Con una recente pronuncia la Suprema Corte è tornata ad esprimersi sul principio di tipicità dei diritti reali, in virtù del quale l’ordinamento vieta ai privati di coniare figure di diritto reale diverse da quelle tipizzate dal legislatore, nonché di incidere sul contenuto proprio del diritto reale tipico al fine di non snaturare il rapporto sottostante. Alla luce di tale principio, la Corte ha ritenuto nullo il titolo mediante il quale si costituisca un diritto di uso esclusivo di parti comuni a favore di un condomino, stante la non riconducibilità dello stesso alle figure di diritto reale espressamente previste dal legislatore. Sebbene si condividano le premesse poste dalla Suprema Corte in ordine alla sussistenza del principio di tipicità dei diritti reali, si ritiene più ragionevole inquadrare il diritto di uso esclusivo nell’istituto tipico delle servitù prediali. Invero, nel caso in esame, il godimento attribuito in favore di un condomino, titolare del fondo dominante, inerisce ad una singola porzione di parte comune, ovverosia del fondo servente. Dunque, la proprietà del fondo servente non si riduce ad un mero «simulacro» e ciò perché la conformazione della servitù si traduce in un diritto di godimento del fondo servente permanente ed esclusivo, e, tuttavia, parziale, perché spazialmente limitato. Di conseguenza, il contratto è da intendersi valido.
The Supreme Court has recently considered again the applicability of the principle of numerus clausus of property rights. This implies that private parties cannot create new types of property rights through contracts or modify the specific content that the legal system expressly provides for those codified rights, in order not to alter the underlying legal relations. Under this principle, the Court has considered contracts which attribute the right of exclusive use of common parts in favor of one of the co-owners in the condominium, to be void. According to the Supreme Court, that is owing to the non-traceability of this right to the property rights expressly codified by the legislator. Although the Court’s premises regarding the adherence to the numerus clausus principle are fully welcomed, it seems more reasonable to frame the right of exclusive use as an easement. In fact, in the present case, the advantage granted in favor of a co-owner - holder of the dominant fund - relates to a single portion of the common part, that is to say, of the servient fund. Therefore, the ownership of the servient fund is not reduced to a mere «simulacrum» and that is because, the right conferred is one of a permanent and exclusive use of the servient fund, but partial since limited in space. Consequently, the contract remains valid.
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Diana D'Alberti - Il principio di tipicità dei diritti reali e il vaglio di ammissibilità del diritto di uso esclusivo di parti comuni a favore di un condomino
1. Sezioni Unite, 17 dicembre 2020, n. 28972: il caso. - 2. Il contrasto giurisprudenziale. - 3. Tipicità dei diritti reali: retaggio storico o categoria giuridica ancora attuale? - 4. L’iter argomentativo delle Sezioni Unite. - 5. Un ragionevole inquadramento del diritto d’uso esclusivo.
L’indagine attorno alla natura – dunque, all’ammissibilità – del diritto di uso esclusivo di porzioni comuni in favore di un condomino costituisce questione di particolare importanza. Inoltre, il contrasto giurisprudenziale emerso sul punto negli ultimi anni ha di recente richiamato l’attenzione delle Sezioni Unite.
Al fine di esaminare la questione, appare preliminare la ricostruzione del caso.
Nel 1980, tre sorelle sciolsero la comunione di un edificio, determinando una situazione di condominio: l’edificio, oltre alle tre unità immobiliari d’uso commerciale al piano terra e alle tre d’uso residenziale al primo piano, constava di parti comuni.
Le unità immobiliari vennero ripartite equamente tra le tre sorelle – un appartamento al primo piano e un negozio al piano terra per ciascuna – tuttavia, solo a favore di una, fu attribuito “l’uso esclusivo della porzione di corte antistante” al negozio del pianterreno. Tale diritto, dunque, trovava fonte nell’atto di divisione, rectius nell’atto all’origine del condominio.
Pochi anni dopo, la compagine condominiale subì delle modifiche: la sorella, in favore della quale era stato previsto l’uso esclusivo di parte del cortile, alienò sia il suo appartamento che il negozio. Anche nell’atto di compravendita si specificava che, assieme al negozio, si trasferiva il diritto di uso esclusivo di cui trattasi.
I due condomini, subentrati nella titolarità degli altri due appartamenti del primo piano in seguito a procedura espropriativa, citarono in giudizio il nuovo titolare del negozio con uso esclusivo della porzione di cortile antistante al fine di contestare la validità del titolo giustificativo di tale diritto. Il convenuto chiedeva di respingere le pretese attoree in forza del titolo costitutivo ovvero per usucapione della servitù ovvero, ancora, ai sensi dell’art. 1021 c.c.
È interessante sottolineare e ripercorrere la ricostruzione della vicenda data dalla Corte di Appello. A detta della Corte di Appello, infatti, la locuzione «uso esclusivo della corte antistante» era da intendersi come volta a sottolineare la natura pertinenziale della porzione di cortile antistante il singolo negozio, considerata la destinazione permanente di questa al servizio del locale. Inoltre, l’uso esclusivo, previsto sia nella divisione che nella compravendita di qualche anno successiva, andava ricondotto all’uso di parti condominiali di cui agli artt. 1102 c.c. e 1122 c.c. Secondo i giudici, per di più, l’utilizzo esclusivo delle corti era da considerarsi legittimo perché previsto originariamente col consenso dei condomini.
