Le misure straordinarie adottate dal governo italiano per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 hanno avuto un rilevante impatto sui rapporti contrattuali in atto. La chiusura generalizzata delle attività di intere categorie commerciali e dei servizi costituisce una condizione idonea a determinare la sopravvenuta impossibilità della prestazione ovvero, nei contratti sinallagmatici lungo periodo, un’alterazione dell’originario equilibrio economico.
Il presente articolo si propone di analizzare la legislazione emergenziale e le sue ricadute sulla disciplina contrattuale, apparentemente frammentaria e disorganica, attraverso il minimo comune denominatore del principio di solidarietà sociale che, negli ultimi anni, ha assunto una crescente importanza quale fonte eteronoma di integrazione del regolamento contrattuale.
L’analisi è condotta in comparazione con il tessuto normativo preesistente, per delineare la sorte del contratto alterato dalle misure di contenimento e individuare gli strumenti più idonei a riequilibrare il sinallagma contrattuale.
The extraordinary measures adopted by the Italian government to face the Covid-19 pandemic have had a significant impact on existing contractual obligations. The general shut down enforced on some activities has either resulted in the supervening impossibility of performance or affected the economic equilibrium of permanent contracts.
This article aims at reviewing the emergency legislation, finding the lowest common denominator of this apparently fragmented approach in the rising principle of social solidarity. This study is also conducted in comparison with the pre-existing framework, to determine the fate of contracts affected by the containment measures.
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Laura Barbi - La solidarietà sociale come risposta alla crisi del contratto: una disamina della legislazione emergenziale nell’era Covid-19
COMMENTOSommario:
1. Introduzione. - 2. Impossibilità sopravvenuta della prestazione e rimedi codicistici. - 2.1. Misure di contenimento e inadeguatezza dei rimedi tradizionali. L’intervento del legislatore nel settore del turismo e dei trasporti. - 2.2. Settore della cultura e prestazioni artistiche. - 2.3. Distanziamento sociale e attività sportiva amatoriale. Quale sorte per i contratti di accesso a palestre, piscine e alle altre strutture sportive. - 3. L’art. 9 d.l. 17 marzo 2020, n. 18: ambito di applicazione e portata di una disposizione a carattere generale. - 4. Eccessiva onerosità sopravvenuta e principio di conservazione del contratto: quale spazio per un obbligo di rinegoziazione? - 5. Conclusioni.
La comparsa del virus Sars-Cov-19 ha posto l’umanità di fronte a una situazione senza precedenti, non solo per l’elevato tributo umano, pagato principalmente dalle fasce più fragili della popolazione, ma per aver costretto milioni di persone in tutto il mondo a un mutamento sostanziale della propria normalità quotidiana.
Per fronteggiare l’aumento esponenziale dei contagi ed alleggerire la pressione sulle strutture ospedaliere, messe a dura prova dall’improvvisa e repentina diffusione dell’epidemia, il Governo italiano ha adottato stringenti misure di contenimento, imponendo il distanziamento sociale e disponendo la chiusura di tutte le attività commerciali ritenute non necessarie. Il lockdown ha così comportato una drastica contrazione di consumi e investimenti, paralizzando interi settori produttivi e innescando quella che è stata definita come la peggiore crisi economica dalla Seconda Guerra Mondiale.[1]
Le ricadute di tali provvedimenti sono state avvertite anche in ambito giusprivatistico, riverberandosi sui rapporti contrattuali sorti prima dell’emergenza e non ancora esauriti. Si tratta, in particolare, di questioni concernenti la fase esecutiva dei contratti sinallagmatici di durata, fisiologicamente esposti alle sopravvenienze perturbative dell’originario equilibrio economico, suscettibili di ripercuotersi sulla sorte del contratto.
Nel tentativo di limitare le conseguenze dello shock provocato dalla pandemia, il Governo ha tentato di offrire una risposta rapida agli operatori del mercato e ai debitori civili nell’ambito dei settori che più hanno risentito delle misure di contenimento, predisponendo una nutrita serie di disposizioni emergenziali e transitorie, parzialmente derogatorie delle norme codicistiche, volte a congelare le pretese restitutorie dei creditori di prestazioni divenute impossibili e a favorire la rinegoziazione tra le parti quando le sopravvenienze abbiano reso il contratto eccessivamente oneroso.
Da un’analisi sistematica della disciplina emergenziale appare chiaro come il legislatore, pur attraverso interventi frammentari e disorganici, abbia inteso promuovere una riallocazione dei rischi che, in applicazione del principio costituzionale di solidarietà sociale, di cui all’art. 2 Cost., consenta alla parte più colpita dai provvedimenti di porre un argine agli effetti potenzialmente devastanti della crisi pandemica.[2] Il presente contributo si propone di analizzare dette disposizioni, ponendole a confronto con il tessuto normativo preesistente, per delineare gli strumenti idonei a riequilibrare il sinallagma contrattuale, alterato dalla pandemia.
[1] In questo senso, Banca d’Italia, Relazione annuale sul 2019 https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/relazione-annuale/2019/sintesi/rel_2019_sintesi.pdf.
[2] Sull’influenza dei principi costituzionali nel diritto privato si veda, per tutti, D’amico G., Principi costituzionali e clausole generali: problemi (e limiti) nella loro applicazione nel diritto privato (in particolare nei rapporti contrattuali), in Giust. civ., 2016, 443 ss.
Uno degli effetti più frequenti delle misure emergenziali è costituito dall’improvvisa interruzione delle attività commerciali e dalla conseguente impossibilità per i debitori di dare esecuzione alla prestazione dovuta. Le limitazioni all’esercizio di attività commerciali integrano un factum principis, in virtù del quale si verifica l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, con conseguente liberazione del debitore.[1] Nei contratti a prestazioni corrispettive ciò incide direttamente sul sinallagma contrattuale, facendo venir meno il nesso di reciprocità tra le prestazioni, provocando la risoluzione del contratto ed il sorgere, in capo alla controparte, del diritto alla ripetizione di quanto prestato.[2]
Sovente non è il debitore a trovarsi nell’impossibilità pratica di eseguire la prestazione, quanto piuttosto il creditore ad essere impossibilitato a riceverla. La giurisprudenza è costante nell’equiparare all’impossibilità sopravvenuta nell’erogazione della prestazione, l’ipotesi in cui essa sia divenuta inutilizzabile o irricevibile dal creditore per causa a lui non imputabile. In tal caso, il contratto si risolve, in ragione della sopravvenuta irrealizzabilità delle finalità essenziali a cui è preordinato e che ne integrano la causa concreta.[3]
Il rimedio della risoluzione per impossibilità sopravvenuta, se si dimostra efficace quando concerne il singolo contratto, può portare a conseguenze devastanti per l’impresa ove involga l’intero fascio dei rapporti contrattuali stipulati nell’esercizio della propria attività. La restituzione di somme di denaro per gran parte delle operazioni negoziate, infatti, minerebbe la stessa sopravvivenza dell’impresa e, in grande scala, finirebbe per aggravare una situazione economica drammatica, rallentando la ripartenza dei consumi e delle attività economiche in generale.
Per tali ragioni, nei settori che più hanno subito le conseguenze del lockdown, il legislatore è intervenuto a smorzare le ripercussioni economiche e sociali conseguenti all’adozione delle misure di contenimento, disponendo, con specifico riguardo a talune fattispecie contrattuali, una “temporanea ibernazione dei contratti in essere, nel tentativo di salvaguardarli dall’epidemia e dalla morte”.[4]
La soluzione proposta è il risultato del contemperamento di due interessi contrapposti: da un lato quello del consumatore al ristoro integrale della spesa effettuata, dall’altro quello delle imprese in carenza di flussi di cassa a non vedersi private della liquidità già ottenuta, necessaria per la propria sussistenza in un momento in cui, peraltro, tutte le attività sono congelate. D’altra parte, la sopravvivenza dell’impresa va anche a beneficio degli interessi dei creditori, dal momento che, qualora il debitore divenisse insolvente, questi potrebbero non ricevere alcun rimborso.
[1] L'impossibilità che, ai sensi dell'art. 1256 c. c., estingue l'obbligazione o giustifica il ritardo nell'adempimento viene intesa, in primo luogo, in senso assoluto e obiettivo e consiste nella sopravvenienza di una causa, non imputabile al debitore, che impedisce definitivamente o temporaneamente l'adempimento. La regola di cui all’art. 1256 c.c. deve essere coordinata con altre norme presenti nel codice civile e, in particolare con l’art. 1176 c.c. in tema di diligenza, per cui se il debitore ha posto in essere lo sforzo di diligenza specifica dallo stesso esigibile e nonostante ciò l’adempimento non sia stato possibile, non è tenuto al risarcimento del danno. Limitare l’esonero della responsabilità ai soli casi di impedimento oggettivo e assoluto e non anche alle ipotesi in cui l’adempimento, pur astrattamente possibile, sarebbe eccessivamente gravoso per il debitore, in termini economici, fisici o psichici, si porrebbe in contrasto con il rispetto della dignità umana e con il principio inderogabile di solidarietà, sanciti all’art. 2 Cost. Sulle cause di esonero dalla responsabilità per inadempimento v. Bianca C.M., Dell’inadempimento delle obbligazioni. Art. 1218- 1229 c.c., in Scialoja A. e Branca C. (a cura di) Commentario al codice civile, 1979; Id, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1992; Castrovinci, D.: Il problema della inesigibilità della prestazione, in Giust. civ., 1988, II, pp. 346 ss.; Cottino G., L'impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore, 1955; Giorgianni M, v. Inadempimento, in Enciclopedia del diritto, Giuffré, XX, 1970; Mengoni L., v. Responsabilità contrattuale, in Enciclopedia del diritto, Giuffré, XXXIX, 1988; Osti G., Impossibilità sopravveniente, in Noviss. dig. it., VIII, Torino, 1962, pp. 487; Roppo V., Impossibilità sopravvenuta, eccessiva onerosità della prestazione e frustration of contract, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1973, 1239.
