a monte. Tuttavia, i profili in questione fanno emergere problemi interpretativi delicati, il cui grado di complessità e di ambiguità è tale da richiedere un intervento positivo. Solo questo, infatti, può troncare sul nascere qualsiasi questione, a beneficio della certezza del diritto.

Se si fosse seguita questa indicazione, ne sarebbe derivato un alinéa 3 dell’art. 1112-1 (e ne potrebbe derivare un comma terzo dell’art. 1337-bis) dal seguente tenore:

“Le informazioni determinanti per la conclusione del contratto sono tutte quelle tali da incidere sulla conclusione del contratto o per lo meno sulle condizioni del contratto, alla luce di quanto normalmente praticato o degli interessi che la parte non informata aveva seriamente portato a conoscenza della parte informata”.

Passiamo a questo punto a parlare dell’ultima parte dell’art. 1112-1 Code civil (alinéas 4-6), ove possiamo rinvenire una regolazione, assai essenziale, del dovere generale di informazione, anch’essa per lo più di stampo tecnico (sempre nel senso che non è in essa che l’ordinamento precipita ed esprime una certa scelta politica). Di tale disciplina è preferibile parlare distinguendo la prospettiva francese da quella dell’interprete italiano, giacché essa tocca profili – come la ricostruzione della responsabilità precontrattuale e della sua natura e la derogabilità della buona fede – fortemente implicati da scelte ordinamentali estranee alla disciplina del dovere generale di informazione e diverse in Francia e in Italia. Vedremo, comunque, che anche nell’ot­tica del giurista italiano tale disciplina appare essere in buona parte ragionevole e bilanciata, anche se superflua.

Anzitutto, la distribuzione dell’onere della prova che si ricava dall’alinéa 4 è condivisibile pure in chiave italiana, corrispondendo sostanzialmente ai principi generali: è l’attore, che lamenta di non essere stato informato, a dover dimostrare l’esistenza del dovere altrui; è il convenuto, invece, a doverne provare l’adem­pimento.

Anche, poi, nella prospettiva del dovere precontrattuale di buona fede quale fonte di un rapporto obbligatorio di protezione, l’esito appare corretto: chi si duole della violazione, posta in essere da un altro contraente, della buona fede precontrattuale deve provare quale contenuto essa aveva assunto nella concreta dinamica delle trattative (per l’appunto, dando prova dello stadio a cui esse erano giunte e delle altre circostanze); viceversa, chi sostiene di aver tenuto una condotta conforme a buona fede deve dimostrare di aver adempiuto l’obbligo di informazione.

Semmai, la condivisibilità della disposizione francese può far sembrare superfluo porre espressamente una regola sul riparto dell’onere della prova come l’onere della prova di cui all’alinéa 4 si distribuisce: sicché, presumibilmente, un futuro legislatore italiano potrebbe tacere sul punto, lasciando che anche in quest’ambito operino i principi generali.

Pure la previsione dell’inderogabilità dell’obbligo generale di informare, di cui all’alinéa 5, appare persuasiva, anche nell’ottica del nostro ordinamento. La buona fede, in generale, non può essere derogata: quel che le parti possono cambiare, semmai, è la situazione concreta su cui si innesta l’obbligo generale di buona fede.

Così, e per esemplificare richiamando un ambito attiguo, le varie clausole che consentono di recedere dalle trattative senza pagare alcun danno vanno lette, anche per preservarne la validità, non come deroghe alla buona fede, ma piuttosto come dichiarazioni volte a privare – per quanto possibile – di serietà le trattative stesse. Allo stesso modo, un’eventuale disposizione che miri a escludere o limitare il dovere di informare varrebbe, tutt’al più, a rendere più generico l’oggetto del contratto o, comunque, a modificare – sempre per quanto possibile – la posizione delle parti rispetto all’informazione [8].

Nondimeno, la (indiretta) ammissibilità di una clausola di “deroga” alla buona fede – in tanto in quanto riletta quale previsione che muta la situazione concreta in cui le parti si trovano ad agire – potrebbe sconsigliare di introdurre, nell’articolato codicistico, una disposizione come l’art. 1112-1, alinéa 5, lasciando alla dottrina il compito di porre questi principi (che, peraltro, non sono oggetto di particolare attenzione da parte della giurisprudenza pratica e teorica in Italia).

Prima di giungere all’alinéa 6, v’è da considerare quello che l’art. 1112-1 non dice, evidentemente rimettendosi all’integrazione dottrinale e giurisprudenziale. Come già anticipato, la disposizione francese tace sul rilievo temporale del dovere generale di informazione: essa non chiarisce quando il dovere sorge, così come quando può considerarsi violato. Parimenti, essa nulla dice sul quantum risarcitorio derivante dalla sua violazione, sia essa scoperta prima della conclusione del contratto o dopo.

Molto brevemente, il giurista italiano, interrogato a tal riguardo, potrebbe ben ritenere che il dovere sorge con un certo contenuto fin dal momento in cui la buona fede impone di fornire una certa informazione, visto l’oggetto delle trattative, lo stadio delle stesse e le altre circostanze [9]; che l’inadempimento a tale obbligo è sempre fonte di responsabilità (salvo ove non sia imputabile, per caso fortuito o forza maggiore) [10]; che il quantum di danno è diverso, a seconda che la mancanza di informazione sia scoperta durante le trattative (nel qual caso si potrebbe ritenere che, scoperta l’informazione, la parte possa recedere dalle trattative imputando il loro costo alla controparte fin dal momento di violazione dell’obbligo di informare [11]) oppure a contratto concluso (nel qual caso il danno dovrebbe distinguersi a seconda della natura del vizio [12]).

Con riferimento ai menzionati profili, appare condivisibile che il legislatore francese non si sia espresso: parimenti, un futuro 1337-bis potrebbe ben tacere su tutti questi aspetti, senza perdere nulla e anzi risultando preferibile. Infatti, si tratta di punti dalle implicazioni sistematiche così consistenti che appare preferibile non irrigidirli in via positiva, lasciandoli invece all’elaborazione costante, e flessibile, di dottrina e giurisprudenza.

Siamo giunti, così, alla fine della prima parte del nostro percorso: stando all’analisi svolta, l’iniziativa del legislatore francese risulta, per lo più, apprezzabile, tanto da potersi suggerire al legislatore italiano di copiarla, salvo alcuni elementi di dettaglio che potrebbero essere rivisitati o modificati. I veri punti dolenti iniziano, tuttavia, ora: e sono punti che lasciano fortemente scettici sull’impianto della riforma francese, già da un punto di vista metodologico, e ancor più perplessi sulla sua importazione in Italia. In linea generale, si tratta di tutto quanto relativo al collegamento tra dovere precontrattuale di informazione e la disciplina dei vizi del consenso [13]: a tal riguardo esamineremo prima le disposizioni codicistiche frutto della riforma francese e, quindi, le prese di posizione del legislatore d’oltralpe [14], per poi verificare come le criticità emerse in Francia potrebbero essere evitate in Italia [15], per concludere poi offrendo un giudizio complessivo su quella parte della réforme di cui ci siamo interessati [16].

 

[1] Si tratta di un requisito ben noto in chiave comparatistica: v. ad esempio l’art. 4:103 PECL e, a tal riguardo, anche S. Lohsse, Art. 4:103: Fundamental Mistake as to Facts or Law, in R. Zimmermann, N. Jansen (eds.), Commentaries on European Contract Laws, Oxford, 2018, 418 s., così come il quadro generale, ma al tempo stesso assai preciso, offerto da J.M. Smits, Contracts Law. A Comparative Introduction2, Cheltenham, UK-Northampton, MA, 2017, 163.

[2] Esemplificando: Tizio compra un appartamento da Caio, offrendo una cifra ingente anche in virtù della particolare vista che dall’abitazione si gode; Caio, però, non gli rivela che di fronte all’appartamento sta per essere edificato un centro commerciale, che nasconderà tale vista. Caio potrebbe riuscire a dimostrare che Tizio era tanto innamorato di quell’appartamento che, anche se avesse ricevuto l’informazione, avrebbe fatto di tutto per accaparrarsi il bene: e, onde vincere la concorrenza di altri potenziali acquirenti, avrebbe comunque offerto la cifra a cui ha alla fine pagato l’immobile.

[3] Esemplificando: se Tizio si convince a comprare un certo fondo il cui pregio è dato anche dal fatto di confinare con un bellissimo parco privato, l’informazione relativa al fatto che uno degli alberi del parco – una magnolia secolare – è malata e sta per essere sradicata non parrebbe rilevanza causale se sul fondo del vicino vi sono altri numerosi alberi di particolare bellezza. Tuttavia, se il venditore Caio avesse saputo da Tizio che egli si era deciso a formulare una certa offerta per l’acquisto del fondo unicamente perché innamorato della magnolia, avrebbe dovuto informarlo di quanto a lui noto circa la malattia dell’albero?

[4] Quindi, nell’esempio di cui alla nt. 86, il dovere generale di informazione è comunque leso. Da ciò si desume anche che il quantum di risarcimento dell’interesse differenziale – rilevante in presenza di un vizio solo incidente – non può appiattirsi sulla ricerca di un vero nesso causale e su un vero giudizio controfattuale, ma piuttosto deve valorizzare la differenza tra il contratto concluso e quello ipotizzato. Ma su questo v. oltre, nt. 144.

[5] Tornando all’esempio di nt. 20, se l’interesse soggettivo – e idiosincratico – fosse noto alla controparte (in modo sufficientemente serio alla luce delle circostanze), la mancata informazione risulterebbe rilevante.