Il caso è arrivato dinanzi alla seconda sezione della Suprema Corte, la quale, con ordinanza interlocutoria n. 31420 del 2019[1], ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite al fine di superare il contrasto emerso sul punto in seno alle sezioni semplici.
[1] Tra i commenti dell’ordinanza, si vedano M. Monegat, Il diritto d'uso esclusivo del cortile, parte comune, si configura come diritto reale ex art. 1021 c.c. o come deroga al principio di cui all'art. 1102 c.c.? La questione è controversa ma riveste particolare importanza per la trasferibilità di tale diritto ed esige perciò l'intervento delle Sezioni Unite, in Imm. e propr., 2020, 1, 49; M. L. Chiarella, Rimessa alle Sezioni Unite la qualificazione giuridica del c.d. diritto d'uso esclusivo, in Giur. It., 2020, 4, 790. Più in generale, si leggano G. Rizzi, I posti auto condominiali e la disciplina in tema di conformità catastale, in Notariato, 2019, 1, 7; R. Triola, Il c.d. diritto di uso esclusivo di parti comuni, in Corr. Giur., 2020, 4, 504;
A partire dal 2017[1], un nuovo indirizzo giurisprudenziale ha ammesso la possibilità di costituire un diritto di uso esclusivo di parti comuni dell’edificio in favore di un solo condomino, escludendone – al contempo – una qualificazione come diritto d’uso ex art. 1021 c.c. Infatti, il diritto di uso esclusivo «tendenzialmente perpetuo e trasferibile» non condivide col diritto d’uso di cui agli artt. 1021 c.c. e ss., né i limiti di durata, né i limiti di trasferibilità, né le modalità di estinzione.
Le argomentazioni utilizzate dalla Suprema Corte per dare risposta positiva alla configurabilità del diritto di uso esclusivo, muovono da vari presupposti.
Innanzitutto, si sono ricercati indici normativi a sostengo di tale orientamento.
Prime conferme si ritroverebbero nell’art. 1117 c. c., ove si prevede la presunzione di comunione di parti comuni «se non risulta il contrario dal titolo». Tale disposizione sancirebbe l’ammissibilità della clausola di un contratto o di un regolamento condominiale mediante la quale si convenga l’uso esclusivo di parti comuni in favore di un condomino[2].
Si richiama, poi, l’art. 1122 c.c., là dove si dispone non solo in capo al proprietario di parti esclusive, ma anche per chi sia titolare di «proprietà esclusiva o uso individuale» su «parti normalmente destinate all’uso comune», il divieto di eseguire opere che rechino danni alle parti comuni oppure un pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio.
A detta della Suprema Corte, inoltre, l’uso esclusivo di parti comuni riconosciuto in favore di un condomino non è idoneo a privare gli altri partecipanti della possibilità di fruire di qualche utilità sul bene. Il bene oggetto del diritto di uso esclusivo continua a configurarsi come parte comune. Ciò che viene conformato dal titolo è il godimento di ciascun condomino.
Il diritto di uso esclusivo viene qualificato come una manifestazione del diritto del condomino sulle parti comuni, in quanto tale inerente a tutte le unità in condominio, con la conseguenza che si trasmetterebbe non solo ai successivi aventi causa dell’unità cui l’uso stesso accede, ma anche a quelli delle unità fruenti di una minore facoltà di godimento.
La ricostruzione in esame, ha aggiunto la Corte, non si pone neppure in contrasto con il numerus clausus dei diritti reali: non si tratterebbe di un diritto reale atipico, bensì di una manifestazione – più correttamente, di una conformazione negoziale – del diritto del condomino sulle parti comuni.
Di tutt’altro avviso, invece, la seconda sezione della Corte di Cassazione[3].
Nel caso esaminato dalla seconda sezione, la società venditrice aveva concesso il diritto d’uso esclusivo dell’intero cortile – e non solo di una sua porzione – alla società acquirente. In particolare, si era pattuito che tale diritto fosse «da esercitare senza limitazione, salvo il diritto di transito pedonale per accedere al locale e al servizio del negozio esistente nel cortile». Benché si tenesse ferma la titolarità del cortile in capo alla società venditrice «per necessità urbanistica», si era precisato che, venute meno simili esigenze, la società venditrice o i suoi aventi causa si sarebbero impegnate a «concedere il diritto di prelazione alla società acquirente al prezzo e modalità da convenirsi». La parte ricorrente ha sostenuto che si trattasse di un diritto reale d’uso atipico, attesa la potenziale trasferibilità di tale diritto. A riprova di ciò, ha addotto anche che il diritto in questione, espressamente previsto dal regolamento condominiale trascritto, esplicava l’efficacia erga omnes propria dei diritti reali.
Ebbene, a detta della Corte di Appello – poi, anche della Suprema Corte – proprio la statuizione privata, mediante la quale si era prevista la permanenza del diritto di proprietà della società venditrice sul cortile, salvo costituzione solo di un diritto di prelazione in capo alla società acquirente, non può interpretarsi nel senso di ritenere costituito un «diritto di uso reale atipico, esclusivo e perpetuo». Invero, tale diritto svuoterebbe «di ogni significato il diritto di proprietà» rendendolo «un diritto di proprietà vuoto, mero simulacro o parvenza, al quale non corrisponderebbe alcuna delle facoltà del proprietario, prima fra tutte quella di poter godere pienamente e indisturbatamente della res».