[2] Nei contratti a prestazioni corrispettive le attribuzioni patrimoniali, rispettivamente a carico di ciascuna parte e a vantaggio dell’altra, sono legate da un nesso di reciprocità, per cui intanto una delle parti trasferisce un diritto all’altra o si obbliga ad effettuare una prestazione nei confronti dell’altra, in quanto a sua volta la controparte effettua o si obbliga ad effettuare una controprestazione. Conseguentemente, le prestazioni corrispettive sono assoggettate alla medesima sorte così che l’estinzione dell’obbligazione, conseguenza riflessa della sopravvenuta impossibilità della prestazione, fa venir meno la giustificazione del diritto alla controprestazione, rendendo irrealizzabile il risultato pratico a cui il negozio era diretto e determinandone, di diritto, la risoluzione ex art. 1463 c.c. Per l’effetto, la parte liberata non potrà richiedere la prestazione e dovrà restituire quando eventualmente ricevuto dalla controparte.
[3]Ex multis Cass., 10 luglio 2018, n. 18047 (ipotesi in cui l’acquirente di un “pacchetto vacanze” fosse nell’impossibilità di fruire della prestazione per il sopraggiungere di una patologia che non gli consentiva di intraprendere il viaggio) e Cass., 24 luglio 2007, n. 16315 (ipotesi in cui gli acquirenti di un “pacchetto vacanze” fossero impossibilitati ad intraprendere il viaggio a seguito della diffusione di un’epidemia di dengue emorragico nel Paese di destinazione), entrambe in DeJure.it.
La Cassazione assimila all’impossibilità sopravvenuta nell’esecuzione della prestazione l’ipotesi in cui l’evento impeditivo si verifica nella sfera del creditore, mentre il debitore si trova nelle condizioni di garantire l’esecuzione della prestazione. Ciò sia nel caso in cui si verifichi un fatto sopraggiunto, imprevedibile e inevitabile, che ne impedisca la fruizione in maniera oggettiva e assoluta, sia allorquando i fattori sopravvenuti abbiano reso “inutile” la prestazione promessa, ossia inidonea a soddisfare l’interesse del creditore che integra la causa concreta del contratto.
A tali conclusioni era pervenuto già Bianca C.M., Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1992, p. 383. L’Autore definisce l’impossibilità di utilizzazione della prestazione come: «l’inidoneità della prestazione a soddisfare l’interesse del creditore», precisando altresì che il venir meno dell’interesse del creditore alla prestazione medesima, determina l’estinzione del rapporto obbligatorio, essendo divenuta irrealizzabile la causa concreta del contratto. Nello stesso senso: Tamponi M., La risoluzione per inadempimento, in Rescigno P. e Gabrielli E. (diretto da), Trattato dei contratti, II ed., Torino, 2006.
[4] Guerrini L., Coronavirus, legislazione emergenziale e contratto: una fotografia, in Giustiziacivile.com (07 maggio 2020), p. 9.
Il divieto di spostamenti sul territorio nazionale ha inevitabilmente prodotto delle ricadute sul comparto del turismo e dei trasporti. L’art. 28 del d.l. 2 marzo 2020 n. 9, recante “Misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19”, individua le situazioni di sopravvenuta impossibilità della prestazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1463 c.c., dei contratti d’acquisto di titoli di viaggio, concernenti il trasporto aereo, ferroviario e marittimo, e di pacchetti turistici. In particolare, conformemente al consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 28 dichiara l’avvenuta risoluzione dei contratti stipulati da soggetti impossibilitati a viaggiare per motivi collegati all’emergenza sanitaria, stante l’irricevibilità della prestazione.
In tali situazioni, così come in caso di recesso da parte del viaggiatore, e previa presentazione di un’apposita istanza di rimborso entro trenta giorni decorrenti, a seconda dei casi, dalla cessazione dell’impedimento o dalla data prevista per la partenza cancellata, la norma attribuisce al debitore la facoltà di scegliere tra il rimborso del corrispettivo pagato e l’emissione di un voucher di pari importo.
La disposizione è stata successivamente abrogata dall’art. 1, comma 2, della legge 24 aprile 2020, n. 27, di attuazione del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, c.d. decreto “Cura Italia”, che fa salvi gli effetti prodotti e i rapporti giuridici sorti nel periodo di vigenza.
La medesima legge ha introdotto nel corpo del d.l. 18 del 2020, l’art. 88 bis, rubricato “Rimborso dei titoli di viaggio, di soggiorno e dei pacchetti turistici”, che ribadisce quanto già affermato nell’art. 28, estendendone l’applicabilità anche all’ipotesi in cui sia la struttura ricettiva o il vettore a sciogliere unilateralmente il contratto, ove non in grado di eseguire le prestazioni dovute in ragione dei provvedimenti adottati dalle autorità nazionali, internazionali o di Stati esteri, a causa dell’emergenza epidemiologica in corso.
Per comprendere la portata dell’intervento legislativo e il suo rapporto con la disciplina codicistica occorre definire cosa s’intenda per voucher e quale sia l’operazione giuridica che il legislatore abbia voluto attuare.
L’istituto del voucher viene menzionato dal d.lgs. 141/2018, di attuazione della Direttiva 2016 n. 1065, concernente il regime tributario dei buoni, che modifica il d.P.R. 633/72, introducendo l’art. 6 bis, dove definisce il buono corrispettivo monouso (o voucher) come uno “strumento che contiene l’obbligo di essere accettato come corrispettivo o parziale corrispettivo a fronte di una cessione di beni o di una prestazione di servizi e che indica, sullo strumento medesimo o nella relativa documentazione, i beni, o i servizi da cedere o prestare o le identità dei potenziali cedenti o prestatori, ivi incluse le condizioni generali di utilizzo ad esso relative”. Si tratta, dunque, di un documento di legittimazione ex art. 2002 c.c., che attribuisce al creditore il titolo per fruire di una futura prestazione da scegliere tra quelle offerte dal debitore.
Secondo un primo orientamento, malgrado l’espresso richiamo operato dall’art. 88 bis “ai sensi e agli effetti dell’art. 1463 c.c.”, il legislatore sarebbe intervenuto a ridefinire il contenuto del contratto, configurando un obbligo di rinegoziazione in capo al debitore, a cui il creditore della prestazione caratteristica potrebbe aderire mediante la presentazione della richiesta di rimborso nel termine di trenta giorni previsto dalla legge. Decorso inutilmente tale termine, l’obbligo si estinguerebbe e, con esso, il rapporto negoziale, per cui la parte insoddisfatta potrebbe recuperare le somme già versate attraverso l’ordinaria disciplina della ripetizione dell’indebito, ex art. 2033 c.c. La norma, quindi, offrirebbe un rimedio accessibile in via temporanea e transitoria, con la conservazione, ove non azionato, della pretesa alla restituzione della somma versata, non potendo l’ordinamento tollerare la permanenza in essere di prestazioni sine causa.[1]
Tale tesi, oltre a svilire il dato letterale della norma,[2] si pone in contrasto con la disciplina generale del rapporto obbligatorio. L’art. 1256 c.c. delinea l’estinzione dell’obbligazione e la conseguente liberazione del debitore quali conseguenze necessarie della sopravvenuta impossibilità della prestazione. Nell’ambito dei contratti sinallagmatici, tale effetto produce un’anomalia del nesso di corrispettività tra le prestazioni. L’ordinamento interviene a correggerlo disponendo che, all’estinzione dell’obbligazione originaria, consegua automaticamente il sorgere, in capo alla parte che ha già eseguito la propria prestazione, del diritto ad ottenere la ripetizione di quanto prestato, ex art. 2033 c.c. Il legislatore dell’emergenza, pertanto, non interviene sull’obbligazione originaria, che si è estinta in forza dell’art. 1256 c.c., né sul rapporto contrattuale che ne è titolo, risolto ipso iure ai sensi dell’art. 1463 c.c., ma solo sull’obbligazione restitutoria.
In secondo luogo, sebbene il termine di decadenza per l’esercizio della richiesta di rimborso appaia gravemente restrittivo per il consumatore, specie se paragonato al termine di prescrizione per l’esercizio dell’azione di ripetizione dell’indebito,[3] la soluzione per cui, decorsi inutilmente i trenta giorni previsti dalla legge, il creditore vanti un titolo alla ripetizione di quanto prestato non appare confacente. Essa, infatti, si pone in contrasto con la ratio degli interventi emergenziali, prestandosi ad un uso strumentale da parte del creditore e vanificando lo sforzo del legislatore. In tale ipotesi, infatti, la scelta tra rimborso e voucher sarebbe di fatto rimessa al singolo creditore che, verosimilmente, avrebbe una maggiore convenienza a lasciar decorrere il termine per poter ottenere in breve tempo il rimborso in denaro.[4] La portata della crisi pandemica e la gravità delle misure di contenimento, invece, necessitano di essere contrastate da misure forti, in grado di contenere, per quanto possibile, gli effetti della drammatica contrazione subita dall’economia e favorirne quanto prima la ripresa. Il rischio contrattuale viene in parte traslato sui creditori, costretti ad accettare, in luogo del rimborso in denaro, un buono di pari valore. Operazione che non rinverrebbe alcuna giustificazione sul libero mercato, dove il voucher, per essere davvero attrattivo, dovrebbe avere un valore maggiore rispetto al corrispettivo versato,[5] e che, dunque, non può che costituire applicazione del dovere costituzionale di solidarietà.
Per tali ragioni, appare più coerente sostenere la natura speciale e derogatoria della disciplina generale delle disposizioni emergenziali, ritendendo che il rimedio contemplato dall’art. 88 bis costituisca l’unica tutela accessibile dal creditore della prestazione divenuta giuridicamente impossibile per via delle misure di contenimento. Il termine di trenta giorni, dunque, è un termine di decadenza perentorio, decorso il quale l’interesse generale al mantenimento in vita dell’impresa e, in grande scala, dell’intero tessuto economico e produttivo prevale sia sull’interesse particolare del singolo al ristoro di quanto prestato, che sull’interesse generale dell’ordinamento ad evitare trasferimenti patrimoniali sine causa. A sostegno di tale conclusione si presta anche il dato letterale dell’art. 88 bis, comma 12, che, nella sua formulazione originaria, stabiliva come: “L’emissione dei voucher previsti dal presente articolo assolve i correlativi obblighi di rimborso e non richiede alcuna forma di accettazione da parte del destinatario”.