[6] Ciò avviene per lo più implicitamente: la dottrina, infatti, esclude un giudizio controfattuale che valuti a quali diverse condizioni il contraente disinformato avrebbe concluso il contratto, accontentandosi di verificare la normale incidenza dell’informazione e, così, dando l’impressione che sia sufficiente uno scarto tra il contratto concluso e quello ipotizzato (semmai, il giudizio controfattuale è da taluno richiesto in sede di quantificazione del danno: su cui v. oltre, nt. 97).

[7] Cfr. O. Deshayes, Th. Genicon, Y.M. Laithier, Réforme du droit des contrats, du régime général et de la preuve des obligations. Commentaire article par article2, Paris, 2018, 105; G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 167, che richiamano Cour de Cassation, Chambre civile 1, 28 mai 2008, 07-13.487, secondo cui, se il venditore sa dell’importanza determinante rivestita per l’acquirente dalla “vue dégagée à l’arrière de son jardin” e sa che una costruzione ostruirà tale vista, deve fornire la corrispondente informazione.

[8] Anche la dottrina francese chiarisce che le parti possano precisare quali informazioni rivestono per loro un carattere determinante: v. J.-J. Ansault, Réforme du droit des contrats. Premières réflexions sur les évolutions des opérations de fusion-acquisition, in JCP E, 2016, 1307.

[9] In Francia v. oggi G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 170, anche richiamando il rapport de présentation e l’ordonnance du 10 février 2016.

[10] Sul punto v. in particolare, nella nostra dottrina, L. Mengoni, Sulla natura della responsabilità precontrattuale, in Id., Scritti, II, Milano, 2011, 271

[11] Salvo che controparte non proponga di continuare le trattative alle condizioni ipotizzate dall’altro contraente; in tal caso, quest’ultimo comunque potrebbe abbandonarle, senza costo alcuno, quanto meno nell’ipotesi di dolo della controparte.

[12] Ma su questo v. oltre, § 7; sulle soluzioni dottrinali in Francia v. F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, cit., 347 s.; Ph. Malaurie, L. Aynés, Ph. Stoffel-Munck, Droit des obligations10, cit., 297; G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 171.

[13] D’altro canto, è finanche il regime del risarcimento per la violazione dell’obbligo di informazione – cui si è poc’anzi accennato molto brevemente – che impone di chiedersi se e come la disciplina del dovere di informazione si integri con quella dei vizi del consenso: del resto, è ovvio che attivando un rimedio quale quello caducatorio si può, in qualche parte, superare la necessità di risarcire un danno, così come è ovvio che, avendo a disposizione un rimedio caducatorio, sorga l’interrogativo circa la pregiudizialità di tale strumento di tutela rispetto al risarcimento del danno; parimenti, il ristretto ambito di applicabilità dei rimedi caducatori – in Francia come in Italia tradizionalmente collegati a vizi del consenso determinanti e non solo incidenti – esige di chiedersi se il quantum di danno deve essere liquidato, a fronte di un vizio determinante, in modo simile o diverso da quanto avviene nel caso in cui il vizio sia solo incidente (tutelato solo in via risarcitoria). Tali questioni, assai complesse, possono essere affrontate solo combinando rimedi caducatori e rimedi risarcitori, ossia solo rinvenendovi due rimedi diversi che trovano fondamento nella stessa disciplina sostanziale, necessariamente unitaria.

[14] § 6.

[15] § 7.

[16] § 8.


6. Le criticità della réforme: il mancato coordinamento del dovere generale di informazione francese con la disciplina dei vizi del consenso

Fin dalle prime righe di questo scritto si era notato come dovunque in Europa la disciplina tradizionale dei vizi del consenso sia apparsa, nel corso del Novecento, troppo rigida e restrittiva: il che ha aperto la strada a due percorsi evolutivi. Da un lato, si sono ampliate le maglie dei vizi del volere, e in particolare del dolo (estendendolo a ipotesi omissive e addirittura, talvolta, solo colpose [1]); da un altro lato, si è affidato alla responsabilità precontrattuale un ruolo di supplenza rispetto ai vizi del consenso (e a tal proposito è ben nota, in Italia, la teoria dei vizi incompleti del consenso, che trova degli omologhi funzionali anche negli altri ordinamenti di civil law [2]).

Ne è derivato un po’ ovunque un sistema frutto di stratificazioni, dove per riempire le lacune di tutela lasciate aperte dai vizi del consenso ci si è rivolti, in modo spesso disordinato, alla responsabilità precontrattuale (e, quindi, a uno strumento di tutela diverso e spesso meno efficace) [3]. Un sistema in cui è sorta la necessità di mettere ordine e di collegare in modo ragionevole i due tipi di tutela: quella demolitoria dei vizi del consenso e quella sostanzialmente manutentiva offerta dalla responsabilità precontrattuale.

Quest’istanza ha peraltro trovato una sponda in una concezione diversa e rimediale dei vizi del consenso, intesi oggi non più come patologie derivanti dalla carenza di un elemento strutturale del contratto, ma semmai come rimedi predisposti dall’ordinamento a favore di una parte [4]. Rimedi che, esattamente come il risarcimento del danno, si fondano su una distribuzione precontrattuale di rischi e che su questa trovano la loro giustificazione [5].

Il risultato che ne è disceso è ben apparente nei progetti di codificazione europea, come i PECL, e si sostanzia in una unificazione della disciplina dei vizi del consenso e del dovere precontrattuale di informazione, la cui violazione ha conseguenze di stampo diverso (ora la caducazione del vincolo, ora il risarcimento del danno) [6].

Seguendo questo esempio, il legislatore francese avrebbe ben potuto dettare le condizioni di rilevanza del dovere precontrattuale di informazione, prevedendo che in ogni caso la sua violazione comporti conseguenze risarcitorie e ammettendo che, dove l’informazione è di una certa importanza (ossia, è tale che, di norma, se la si fosse conosciuta si sarebbe contrattato a condizioni totalmente diverse o non si sarebbe nemmeno contrattato), il contratto sia caducabile. Inoltre, avrebbe potuto prevedere appositi rimedi per i casi che restano fuori da queste ipotesi, subordinati a particolari condizioni di rilevanza (ad esempio, per l’errore spontaneo o per l’errore comune, su cui si rinvia al prossimo paragrafo).

Tuttavia, nulla di ciò ha fatto il legislatore francese [7], il quale – lo si era anticipato – nell’introdurre nel codice un dovere generale di informazione e nel riformare il sistema dei vizi del consenso (e in particolare dol ed erreur [8]) ha dato vita a due sistemi che tra loro non sono immediatamente comunicanti e che, soprattutto, regolano in modo non uniforme il dovere generale di informazione. Il riferimento non va, ovviamente, al fatto che la caducazione è ammessa solo in presenza di errori più gravi rispetto a quelli che, invece, danno luogo solo a una vicenda risarcitoria; piuttosto, il fatto è che il perimetro del generale dovere informativo, previsto a carico della parte informata e a favore di quella non informata e nascente in virtù della reciproca posizione nelle trattative, è disciplinato separatamente e in modo diverso [9].

Tale scelta, alla luce delle indicazioni comparatistiche, non appare giustificata [10], non essendovi ragione alcuna per introdurre nell’ordinamento una duplice disciplina del dovere generale di informazione. La soluzione dei PECL, che può ben essere presa ad esempio, è nel senso di regolare autonomamente differenti ipotesi di errore, tra cui quello derivante dalla violazione del dovere generale di informazione, collegando allo stesso rimedi manutentivi (nei casi più gravi) e rimedi risarcitori (nei casi più gravi e pure in quelli più lievi) [11]. L’esito è, per l’appunto, la creazione di una disciplina unitaria, in cui la duplicità è dei rimedi e non già del perimetro del dovere d’informazione: e così pure avrebbe potuto fare il legislatore francese, evitando di individuare condizioni di rilevanza diverse per il dovere generale d’informazione a valenza risarcitoria e per quello a valenza caducatoria [12].

Ma non solo le indicazioni comparatistiche conducono a un giudizio negativo, anche e soprattutto nell’ottica dell’introduzione in Italia di una disciplina dell’informazione precontrattuale. Gli esiti poco ordinati che derivano dalla riforma francese sono sotto gli occhi di tutti, se è vero – com’è vero – che si è già palesata la necessità di interventi legislativi e giurisprudenziali volti a superare le più vistose incongruenze di disciplina: ossia, volti, in via positiva, a unificare quel regime di disciplina dell’informazione precontrattuale che, formalmente, la riforma ha tenuto distinto e, in via ermeneutica, ad appianare tale divergenza (con l’inevitabile portato di interpretazioni incerte, difficili e non sempre tali da condurre pienamente all’esito sperato).

Per chiarirlo vale la pena di prendere brevemente in considerazione i vizi “informazionali” del consenso (ossia legati all’informazione: dol ed erreur) e, per la precisione, quell’area di dol ed erreur che tendenzialmente si sovrappone al dovere informativo di cui all’art. 1112-1 (dal discorso resteranno cioè esclusi quei casi in cui l’errore di una parte deriva una informazione spontaneamente data dall’altra parte e intenzionalmente o colposamente sbagliata e quelli in cui non sussiste un dovere di informare e l’errore è spontaneo oppure è comune ad ambedue le parti; su tali casi, come già anticipato, si rinvia al § 7).