Inoltre, si è escluso che potesse ritenersi costituita una servitù prediale. Nel caso in esame, infatti, il vantaggio non era imposto a favore di un fondo[4] – cd. dominante – bensì di un soggetto. Si è, quindi, concluso nel senso di ritenere configurata una servitù “irregolare”, non potendosi neppure ricondurre siffatta ipotesi alla cd. servitù di parcheggio, riconosciuta dalla Suprema Corte a condizione che vi sia un diretto vantaggio del fondo dominante, da intendersi come utilitas di carattere reale[5].
In conclusione, la seconda sezione ha qualificato il diritto in esame come diritto reale d’uso che, in quanto istituito in favore di una persona giuridica, non poteva superare il trentennio ex artt. 1026 e 979 c.c.
[1] Cass., 16 ottobre 2017, n. 24301, in Imm. e propr., 2017, 12, 724. Successivamente, in senso conforme, si richiamano anche Cass., 10 ottobre 2018, n. 24958, in Foro It., 2019, 1, 1, 248; Cass., 31 maggio 2019, n. 15021, in Imm. e propr., 2019, 8-9, 530; Cass., 4 luglio 2019, n. 18024 in www.leggiditalia.it; Cass; 3 settembre 2019, n. 22059, in Imm. e propr., 2019, 11, 668.
[2] Oltre alla concreta fattispecie avente ad oggetto l’attribuzione di un diritto di uso esclusivo su una porzione di cortile condominiale, tale meccanismo opera frequentemente con riguardo ai lastrici solari o alle terrazze. Per di più, nel caso di lastrici solari, l’art. 1126 c.c., pur non prevedendo espressamente la possibilità di costituzione di tale diritto, fa riferimento alle conseguenze derivanti da tale attribuzione. Invero, si prevede che le spese si ripartiscono in misura diversa dal tradizionale criterio di cui all’art. 1123 c.c.: «quando l’uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l’uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico: gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve, in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno». Al di là dell’ipotesi dei lastrici solari, qualora il titolo o le tabelle millesimali non abbiano individuato il riparto tra contribuzioni dell’usuario ed i restanti condomini, la giurisprudenza ha a tal fine applicato l’art. 1123, comma 2, c.c., nella misura in cui fa riferimento a «cose destinate a servire i condomini in misura diversa».
[3] Cass., 9 gennaio 2020, n. 193 in Imm. e propr., 2020, 3, 192.
[4] Sulla necessità che l’utilità sia legata all’utilizzo del fondo secondo la sua destinazione P.E. Bensa, Delle servitù prediali, Siena, 1899, 35 ss.; D. Barbero, Tipicità, predialità e indivisibilità nel problema dell’identificazione delle servitù, in Foro pad., 1957, I, 1042 ss.; G. Grosso e G. Deiana, Le servitù prediali, in Trattato di dir. civ. diretto da F. Vassalli, V, I, Torino, 1963, 116; P. Vitucci, Utilità e interesse nelle servitù prediali, Milano, 1974, 117 ss.; G. Branca, Servitù prediali, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Della Proprietà, sub artt. 1027-1099, Bologna-Roma, 1987, 21; R. Triola, Le servitù prediali, in Il codice civile. Commentario fondato da P. Schlesinger e continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2008, 34.
In giurisprudenza, Cass., 29 agosto 1991, n. 9232, in Mass. Giur. civ., 1991; Cass., 22 ottobre 1997, n. 10370, ivi, 1997; Cass., 16 ottobre 2002, n. 14693, in Riv. notar., 2003, 1012; Cass, 21 dicembre 2012, n. 23839, in Giust. civ., 2013, I, 1408.
[5] Si veda in senso favorevole alla configurabilità della servitù di parcheggio Cass., 23 marzo 1995, n. 3370, in Giur. it., 1996, I, 516, con nota di Sicchiero; Cass., 6 luglio 2017, n. 16698, in Foro it., 2017, I, 3027, con nota di Bona; Cass., 18 marzo 2019, n. 7561 in Nuova giur. civ. comm., 2019, 5, 945 nota di Casini. Con tali pronunce si è superato l’orientamento che, facendo leva sulla qualificazione dell’attività consistente nel parcheggio come vantaggio personale e non, invece, come una utilità inerente al fondo, escludeva la configurabilità di una servitù di parcheggio, configurandola come un diritto d’uso, ovvero, come una servitù irregolare. Per questi rilievi si vedano G. Musolino, Il parcheggio fra servitù prediale, servitù irregolare e servitù personale (diritto d’uso), in Riv. not., 2012, 1137; F. Esposito, Considerazioni sull’ammissibilità della servitù di parcheggio, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 286.
Il recente indirizzo della giurisprudenza, invece, proprio facendo leva sulla nozione di utilità, arriva a tutt’altra conclusione, ammettendo la possibile configurazione di una servitù di parcheggio.
La specifica questione relativa alla configurabilità di un diritto d’uso esclusivo in favore di un condomino richiama il più generale dibattito dottrinale attorno alla tipicità dei diritti reali[1]. Ci si è domandati se possa considerarsi ancora esistente il principio del numerus clausus dei diritti reali[2] oppure se quest’ultimo debba retrocedere dinanzi all’esercizio dell’autonomia negoziale dei privati.