Altri Autori[6] hanno qualificato l’operazione legislativa come una novazione ex lege,[7] che si sostanzia nella sostituzione all’obbligazione restitutoria originaria, avente ad oggetto il rimborso del prezzo pagato dal viaggiatore, di un’obbligazione alternativa, dove la scelta tra rimborso o voucher è rimessa unicamente al debitore, che si libera eseguendo l’una o l’altra prestazione. Non si assisterebbe, dunque, alla conservazione del rapporto originario, che si è estinto ipso iure per il factum principis, bensì alla costituzione di un nuovo rapporto tra le medesime parti del contratto risolto, che consente di congelare le pretese restitutorie del creditore evitando che gli operatori del settore si vedano privati della liquidità già incassata.
Al di là delle obiezioni sollevate dalla dottrina maggioritaria alla configurabilità di una novazione di fonte non negoziale, tale tesi non è in grado di fornire una giustificazione alla previsione del termine legale di cui il debitore dispone per azionare la richiesta di rimborso. In altri termini, pur ammettendo il sorgere di una nuova obbligazione che sostituisce la precedente, non si comprende quale sarebbe la sorte riservata al debito una volta decorsi inutilmente i trenta giorni previsti dalla legge.
Né, d’altra parte, può qualificarsi tale operazione come una datio in solutum, per cui l’art. 1197 c.c. richiede l’espresso consenso del debitore. In mancanza, opera il principio per cui aliud pro alio invito creditore solvi non potest, in virtù del quale l’esecuzione di una prestazione diversa da quella dovuta, anche se di valore uguale o maggiore alla stessa, non libera il debitore.
Proprio l’assenza di una apposita accettazione da parte del creditore ha portato l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato[8] a rilevare un contrasto tra l’art. 88 bis e il diritto eurounitario che, in caso di cancellazione del viaggio per circostanze inevitabili e straordinarie, riconosce il diritto del consumatore ad ottenere il rimborso di quanto pagato, assoggettando l’eventuale corresponsione del voucher all’espressa accettazione del creditore.[9]
Nello stesso senso si è espressa la Commissione europea nella Raccomandazione del 13 maggio 2020[10], dove si afferma la legittimità dell’offerta di un buono in luogo del rimborso, ma a condizione che i viaggiatori vi prestino il proprio consenso e non siano privati del diritto al rimborso in denaro.
La Commissione ha anche rilevato come, in ragione delle gravi perdite del settore turistico derivanti dall’esiguo numero delle nuove prenotazioni a fronte delle richieste di rimborso, occorrerebbe incentivare i consumatori ad accettare i voucher, rendendoli una valida e affidabile alternativa al rimborso in denaro. Affinché ciò avvenga, e ferma restando la loro volontaria accettazione, i voucher devono presentare una serie di caratteristiche, tra cui una copertura assicurativa, che garantisca dal possibile fallimento del debitore, e il diritto al rimborso in denaro se, alla scadenza, il buono non sia stato utilizzato.
Tali indicazioni sono state in parte recepite dal legislatore nel d.l. 19 maggio 2020 n. 34, c.d. decreto “Rilancio”, convertito con modificazioni dalla l. 17 luglio 2020 n. 77., che modifica l’art. 88 bis con efficacia estesa anche ai voucher già emessi.
La nuova disciplina, tra le altre cose, estende la validità dei voucher, che passa da un anno a diciotto mesi, e ammette la possibilità che vengano utilizzati anche in un tempo successivo alla scadenza del periodo di validità, purché la prenotazione venga effettuata entro questo termine. Infine, pur continuando a negare il rilievo dell’accettazione del creditore, viene stabilito il diritto al rimborso dell’intero importo versato, in caso di mancato utilizzo del voucher entro il periodo di validità.
Da ultimo, sempre raccogliendo le indicazioni della Commissione, viene istituito un fondo con una dotazione di cinque milioni euro per il 2020 e un milione di euro per il 2021, finalizzato ad indennizzare i consumatori titolari di voucher emessi in seguito al recesso o alla risoluzione del contratto, non utilizzati alla scadenza di validità e non rimborsati a causa dell’insolvenza o del fallimento dell’operatore turistico o del vettore.
La novella stimola un’ulteriore critica alla tesi che qualifica l’intervento legislativo come una novazione ex lege. Il verificarsi della novazione implica, per definizione, l’estinzione dell’obbligazione preesistente, id est l’obbligazione restitutoria sorta in ragione della risoluzione del contratto, e la sua sostituzione con una nuova, avente ad oggetto, nel caso di specie, l’alternativa tra emissione del buono corrispettivo e rimborso del consumatore. La previsione di un rimborso per il creditore che non abbia utilizzato il voucher entro il termine previsto dalla legge urta con tale ricostruzione. Non si comprende, infatti, a quale titolo il creditore sarebbe legittimato alla richiesta del rimborso, posto che il rapporto sorto ex art. 1463 e 2033 c.c. è estinto e una sua reviviscenza non pare ammissibile sul piano logico.
Tali ragioni inducono ad abbandonare il tentativo di qualificare il fenomeno sul piano sostanziale, in favore di una diversa prospettiva d’analisi che guardi al rapporto tra la normativa transitoria e le leggi che disciplinano la ripetizione dell’indebito.
Come già rilevato, il legislatore dell’emergenza ha introdotto una deroga alla disciplina prevista dall’art. 2033 c.c., valevole per quelle obbligazioni restitutorie sorte a seguito dell’intervenuta risoluzione dei contratti in oggetto, in seguito al verificarsi di una delle cause di impossibilità sopravvenute legate all’emergenza Covid. Si tratta, peraltro, di una deroga temporanea, in quanto, valevole unicamente per i contratti che avrebbero dovuto trovare esecuzione dall'11 marzo 2020 al 30 settembre 2020, e solo in caso di recesso esercitato entro il 31 luglio 2020.
In seguito alla formulazione della richiesta di rimborso da parte del creditore, si configura in capo al debitore un diritto potestativo di scelta tra la restituzione del corrispettivo prestato dall’acquirente del titolo di viaggio o di soggiorno, ovvero del pacchetto turistico, e l’emissione di un voucher di importo pari o superiore a quello della prestazione divenuta ineseguibile (o irricevibile).
Ove questi opti per il voucher, per liberarsi necessita che il creditore ne faccia uso, al fine della costituzione di un nuovo rapporto contrattuale tra le medesime parti del rapporto originario, nel termine di diciotto mesi dal rilascio. L’inutilizzo del buono entro tale termine comporta la perdita di efficacia dell’opzione del debitore, che, conseguentemente, è tenuto alla restituzione della somma ricevuta in virtù dell’originario rapporto contrattuale.
Il debitore, quindi, non si libera con la semplice emissione del buono corrispettivo, ma soltanto a seguito dell’effettiva instaurazione di un nuovo rapporto contrattuale tra le parti, quale effetto dell’impiego del voucher da parte del creditore. In quanto titolo di legittimazione, esso non costituisce una proposta contrattuale, ma vale esclusivamente ad identificare l’avente diritto alla conclusione di un nuovo e diverso contratto, recante ad oggetto una delle prestazioni offerte dal debitore, del valore in esso specificato.
Decorso il termine previsto dalla legge, il voucher perde efficacia, e con esso anche la scelta effettuata dal debitore, che, proprio perché non ancora liberato, è tenuto, in virtù del regime generale dell’indebito, alla restituzione per equivalente della prestazione originariamente effettuata dall’acquirente.
Il termine di efficacia, dunque, sarebbe posto non solo a tutela del creditore, che potrebbe non avere interesse a concludere un nuovo contratto, ma anche a tutela del diritto del debitore ad adempiere e a liberarsi dall’obbligazione. Difatti, non vi è alcun assoggettamento del debitore all’arbitrio del creditore: decorsi diciotto mesi, questi potrà sempre esercitare il proprio diritto ad adempiere mediante l’erogazione del rimborso.
Alla scadenza del termine di efficacia della normativa emergenziale, il legislatore non ne ha disposto il rinnovo. Conseguentemente, per i contratti per l’acquisto di titoli di viaggio, di soggiorno e dei pacchetti turistici la cui prestazione deve essere eseguita dopo il 30 settembre 2020, troverà applicazione l’ordinaria disciplina della crisi della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta e della ripetizione dell’indebito, in forza della quale il consumatore avrà diritto a richiedere il rimborso integrale del corrispettivo versato in precedenza.
In questo contesto, l’offerta di un voucher da parte del debitore potrebbe al più configurare la proposta di una datio in solutum, la cui efficacia solutoria dipende dal consenso del creditore. A fronte dell’adesione del consumatore, il debitore è liberato con la semplice emissione del buono, indipendentemente dal suo effettivo utilizzo. Pertanto, qualora il buono rimanga, il creditore non avrà diritto al rimborso per equivalente di quanto prestato in adempimento del contratto risolto, stante la sopravvenuta estinzione dell’obbligazione restitutoria in forza dell’accettazione della diversa prestazione reputata equivalente.
Da ultimo, occorre precisare che, salve le diverse determinazioni del contratto concretamente stipulato tra le parti, l’efficacia del voucher non si estende oltre il termine di efficacia dello stesso, per cui non solo la prenotazione, ma anche la fruizione della prestazione dovrà intervenire entro la scadenza.
[1] Guerrini L., op. cit., p. 7.
[2] L’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale attribuisce al criterio letterale d’interpretazione della legge un ruolo fondamentale e prioritario. Alle disposizioni non può essere attribuito “altro senso che non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”. Ciò non significa che la scelta terminologica operata dal legislatore sia vincolante per l’interprete, ma sta ad indicare come il dato testuale possa essere superato, attraverso il ricorso ai criteri logico-sistematici e teleologici, solo allorquando l’interpretazione letterale non sia sufficiente ad esprimere un dato chiaro ed univoco. Nel caso di specie, il riferimento del legislatore a istituti cardine del diritto civile, quali quello dell’impossibilità sopravvenuta e della risoluzione ex art. 1463 c.c., non pare lasciare alcuno spazio a dubbi interpretativi.
[3] L’azione di ripetizione è infatti soggetta all’ordinaria prescrizione decennale.