 

[1] Sul dolo commissivo come semplice menzogna v. M. Lobuono, Art. 1439, in Comm. Gabrielli, Torino, 2011, 173 s., e Cass. civ., sez. II, 28 ottobre 1993, n. 10718, in Foro it., 1994, I, c. 423; sul dolo omissivo cfr. G. Grisi, L’obbligo precontrattuale, cit., 283, nonché Cass. civ., sez. II, 7 agosto 2002, n. 11896, in Riv. dir. civ., 2004, II, 911; sul dolo colposo, in una prospettiva anche storico-comparatistica, v. P. Lambrini, Dolo colposo: una figura della scienza giuridica romana, in Id., Dolo generale e regole di correttezza, Padova, 2010, 117 ss.

[2] Sui vizi incompleti in Italia v. nuovamente M. Mantovani, ‘Vizi incompleti’, cit., 187 ss.

[3] Basti pensare, in Italia, a quelle ipotesi di violazione colposa di obblighi di informazione che non ammontano a errore (difettando di essenzialità), né a dolo (mancando di intenzionalità); in questi casi non vi è la possibilità di caducare il vincolo contrattuale, anche se il vizio è determinante. Solo pochi autori peraltro ammettono in Italia l’applicazione dell’art. 2058 cod. civ. nel caso di responsabilità precontrattuale da violazione di obblighi di informazione (R. Sacco, G. De Nova, Il contratto, Torino, 2016, 611); e, comunque, l’utilizzo del risarcimento in forma specifica quale base per far venire meno un contratto (o forse solo un rapporto contrattuale) sconta alcuni limiti, giacché richiede comunque che la conclusione del contratto rappresenti un “danno” (il che potrebbe non essere: basti pensare ai casi in cui l’affare è concluso a prezzi di mercato).

[4] Si tratta dell’ultima tappa di un processo che ha attraversato vari secoli e che, tra l’altro, si collega alla visione del negozio come atto di autoregolamento (e non – o, meglio, non solo – come atto di volontà). V., con riguardo all’errore, R. Zimmermann, The Law of Obligations. Roman Foundations of the Civilian Tradition, Oxford, 1996, 600 ss.

[5] Il che, a sua volta, si collega a una disciplina dei vizi del consenso, e in particolare dell’errore, incentrata sulla loro source, più che sulla loro nature: v., proprio rimarcando il fatto che il legislatore francese non ha aderito a questa moderna linea di tendenza, G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 259. Su questa linea di tendenza v. per tutti, S. Lohsse, Introduction before Art. 4:101, in R. Zimmermann, N. Jansen (eds.), Commentaries on European Contract Laws, Oxford, 2018, 649 ss.

[6] Su questi profili v. N. Jansen, R. Zimmermann, Contract Formation and Mistake in European Contract Law: A Genetic Comparison of Transnational Model Rules, in Oxford J. Legal Stud., 2011, 647 ss.; N. Jansen, Irrtumsanfechtung im Vorschlag für ein Gemeinsames Europäisches Kaufrecht, H. Schulte-Nölke, N. Jansen, R. Schulze (eds.), Der Entwurf für ein optionales europäisches Kaufrecht, München, 2012, 172 ss.

[7] Nonostante l’intendimento del legislatore della réforme di fare un passo in avanti nell’armonizzazione del diritto francese a quello europeo: v., sul punto, ancora una volta il Rapport, ove tra l’altro si legge che il “mouvement vers un droit commun des contrats français plus juste” di cui alla riforma “le rapprocherait des autres droits et projets d’harmonisation européens, qui proposent des dispositions similaires”. Cfr. anche L. Coppo, Gli ultimi sviluppi della riforma del Code civil: l’Ordonnance n. 131 del 2016 e il nuovo diritto francese delle obbligazioni e dei contratti, in Contr. impr. Eur., 2016, 318.

[8] V., nella prospettiva dell’interprete italiano, A. Gorgoni, I vizi, cit., 91 ss.

[9] Alla dottrina francese è ben noto che la disciplina del dovere d’informazione e quella dei vizi del consenso costituiscono due plessi che devono integrarsi e coordinarsi a vicenda. A dire il vero, però, gli autori d’oltralpe tendono non tanto a combinare due tipi di rimedi – risarcimento e caducazione –, ma piuttosto a distinguere tra misure preventive (il dovere di informare) e misure curative (la caducazione del vincolo): v. F. Terré-Ph. Simler, Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, cit., 365. Questa prospettiva, già utilizzata prima della riforma (F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, Les obligations8, cit., 208), non giova a un approccio unitario al tema dell’informazione precontrattuale; tuttavia, reca in sé, in nuce, quella necessità di coordinamento reciproco delle due discipline, che sfocia poi nell’esito di cui si va parlando nel testo.

[10] Al contrario il progetto d’ordinanza di riforma del 2015 aveva per lo meno regolato in un’unica sous-section (dedicata al consentement) dovere d’informazione e vizi del consenso (cfr. artt. 1129 ss.): scelta che, al netto di varie incongruenze del progetto (poi migliorate in sede di stesura definitiva) e del fatto che, comunque, la disciplina era solo topograficamente vicina (ma non sostanzialmente unitaria), appare oggi, allo sguardo di un interprete esterno, più condivisibile di quella della réforme.

[11] V. in particolare gli artt. 4:103 ss. PECL e, in particolare, gli artt. 4:103 (che indica varie categorie di errore), 4:106 (sulla rilevanza dell’informazione inesatta anche se non ricorrono le condizioni per annullare il contratto, perché l’informazione non era fundamental), 4:107 (sul dolo) e 4:117 (sul rimedio risarcitorio). In dottrina, v. soprattutto S. Lohsse, Art. 4:106: Incorrect Information, e Id., Art. 4:117: Damages, entrambi in R. Zimmermann, N. Jansen (eds.), Commentaries on European Contract Laws, Oxford, 2018, rispettivamente 689 ss. e 730 ss. Per attinenza, v. pure gli artt. II.-7:201 ss. DCFR, su cui cfr. Ch. von Bar, E. Clive (eds.), Principles, Definitions and Model Rules of European Private Law. Draft Common Frame of Reference (DCFR). Full Edition, I, Munich, 2009, 457 ss.

[12] Il legislatore avrebbe cioè potuto disciplinare una sola volta il dovere di informazione, soffermandosi poi solo sulla differenza tra vizi incidenti e vizi determinanti (i primi solo a valenza risarcitoria, i secondi anche a rilievo caducatorio) e sull’integrazione tra rimedi differenti (a parte il diverso quantum di danno, il riferimento va in particolare alla pregiudizialità della caducazione sul risarcimento, nei casi in cui entrambi i rimedi risultino attivabili: v. § 7).


6.1. Il dol

Quanto alla disciplina del dolo [1], essa prevede oggi che la reticenza dove sussiste un obbligo di informare, o la falsa informazione dove esiste questo obbligo, se intenzionali, producono nullità relativa del contratto [2]. Nella disciplina del dolo rientra, quindi, anche la violazione – dolosa – del dovere generale di informazione sorgente tra le parti delle trattative in virtù della loro posizione nelle trattative, che costituisce l’oggetto della nostra attenzione.

Nel regolare il dol, il legislatore francese poi aggiunge due ulteriori precisazioni, che complicano però – e non poco – le cose.

Anzitutto, l’art. 1130 prevede che il dolo debba essere determinante del consenso.

Evidentemente, la previsione è volta a contrapporre il dolo solo incidente a quello determinante, ossia il dolo in assenza del quale si sarebbe contratto ma a condizioni parzialmente diverse da quello in assenza del quale non si sarebbe concluso il contratto o lo si sarebbe concluso a condizioni del tutto diverse. L’idea, nelle sue linee essenziali, appare in sé e per sé persuasiva: serve un vizio del consenso determinante per aversi caducazione del vincolo contrattuale; se il vizio del consenso è solo incidente, non si può avere caducazione, ma solo risarcimento. Parimenti, sembra scontato che l’informazione non fornita o fornita in modo falso debba essere “determinante” nel senso dell’art. 1112-1, ossia debba avere un rilievo causale sul contratto (quantunque l’uso dello stesso vocabolo non appaia certo frutto di una scelta felice del legislatore francese).

Il problema sta nel fatto che, per valutare se il dolo è determinante, il legislatore chiede di valorizzare alcuni elementi concreti: più esattamente, si prevede che il dol, come gli altri vizi del consenso [3], rilevino a patto che “sont de telle nature que, sans eux, l’une des parties n’aurait pas contracté ou aurait contracté à des conditions substantiellement différentes” [4], fermo restando che “leur caractère déterminant s’apprécie eu égard aux personnes et aux circonstances dans lesquelles le consentement a été donné” (art. 1130). La disposizione non brilla di chiarezza: non solo, come detto, perché usa lo stesso aggettivo (déterminant) che l’art. 1112-1 utilizza per l’informazione con semplice efficacia causale, ma anche e soprattutto perché non chiarisce davvero in che modo si debba verificare la “determinanza” del vizio.

Si ripropone qui, in primo luogo, quella stessa difficoltà che si era incontrata a proposito del requisito dell’efficienza causale dell’informazione, con riferimento alla quale ci chiedevamo se una simile efficienza causale andasse dimostrata sulla base di un giudizio controfattuale basato su una realtà storica (per quanto ipotetica: ciò a cui il contraente caduto in errore avrebbe in effetti consentito) oppure richiedesse di guardare, più semplicemente, allo scarto esistente tra il contratto concluso e quello ipotizzato. A suo tempo rispondevamo nel secondo senso, osservando che tale soluzione è sostanzialmente condivisa anche dai giuristi d’oltralpe; e anche con riferimento al requisito di “determinanza” del vizio del consenso potremmo offrire una analoga risposta.