Si ritiene opportuno anche solo brevemente ricordare che è con la Rivoluzione francese, ispirata da valori di stampo liberale, affermatisi con l’Illuminismo, che il principio romanistico[3] della tipicità, dopo la lunga parentesi medievale[4], trovava nuova espressione nelle codificazioni ottocentesche[5]. Invero, con la fine dell’ancien regime, si intendeva liberare i terreni dai vincoli e dagli oneri di derivazione feudale, inevitabili ostacoli alla certezza e alla sicurezza dei traffici. Si voleva il territorio della Francia libero al pari dei Francesi: «Le territoire de France, dans toute son étendue, est libre comme les personnes qui l’habitent.[6]».
Si giungeva, dunque, a vietare la creazione convenzionale di diritti reali; potendo questi ultimi trovare fonte solo in una previsione legislativa.
La ratio di tale divieto si spiegava - e si spiega tutt’oggi - nella tutela del traffico e della sicurezza degli acquisti, con particolare riguardo ai terzi. Invero, la creazione di un diritto reale atipico è idonea a restringere ben oltre i limiti previsti dalla legge il contenuto della proprietà o di altro diritto reale oggetto di acquisto da parte di un terzo.
Dunque, il principio di tipicità intende evitare che l’opponibilità erga omnes, nota peculiare dei diritti reali, si estenda oltre le previsioni di legge, anche a fattispecie non conoscibili dai terzi estranei alla convenzione istitutiva di simili diritti atipici. Preme, sul punto ricordare le parole del Venezian: «La volontà privata non può da sola neppure vincolare l’attività futura del volente […] Tanto meno la volontà privata può costituire da sola un diritto reale, al quale non è correlativo l’obbligo del costituente, ma un’obbligazione generale; per il quale non è ristretta soltanto la libertà d’azione del costituente e di chi raccogliendo la somma dei suoi averi assume di continuarne la personalità economica, ma all’attività di chiunque è posto un limite, rispetto alla cosa su cui il diritto cada, e in ispecie è ristretta la libera attività di chi sulla stessa cosa acquisti un diritto».[7]
D’altra parte, tentativi di superamento del principio di tipicità son stati infruttuosamente esperiti mediante il ricorso al meccanismo della trascrizione, ritenendo che, in presenza di un negozio trascritto, il diritto reale atipico creato sia suscettibile di esplicare effetti anche verso terzi. Tuttavia, il nostro ordinamento prevede che possano trascriversi solo gli atti di cui all’art. 2643 c.c. ovvero quelli che, pur non contemplati, producono gli stessi effetti, secondo quanto disposto dall’art. 2645 c.c.
Ciò comporta che non potrà mai esplicare efficacia erga omnes la situazione reale, creata dalle parti con negozio trascritto, ma non rientrante tra quelle espressamente considerate opponibili dal nostro ordinamento. Ne segue che non potrebbe mai opporsi al terzo un diritto reale atipico[8] atto a privarlo di facoltà attribuitegli per legge ovvero in grado di costringerlo a svolgere prestazioni accessorie[9].
Altra parte della dottrina ha rinnegato l’esistenza stessa di tale principio. È stato da alcuni sostenuto che la tipicità dei diritti reali contrasta col principio di autonomia negoziale, dovendosi, quindi, ammettere la possibilità in capo ai privati di creare diritti reali atipici[10], purché leciti e tendenti ad uno scopo meritevole di tutela.
Invero, questa dottrina ha rilevato che unico limite all’esercizio del potere dei privati è da rintracciarsi nella meritevolezza dell’interesse perseguito ex art. 1322 c.c., non ritenendo a questo fine sufficiente richiamare il principio di relatività degli effetti del contratto previsto dall’art. 1372 c.c.[11]
Tuttavia, rifiutare di rintracciare nell’art. 1372 c.c. il fondamento positivo del divieto di incidere nella sfera giuridica di terzi, nonché – per quanto rileva in questa sede – del principio del numerus clausus dei diritti reali, non è per ciò solo sufficiente ad escludere una loro vigenza nel nostro ordinamento. Invero, altri sono i dati normativi dai quali emergono tali limiti all’autonomia negoziale dei privati. Si pensi alla riserva di legge posta dall’art. 42, comma 2 Cost. ai fini della determinazione dei «modi di acquisto, di godimento e i limiti della proprietà.»[12]
Alla luce di quanto premesso, appare ragionevole ritenere ancora oggi sussistente il principio di tipicità dei diritti reali, dovendosi intendere sia con riguardo alla fonte che con riguardo al rapporto. Ne segue che ai privati è vietato coniare figure di diritto reale diverse da quelle tipizzate dal legislatore, così come è vietato incidere sul contenuto proprio del diritto reale tipico, al fine di non snaturare il rapporto sottostante. Si deve ritenere valida, di conseguenza, la previsione pattizia mediante la quale si conforma il contenuto del diritto reale tipico, ma nei limiti previsti dalla legge.
È di preliminare importanza, quindi, comprendere cosa si intenda per diritto reale tipico.
Posto che – come sopra delineatosi – la ratio della tipicità risiede nella tutela dei traffici, soprattutto in relazione ai terzi, l’individuazione del diritto reale tipico rileva per delimitare quali situazioni giuridiche sono idonee ad esplicare efficacia erga omnes, anche se costituite convenzionalmente.