[4] Difatti, in una situazione in cui tutti gli spostamenti non necessari sono bloccati e vige una profonda incertezza in merito alla durata delle limitazioni e all’effettiva ripresa delle attività turistiche, il consumatore sarà verosimilmente portato a preferire l’erogazione di un rimborso integrale in denaro all’emissione istantanea di un voucher di pari valore, in quanto in grado di garantirgli una maggiore utilità. Ciò in particolare se si considera che il voucher non esaurisce i rapporti tra i contraenti, ma costituisce unicamente il titolo per fruire di una prestazione da erogarsi in futuro, senza, però, che il rischio derivante dal decorso del tempo venga adeguatamente remunerato. Tale scelta si presenta come antieconomica e, in quanto tale, verrebbe scartata da un consumatore razionale, salvo postulare l’avvenuta internalizzazione del principio solidaristico in maniera talmente penetrante da prevalere sull’aspetto economico-individualistico.
[5] Almeno pari alla somma del prezzo e degli interessi legali, posto che il mantenimento in capo agli operatori economici di quanto già incassato rappresenta una sorta di “finanziamento a tasso zero” per il debitore, che trattiene il denaro quantomeno fino alla scadenza del voucher, senza dover corrispondere alcun interesse.
[6] Santagata R., Gli effetti del Coronavirus sui contratti turistici. Primi appunti., in Giustiziacivile.com (17 aprile 2020), p. 11.
[7] La configurabilità di una novazione di fonte legale è discussa. Dottrina minoritaria, seppur autorevole (Rescigno P., v. Novazione (diritto civile), in Noviss. Dig. It., XI, 1965, p. 434 ss.), ritiene che si dovrebbe parlare non di un negozio-novazione, ma un “effetto-novazione”, che può discendere da atti di diversa natura, ridimensionando così il ruolo dell’elemento soggettivo della novazione, in luogo di quello oggettivo. Conforme Distaso N., Le obbligazioni in generale, in Giur. sist. comm., Torino, 1980, 662. Anche Bianca C.M., Diritto civile, IV, Le obbligazioni, Giuffré, 2019, p. 444, nt.3 accenna alla possibilità teorica di una novazione legale, pur non rinvenendone esempi sul piano pratico. Nello stesso senso Perlingieri P., Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento (art.1230-1259), in in Scialoja A. e Branca C. (a cura di) Commentario al codice civile, IV, 1975, la ritiene ammissibile anche ove con- tenuta in una disposizione testamentaria e la riconnette anche a un negozio unilaterale e ad una novazione legale.
Di tutt’altro avviso Buccisano O., La novazione oggettiva e i contratti estintivi onerosi, Milano, 1968, 2, per cui «l’animus novandi è il fondamento dell’efficacia novativa», per cui le parti per novare non avrebbero nemmeno la necessità di mutare oggetto o titolo del rapporto, e solo in caso di novazione tacita, stante il difficile accertamento dell’elemento soggettivo, occorrerebbe rispettare il requisito dell’aliquid novi posto dal codice. La mancanza dell’animus potrebbe portare, al più, a ritenere che vi sia stata l’estinzione dell’obbligazione originaria, seguita dalla costituzione di una nuova e diversa obbligazione, senza poter leggere il fenomeno in maniera unitaria, qualificandolo come novazione.
Si segnala, però, che l’orientamento prevalente sposa una concezione intermedia per cui ai fini della venuta ad esistenza della novazione è necessaria la concorrenza dell’animus novandi e dell’aliquid novi: Breccia U., Le obbligazioni, in Trattato dir. priv., Iudica G. e Zatti P.(a cura di), Milano, 1991, 693; Cantillo M., Le obbligazioni, in Giur. sist. dir. civ. comm., 2, Torino, 1993, 897; Magazzù A., v. Novazione, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978; Zaccaria A., Novazione, in Dig. disc. priv., (sez. civ.), Torino, 1995, 283.
[8] Segnalazione dell’AGCM al Governo e alle Camere, Rif. ST23, disponibile sul sito: https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati-news/ST23_segnalazione.pdf.
[9] In particolare, l’art. 41 del d.lgs. 23 maggio 2011, n. 79 (Codice del Turismo), che recepisce nell’ordinamento interno l’art. 12 della Direttiva (EU) 2015/2302 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 novembre 2015, relativa ai pacchetti turistici e ai servizi turistici collegati, che al comma quarto stabilisce che “in caso di circostanze inevitabili e straordinarie verificatesi nel luogo di destinazione o nelle sue immediate vicinanze e che hanno un’incidenza sostanziale sull’esecuzione del pacchetto o sul trasporto di passeggeri verso la destinazione, il viaggiatore ha diritto di recedere dal contratto (…) e al rimborso integrale dei pagamenti effettuati per il pacchetto”.
Nei settori del traporto passeggeri, si rinvengono il Regolamento (CE) n. 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 febbraio 2004, che istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato e che abroga il regolamento (CEE) n. 295/91; Regolamento (CE) 1371/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2007, relativo ai diritti dei passeggeri che viaggiano via mare e per vie navigabili interne e che modifica il regolamento (CE) n. 2006/2004; Regolamento (UE) n. 181/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativo ai diritti di passeggeri nel trasporto effettuato con autobus e che modifica il regolamento (CE) n. 2006/2004.
[10] Raccomandazione della Commissione del 13 maggio 2020, disponibile sul sito: https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/recommendation_vouchers_it.pdf.
Provvedimenti analoghi sono stati adottati con riguardo al settore della cultura. L’art. 88 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, dichiara l’avvenuta risoluzione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1463 c.c., dei contratti di acquisto, di titoli di accesso per spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali, e di biglietti di ingresso ai musei e agli altri luoghi, la cui esecuzione sia divenuta impossibile in ragione dell’applicazione delle misure di contenimento dei contagi. Nella versione originaria del testo normativo, il legislatore pone in capo all’acquirente l’onere di presentare, entro trenta giorni dall’entrata in vigore del decreto o dalla diversa data della comunicazione dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione, apposita istanza di rimborso al venditore, che si libera con l’emissione di un voucher di importo pari al titolo d’acquisto, da utilizzare entro un anno dall’emissione.
A differenza di quanto previsto per i contratti d’acquisto di titoli di viaggio o di pacchetti turistici, per i contratti del comparto della cultura non è prevista la facoltà per il debitore di scegliere tra il rimborso del biglietto e il voucher, ma la scelta viene operata ex lege in favore dell’emissione di un buono del medesimo valore della prestazione divenuta impossibile.
La prestazione artistica, quale quella del soggetto tenuto all’esecuzione di uno spettacolo di qualsiasi natura, ha carattere personale, in quanto fondata sull’intuitu personae, cioè sulle peculiarità che solo il singolo artista riesce ad esprimere. Da qui la pretesa dell’acquirente a che il contratto sia eseguito personalmente dal debitore e non da altri, con il connesso diritto di rifiutare la prestazione, ove questa sia opera di persona diversa, ai sensi dell’art. 1180 comma 1 c.c.[1] Ciò anche quando, come normalmente avviene, il contratto venga concluso tra rivenditore e acquirente, senza il diretto coinvolgimento del debitore della prestazione artistica.
Con riferimento a tale tipologia di contratti, il voucher non rappresenta una valida alternativa al rimborso in denaro, in quanto pretende di restituire il corrispettivo per la fruizione di una prestazione per sua natura infungibile, con un buono per l’acquisto di una qualsiasi altra prestazione dello stesso valore economico, ma inidonea ad apportare all’acquirente la medesima utilità. In sintesi, tale prestazione non sarebbe idonea a soddisfare l’interesse del creditore.
Il legislatore ha successivamente posto rimedio a tali criticità. L’art. 183 del d.l. 19 maggio 2020 n. 34, c.d. “decreto Rilancio”, convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 ha disposto che l’organizzatore dei concerti di musica leggera debba provvedere comunque al rimborso dei titoli d’acquisto, con restituzione della somma versata ai soggetti acquirenti, alla scadenza del periodo di validità del voucher, quando la prestazione dell’artista originariamente programmata non venga rinviata ad altra data compresa nel periodo di validità, che viene esteso a diciotto mesi. In caso di cancellazione definitiva del concerto, inoltre, l’organizzatore è tenuto a provvedere immediatamente al rimborso. La norma, che trova applicazione anche ai buoni già emessi, annovera tra le cause di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta anche le ipotesi in cui la prestazione sia divenuta inutilizzabile per il creditore, in quanto sottoposto alle misure di isolamento domiciliare o di quarantena. Si assiste, pertanto, ad un’armonizzazione con la disciplina emergenziale prevista per i contratti conclusi nel settore del turismo e dei trasporti.
Differentemente da quanto accaduto per i contratti aventi ad oggetto titoli di viaggio, di soggiorno o di pacchetti turistici, in seguito alle nuove misure adottate per far fronte alla recrudescenza dell’epidemia, il legislatore ha esteso l’efficacia delle norme transitorie ai contratti aventi ad oggetto l’acquisto di titoli per l’accesso a spettacoli dal vivo in programma dal 24 ottobre al 31 gennaio.
[1] Sui contratti personali o intuitu personae v. Messineo F., v. Contratto, in Enciclopedia del diritto, Giuffré, IX, 1961; Trimarchi P., Incentivi e rischio nella responsabilità contrattuale, in Riv. Dir. Civ., 2008, 3, 10341 ss.
Da ultimo, il legislatore si è occupato dei contratti di abbonamento per l’accesso ai servizi offerti dalle diverse strutture sportive. L’art. 216, comma quarto, del d.l. “Rilancio”, infatti, estende le disposizioni già previste dall’art. 88 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 ai contratti di abbonamento per l’accesso a palestre, piscine e impianti sportivi di ogni tipo, per i quali si sia verificata la sopravvenuta impossibilità della prestazione a seguito delle misure di restrizione e contenimento adottate per fronteggiare l’emergenza sanitaria.
A differenza di quanto previsto per gli altri settori, il voucher ha durata annuale e, in caso di mancato utilizzo nei termini previsti, non dà diritto ad alcun rimborso. La relazione di accompagnamento alla legge non esplicita le ragioni sottese a tale diversità di trattamento che, allo stato, non appare giustificata.