Tuttavia, anche ammettendo che il vizio sia determinante, e non incidente, se il contratto concluso è in sé e per sé diverso da quello ipotizzato dalla parte in errore o se le sue condizioni sono sostanzialmente diverse da quelle ipotizzate [5], resta difficile comprendere se la divergenza tra contratto concluso e contratto ipotizzato o la discrepanza sostanziale tra condizioni vada valutata secondo un rigido criterio oggettivo di normalità sociale (che apprezzi il concreto assetto di interessi) oppure alla luce delle preferenze e dei gusti seriamente comunicati all’altra parte dalla parte caduta in errore (benché estranei poi all’assetto di interessi condiviso) oppure ancora alla luce delle preferenze e dei gusti della parte caduta in errore (anche non rivelati all’altra parte) [6].

Questa ulteriore, e più grave, oscurità riecheggia peraltro l’altra su cui ci si era soffermati in tema di efficienza causale dell’informazione: con l’unica differenza che, lì, la terza soluzione poc’anzi prospettata era sicuramente esclusa dal tenore testuale dell’art. 1112-1. La presenza di un testo come quello dell’art. 1130 pone però nuovi e numerosi problemi: se il quesito andasse risolto nello stesso senso di cui all’ef­ficienza causale dell’informazione, resterebbe da spiegare perché il legislatore ha aggiunto all’alinéa 2 dell’art. 1130 che il vizio è determinante alla luce delle persone da cui, e delle circostanze in cui, è stato prestato il consenso, mentre l’alinéa 3 dell’art. 1112-1 chiede di verificare l’efficacia causale dell’infor­mazione sulla base di un criterio diverso. Le due disposizioni debbono integrarsi a vicenda oppure sono rispettivamente autonome?

Certo, apparirebbe strano che un’informazione sia priva di efficacia causale e, però, che il corrispondente vizio sia determinante; tuttavia, risulta poco chiaro perché il legislatore abbia posto due regole diverse, se il regime era in fondo unitario. Forse l’intendimento del legislatore era nel senso di collegare a dati soggettivi, anche non rivelati e purché seri e apprezzabili, la valutazione di “determinanza”, quanto meno nell’ipotesi di dolo. Il che potrebbe avere due conseguenze alternative: o portare ad ampliare anche il requisito dell’ef­ficienza causale dell’informazione nel caso di dolo (anche, però, nei casi di dolo incidente, ossia di vizi a rilievo unicamente risarcitorio, con necessità di reinterpretare in tal senso pure l’art. 1112-1 quanto alle ipotesi di violazione intenzionale dell’obbligo generale informativo); oppure consentire all’interprete, ferma la normale verifica di efficienza causale dell’informazione, di valutare se tale informazione era determinante o incidente facendo riferimento anche a elementi prettamenti soggettivi, purché seri e oggettivi.

Ma non è tutto. Il punto più interessante, ai nostri fini, della disciplina del dolo è infatti un altro: il legislatore della réforme ci dice – o, meglio, ci diceva – che il dolo è sempre rilevante, anche se riguarda un motivo e addirittura se attiene al valore della prestazione.

La dottrina francese ha da subito denunciato l’incongruenza di questa previsione – l’art. 1139: “l’erreur qui résulte d’un dol est toujours excusable; elle est une cause de nullité alors même qu’elle porterait sur la valeur de la prestation ou sur un simple motif du contrat” – con l’art. 1112-1, spiegandola sulla base di un’ispirazione maggiormente solidaristica della disciplina del dolo: quest’ultimo avrebbe consentito di caducare il vincolo contrattuale anche in presenza di una mancata informazione per cui non sussisteva alcun dovere di divulgazione, come in particolare le mancate informazioni “sul valore della prestazione” o “su un semplice motivo” [7].

Il Parlamento, con la legge di ratifica del 2018, ha voluto superare questa incongruenza, prevedendo che il dolo omissivo inerente alla valutazione del valore della prestazione non sia rilevante: e, a tal fine, ha aggiunto un nuovo alinéa 3 all’art. 1137, stando al quale “néanmoins, ne constitue pas un dol le fait pour une partie de ne pas révéler à son cocontractant son estimation de la valeur de la prestation”. Insomma, nel caso di dolo omissivo la mancata rivelazione della stima del valore – evidentemente, nel senso di cui all’alinéa 2 dell’art. 1112-1 – non è sanzionata [8].

L’intervento correttivo non ha riguardato il dolo commissivo, con riferimento al quale la falsa informazione parrebbe aver rilievo anche se attinente alla semplice valutazione di convenienza. Come si spiega una tale disposizione? A ben vedere, il dovere generale di informare può venire violato anche con una falsa informazione e non solo con un silenzio: in tal caso quindi riemerge la rilevanza dell’errore sulla valutazione di convenienza?

Probabilmente la disposizione va spiegata in altro modo [9]: il dolo commissivo, per essere tale, non richiede una semplice informazione sbagliata; ciò può valere solo ove vi fosse, a monte, un dovere di informare derivante dalla posizione delle parti rispetto all’informazione. Può accadere, a prescindere da tale dovere di informare (e quindi oltre i suoi confini), che un soggetto si assuma un ulteriore dovere informativo, proprio fornendo la stessa informazione; e che questa sia errata (anzi, intenzionalmente errata). Proprio in tal caso, allora, il dolo commissivo potrà rilevare anche con riferimento alla valutazione di convenienza: purché vi sia tale assunzione di rischio, sulla base di elementi su cui la disciplina francese tace.

Come si vede, la disciplina francese attuale non brilla per ordine [10]: sarebbe forse stato preferibile, a monte, distinguere l’errore causato intenzionalmente per mezzo della violazione del dovere generale di informazione da quello causato intenzionalmente per mezzo di una falsa informazione, con contestuale assunzione di uno specifico dovere informativo prima non esistente. Una volta regolata unitariamente questa casistica, ben si sarebbero potuti collegare rimedi risarcitori a entrambe le ipotesi, prevedendo un rimedio caducatorio nel solo caso di dolo determinante [11].

 

[1] Il dolo è sicuramente il vizio della volontà più vicino alla logica del dovere generale di informazione e, più ampiamente, della distribuzione precontrattuale di rischi. Del resto, e tornando a quanto si diceva alla nt. 104, il dolo per sua natura è regolato tenendo conto della fonte del vizio; l’errore, soprattutto se trova il suo baricentro nella “scusabilità” (come in Francia) anziché nella “riconoscibilità” (come in Italia), può invece facilmente allontanarsi da questa idea di fondo (cui invece si riavvicina se viene disciplinato, come avviene oggi negli strumenti europei di soft law, proprio guardando alla sua fonte).

[2] Non è ben chiaro se, alla luce della réforme, l’errore non causato, ma riconosciuto e non corretto, ammonti a dolo. Parrebbe di no: ma la difficoltà di comprenderlo si ricollega al solito fatto che la disciplina francese non sistematizza dovere di informazione, errore e dolo per coordinarne l’ambito di applicazione.

[3] In realtà, però, l’art. 1130 è poi specificato in modo assai diverso per le ipotesi di erreur; sicché, per i nostri fini, ben possiamo ritenere che la disposizione si riferisca al solo dol. V. in questo senso G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 254.

[4] Ad esempio, e rispettivamente: anziché comprare, Tizio prende in locazione; anziché comprare per 100, Tizio compra per 100.000.

[5] Sul punto v. Ph. Malaurie, L. Aynés, Ph. Stoffel-Munck, Droit des obligations10, cit., 285, secondo cui, a fronte anche della difficoltà di svolgere un giudizio controfattuale in tema di “determinanza” del dolo, la giurisprudenza tende – con soluzione fatta propria dall’art. 1112-1 – ad apprezzare “en général l’importance dans le contrat de l’élément sur lequel porte le vice, plutôt que le caractère déterminant de ce dernier, difficil à apprécier directement”.

[6] Né la dottrina francese è di aiuto, limitandosi a ribadire che l’analisi deve compiersi in concreto: v. G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 256. Peraltro, ciò spesso è inteso nel senso che va valutato in concreto se il dolo era tale da far cadere in errore una parte (v. F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, cit., 345): il che, però, riguarda piuttosto il perimetro della falsa informazione o dell’omissione rilevante, e non quello della “determinanza” del vizio.

[7] Sul dibattito che ha poi portato alla modifica dell’art. 1137, alinéa 2, v. C. Grimaldi, Proposition de modification de l’article 1137, alinéa 2, du Code civil relatif à la réticence dolosive, in Rev. contr., 2017, 175 ss. (e già dello stesso autore v. pure Quand une obligation d’information en cache une autre: inquiétudes à l’horizon, in Rec. Dalloz, 2016, 1009 ss.); G. Cattalano-Cloarec, Obligation, cit., 37 ss.

[8] Così G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 281. Da ciò, però, deriva un ulteriore dubbio: perché prevedere in due sedi diverse una disciplina identica (o, per meglio dire, che mira a essere identica)?

[9] La letteratura francese non approfondisce molto questo profilo, che è però necessariamente insito nella definizione del dolo commissivo come “artificio” o “menzogna” e, soprattutto, nella sua distinzione dal dolus bonus: v. F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, cit., 336 ss.

[10] V. Ph. Malaurie, L. Aynés, Ph. Stoffel-Munck, Droit des obligations10, cit., 296.

[11] Sul punto cfr. anche F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, cit., 339.


6.2. L’erreur

Consideriamo ora la disciplina dell’errore, che al suo interno comprende giocoforza anche i casi in cui il dovere generale di informazione viene leso, seppur in forma soltanto colposa (e non dolosa). Si tratta di ipotesi abbastanza rare, ma in astratto non impossibili [1].