Invero, se con riguardo ad assetti di interessi contrattuali atipici, gli studi attorno al tipo hanno posto l’attenzione sul piano della liceità-validità inter partes, oltre che sul piano della individuazione del regime normativo applicabile; con riguardo alla creazione convenzionale di diritti reali, il piano di indagine attiene all’efficacia della convenzione: se i diritti di cui si dispone sono riconducibili a quelli tipizzati, essi potranno esplicare efficacia reale, perché è la legge che lo prevede; mentre, in caso di diritti reali atipici, il contratto potrà esplicare meri effetti obbligatori[13], purché si applichino i principi di conversione sostanziale di cui all’art. 1424 c.c.
In quest’ottica, il principio di tipicità non sembra davvero porsi in contrasto con l’autonomia negoziale. D’altronde, l’autonomia dei privati, nei limiti di cui all’art. 1322 c.c., attiene al profilo contenutistico del regolamento d’interessi, e non anche al profilo soggettivo inerente alla produzione di effetti nei confronti delle parti e/o dei terzi. Se è pur vero che i privati possono attribuire qualsiasi contenuto al contratto, purché esso sia meritevole di tutela; è parimenti vero che rimane sempre fermo il limite soggettivo dell’efficacia inter partes del contratto, salvo che non vi siano casi espressamente previsti dalla legge.
Ciò premesso, per comprendere se ci si muove all’interno del tipo del diritto reale ovvero al di fuori di esso, occorre ricostruire per ciascun diritto reale disciplinato dalla legge quali sono i suoi tratti peculiari e, tenuti fermi questi, valutare quale sia la massima espansione della conformazione negoziale degli stessi. Una volta superati i limiti del tipo, la conformazione negoziale del diritto è pur sempre ammessa, ma nei limiti di efficacia di cui all’art. 1372 c.c.
[1] v. G. Venezian, Dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione, I, Napoli-Torino, 1931, 141; M. Giorgianni, Contributo alla teoria dei diritti di godimento su cosa altrui, I, Milano, 1940, 151 ss., ora in Id., Raccolta di scritti. Itinerari giuridici tra pagine classiche e recenti contributi, Padova, 1996; Id., voce ‘‘Diritti reali (diritto civile)’’, in Noviss. Dig. It., V, Torino, 1960, 748 ss.; M. Comporti, Contributo allo studio del diritto reale, Milano, 1977, 293 ss., A. Burdese, Considerazioni in tema di diritti reali, in Riv. dir. civ., 1977, II, 325; A. Natucci, La tipicità dei diritti reali, Padova, 1985, passim; Id., Numerus clausus e analisi economica del diritto, in Nuova giur. civ. comm., 2011, 7-8, 319 ss.; G. Branca, Servitù prediali, cit., 10; M. Comporti, voce ‘‘Diritti reali’’, in Enc. Giur. Treccani, XI, Roma 1989, 5 ss.; Id., Diritti reali in generale, in Tratt. Dir. Civ. e Comm., a cura di A. Cicu e F. Messineo, Milano, 2011, 217 ss.; A. Gambaro, Note sul principio di tipicità dei diritti reali, in L. Cabella Pisu – L. Nanni (a cura di), Clausole e principi generali nell’argomentazione giurisprudenziale degli anni Novanta, Padova, 1998, 223 ss.; A. Fusaro, Il numero chiuso dei diritti reali, in Riv. crit. dir. priv., 2000, 439 ss.; Id., Il contributo della prassi al numero chiuso dei diritti reali, in Nuova Giur. civ. comm., 2011, II, 517 ss.; G. Baralis, I diritti reali di godimento, in Diritto civile, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, coordinato da A. Zoppini, II, Successioni, donazioni, beni, tomo II, La proprietà e il possesso, Milano, 2009, 180 ss.; U. M. Morello, Tipicità e numerus clausus dei diritti reali, in Tratt. Diritti Reali, a cura di A. Gambaro e U. M. Morello, I, Milano, 2008, 67 ss.; E. Moscati, Il problema del numero chiuso dei diritti reali, in AA.VV., Liber Amicorum per Angelo Luminoso, Contratto e Mercato, I, a cura di P. Corrias, Milano, 2013, 441 ss.; C.M. Bianca, La Proprietà, in Diritto civile, 6, Milano, 2017, 93 ss. Sul punto e, più in generale, per una completa ricostruzione delle diverse teorie e concezioni elaborate con riguardo ai diritti reali, B. Agostinelli, Diritti reali (dir. civ.), in Treccani online (Diritto online), 2015.
[2] Talvolta si distingue tra tipicità e numero chiuso, M. Giorgianni, Contributo alla teoria dei diritti di godimento su cosa altrui, cit., 169 ss.; F. Romano, Diritto e obbligo nella teoria del diritto reale, Napoli, 1967, 73 ss; M. Comporti, Contributo allo studio del diritto reale, cit., 293, in cui si legge che il principio del numero chiuso attiene alla «esclusività della fonte», mentre la tipicità attiene alla «determinazione del contenuto, cioè del tipo della situazione reale». Mentre altra parte della dottrina ha assimilato i due principi A. Burdese, Considerazioni in tema di diritti reali, in Riv. dir. civ., 1977, II, 325.