Peraltro, le misure di distanziamento sociale, tutt’ora imposte alle palestre e alle altre strutture, sono destinate ad incidere sulle modalità d’esecuzione della prestazione. Il principio costituzionale di solidarietà, che invera il canone di buona fede oggettiva, impone al creditore di tollerare le modifiche della prestazione di controparte, fintantoché ciò non pregiudichi in modo apprezzabile il proprio interesse. Occorre verificare, dunque, caso per caso, se il sacrificio imposto all’acquirente non sia talmente sproporzionato da non poter rinvenire una giustificazione nel principio di buona fede, rendendo il contratto inidoneo a realizzare il programma delle parti e comportandone la risoluzione.[1]
[1] Nell’esecuzione del contratto e del rapporto obbligatorio, la clausola generale di buona fede si presenta come obbligo di salvaguardia: in capo a ciascuna delle parti vige l’obbligo di salvaguardare l’utilità dell’altra, nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio del proprio interesse. In virtù di tal obbligo, la parte è tenuta a tollerare che la controparte esegua una prestazione diversa da quella prevista se ciò non pregiudica in maniera apprezzabile il proprio interesse. In tal senso: Bianca C.M., La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, I, 205 ss.; Id., Diritto civile, III, Il contratto, Giuffré, II ed., p. 505.
Le deroghe alla disciplina dell’impossibilità sopravvenuta sinora esaminate sembrano trovare agio limitatamente alle tipologie contrattuali per cui sono state espressamente previste e soltanto quando la situazione emergenziale incide sulla prestazione dedotta in contratto al punto da renderla completamente e definitivamente ineseguibile o inottenibile.
Ne restano escluse, in particolare, le obbligazioni pecuniarie, per cui non è mai configurabile l’assoluta e oggettiva impossibilità di procurarsi le somme necessarie per adempiere, ma piuttosto una soggettiva inattuabilità dovuta a impotenza finanziaria, che non consente al debitore di fornire la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c. Difatti, in quanto bene fungibile e imperituro, il denaro è esposto al principio genus nunquam perit[1] e la normale convertibilità in denaro di tutti i beni, presenti e futuri del debitore, costituisce il fondamento della garanzia generica patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c. L’ordinamento pone in capo al debitore il rischio della crisi di liquidità, anche laddove essa derivi dall’altrui insolvenza o da una crisi di mercato, trattandosi di aspetti rientranti nella sfera organizzativa individuale dello stesso, integranti il rischio d’impresa, che non può essere traslato sui creditori.[2]
D’altra parte, la crisi economica generata dalla pandemia è un evento che non rinviene alcun precedente nella storia quanto a dimensioni, durata e diffusione geografica dello shock economico, che ha colpito Paesi in tutti i continenti e che ha coinvolto tanto il dato della domanda quanto quello dell’offerta. Ulteriore elemento di eccezionalità è la molteplicità dei canali di trasmissione attraverso cui gli effetti della pandemia investono l’attività produttiva e, in particolare dal ruolo delle misure di contenimento decise dal governo: la produzione è bloccata non per via di una caduta della domanda, ma a causa dei provvedimenti amministrativi volti a limitare la diffusione del contagio.[3]
La pandemia e le misure adottate per contrastarla, infatti, costituiscono una sopravvenienza non ricompresa nella normale alea del contratto né tantomeno nella normale alea d’impresa. La chiave di lettura degli interventi emergenziali, quindi, non può essere quella che regola il normale gioco delle parti nel mercato, perché il funzionamento dello stesso è alterato da circostanze sopravvenute imprevedibili ma, soprattutto, di una portata tale da risultare incalcolabili anche per l’imprenditore più accorto e che rende ancora più arduo fare previsioni per il futuro.
Nel quadro del principio costituzionale di solidarietà, non è possibile ignorare la straordinarietà della situazione che abbiamo vissuto, e che in parte stiamo ancora vivendo, né il suo drammatico impatto sul tessuto economico e produttivo. L’eccezionalità di questo evento rende inapplicabili gli strumenti ordinari e muove il legislatore ad arginare gli effetti dei suoi provvedimenti sul sistema produttivo. Si rendono necessarie soluzioni drastiche e immediate, che consentano una riallocazione del rischio contrattuale tra le parti, in modo da non far ricadere le conseguenze della crisi pandemica su un solo contraente. Ciò a maggior ragione ove si consideri che la crisi di liquidità è destinata a mutarsi rapidamente in una crisi di solvibilità, interessando un elevato numero d’imprese, con conseguenze devastanti sull’economia.
L’esigenza di tutela dei debitori in difficoltà va controbilanciata con il diritto dei creditori a non vedersi addossare arbitrariamente il peso della crisi. La liberazione di tutti i debitori in condizioni finanziarie deteriorate, infatti, genererebbe un incontrollabile effetto a catena, essendo i creditori di obbligazioni pecuniarie a loro volta debitori di altre obbligazioni, che sarebbero legittimati ad avanzare analoghe pretese nei confronti dei propri creditori, e così via, propagando ad libitum il danno finanziario determinato dalle insolvenze.[4]
In quest’ottica è fondamentale il controllo del giudice, a cui spetta il compito di evitare gli inadempimenti abusivi, verificando se e in che misura la mancata esecuzione della prestazione sia una conseguenza diretta e immediata dall’epidemia, e di modulare il risarcimento del danno di conseguenza.
In questo senso deve essere interpretato l’intervento del legislatore, che con l’art. 91 d.l. 17 marzo 2020, n. 18 ha introdotto all’art. 3 del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, il comma 6 bis: “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.”
In seguito, l’art. 3, comma 1 quater, d.l. 30 aprile 2020, n. 28 ha introdotto il comma 6 ter, per cui: “Nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali, nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l'emergenza epidemiologica da COVID-19 sulla base di disposizioni successive, può essere valutato ai sensi del comma 6-bis, il preventivo esperimento del procedimento di mediazione ai sensi del comma 1-bis dell'articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, costituisce condizione di procedibilità della domanda.”
Si tratta di una disposizione a carattere generale, applicabile indifferentemente a tutti i contratti, che presenta diversi elementi di ambiguità.
Il primo interrogativo sollevato dalla norma concerne la sua reale portata innovativa, considerato che la responsabilità del debitore impossibilitato ad adempiere per l’esigenza di osservare le misure di contenimento, avrebbe già potuto essere esclusa in applicazione dell’art. 1218 c.c.[5] Particolarmente sibillino appare, inoltre, il riferimento all’art. 1223 c.c.[6] che indica i criteri di liquidazione del danno, dato che in assenza di responsabilità non può esservi condanna al risarcimento.
D’altra parte, la norma non prescrive un meccanismo automatico in virtù del quale il rispetto delle misure di contenimento escluda sempre la responsabilità del debitore, richiedendo unicamente che lo stesso debba essere sempre valutato ai fini dell’esclusione del giudizio di responsabilità. Il giudice è chiamato a verificare se, nel caso concreto, il rispetto dei provvedimenti governativi possa essere considerato o meno causa esclusiva dell’inadempimento. Nel primo caso, si ha l’esclusione della responsabilità; nel secondo, vi è unicamente una rimodulazione del quantum risarcitorio, che può essere diminuito proporzionalmente all’incidenza che il rispetto delle misure abbia avuto sull’inadempimento.[7]
Il debitore, dunque, dovrà dimostrare che è stato proprio lo sforzo di adattamento alle prescrizioni “anti-Covid” ad avergli impedito di eseguire la prestazione, offrendo la prova del collegamento eziologico fra inadempimento e la causa di forza maggiore rappresentata dalle misure di contenimento dell’epidemia.[8]
L’esimente del rispetto delle prescrizioni sanitarie non può operare quando il debitore, avrebbe potuto adempiere con l’impiego dell’ordinaria diligenza, sforzandosi per superare gli effetti impeditivi dei provvedimenti governativi, per esempio mediante l’adozione di strumenti telematici che consentano di eseguire la prestazione a distanza. Né tantomeno può trovare applicazione nell’ipotesi in cui le misure di contenimento si siano limitate a consolidare una situazione di inadempimento preesistente, come nel caso in cui il debitore fosse stato già diffidato dal creditore, ovvero fosse divenuto destinatario di un’eccezione d’inadempimento.[9]
Così interpretata, non vi sono ostacoli a che l’ambito applicativo della norma concerna anche le obbligazioni pecuniarie, allorquando la crisi di solvibilità dell’impresa sia effetto delle sole misure di contenimento. La disposizione in esame, infatti, potrebbe essere lo strumento che consente al giudice di verificare se la crisi di liquidità in cui versa l’impresa sia determinata, interamente o parzialmente, dalle circostanze del tutto eccezionali provocate dalla pandemia e, in tal caso, valutare se l’adempimento sia inesigibile, e quindi il debitore vada esente da responsabilità, ovvero parzialmente scusabile, e quindi determini una responsabilità per un ammontare inferiore. [10]
Si tratta dell’ipotesi in cui un’impresa sana e solvente sia entrata in crisi di liquidità, poi tramutatasi in crisi di solvibilità, proprio in ragione dell’arresto forzato delle attività a cui è stata sottoposta. In tal caso, l’adempimento dell’obbligazione è impossibile sul piano relativo e soggettivo, e diviene non imputabile al debitore ove suscettibile di determinare la sua rovina economica. Per tali ragioni, l’impossibilità può concerne solo le obbligazioni in scadenza alla data di efficacia delle misure di contenimento e limitatamente al tempo necessario a riavviare i flussi di cassa.
La norma contiene un principio di giustificazione per il ritardo nell’adempimento del debitore, che può dichiarare al creditore di sospendere l’esecuzione della prestazione per tutto il tempo di vigenza dei provvedimenti impeditivi, evitando la caducazione del contratto.
Il creditore, dal canto suo, non può agire, ai sensi dell’art. 1453 c.c., per ottenere l’adempimento o la risoluzione per inadempimento, ma, qualora non abbia interesse ad un adempimento tardivo, può richiedere che venga riconosciuto giudizialmente lo scioglimento del contratto per impossibilità sopravvenuta, ai sensi dell’art. 1463 c.c.