La regolazione dell’erreur prevede che l’errore, per rilevare, dev’essere scusabile: il che, giocoforza, ricorrerà sempre nei casi di violazione colposa, da parte dell’altro contraente, di un obbligo di informazione. Ma non è tutto: è anche previsto che l’errore deve riguardare una “qualità” anche “immateriale” e che la qualità dev’essere “essenziale”, ossia “determinante” del consenso (art. 1132: “l’erreur de droit ou de fait, à moins qu’elle ne soit inexcusable, est une cause de nullité du contrat lorsqu’elle porte sur les qualités essentielles de la prestation due ou sur celles du cocontractant”) [2].

Quanto all’afferenza dell’errore a una “qualità” della prestazione, non è ben chiaro se con qualità si intenda perimetrare ulteriormente l’errore rispetto all’obbligo di informazione (limitandolo in modo più stringente) o se si voglia riprodurre la stessa estensione (in particolare lasciando al di fuori l’informazione sul valore della prestazione).

Il dubbio resta pure intendendo in senso ampio il termine “qualità”, come di norma fanno i giuristi francesi (ossia come comprensivo anche di qualità immateriali [3]) e pure rivolgendo l’attenzione al resto della disciplina in tema di erreur, soprattutto là dove essa prevede che “l’erreur sur la valeur par laquelle, sans se tromper sur les qualités essentielles de la prestation, un contractant fait seulement de celle-ci une appréciation économique inexacte, n’est pas une cause de nullité” (art. 1136) [4]. La previsione, in effetti, ricorda da vicino l’art. 1112-1, alinéa 2, ma la sua formulazione non è del tutto corrispondente: sicché non è chiaro se le due disposizioni si sovrappongono, se si integrano a vicenda o se semplicemente sono diverse [5].

L’errore, poi, deve riguardare una qualità “essenziale” della prestazione: ossia quelle “qui ont été expressément ou tacitement convenues et en considération desquelles les parties ont contracté” (art. 1133, alinéa 1; e si veda pure l’art 1135, alinéa 1, secondo cui “l’erreur sur un simple motif, étranger aux qualités essentielles de la prestation due ou du cocontractant, n’est pas une cause de nullité, à moins que les parties n’en aient fait expressément un élément déterminant de leur consentement”).

La previsione si pone – come conferma la dottrina francese – in diretta connessione con l’art. 1130, specificando il requisito di “determinanza” del vizio nel caso di erreur. Ciò sembrerebbe voler dire che la qualità dev’essere entrata nell’assetto di interessi condiviso tra le parti: con esclusione, quindi, di tutte quelle qualità corrispondenti a interessi unilaterali, fossero essi conosciuti o meno dalla controparte [6]. Una soluzione, quindi, non corrispondente a quella vista in tema di dovere informativo e a quella, ancora diversa, apparentemente vigente in tema di dolo.

Il che, peraltro, ci porta ad accorgerci che, mentre nel caso di dolo il legislatore sembrava estendere il dovere informativo (e in effetti così faceva, prima del 2018), nel caso di errore il legislatore appare voler limitare le conseguenze dell’ignoranza (restringendone gli effetti caducatori).

Nel caso di dolo ciò avveniva in virtù della forte influenza del dolo commissivo o, per meglio dire, dell’errore intenzionalmente causato tramite assunzione del rischio informativo: la regolazione di queste ipotesi infatti aveva portato a rendere rilevante qualsiasi errore, dovuto a una condotta intenzionale dell’altra parte, sebbene inerente a valutazioni sul valore della prestazione.

Nel caso di errore è probabile che il retropensiero del legislatore francese sia stato quello di porre una disciplina che risultasse congrua anzitutto per quella casistica che, in Italia, riterremmo afferente all’errore spontaneo o all’errore comune: all’errore, cioè, non causato dall’altra parte, obbligata a fornire un’infor­mazione (esatta) in virtù della sua posizione nelle trattative o a causa della sua condotta, ma in cui una parte cade spontaneamente (sia esso riconoscibile o anche solo riconosciuto dall’altra parte), e all’errore in cui entrambe le parti cadono, senza che nessuna delle due parti sia tenuta a scoprirlo e a correggerlo.

Proprio la necessità di limitare il campo di questa casistica – che peraltro in Francia rischierebbe di dilatarsi alquanto, giacché l’unica rete di contenimento è affidata alla “scusabilità” dell’errore – ha presumibilmente portato a una redazione della disciplina dell’erreur su cui aleggia una certa tendenza restrittiva. Sennonché, con la regolazione dell’erreur il legislatore francese ha abbracciato anche le ipotesi di errore causato dalla violazione colposa del dovere generale informativo, finendo per dar vita a ipotesi di inosservanza dell’obbligo informativo che non ammontano a erreur solo perché l’informazione non fornita, pur astrattamente determinante stando al criterio posto dall’art. 1112-1, alinéa 2, non è determinante ai sensi dell’art. 1133, alinéa 1.

Ancora molto vi sarebbe da dire sull’erreur: a mero titolo esemplificativo, ci si potrebbe chiedere se le previsioni dell’art. 1133, alinéa[7], dell’art. 1133, alinéa[8], e dell’art. 1135, alinéa[9], tutte relative a ipotesi abbastanza specifiche, ma non meno importanti, possano venire applicate anche, ove ne ricorresse l’occasione, nell’ambito del dovere generale informativo. Tuttavia, è il caso di procedere oltre e di valutare come, in sede di riforma del codice civile italiano, si potrebbero evitare le disfunzioni cui la réforme ha dato vita.

 

[1] Anche se la dottrina francese sembra disconoscerlo: v. G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 167 e 280, che coerentemente con tale premessa definiscono l’erreur come erreur spontanée (ivi, 259). In senso contrario v. però F. Chénedé, Le nouveau droit des obligations et des contrats, Paris, 2016, 39.

[2] Il requisito di “determinanza” è così assorbito da quello di “essenzialità”: v. G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 253.

[3] V. Ph. Malaurie, L. Aynés, Ph. Stoffel-Munck, Droit des obligations10, cit., 287.

[4] Su cui v. G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 272 ss.

[5] Cfr. Ph. Malaurie, L. Aynés, Ph. Stoffel-Munck, Droit des obligations10, cit., 291. Il dubbio, d’altro canto, deriva dal fatto che, in sede di dovere informativo, il riferimento alle valutazioni di convenienza riguarda direttamente le condizioni alle quali sorge l’obbligo (la distribuzione precontrattuale di rischi); in sede di erreur, invece, esso emerge con riguardo all’individuazione dell’errore rilevante dal lato dell’errans stesso (senza dire che la disciplina dell’erreur, non richiedendo che l’errore sia riconoscibile o riconosciuto, ma solo scusabile, finisce per non contemplare, nemmeno oggi, un elemento che direttamente evoca una distribuzione precontrattuale di rischi).

[6] Sul punto v. G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 261 s.; Ph. Malaurie, L. Aynés, Ph. Stoffel-Munck, Droit des obligations10, cit., 288 (ove anche l’utilizzo dell’avverbio tacitement, contenuto nell’art. 1133, alinéa 1, non si vede assegnata una grande importanza). Invece, l’avant-projet Catala, all’art. 1112-1, seguiva una soluzione mediana: “l’erreur sur la substance de la chose s’entend de celle qui porte sur les qualités essentielles en considération desquelles les deux parties ont contracté, ou, semblablement, l’une d’elles, à la connaissance de l’autre”.

[7] Cfr. G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 263.

[8] Cfr. G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 263 s.; Ph. Malaurie, L. Aynés, Ph. Stoffel-Munck, Droit des obligations10, cit., 288 s.

[9] Cfr. G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 271 s.


7. Segue. Per una regolazione unitaria dell’informazione precontrattuale a fronte della duplicità dei rimedi attivabili.

Nella prospettiva del giurista italiano il doppio binario francese appare ripetere le difficoltà cui oggi deve far fronte l’interprete municipale: il quale, da un lato, ha a disposizione una disciplina dei vizi del consenso “informazionali” che è stata estesa interpretativamente, ma che ancora non è tale da coprire – ad esempio – tutto l’ambito della violazione colposa e determinante (non incidente) dell’obbligo di informare, mentre, da un altro lato, può riempire le lacune di tutela per mezzo del dovere di buona fede precontrattuale (applicando la teoria dei vizi incompleti del consenso), che costituisce però spesso un rimedio spuntato (non permettendo di caducare il contratto) e, in altre occasioni, eccessivo (imponendo di risarcire un danno differenziale anche in ipotesi in cui il contraente tutelato mai avrebbe concluso il contratto).

Il sistema italiano attuale e quello francese successivo alla riforma condividono, quindi, la stessa logica (o, meglio, la stessa illogicità) di fondo: non coordinare l’informazione precontrattuale a rilevanza risarcitoria e a rilevanza caducatoria, costruendo un solo sistema, ma accettare che l’obbligo di informazione, tutelato in via risarcitoria, e i vizi del consenso, che conducono alla caducazione del vincolo, siano soggetti a discipline non interamente corrispondenti e, quindi, in parte autonome.

Come si è detto, questo esito finisce per essere poco ragionevole rispetto agli interessi in gioco e all’evo­luzione degli ordinamenti, vista anche in chiave comparatistica, la quale ha dovunque condotto a intendere i vizi del consenso quali rimedi basati su una particolare distribuzione precontrattuale di rischi. Ma non è tutto: questo esito, già di per sé poco opportuno, appare pernicioso nel momento in cui è il frutto di una riforma, ovvero di un intervento legislativo che, di per sé, dovrebbe portare ordine nel sistema.