[3] Si veda V. Arangio-Ruiz, La cosiddetta tipicità delle servitù e i poteri della giurisprudenza romana, in Foro it., 1934, IV, 49; P. Voci, Istituzioni di diritto romano, Milano, 2004, 84; B. Biondi, Le servitù, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 1967, 16.
[4] G. Branca, Servitù prediali, cit., 10: «L’autonomia privata, che può dar vita a qualunque obbligazione, non ha il potere di fare altrettanto nel campo dei diritti reali. Così era in antico, tolta l’oscura parentesi del diritto bizantino e comune, così è adesso»; nello stesso senso anche L. Barassi, Diritti reali e possesso, I, Milano, 1952, 48 e ss.; M. Comporti, Contributo allo studio del diritto reale, cit., 287.
In senso critico circa l’esistenza del principio nell’esperienza giuridica contemporanea, R. Nicolò, voce Diritto civile, in Enc. del dir., vol. XII, Milano, 1964, 908; D. Messinetti, Oggettività giuridica delle cose incorporali, Milano, 1970, 124.
Sul Medioevo, P. Grossi, Le situazioni reali nell’esperienza giuridica medievale, Padova, 1968, 104: «a fronte della rigorosa tipicità classica, a fronte di un sistema di diritti reali concepito come chiuso, rigido e strettamente limitato, si afferma, in primo luogo, la tendenza, non solo, a concepire in modo asistematico il problema dei vari rapporti reali, bensì a ritenerli non già un “numerus clausus” ma una serie aperta e potenzialmente indefinita, non una galleria di tipi predeterminati e assolutamente precisati, ma un gruppo elastico di figure amorfe sommariamente e liberamente determinate dalla consuetudine e delle quali è chiaro come minimo denominatore solo la loro radicazione nella cosa».
Di contrario avviso E. Besta, I diritti sulle cose nella storia del diritto italiano, Milano, 1964, 22, a detta del quale i diritti reali furono sempre intesi come diritti tipici, non potendo essere modificati dai poteri dei privati, diversamente dai diritti di credito. Chiarisce, però, che se nelle codificazioni ottocentesche la fonte della tipicità si rinviene nella legge, nel Medioevo si ritrovava nella consuetudine. Si legge, infatti, che «L’eccezione offerta dal Medioevo, che pur fu fecondo, come vedremo di parecchie nuove figure, è solo apparente. Al posto della legge dobbiamo allora porre la consuetudine». La più elastica fonte medievale della consuetudine, dunque, non si traduceva nel rifiuto del sempre vigente principio di tipicità.
[5] Il Codice Napoleonico intendeva eliminare ogni vincolo reale permanente sulla proprietà, sia tramite la riduzione dei tipi di diritti reali ammessi, sia tramite l’introduzione del divieto ai privati di creare figure di diritti reali non previste dal legislatore. Secondo alcuni studiosi del tempo, come Jean Demolombe e Samuel Ginossar, il divieto in esame – esplicazione del principio di tipicità dei diritti reali – trovava emersione normativa nell’art. 543 c.c. ove si prevedeva che «On peut avoir sur les biens, ou un droit de propriété, ou un simple droit de jouissance, ou seulement des services fonciers à prétendre.»
Cfr. J. Demolombe, Cours de code Napoleon, IX, Parigi, 1870, 463; S. Ginossar, Doir réel, propriété et créance, Parigi, 1960, 148 e ss.
Di diverso avviso C.B.M. Touiller, Le droit civil francais suivant l’ordre du code, Bruxelles, 1845, il quale sostiene la possibilità di costituire diritti reali atipici. Nella Sezione V, intitolata «Nature des droits réels détachés de la propriéte parfaite, s’il y en a de plusieurs espéces, quel en est le nombre», Touiller escluse che fosse utile attribuire un nome ai diritti reali, e, dunque, tipizzarli. Ebbene ammetteva la costituzione di diritti reali anche atipici. Si legge, infatti, «Mais si on demande quels sont les droit qu’on peut séparer de la propriété parfaite, de combien de maniéres on peut la demembrer, il faut d’abord poser en principe que chacun pouvant disposer de sa propriéte de la manière la plus absolue, il peut en détacher les droits que bon lui semble, étendre ou limiter ces droits comme il le veut; en un mot, démembrer sa propriété de toutes les manières qu’il le juge à propos, pourvu qu’il n’y ait rien de contraire aux lois ou à l’ordre public. Ainsi, dans cette matière, on suit le principe general: tout ce qui n’est pas défendu, est permis.»
[6] Decret des 5-12 juin 1791, art. Ier, Code rural, titre Ier, Section Ier; citazione che si ritrova anche in M. Garaud, La révolution et la propriété foncière, Parigi, 1958.
[7] G. Venezian, Dell’usufrutto, dell’uso e del’abitazione, I, Napoli-Torino, 1931, 141.
Una critica alla teoria del Venezian si ritrova in A. Belfiore, Interpretazione e dogmatica nella teoria del diritto reale, Milano, 1979.
[8] Sul punto si leggano le pagine di A. Natucci, La tipicità dei diritti reali, cit., 166 e ss, il quale nega che la tutela del terzo possa derivare dalla mera conoscibilità o conoscenza effettiva della situazione reale atipica costituita dai privati. In questi casi, l’effettiva conoscenza non può in alcun modo legittimare i privati ad esercitare poteri idonei ad incidere sull’altrui sfera giuridica, a prescindere dal consenso. Una conclusione opposta potrebbe prospettarsi solo in presenza di una specifica ed espressa previsione di legge che renda legittimo il potere d’imposizione ai terzi della propria volontà contrattuale, quale quella che disciplina le condizioni generali di contratto di cui all’art. 1341 c.c. Si ammetterebbe, altrimenti, un’ipotesi di potere privato non previsto dal legislatore.