In ogni caso, può sempre avvalersi dell’exceptio inadimpleti contractus per sospendere l’esecuzione della propria prestazione, posto che tale eccezione è sempre sollevabile, anche in rapporto ad adempimenti incolpevoli o determinati da impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al creditore.[11]
[1] Principio enunciato nell’antico Codice di commercio del 1882, all’art. 61: “Se le merci vendute sono dedotte in contratto soltanto per quantità, specie e qualità, senz’altra indicazione atta a designare un corpo certo e determinato, il venditore è obbligato a consegnare nel tempo e nel luogo convenuti la quantità, la specie e le qualità promesse, quantunque le merci che fossero a sua disposizione al tempo del contratto, o che egli si fosse procacciato in appresso per l’adempimento di esso, siano perite o ne sia stato per qualsiasi causa impedito l’invio o l’arrivo”.
[2] Sulla responsabilità incondizionata del debitore per l’inadempimento di obbligazioni pecuniarie v. Bianca C.M., Dell’inadempimento delle obbligazioni. op. cit., 80 ss; Giorgianni M., op. cit.; Inzitari B., Delle obbligazioni pecuniarie, in Scialoja A. e Branca C. (a cura di) Commentario al codice civile, 2011, 13; Trimarchi P., op. cit., 10341.
[3] Locarno A., Zizza R., Previsioni ai tempi del coronavirus, in Note covid-19, Banca d’Italia Eurosistem, 11 maggio 2020
[4] Morello R., Gli effetti sui contratti dell'emergenza sanitaria determinata dalla diffusione del coronavirus e l'applicazione dei rimedi previsti dal codice civile, in Giustiziacivile.com (27 aprile 2020).
[5] Secondo cui: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
[6] “Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”.
[7] Di tutt’altro avviso Dolmetta A., «Rispetto delle misure di contenimento» della pandemia e disciplina dell’obbligazione, in IlCaso.it dell’11 aprile 2020, il quale sostiene che il comma 6 bis faccia riferimento “al sistema della responsabilità da inadempimento in quanto tale, a mezzo appunto del richiamo delle due norme più «significative» dello stesso”. In tal modo, è il giudice a dover individuare il rimedio più opportuno al caso concreto, potendo disporre anche la sospensione del tempo dell’esecuzione della prestazione, specie ove la situazione emergenziale creata dalla pandemia si configuri come di carattere temporaneo.
[8] Contra Dolmetta A., op cit., per cui a venire in rilievo non è tanto il rispetto soggettivo delle misure di contenimento ma “l’oggettiva esistenza delle stesse”, nella misura in cui venga ad incidere sulla prestazione, rendendola significativamente più difficile, tanto nell’esecuzione che nell’apprestamento dei mezzi ad essa occorrenti. Il comma 6 bis introdurrebbe una fattispecie elastica, da cui è possibile dedurre un principio generale di non rilevanza degli “scarti modesti”, che trova applicazione con riguardo a tutte le obbligazioni, indipendentemente dalla loro fonte.
[9] Benedetti A. M., Il rapporto obbligatorio al tempo dell’isolamento: brevi note sul Decreto “cura Italia”, in I Contratti, 2020, 2, 213 ss.
[10] D’altra parte, l’esclusione della responsabilità nel caso in cui l’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria sia stato determinato da sopravvenienze straordinarie ed imprevedibili, oltre che del tutto estranee al rischio tipicamente inerente all’organizzazione di una prestazione di denaro, è stata segnalata già in dottrina. Si veda Torrente A., e Schlesinger P., Manuale di diritto privato, Giuffré, ed. XX, p. 430. Sulla necessità di «cercare vie concettuali alternative» al rigore della regola per cui l’impotenza finanziaria non giustifica l’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie nel contesto della «straordinarietà della “fattispecie Covid-19”» si è interrogato anche Roppo V., nell'intervista a Roppo V. e Natoli R., “Contratto e Covid-19”, in Giustizia insieme (28 aprile 2020).
[11] Per tutti v. Cass. civ., 19 ottobre 2007, n. 21973, in DeJure.it. D’altra parte, ove si affermasse il contrario si condannerebbe il creditore a sopportare integralmente il peso delle conseguenze economiche dell’emergenza, pagando per una prestazione che non ha ancora ricevuto e che potrebbe non ricevere più.
Nell’affermare che “il contratto ha forza di legge tra le parti”, l’art. 1372 c.c. enuncia il principio di vincolatività, espressione del brocardo latino: “pacta sunt servanda”.[1]
Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, c.d. “di durata”, e nei contratti ad esecuzione differita, tale principio necessita di essere contemperato dalla clausola rebus sic stantibus che impone di considerare i mutamenti della situazione di fatto esistente al momento della conclusione dell’accordo, suscettibili di alterare il nesso di interdipendenza economica tra le prestazioni rendendo più onerosa la prestazione da eseguire o diminuendo il valore reale della prestazione da ricevere.[2] Gli articoli 1467 ss. c.c. riconoscono in capo alla parte che ha subito le conseguenze di tale squilibrio la facoltà di rescindere il vincolo, domandando che venga pronunciata la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta.
L’esercizio dell’azione è subordinato alla contemporanea sussistenza di due condizioni. La prima, di natura oggettiva, consistente nella straordinarietà dell’evento, che deve essere valutata esaminando elementi passibili di misurazione, quali la frequenza, le dimensioni o l’intensità; la seconda, di natura soggettiva, costituita dall’imprevedibilità dell’avvenimento, che deve essere verificata ex ante, con riferimento al momento della stipula del contratto, avendo come parametro le circostanze conosciute o conoscibili da un soggetto mediamente diligente. Le sopravvenienze giuridicamente rilevanti, inoltre, devono avere carattere generale e, dunque, operare per qualsiasi debitore, determinando una vera e propria alterazione del valore di mercato della prestazione, non riconducibile alla normale alea del contratto.[3]
Sorto per far fronte a un’esigenza maturata a seguito della svalutazione conseguente agli eventi bellici del primo conflitto mondiale, l’istituto della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta può certamente trovare applicazione per mitigare le conseguenze dell’eccezionale crisi pandemica che stiamo vivendo. La sua funzione demolitrice del vincolo contrattuale, però, non lo rende adatto a tutte quelle situazioni in cui il debitore, sul presupposto che le condizioni di difficoltà siano solo temporanee e nella speranza di un rapido ritorno alla normalità, non intenda smantellare il rapporto, ma riequilibrarlo, di modo che l’onerosità sopravvenuta venga ripartita equamente tra le parti.
Come è noto, nel nostro ordinamento solo la parte favorita dallo sbilanciamento può evitare la risoluzione del contratto offrendosi di modificarne le condizioni, sì da ricondurre i vantaggi derivanti dalla sopravvenienza alla normale alea contrattuale. La parte più fragile, invece, deve limitarsi a proporre alla controparte la rinegoziazione del vincolo, senza poter pretendere che essa vi aderisca, né ricorrere al giudice per ottenere l’equa rettifica del regolamento contrattuale.[4]
La crisi generata dalla pandemia ha rivelato tutta l’inadeguatezza dei rimedi codicistici, volti più a infrangere il vincolo che a renderlo adeguato al mutamento delle circostanze.[5] Inadeguatezza, questa, già più volte segnalata dalla dottrina, tanto da portare alla presentazione, nell’ambito di un più ampio processo di riforma del Codice civile, di un disegno di legge delega con cui si autorizza l’Esecutivo a “prevedere il diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede o, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti”.[6]
Una carenza che appare quanto mai anacronistica, non solo a fronte dei principi che regolano i contratti commerciali internazionali, che già da tempo annoverano clausole di rinegoziazione (hardship),[7] ma soprattutto a fronte dell’introduzione, nel Code civile francese, dell’istituto della révision du contract pour imprevision, che introduce un obbligo di rinegoziazione del contratto per la parte che trae vantaggio dalla sopravvenienza.[8] Circostanza di non poco conto se si considera che è proprio alla cultura giuridica francese che si deve l’originaria formulazione del principio di vincolatività del contratto.[9]
Una parte della dottrina sostiene che, al di là di un’opportuna riforma in tema di sopravvenienze contrattuali, un obbligo legale di rinegoziazione sia rinvenibile già all’interno del diritto generale dei contratti, riletto al lume del principio costituzionale di solidarietà.[10]
Difatti, la clausola generale di buona fede, in cui s’invera tale principio, non è destinata unicamente a regolare le trattative, la conclusione e l’interpretazione del rapporto, ma costituisce una delle fonti integratrici del contratto, richiamate dall’art. 1374 c.c. Ciò determinerebbe il sorgere in capo alle parti dell’obbligo di riscrivere il contratto sperequato o non più funzionale, sì da superare le sopravvenienze di fatto e di diritto che hanno inciso sul suo equilibrio. Il contrasto con il principio dell’autonomia privata sarebbe solo apparente, essendo la rinegoziazione preordinata alla realizzazione dell’operazione economica originariamente perseguita dalle parti, nel tentativo di allineare il regolamento contrattuale al mutamento delle circostanze. Il contraente adito, d’altro canto, non sarebbe tenuto ad aderire a tutte le pretese della controparte, né tantomeno ad addivenire ad ogni costo alla conclusione dell’accordo, decisioni queste che presuppongono una valutazione di convenienza economica, che può essere rimessa solo alle parti, bensì ad impegnarsi a condurre la negoziazione in modo costruttivo, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., non opponendovisi in maniera ingiustificata, né limitandosi ad intavolare delle trattative di facciata, senza alcuna intenzione di rivedere i termini del rapporto.
Si tratta di una soluzione estremamente controversa, specie se si considera la vaghezza che caratterizza la clausola di buona fede, suscettibile di “aumentare l’incertezza giuridica e compromettere le aspettative contrattuali delle parti contraenti”.[11] Non mancano, infatti, opinioni critiche circa la stessa configurabilità di un obbligo legale di rinegoziazione[12] e, anche tra i suoi sostenitori, si rinvengono pareri discordi in merito alle conseguenze che genererebbero dall’inadempimento. Parte della dottrina sostiene la possibilità di un intervento giudiziale determinativo, ex art. 2932 c.c., qualificando l’obbligo di rinegoziare come suscettibile di esecuzione in forma specifica. Il giudice sarebbe chiamato a sostituirsi alle parti costituendo con sentenza il contratto modificativo, il cui contenuto deve essere determinato tenendo conto della volontà delle parti, espressa nel regolamento negoziale originario, riconsiderata alla luce degli eventi imprevedibili e sopravvenuti.[13] Altri Autori reputano preferibile limitarsi ad accordare alla parte il solo rimedio risarcitorio, dividendosi, però, sulla determinazione del pregiudizio risarcibile, che per taluni[14] è da rinvenire nel solo interesse contrattuale positivo all’adeguamento del contratto squilibrato, per altri[15] solo nell’interesse contrattuale negativo a non vedersi coinvolto in trattative inutili, per altri ancora in entrambi.[16]
Il legislatore dell’emergenza ha espresso il suo favor per la rinegoziazione con riferimento a specifiche tipologie contrattuali.