Parleremo oltre della probabile ragione per cui in Francia la riforma non ha condotto a una complessiva rivisitazione dell’informazione precontrattuale; per il momento, conviene chiedersi come, invece, dovrebbe agire sul codice civile un futuro legislatore italiano, onde superare gli inconvenienti attuali [1] e, al contempo, evitare le criticità della riforma d’oltralpe [2].

L’idea di base dovrebbe essere, come apparirà ormai chiaro, quella di integrare il sistema del dovere precontrattuale di informazione e quello dei vizi del consenso “informazionali”, facendo sì che i secondi rispondano alla stessa distribuzione precontrattuale di rischi cui risulta ispirata la disciplina del dovere d’informa­zione. In tal modo si perseguirebbero, in uno, il risultato di una coerenza funzionale e sistematica e quello di una semplicità di disciplina, a tutto vantaggio anche della sua certezza.

Nel merito, è possibile formulare – con estrema sintesi e solo per immagini – una proposta di disciplina per errore e dolo, basata su un presupposto finora mai esplicitato in queste pagine, ma che le considerazioni svolte hanno consentito di far emergere [3]: errore e dolo, quali vizi del consenso, costituiscono due figure che la dottrina e la giurisprudenza recenti hanno assai esteso, tanto da inglobare al loro interno figure assai diverse ed eterogenee; una nuova disciplina, conscia di ciò, dovrebbe allora frantumare errore e dolo in più figure distinte (anzitutto a livello legislativo), onde prevedere per ciascuna regole idonee (ragionevoli e proporzionate). Si dovrebbero allora così distinguere: un errore causato dalla violazione del dovere generale informativo (colpevolmente o dolosamente); un errore causato da una falsa informazione spontaneamente offerta al di fuori di qualsiasi dovere (ancora, colpevolmente o dolosamente); un errore spontaneo riconoscibile dalla controparte (e a seconda dei casi riconosciuto o non riconosciuto); un errore spontaneo non riconoscibile, ma riconosciuto; un errore comune.

Limitando l’attenzione al solo errore causato, cui abbiamo sinora dedicato la nostra indagine, si potrebbe ben prevedere che qualsiasi violazione dell’obbligo di informazione consenta di caducare il contratto, qualora si tratti di un vizio determinante e non solo incidente: ossia, non solo causalmente efficiente, ma anche tale da aver condotto a un contratto oggettivamente diverso da quello che si sarebbe altrimenti concluso. In ogni caso, poi, l’errore causato darebbe vita a un risarcimento del danno subito dal contraente leso. Tale errore, peraltro, se deliberatamente indotto ammonterebbe a un vero e proprio dolo.

In secondo luogo, dovrebbe regolarsi l’errore causato da una falsa informazione spontaneamente offerta al di fuori di qualsiasi dovere: errore che rileverebbe ogni qual volta, fornendo un’informazione, un soggetto ha assunto su di sé il rischio della veridicità [4]. Quando ciò avvenga, ancora una volta, può essere rilevato facendo riferimento a patterns condivisi che rappresentano casi tipici: deve anzitutto trattarsi di casi in cui non sussiste già un obbligo generale di informare; inoltre, rileva la sussistenza di una condotta che, quanto ad altre informazioni, implichi un’assunzione di responsabilità. Tale condotta non può essere una mera esaltazione della merce, ma deve costituire un’informazione seria su qualità non apparenti e causalmente rilevanti che la parte, facendo sorgere un dovere informativo altrimenti escluso (nel caso di qualità reali) [5] o volendo esonerare la controparte da un’indagine sulla convenienza (nel caso di qualità economiche) [6], garantisce.

L’errore causato da una falsa informazione spontaneamente offerta condurrebbe anch’esso, a seconda del suo carattere determinante o incidente, a rimedi risarcitori e caducatori o solo risarcitori. Anche questo errore, se volontariamente causato, ammonterebbe a dolo.

In terzo luogo, si darebbe l’ipotesi di un errore spontaneo [7]: di un errore in cui un soggetto cade, senza rendersene conto e senza che fosse già sorto un obbligo di informare (per la maggiore vicinanza della controparte, informata, alla fonte di informazione o addirittura per il suo obbligo di informarsi per informare) [8]. È il caso dell’errore “banale”, già sotteso all’art. 1431 cod. civ., in cui sarebbe possibile chiedere il solo annullamento del contratto (se l’errore non è riconosciuto ed è determinante) o anche il risarcimento del danno (se l’errore è riconosciuto ed è determinante) o il solo risarcimento del danno (se l’errore è riconosciuto, ma non è determinante) [9]. Ma è il caso anche dell’errore “non banale”, di per sé non riconoscibile, ma concretamente riconosciuto, con riferimento al quale i rimedi attivabili sarebbero – a seconda del carattere determinante o meno – l’annullamento e il risarcimento o il solo risarcimento [10].

L’errore spontaneo causalmente efficiente sarebbe escluso, comunque, se attenesse alle solite ipotesi rispetto alle quali sussiste in concreto un diritto al silenzio, di cui già si è detto con riferimento all’errore causato (potendosi quindi rinviare alla trattazione che precede) [11].

Infine, dovrebbe prevedersi un particolare trattamento per l’errore comune: ossia, per quell’errore in cui entrambe le parti sono cadute e che, oltre a non poter essere corretto in via interpretativa [12] e a non dar vita a un vizio della causa [13], attiene a qualità che hanno un riflesso immediato e condiviso sul corrispettivo o comunque che sono state dichiarate seriamente (sempre salva l’area presidiata dal diritto al silenzio) [14]. L’er­rore comune è escluso dalla presenza di errori causati e, al contempo, dalla maggiore vicinanza della parte che attiva la tutela alla fonte di informazione o comunque dal fatto che essa sopporti il rischio corrispondente (nei casi in cui sarebbe stato impossibile, o estremamente difficile, accedere all’infor­mazione) [15].

L’errore comune consentirebbe di ricorrere a un rimedio particolare: non già la caducazione del vincolo contrattuale, che potrebbe essere in talune ipotesi eccessiva e che, soprattutto, non tiene in sufficiente considerazione gli interessi di ambo le parti e non si presta a venire utilizzata al di fuori delle ipotesi in cui il vizio è determinante, ma piuttosto la rinegoziazione del contratto (entro termini di prescrizione da regolare anch’essi espressamente) [16].

E ancora: dal punto di vista rimediale, una disciplina complessiva e unitaria permetterebbe di risolvere, in modo coerente e sistematico, alcuni problemi di grande rilievo.

In particolare, essa permetterebbe di regolare espressamente il requisito della “determinanza”, stabilendo che essa va valutata, in modo analogo a quanto avviene per l’efficienza causale dell’informazione, apprezzando il margine di discrepanza tra il contratto concluso e quello ipotizzato [17]. Così, l’errore sarebbe “determinante” se il contratto è sostanzialmente diverso, in sé e per sé o per le condizioni a cui è stato concluso [18]. Inoltre, si potrebbe chiarire che per tutti i vizi – salvo forse il dolo determinante – la valutazione, come quella dell’efficienza causale dell’informazione, è da condurre sulla base degli interessi della parte in errore, purché noti e rivelati in modo serio e apprezzabile all’altra parte.

Quanto, poi, ai rimedi attivabili, il risarcimento, là dove previsto, dovrebbe distinguere le proprie poste a seconda che si tratti di vizio determinante o incidente [19]: nel primo caso il danno potrebbe essere pari al pregiudizio derivante dal contratto concluso (se esso è stato concluso a valori inferiori di quelli di mercato) e alle altre occasioni perse e alle spese sostenute durante le trattative [20]; nel caso, invece, di vizio incidente il danno potrebbe essere pari al valore che l’elemento su cui è caduto l’errore aveva nell’economia del contratto (ferma restando la possibilità di agire anche ai sensi dell’art. 2058 cod. civ.) [21].

Il rimedio caducatorio – l’annullamento – dovrebbe poi essere regolato in modo da prevederne espressamente la pregiudizialità [22]: nei casi in cui è ammissibile l’annullamento, esso deve essere richiesto; in mancanza, sarà decurtata dal risarcimento una somma pari a quella che, in caso di caducazione del vincolo, non sarebbe stata pagata. Inoltre, sempre in tale sede sarebbe possibile disciplinare – come peraltro già oggi avviene – la rettifica del contratto, forse da escludere espressamente nel caso di dolo.

Andrebbero poi previsti, nel dettaglio, i rapporti tra la disciplina dei vizi del consenso e quella delle garanzie contrattuali [23]: difatti, sarebbe da regolare espressamente il caso in cui i due rimedi astrattamente concorrano, per verificare se, come sostiene parte della dottrina, una volta concluso il contratto le garanzie escludano ogni responsabilità precontrattuale e ogni vizio del consenso oppure se vi sia un qualche tipo di concorso (fermo restando che, prima di concludere il contratto, ciò che in proiezione contrattuale sarebbe attratto alla dimensione delle garanzie rileverebbe nell’ambito dell’informazione precontrattuale).

Come si vede, una disciplina unitaria dell’informazione precontrattuale andrebbe molto oltre la semplice aggiunta, al codice civile, di un nuovo art. 1337-bis e imporrebbe anzitutto un ripensamento dei vizi del consenso “informazionali” (che, a sua volta, travolgerebbe tutte le previsioni di cui agli artt. 1338 e 1427 ss.) [24].