Sul concetto di autorità privata si ricordino sempre C. M. Bianca, Le autorità private, Napoli, 1977; E. del Prato, I regolamenti privati, Milano, 1988.
[9] Nel caso in cui siano previste obbligazioni propter rem.
[10] F. Romano, Diritto e obbligo, cit., 70; D. Messinetti, Oggettività giuridica delle cose incorporali, cit., 126; P. Vitucci, Autonomia privata, numero chiuso dei diritti reali e costituzione convenzionale di servitù, in Riv. dir. agr., 1972, I, 855 ss.; M. Costanza, Numerus clausus dei diritti reali e autonomia contrattuale, in Studi in onore di Cesare Grassetti, I, Milano, 1980, 424 ss.; Id., Il contratto atipico, Milano, 1981, 169 ss.
[11] F. Romano, Diritto e obbligo, cit., 69 afferma che l’art. 1372 c.c. non guarda all’efficacia del contratto verso i terzi; bensì alla vincolatività degli effetti tra i paciscenti. Tale affermazione si ritiene poco condivisibile. È opinione prevalente, d’altronde, che la disposizione in esame rappresenta l’emersione del principio pacta sunt servanda, ma anche di un limite all’efficacia esterna del contratto, non potendo i terzi essere vincolati a prescindere dal loro consenso, salvo che nei casi espressamente previsti dalla legge.
[12] A. Natucci, La tipicità dei diritti reali, cit., 169 ss.; A. Di Majo e L. Francario, Proprietà e autonomia contrattuale, Milano, 1990; E. Caterini, Il principio di legalità nei rapporti reali, Napoli 1998, 29 ss.;
[13] Si pensi alle servitù cd. irregolari.
Le Sezioni Unite, dinanzi a siffatto panorama giurisprudenziale, indagano la natura del diritto di uso esclusivo su parti comuni, per comprendere se tale figura, emersa nella prassi notarile e nella più recente elaborazione giurisprudenziale, costituisca un diritto reale atipico; un diritto riconducibile a figure tipiche di diritti reali di godimento; ovvero se si tratti di un diritto di credito, personale di godimento.
Innanzitutto, la Suprema Corte si domanda se – come sostenuto dall’orientamento inaugurato nel 2017 – effettivamente vi siano norme idonee a fondare la configurabilità di un generale diritto di uso esclusivo a favore di un condomino. Escluso ciò, si interroga circa la riconducibilità del diritto in esame alle servitù prediali ex artt. 1027 e ss. o al diritto d’uso ex artt. 1021 c.c. e ss.
Nello specifico, a detta della Suprema Corte, né l’art. 1102 c.c., né l’art. 1117 c.c. rappresentano validi indizi normativi a sostegno della configurabilità del diritto di uso esclusivo: la rubrica dell’art. 1102 c.c. fa riferimento all’«uso comune» – e non esclusivo – della cosa; così come l’art. 1117 c.c., individuando quali sono le «parti comuni» dell’edificio, mai allude ad un uso esclusivo delle stesse da parte di un condomino, sottolineando – a più riprese – che tali porzioni dell’edificio sono destinate all’«uso comune». Inoltre, la possibilità di superare convenzionalmente la presunzione di condominialità non si riferirebbe all’attribuzione del mero godimento esclusivo della parte comune in favore di un condomino, bensì all’attribuzione della proprietà piena della parte comune che, così, diviene proprietà esclusiva del condomino.
Le norme in esame di certo non escludono un «uso più intenso» della cosa comune da parte di uno o più condomini. Invero, la maggiore intensità dell’uso di parti comuni è ammissibile nel nostro ordinamento, come si evince dagli articoli in materia di ripartizione delle spese in proporzione all’uso, nonché di manutenzione e sostituzione delle scale e degli ascensori; ma con dei limiti: purché non si preveda un divieto di utilizzo generalizzato in capo agli altri condomini[1].
L’impossibilità di impedire agli altri partecipanti di usare la cosa comune «secondo il loro diritto» costituisce, dunque, il limite esterno oltre il quale la conformazione della paritarietà e simultaneità dell’uso stesso non può andare. Verrebbe altrimenti violato il contenuto intrinseco del diritto di comproprietà, negandolo in radice. Da ciò discende, per esempio, l’ammissibilità dell’uso frazionato[2] o turnario[3]. Nel caso di diritto di uso esclusivo, invece, proprio la concentrazione della facoltà di uso in capo ad uno o più condomini, solleva non poche perplessità: l’esclusività va ben oltre la maggiore intensità dell’uso della cosa comune e finisce per configurare un uso «quasi uti dominus» con conseguenze in ordine all’effettiva possibilità di configurare ancora la res oggetto di godimento come res sostanzialmente communis, pur rimanendo tale dal punto di vista formale[4].