Segnatamente, l’art. 216 d.l. 9 maggio 2020, n. 34, c.d. “d.l. Rilancio”, convertito con modificazioni dalla l. 17 luglio 2020, n. 77, con riferimento ai rapporti di concessione di impianti pubblici per lo svolgimento di attività sportive, dispone che le parti, per far fronte alla sospensione delle attività disposta dal Governo per il contenimento dei contagi e del regime di graduale ripresa delle stesse, “possono concordare tra loro, ove il concessionario ne faccia richiesta, la revisione dei rapporti in essere alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, mediante la rideterminazione delle condizioni di equilibrio economico-finanziario originariamente pattuite, anche attraverso la proroga della durata del rapporto, comunque non superiore a ulteriori tre anni, in modo da favorire il graduale recupero dei proventi non incassati e l’ammortamento degli investimenti effettuati o programmati”.
Viene inoltre prevista la possibilità di concordare una revisione del rapporto concessorio, al fine di ristabilire l’equilibrio economico tra le parti, a fronte dei sopravvenuti maggiori costi per la predisposizione delle misure organizzative idonee a garantire condizioni di sicurezza tra utenti e dei minori ricavi dovuti alla riduzione del numero di presenze all’interno degli impianti sportivi. La revisione, infatti, “deve consentire la permanenza dei rischi trasferiti in capo all’operatore economico e alle condizioni di equilibrio economico finanziario relative ai rapporti di concessione”, fermo restando che, in caso di mancato accordo, le parti possono recedere dal contratto.
La norma non introduce un obbligo legale di rinegoziare, ma conferisce alle Pubbliche amministrazioni il potere di modificare, d’intesa con il concessionario, i termini del rapporto negoziale, nell’esclusivo interesse del privato, fortemente compromesso dai provvedimenti a tutela della salute pubblica.
L’impiego della parola “possono” non lascia dubbi circa l’estensione della discrezionalità anche all’an della rinegoziazione, per cui nessuna delle due parti è tenuta a contrattare, neppure a fronte di un espresso invito della controparte.
Quanto ai rapporti tra privati, il comma terzo dell’art. 216 del “d.l. Rilancio” qualifica la sospensione delle attività sportive disposta dal Governo come un “fattore di sopravvenuto squilibrio dell’assetto di interessi pattuito con il contratto di locazione di palestre, piscine e impianti sportivi di proprietà di soggetti privati”, in ragione del quale viene riconosciuta al conduttore una riduzione del canone locatizio, limitatamente alle cinque mensilità da marzo a luglio 2020, che, salvo prova contraria, si presume pari al cinquanta percento del canone contrattualmente stabilito.
Una disposizione analoga non si rinviene, invece, con riferimento ai contratti di locazione di immobili deputati allo svolgimento di un’attività commerciale forzatamente sospesa dalle misure governative di contenimento dei contagi. Come emerge dallo stesso art. 216 d.l. Rilancio, gli effetti dei provvedimenti restrittivi si ripercuotono sui contratti di locazione commerciale per l’esercizio di attività per cui è stata disposta la temporanea cessazione, alterando il nesso di reciprocità tra le prestazioni, a discapito del conduttore. L’utilità che il negozio apporta al conduttore diminuisce in maniera apprezzabile, posto che l’immobile locato non può più essere utilizzato per lo scopo convenuto. D’altra parte, la chiusura coatta dell’esercizio commerciale comporta una netta contrazione della liquidità disponibile, ponendo in serie difficoltà il conduttore nel reperire la provvista occorrente per far fronte al pagamento dei canoni dovuti.
Tali difficoltà sono state rilevate dal legislatore che, all’art. 28 del d.l. Rilancio, concede, in favore dei soggetti esercenti attività d’impresa, arte o professione, con ricavi o compensi non superiori a cinque milioni di euro, un credito d’imposta pari al sessanta percento della misura dell’ammontare mensile del canone di locazione concordato per i mesi di marzo, aprile, maggio e giugno, poi rinnovato per i mesi di ottobre, novembre e dicembre con riguardo agli immobili dove si svolgono attività interdette dal D.P.C.M. 24 ottobre 2020. Per le imprese esercenti attività di commercio al dettaglio con compensi o ricavi superiori a cinque milioni di euro, invece, è previsto un credito d’imposta pari al venti percento di detto canone. Deroghe specifiche, inoltre, sono previste per le strutture alberghiere e agrituristiche, per le agenzie di viaggio e i tour operator, nonché per gli esercenti attività solo stagionali.
La misura non va, dunque, ad incidere direttamente sul contratto di locazione commerciale: la prestazione dovuta dal conduttore non viene modificata né nell’an, né nel quantum. Anzi, presupposto per il riconoscimento del credito d’imposta è proprio il pieno adempimento dell’obbligazione di pagamento del canone. Il legislatore, probabilmente per evitare la propagazione del danno finanziario dal conduttore al locatore, anche considerata l’ampia platea di contratti interessata, ha preferito alleviare la posizione economica del conduttore, consentendogli di recuperare, seppure non nell’immediato, una parte del corrispettivo versato. Il conduttore, tuttavia, può proporre al locatore una cessione di detto credito, a parziale compensazione del canone dovuto.
Si tratta di una disposizione che, pur fornendo un’indicazione chiara dell’orientamento del potere politico, esaurisce i propri effetti in ambito tributario, non fornendo una disciplina speciale per la gestione delle sopravvenienze che intervengono sui contratti di locazione commerciale.
Sul punto sono state elaborate diverse ricostruzioni.
Parte della dottrina[17] sostiene la possibilità per il conduttore di sospendere i pagamenti in autotutela, giusto il disposto dell’art. 3, comma 6 bis, del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6 per cui il “rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.”
Tuttavia, pur estendendo l’efficacia esimente di tale norma alle obbligazioni pecuniarie, in ragione della “straordinarietà della fattispecie Covid-19”,[18] l’ambito di applicazione della disciplina sarebbe comunque estremamente ristretto, dovendo riguardare unicamente le prestazioni il cui pagamento andrebbe a minare la stessa sopravvivenza dell’impresa e solo ove le misure di contenimento costituiscano condicio sine qua non del dissesto.
Altri Autori[19] promuovono una rimodulazione del canone dovuto, sul presupposto della parziale impossibilità sopravvenuta della prestazione del locatore, che ai sensi dell’art. 1575, n. 2), c.c. è tenuto a mantenere la cosa locata “in istato da servire all’uso convenuto”, ovvero della sopravvenuta inutilizzabilità della prestazione da parte del conduttore, che rende il contratto inidoneo a realizzare la sua funzione.
A ben vedere, però, l’inutilizzabilità è solo parziale. Difatti, la prestazione è parzialmente utilizzabile, dato che i locali rimangono nella disponibilità del conduttore, che continua ad utilizzarli, quantomeno per il deposito di merci e beni strumentali nell’attesa di riprendere l’attività. Conseguentemente, e salve le peculiarità del singolo contratto,[20] non si assiste a quella frustrazione della causa concreta che legittima il ricorso al rimedio di cui all’art. 1464 c.c.
Superate tali teorie e in assenza di un obbligo legale di rinegoziazione, il conduttore in difficoltà che si veda negare la proposta di diminuzione del canone ha a disposizione solo il rimedio caducatorio del recesso per gravi motivi, di cui all’art. 7 l. 392 del 1978 (c.d. Legge sull’equo canone), per il cui esercizio sono richiesti sei mesi di preavviso, durante i quali il debitore è tenuto al pagamento regolare della pigione, ovvero, ricorrendone gli ulteriori presupposti, della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.
Di tutt’altro avviso appaiono le prime pronunce della giurisprudenza di merito[21] dove, sia pur soltanto in sede cautelare, per il momento, è stato rinvenuto il potere del giudice di modificare il contratto di locazione, disponendo la riduzione in via equitativa dei canoni dovuti per i mesi trascorsi, ma anche per i mesi a venire, sul presupposto della violazione dell’obbligo delle parti di addivenire a nuove trattative, al fine di riportare l'equilibrio negoziale entro l'alea normale del contratto. Secondo i giudici della cautela, il principio di solidarietà e la clausola di buona fede e correttezza “renderebbero flessibile l’ordinamento, consentendo la tutela di fattispecie non contemplate dal legislatore” e, nel caso specifico, farebbero in modo di evitare che “la risoluzione di contratti per la locazione di locali commerciali possa determinare una perdita di avviamento” cui conseguirebbe la cessazione dell’attività d’impresa. [22]
[1] Cfr. De Nova G., Il contratto ha forza di legge, Milano, 1993; Galgano F., La forza di legge del contratto, in Scritti in onore di R. Sacco, Giuffré, 1994; Vettori G., La vincolatività, in A.A. V.V., Il contratto in generale, V, in Bessone M. (diretto da) Trattato di diritto privato, XIII, Torino, 2002, p. 6 ss.
[2] Per una ricostruzione dell’evoluzione storica della clausola “rebus sic stantibus” v. Osti G., La così detta clausola "rebus sic stantibus" nel suo sviluppo storico, in Riv. Dir. Civ., 1912, 1 ss.; Id, v. «Clausola rebus sic stantibus», in
Nuoviss. dig. it., III, Torino, 1959; Galletto T., v. Clausola rebus sic stantibus, in Digesto civ., vol. II, Utet, Torino, 1988.
[3] Sulla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta si segnala, tra gli altri : Ferri G.B., Dalla clausola «rebus sic stantibus» alla risoluzione per eccessiva onerosità, in Quadrimestre, 1988, p. 88 ss; Gabrielli E., La risoluzione per eccessiva onerosità, in Contratto e impresa, Cedam, 1995, p. 921 ss.