 

[1] Sulla necessità di ammodernare il sistema dei vizi del consenso v. già A.M. Musy, Informazioni e responsabilità precontrattuale, in Riv. crit. dir. priv., 1998, 618, e oggi, in una prospettiva europea, F.P. Patti, “Fraud” and “Misleading Commercial Practices”: Modernising the Law of Defects in Consent, in Eur. Rev. Contr. Law, 2016, 310.

[2] La proposta che si avanzerà ripete i tratti di quella revisione ermeneutica che, de iure condito, si era ipotizzata in una diversa sede, cui si consenta di rinviare: v. A.M. Garofalo, Towards a Unitary and Consistent System of Informational Defects in Consent and Pre-Contractual Liability Under Italian Law, in It. Law Journal, 2020, 113 ss.

[3] In parte, nel formulare la proposta, ci si ispirerà alla disciplina già menzionata dei PECL, la quale, oltre a distinguere vari casi di errore a seconda della loro fonte, tra l’altro richiede che l’errore, per avere rilievo caducatorio, sia fundamental. Per maggiori dettagli si rinvia al testo citato alla nota precedente.

[4] Attribuzione del rischio che potrebbe assumere le forme di una responsabilità oggettiva o per colpa. In ogni caso, ove non sussistessero gli estremi della responsabilità, l’errore sarebbe inevitabilmente comune (e rileverebbe alle condizioni, per l’appunto, dell’errore comune, su cui v. infra).

[5] L’emergere di un simile obbligo di informazione riguarda in particolare le ipotesi in cui il generale dovere informativo risulta escluso per le varie ragioni indicate nel § 4 (salvo quelle, su cui v. la nota successiva, relative all’assenza di dovere di informazione sulla convenienza economica). Si pensi al caso delle representations and warranties in un sale and purchase agreement: ossia di quelle dichiarazioni con cui una parte, e per lo più l’alienante di quote sociali o azioni, rappresenta una certa realtà, garantendone la veridicità. Tale informazione spontanea viene offerta al di fuori di qualsiasi dovere e può, in astratto, inserirsi nella casistica di cui si va parlando. Più difficile, semmai, è individuare il rimedio corretto per il caso in cui tali informazioni risultino erronee, giacché ben si può ritenere che esse ammontino anche a garanzie convenzionali (nel qual caso emerge il problema relativo al concorso tra violazione del dovere di informazione e garanzie; problema tanto più complicato in casi come quelli del sale and purchase agreement, in cui le parti spesso intendono derogare ai rimedi legali, con clausole la cui validità – integrale o per lo meno parziale – non sempre è chiara). Sul punto v., per tutti, G. De Nova, Il Sale and Purchase Agreement: un contratto commentato3, Torino, 2019, 153 ss. e 224 ss.

[6] Questa ipotesi è assai meno frequente, perché solitamente le dichiarazioni sulla convenienza non esimono dal controllo della controparte (costituendo, dunque, solo un dolus bonus, ossia solo un’esaltazione della propria merce); ma se così dovesse avvenire (ad esempio, se Tizio davvero, assicurando che il prezzo da lui praticato è quello di mercato ed esimendo la controparte da qualsiasi verifica, si assumesse il rischio della veridicità della sua informazione), allora l’informazione spontanea farebbe sorgere un corrispondente obbligo informativo.

[7] A sua volta, l’errore ostativo andrebbe ricondotto alle sole ipotesi in cui vi è un errore sulla trasmissione della dichiarazione, esattamente come accade in Germania (v. §§ 119 e 120 BGB, nonché R. Singer, § 119 BGB, in Staudinger Kommentar, Berlin, 2016, 536 ss.); esso, inoltre, dovrebbe essere ricondotto all’errore che si è detto “banale”. Il punto richiederebbe, in realtà, una spiegazione più approfondita, che tuttavia per ragioni di spazio si deve omettere.

[8] Ed è ben noto, a tal riguardo, il dibattito tra chi ha ritenuto che la “riconoscibilità” dell’errore sia perfettamente sostituibile dal suo concreto riconoscimento (F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile9, Napoli, 1966, 165; si tratta dell’opinione maggioritaria) e chi invece ha sostenuto un’opinione contraria (P. Barcellona, In tema di errore riconosciuto e di errore bilaterale, in Riv. dir. civ., 1961, I, 76 ss.).

[9] L’errore è banale perché l’informazione è scontata in capo ad ambedue le parti o comunque in capo alla parte che la possiede, pur senza che questa abbia a monte un obbligo di svelarla (situazione, quest’ultima, che normalmente non si pone, giacché se l’informazione fosse scontata solo in capo a una delle due parti questa sarebbe già di per sé obbligata a condividerla). È il caso di chi vorrebbe comprare 100 plichi di carta, ma erroneamente ne ordina 10.000.

[10] L’errore non è banale perché non è scontato che la controparte abbia quell’informazione. È il caso del contraente non esperto che si accorge che la sua controparte, anch’essa non professionale, ha classificato un’opera d’arte autentica tra le riproduzioni moderne (non già a causa di una svista, ma proprio per un errore di attribuzione, magari anche difficile da rintracciare e correggere).

[11] L’esclusione del dovere di correggere l’errore riguarda anzitutto l’errore sulla convenienza (la posizione, più moderata, di A.T. Kronman, Mistake, cit., 31, non persuade: l’esempio che l’autore adduce, ossia il caso in cui un soggetto si accorge dell’errore accidentale in cui è caduta la controparte, la quale intende – ad esempio per un errore di battitura – far pagare una cifra irrisoria per un bene assai costoso, riguarda a ben vedere un errore sulla dichiarazione). Nei casi poi di errore non banale il silenzio può riguardare anche il contraente che possiede certe informazioni, se l’oggetto è incerto e richiede valutazioni discrezionali, oppure se la contrattazione avviene tra parti esperte e l’errore riguarda informazioni di secondo livello (e a fortiori se la contrattazione avviene tra una parte esperta e una che non lo è, ed è quest’ultima ad accorgersi dell’errore), oppure ancora se il contratto è concluso in contesti particolari connotati da una serialità della contrattazione (v. § 4, le cui considerazioni possono venire qui in buona parte replicate e, in quanto compatibili, applicate).

[12] Ciò che avverrebbe se l’errore attenesse alla sola dichiarazione, giacché essa potrebbe venire corretta tramite l’istituto della falsa demonstratio: su cui v. per tutti E. Capobianco, La determinazione del regolamento, in V. Roppo (dir.), Trattato del contratto, II, Milano, 2006, 317 s. Si tratta, del resto, di un’applicazione della nota regola tedesca Auslegung vor Anfecthung.

[13] Come avviene nel caso di errore comune su un motivo che, essendo comune e unico determinante, diventa interesse, con la conseguenza che la sua irrealizzabilità costituisce patologia della causa: cfr. per tutti M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969, spec. 270, 273 e 282 s.

[14] Si pensi al caso di vendita di un quadro che entrambe le parti, non esperte, credono sia privo di ogni valore, per essere una copia moderna, e che invece è autentico.

[15] Se, nell’esempio della nota precedente, il venditore del quadro agisce professionalmente, egli si assume con ogni probabilità anche i rischi relativi a qualità non emerse subito e che nemmeno sarebbero potute emergere subito (né per mezzo di uno sforzo di ricerca diligente, né, in ipotesi, con il massimo sforzo immaginabile).

[16] Del resto, v. il rimedio previsto in Germania per l’errore comune dall’art. 313 II BGB, nonché, a tal proposito, Th. Finkenauer, § 313 BGB, in Münchener Kommentar8, München, 2019, Rn. 147 e Rn. 273 ss. (che ricorda come, per la dottrina dominante, l’errore comune in Germania rientri nella previsione citata e non già nel § 119 BGB in tema di Irrtum).

[17] Ogni altra proposta rischia di cadere in un soggettivismo e volontarismo esasperato: non può mai davvero sapersi se il contraente in errore avrebbe concluso anche quel contratto in sé e per sé sostanzialmente diverso o a quali altre condizioni sarebbe stato disposto a contrattare. L’unica opzione convincente è quella che valorizza la discrepanza tra contratto concluso e contratto ipotizzato.

[18] Questa seconda ipotesi di “determinanza” (che correttamente è stata contemplata dal nuovo art. 1130, alinéa 1, Code civil: v. G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 255) è, in realtà, prevista a tutela di chi subisce l’annullamento. Un esempio potrà chiarire quest’affermazione: se Tizio suppone di concludere un contratto pagando un prezzo di 100, e invece il contratto prevede un prezzo di 100.000, è evidente che il contratto concluso è per lui – salvo l’elemento del prezzo – satisfattorio (diversamente da quanto avverrebbe se egli volesse comprare oro e invece comprasse argento). Tuttavia, se si trattasse di un vizio incidente, il rimedio previsto sarebbe il solo risarcimento dell’interesse differenziale: il che finirebbe per tradursi in un forte – ed eccessivo – pregiudizio a carico della controparte. Meglio è, invece, trattare questo vizio come determinante, prevedendo l’annullabilità del contratto (e prevedendo che essa sia pregiudiziale rispetto ad altri rimedi).