[4] Cass. 26 gennaio 2018, n. 2047, in DeJure.it, secondo cui la parte svantaggiata può solo limitarsi ad agire in giudizio per chiedere la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, senza poterne pretendere la riduzione ad equità. L’istituto di cui al terzo comma dell’art. 1467 c.c., infatti, costituisce solo una facoltà per la parte convenuta in giudizio e, in quanto tale, non può essere oggetto di specifica pretesa.
[5] Uno ius variandi si riscontra solo con riferimento a specifiche tipologie contrattuali, come ad esempio nell’art. 1664 c.c. per i contratti di appalto o nell’art. 118 t.u.b. per i contratti conclusi dal prestatore di servizi bancari.
[6] Art. 1, lett. i), del d.d.l. delega n. 1151/2019.
[7] L’art. 6.2.3 dei Principles of International Commercial Contracts (Principi Unidroit) prevede che: “In case of hardship the disadvantaged party is entitled to request renegotiations. The request shall be made without undue delay and shall indicate the grounds on which it is based.
The request for renegotiation does not in itself entitle the disadvantaged party to withhold performance”.
Sempre nel senso della sussistenza in capo alle parti di un obbligo di rinegoziare il contratto, l’art. 6:111 (già art. 2.117 dei Principles of European Contract Law (PECL), che al paragrafo due dispone: “If, however, performance of the contract becomes excessively onerous because of a change of circumstances, the parties are bound to enter into negotiations with a view to adapting the contract or terminating it […]”.
[8] Così l’art. 1195 Code civil: “Si un changement de circonstances imprévisible lors de la conclusion du contrat rend l’exécution excessivement onéreuse pour une partie qui n’avait pas accepté d’en assumer le risque, celle-ci peut demander une renégociation du contrat à son cocontractant. Elle continue à exécuter ses obligations durant la renégociation.
En cas de refus ou d’échec de la renégociation, les parties peuvent demander d’un commun accord au Juge de procéder à l’adaptation du contrat. À défaut, une partie peut demander au Juge d’y mettre fin, à la date et aux conditions qu’il fixe”.
[9] Sirena P., Eccessiva onerosità sopravvenuta e rinegoziazione del contratto: verso una riforma del codice civile?, in corso di pubblicazione nella rivista Jus, 2020.
[10] In primis Macario F., Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996 e Id, Rischio contrattuale e rapporti di durata nel nuovo diritto dei contratti: dalla presupposizione all’obbligo di rinegoziazione, in Riv. dir. civ., 2002, I, 63 ss. Nello stesso senso Gallo P., Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, Milano, 1992; Id., Revisione del contratto, in Digesto civ., XVII, Torino, 1998; Sacco R., Le sopravvenienze atipiche, in Sacco R. e De Nova G. (a cura di), Il contratto, IV ed.., Torino, 2016, p. 1708 ss.; Roppo V., Il contratto, Giuffré., 2011; Terranova C.G., L’eccessiva onerosità nei contratti. Artt. 1467-1469., in Schlesinger P. (a cura di) Il codice civile. Commentario, Milano, 1995. Sul tema della rinegoziazione in generale, senza pretesa di completezza v. anche Cesaro V.M., Clausole di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2020; Gambino F., Problemi del rinegoziare, Milano, 2004; Marasco G., La rinegoziazione del contratto. Strumenti legali e convenzionali a tutela dell’equilibrio negoziale, Padova, 2006; Pisu A., L’adeguamento dei contratti tra ius variandi e rinegoziazione, Napoli, 2017; Sicchiero G., La rinegoziazione, in Contratto e impresa, 2002.
[11] Così Sirena P., op cit., richiamando Tuccari E., La (s)consolante vaghezza delle clausole generiche per disciplinare l’eccessiva onerosità sopravvenuta, in Contr. e impr., 2018, 843 ss.
[12] Ex multis Gentili A., La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione, in Contr. impr., 2003, 667 ss.; Rescigno P., L’adeguamento del contratto nel diritto italiano. Inadempimento, adattamento, arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi, Draetta U. e Vacca C. (a cura di), Milano, 1992, Gabrielli E., Dottrine e rimedi nella sopravvenienza contrattuale, in Riv. dir. priv., 2013, 55 ss.; Id, L’eccessiva onerosità sopravvenuta, in Bessone M. (diretto da), Trattato di diritto privato XIII, VIII**, Torino, 2012, 95 ss.
[13] Patti F.P., Obbligo di rinegoziare, tutela in forma specifica e penale giudiziale, in Contratti, 2012, 571 ss.
[14] Cfr. Macario F., op. cit., p. 407, secondo cui il giudice dovrebbe liquidare il danno in via equitativa: «mentre è onere della parte che chiede il risarcimento del danno di dimostrarne la consistenza, spetta, invece, al giudice del merito il compito di liquidarne l’equivalente pecuniario, ricorrendo, se del caso all’ausilio di un consulente tecnico oppure, qualora la determinazione del preciso ammontare non sia oggettivamente possibile o appaia molto difficile, il compito di provvedere ad una liquidazione di carattere equitativo, ai sensi dell’art. 1226 c.c.». Ma anche Marasco G., op cit., 174 ss.
[15]Gambino, F., Rinegoziazione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2007, 10; Sicchiero G., op. cit., 814.
[16]Piraino F., Osservazioni intorno a sopravvenienze e rimedi nei contratti di durata, in Europa e Diritto Privato, II, 1 giugno 2019, pag. 585, secondo cui il risarcimento deve essere «sottratto alle secche dell'alternativa schematica tra c.d. interesse positivo e c.d. interesse negativo» e, pertanto, «potrebbe spingersi sino al trasferimento del costo di tutto o di parte dell'aggravio provocato dalla sopravvenienza che la condotta predatoria, contraria a buona fede, della parte avvantaggiata tramuta in danno oppure del costo del danno da ritardo nell'esecuzione del contratto e degli eventuali danni ulteriori connessi, qualora la violazione della buona fede sia consumata dalla condotta proditoriamente dilatoria della parte svantaggiata».
[17] Cuffaro V., Le locazioni commerciali e gli effetti giuridici dell’epidemia, in Giustiziacivile.com (31 marzo 2020), dove afferma come parrebbe «certo che, durante il periodo di emergenza che il Paese sta attraversando, il mancato pagamento del canone non potrà di per sé essere addotto dal locatore a motivo di risoluzione del contratto di locazione, giacché il conduttore potrà appunto addurre a giustificazione del mancato o parziale adempimento la situazione contingente qual è quella espressamente richiamata dalla legge».
[18] L’espressione è di Roppo V., intervistato per l’articolo Contratto e covid. Dall’emergenza sanitaria all’emergenza economica, in Giustizia insieme (28 aprile 2020).
[19] Salanitro U., La gestione del rischio nella locazione commerciale al tempo del Coronavirus, in Giustiziacivile.com (21 aprile 2020).
[20] Un discorso analogo concerne i contratti di locazione di alloggi agli studenti “fuori sede” per la frequenza di un corso universitario, spesso rientrati nel proprio comune di residenza a fronte prima della sospensione delle lezioni e, successivamente, dell’implementazione della didattica online.
[21] Tribunale Roma sez. VI, 27/08/2020; Tribunale Rimini, 25/05/2020, (ud. 25/05/2020, dep. 25/05/2020); Tribunale Napoli sez. IX, 15/07/2020, (ud. 15/07/2020, dep. 15/07/2020); Tribunale Venezia sez. I, 28/07/2020, (ud. 28/07/2020, dep. 28/07/2020). Contra Tribunale Pordenone, 08/07/2020, (ud. 08/07/2020, dep. 08/07/2020). Tutte in DeJure.
[22] Tribunale Roma sez. VI, 27/08/2020.
Il comune denominatore che lega le diverse misure approntate dal legislatore dell’emergenza è costituito dal principio solidarista, in ragion del quale non è tollerabile che un evento imprevedibile e totalmente estraneo alla sfera di controllo dell’individuo incida sui rapporti giuridici esistenti, rendendo eccessivamente gravosa la posizione di uno solo dei contraenti. I rimedi offerti dal codice civile, se utilizzati in grande scala, si rivelano economicamente inefficienti, e rischiano di infliggere il “colpo di grazia” a imprenditori già in crisi di liquidità, portando interi settori dell’economia al collasso.
Il potere politico interviene con misure volte a gestire le sopravvenienze, riallocando i rischi tra le parti in modo da riequilibrare il rapporto e da ripristinarne il carattere commutativo, vuoi prevedendo una forma di esecuzione per equivalente della prestazione divenuta impossibile, vuoi imponendo l’adeguamento del regolamento contrattuale alla situazione impeditiva.
In un contesto come quello attuale, caratterizzato da una profonda incertezza, è auspicabile che il legislatore continui a rivestire un ruolo di primo piano, sì da elaborare soluzioni di sistema, anche transitorie, volte a contemperare tutti gli interessi in gioco, che tengano conto delle ricadute macroeconomiche e dell’eccezionalità del momento storico.
A tal fine, non appare necessario, né opportuno, accelerare i tempi di approvazione della norma che introduce un obbligo di rinegoziazione in capo alle parti, il cui inadempimento consente al giudice di disporre l’adeguamento del contratto alle mutate circostanze. Difatti, pur auspicandone l’introduzione, se non altro per fini di armonizzazione con gli altri ordinamenti europei, si rileva come tale disposizione determinerebbe, verosimilmente, una forte inflazione del contenzioso, andando ad ingolfare ulteriormente i tribunali, già alle prese con l’arretrato dovuto alla sospensione totale dell’attività. Inoltre, l’attribuzione in capo al giudice del potere di riscrivere il contenuto economico dell’accordo, privando le parti del diritto di valutare liberamente se mantenere o meno il vincolo, finirebbe per aumentare l’incertezza del diritto in una situazione di grave instabilità, scoraggiando ulteriormente gli investimenti e frenando la ripresa economica.
D’altro canto, occorre valorizzare il carattere immediatamente precettivo del principio di solidarietà, quale regola base di convivenza sociale, incoraggiando i contraenti a rivedere i termini del contratto, nella reciproca lealtà e correttezza, tenuto conto che anche la parte favorita dalle sopravvenienze è significativamente esposta, in ragione della particolare congiuntura economica, al rischio di veder interamente pregiudicato il proprio diritto per la sopravvenuta insolvenza della controparte.