[19] La dottrina tradizionale afferma che il risarcimento del danno si parametra sul contratto che sarebbe stato concluso in assenza di errore (cfr. A. Ravazzoni, La formazione del contratto, II, Milano, 1966, 210 ss.); si tratta, tuttavia, di una nozione ambigua, giacché essa ben potrebbe riferirsi al vero e proprio contratto ipotizzato da chi cade in errore oppure all’estremo opposto al contratto che effettivamente questi sarebbe riuscito a concludere (con un’ampia scala di grigi nel mezzo: ad esempio, il riferimento potrebbe andare al valore – a prezzo di mercato o in proporzione al corrispettivo contrattuale – che aveva l’elemento su cui è caduto l’errore). La giurisprudenza, dal canto suo, utilizza la nozione di interesse differenziale (v. ad esempio Cass. civ., sez. III, 8 ottobre 2008, n. 24795, in Foro it., 2009, I, c. 440), la quale, oltre a replicare le stesse ambiguità, appare di difficile utilizzo nel caso di vizi determinanti (prestandosi bene al calcolo del risarcimento del danno nel solo caso di vizi incidenti). A ben vedere, ad oggi mancano – se si esclude G. Afferni, Il quantum del danno nella responsabilità precontrattuale, Torino, 2008 – studi analitici sulle conseguenze risarcitorie della scorrettezza precontrattuale di stampo informativo.

[20] Con una precisazione: nel caso in cui il vizio è determinante a tutela della parte che subisce l’annullamento (cfr. la nota precedente), le due poste di risarcimento potrebbero sovrapporsi (se Tizio compra per 200 supponendo di comprare per 100, il prezzo di mercato è 150 e Tizio ha perso un’occasione di acquistare a 100, il risarcimento è pari a 100, giacché il risarcimento dell’occasione persa ingloba anche quello del pregiudizio arrecato dal contratto).

[21] La quantificazione dell’interesse differenziale – da ritenere come tale risarcibile solo se il vizio è incidente – porta a chiedersi se si deve dare rilievo alla normale differenza di valore di mercato tra il contratto concluso e il contratto ipotizzato oppure al peso che proporzionalmente aveva sul contratto concluso quell’elemento di discrepanza (l’esito è identico solo se un contratto è concluso a condizioni perfette di mercato). Probabilmente la seconda opzione è quella preferibile. Nel caso, poi, in cui l’elemento di discrepanza sia di stampo idiosincratico, ma comunque portato seriamente a conoscenza della controparte, il suo valore (sempre proporzionalmente rispetto al valore del contratto effettivamente concluso) dovrebbe essere commisurato al peso ragionevolmente assunto da quel particolare interesse.

[22] Salve, a tutto voler concedere, le ipotesi di dolo. Ad oggi la dottrina non ha assunto una posizione univoca (v., ad esempio, le opinioni discordanti di F. Benatti La responsabilità precontrattuale, Milano, 1963, 68, e di S. Pagliantini, Il danno (da reato) ed il concetto di differenza patrimoniale nel caso Cir-Fininvest, in Contratti, 2014, 113 e 119). Nel diritto amministrativo, nondimeno, tale pregiudizialità è ben conosciuta: v. ovviamente l’art. 30, comma 3, cod. proc. amm.

[23] È noto il dibattito dottrinale sul punto: per il pieno concorso V. Pietrobon, Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, Padova, 1990, 412 s. (e così l’opinione dominante); in senso contrario C.M. Bianca, Diritto civile, III2, Il contratto, Milano, 2000, 653 s. Resta peraltro fermo, da un altro punto di vista, che le garanzie hanno un qualche rilievo sul perimetro dell’obbligo di informazione precontrattuale (del dovere di informare e di informarsi per informare): non solo perché ciò che contrattualmente è oggetto di garanzia in chiave precontrattuale è, o per lo meno può essere, oggetto di un dovere informativo, ma anche perché il sistema complessivo dell’informazione precontrattuale si basa su una distribuzione di rischi diversa per ogni tipo contrattuale, da ricostruire tenendo in debita considerazione anche l’allocazione di rischi cui, in chiave contrattuale, darebbero vita le garanzie.

[24] Ben oltre a quanto prevedeva l’art. 1, lett. f), d.d.l. delega per la riforma del codice civile S. 1151/2019, che delegava il Governo a “prevedere, nel corso delle trattative per la conclusione del contratto, che la parte che sia a conoscenza di un’informazione di rilievo determinante per il consenso sia inderogabilmente tenuta a comunicarla all’altra parte quando questa la ignori e abbia fatto necessario affidamento sulla lealtà della controparte; sono escluse le informazioni concernenti il valore dell’oggetto del contratto”. La previsione, a dire il vero, si limitava a copiare nei suoi tratti essenziali l’art. 1112-1 francese.


8. Conclusione

Dalla trattazione che precede è emerso che l’art. 1112-1 Code civil reca in sé diversi elementi di pregio: tanto che se ne può proporre una importazione in Italia (ferme restando alcune lievi modifiche, volte ad adattare lessicalmente la disposizione al nostro codice e a risolvere alcune piccole criticità). Tuttavia, si è anche visto come una riforma dell’informazione precontrattuale dovrebbe, in realtà, essere ben più ampia e soprattutto toccare i vizi del consenso “informazionali”: sicché, se il legislatore italiano volesse mettere mano al codice, dovrebbe preoccuparsi anzitutto di rivedere il complessivo sistema di dolo ed errore.

In ultima conclusione, dall’esposizione si possono trarre alcuni insegnamenti.

È condivisibile che il legislatore – un legislatore – intervenga anche in una materia cui sovrintende una clausola generale, per specificarla; nondimeno, ciò che è richiesto al legislatore è porre alcune scelte politiche di fondo e quelle scelte tecniche che, lasciate a dottrina e giurisprudenza, rischiano – per la loro natura o per lo stato dell’ordinamento – di risultare di soluzione eccessivamente incerta. Non solo: la riforma francese attesta, tra l’altro, anche l’attualità indiscutibile di strumenti di normazione come il codice civile, che si propongono di regolare in modo sistematico un insieme assai ampio di rapporti.

Quello che è meno convincente è che una riforma complessiva, che riguardi aree dell’ordinamento occupate da clausole generali e che si proponga di aggiornare il codice civile (ossia quella disciplina che dovrebbe valere, in via generale, per tutti i rapporti), avvenga “a giurisprudenza costante”, ossia risulti essere una mera recezione di orientamenti giurisprudenziali, onde consentire al diritto scritto di avvicinarsi maggiormente al diritto vivente.

In effetti, la réforme, proprio perché avvenuta “a giurisprudenza costante”, presenta numerose debolezze. Ne abbiamo incontrate diverse: il legislatore francese non ha ben chiarito il perimetro dell’esclusione del dovere informativo precontrattuale, così come non è intervenuto su aspetti di disciplina secondari, ma che avrebbero avuto bisogno di un intervento espresso, limitandosi a recepire quanto pacifico in giurisprudenza. Ma la maggiore debolezza riguarda il mancato coordinamento dei vizi del consenso e del dovere di informazione precontrattuale: mancato coordinamento che si deve proprio a questo connotato della riforma francese [1].

Il legislatore d’oltralpe, infatti, si è limitato a consacrare alcune soluzioni giurisprudenziali in tema di errore e dolo [2], senza proporsi, nel momento in cui veniva introdotto un dovere generale di informazione precontrattuale, di porre una disciplina dei vizi del consenso volta a creare un sistema unitario e ragionevole dell’informazione precontrattuale, pur a fronte della varietà dei rimedi attivabili. Tutto ciò, però, fa sì che ora emergano incongruenze inevitabili, oltre che difficili problemi interpretativi: quando, invece, una riforma maggiormente coraggiosa e innovatrice avrebbe consentito di costruire un sistema ordinato e fondato su criteri semplici [3].

Il legislatore, in realtà, ha un ruolo diverso da quello di mero ratificatore delle scelte giurisprudenziali. Se è vero che, inevitabilmente, la giurisprudenza non può creare diritto in modo sistematico e ordinato, è anche vero che spetta al legislatore supplire a questa mancanza di sistematicità, in particolare allorché interviene per modificare e aggiornare la disciplina di uno o più istituti. In altri termini: una riforma può anche avvenire “a giurisprudenza costante”, ma solo nel senso che può farsi ispirare da alcune soluzioni giurisprudenziali, andando però per il resto oltre a queste. Una riforma, infatti, deve farsi carico di quanto la giurisprudenza – chiamata a pronunciarsi su singoli casi – non può fare: ossia, deve creare un sistema (ovviamente, con l’aiuto della dottrina).

Forse non è più il tempo delle grandi costruzioni, dei Domat e dei Pothier. Ma il legislatore francese, mettendo mano al monumento di Napoleone, qualcosa in più avrebbe potuto fare: e, soprattutto, v’è da sperare che questa inclinazione sistematica, che è mancata in Francia, animi il legislatore italiano, quando deciderà di riformare il nostro codice civile.

 

[1] Cfr. F. Terré, Ph. Simler, Y. Lequette, F. Chénedé, Les obligations12, cit., 309.

[2] Lo riconosce anche la dottrina francese: v. G. Chantepie, M. Latina, Le nouveau droit2, cit., 252.

[3] La riforma “a giurisprudenza costante” potrebbe essere indice di un particolare rapporto tra formanti, proprio del solo ordinamento francese: il che impedirebbe una critica a tale tecnica legislativa e, a monte, confuterebbe l’ipotesi di lavoro posta alla nt. 43 (secondo cui le differenze, anche istituzionali, tra ordinamento francese e italiano nella materia d’indagine sono minime e possono essere trascurate). Tuttavia, per quanto in Francia l’importanza della giurisprudenza della Cour de Cassation sia sicuramente notevole, non può negarsi che il formante legislativo occupi un ruolo altrettanto rilevante e che esso possa perseguire i suoi obiettivi – di giustizia e di certezza – mediante tecniche di regolazione che, in astratto, non divergono molto da quelle adottabili in Italia. L’ipotesi di lavoro ne risulta, quindi, confermata; al contempo, il dubbio qui emerso deve ritenersi infondato.