La Suprema Corte aggiunge che non potrebbe neppure richiamarsi l’art. 1126 c.c., in materia di «lastrici solari di uso esclusivo»[5], quale fondamento normativo di un generale «diritto reale di uso esclusivo»: tale norma è da considerarsi eccezionale, suscettibile – se del caso – di una «cauta applicazione estensiva».[6]
Del pari, non possono fungere da fondamento normativo per l’ammissibilità del diritto d’uso esclusivo, né le ipotesi di concessione di un godimento «apparentemente non paritario» in favore di determinati condomini emerse con la riforma del 2012; né il D.lgs. 122 del 2005 che fa esplicito riferimento alle «pertinenze», dunque, all’attribuzione di proprietà piena e non, invece, di un mero diritto d’uso, benché esclusivo.
La Corte, quindi, conclude nel senso di ritenere il richiamo ai menzionati elementi normativi del tutto inadeguato a fondare la possibilità di costituire un generale diritto di uso esclusivo a favore di un condomino.
Orbene, prima di escludere che tale diritto possa considerarsi un diritto reale, la Corte, nel pieno rispetto del numerus clausus dei diritti reali, si interroga se possa eventualmente ricondursi all’istituto delle servitù prediali ovvero del diritto d’uso.
Tuttavia, risposte negative son pervenute sia nell’uno che nell’altro senso.
Si afferma che il diritto d’uso esclusivo non può inquadrarsi come servitù. A detta della Corte, infatti, non vi sarebbe una costituzione di pesi sulle parti condominiali a vantaggio della proprietà esclusiva di un condomino, bensì un «sostanziale svuotamento del diritto di proprietà del fondo servente». E, benché sia estremamente ampio il contenuto con cui può determinarsi il contenuto delle servitù, deve negarsi la sussistenza di una servitù prediale, ogniqualvolta dal rapporto di assoggettamento tra due fondi non segua una mera restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente, bensì una loro elisione.
Come si prospetterà più avanti[7], la conclusione si ritiene essere errata nella misura in cui in presenza di un diritto d’uso esclusivo di porzione di cosa comune – e non, invece, dell’intera res – non vi sarebbe la privazione del generale godimento da parte di altri condomini.
Ancora, le Sezioni Unite non ritengono utile il richiamo al diritto d’uso di cui all’art. 1021 c.c., atteso che – a differenza di quest’ultimo – il diritto in esame non presenta i caratteri della temporaneità e della intrasferibilità.
Da quanto premesso, discende il principio di diritto elaborato dalla Suprema Corte, fermo nella rigida applicazione del principio di tipicità dei diritti reali[8]. Orbene, dopo aver puntualmente rifiutato ogni argomentazione sostenuta da quella parte della dottrina che intendeva superare il principio in esame mediante il ricorso all’autonomia privata[9], si legge che «La pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell’edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall’art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi».
Il titolo negoziale avente ad oggetto la costituzione di diritto d’uso esclusivo a favore di un condomino viene considerato nullo, salva la possibilità di una sua riconduzione al diritto d’uso ex art. 1021 c.c. mediante il meccanismo di operatività della nullità parziale[10], ovvero di una conversione del diritto d’uso perpetuo ed esclusivo in diritto di credito avente efficacia inter partes. In quest’ultimo caso, deve sussistere la volontà ipotetica di entrambe le parti volta alla conclusione di questo diverso negozio ex art. 1424 c.c.
Il passaggio finale della sentenza in esame suscita non poche perplessità.
Invero, la Suprema Corte, pur optando per la nullità del titolo negoziale, non ne individua la causa.
In modo del tutto sfuggente viene richiamato il concetto di meritevolezza come possibile parametro attraverso il quale vagliare la conservazione del titolo. Una sola parola basta a far vacillare la solidità dell’iter logico seguito dalla Corte.
Se si applica il principio di tipicità dei diritti reali, non può concludersi che il contratto è nullo perché immeritevole di tutela, dunque, ex art. 1322, c.c. La nullità dovrebbe, se del caso, fondarsi sulla inconfigurabilità dell’oggetto ex artt. 1418, comma 2 e 1346 c.c.
Se le conseguenze derivanti dalla illiceità della causa – ex artt. 1322, comma 2 c.c. e 1343 c.c. – e quelle derivanti dall’oggetto impossibile – ex art. 1346 c.c. – son le stesse, ovverosia la nullità del contratto, ciò che viene intaccata è la tenuta logica della soluzione prospettata.
La Corte, nel considerare fermo il principio di tipicità dei diritti reali, rifiuta le argomentazioni sostenute a favore del superamento del numerus clausus mediante il ricorso all’autonomia privata. Argomentazioni che, come sopra sottolineato, aprivano alla atipicità dei diritti reali, col solo limite di cui all’art. 1322 c.c. A detta di questa dottrina, la convenzione avente ad oggetto diritti reali atipici può considerarsi nulla per illiceità della causa, solo nel caso in cui questi diritti tendano a scopi immeritevoli di tutela.
Coloro che, invece, prospettano ancora l’esistenza del principio di tipicità dei diritti reali, ritengono inconfigurabile qualsiasi diritto reale non riconducibile a quelli già individuati dal legislatore. Ne segue, dunque, che l’eventuale convenzione che preveda siffatti diritti è nulla per inconfigurabilità dell’oggetto ex artt. 1346 c.c. e 1418, comma 2 c.c.[11]
È in questo secondo senso che, se del caso, avrebbe dovuto esprimersi la Corte.
[1] In tal senso, Cass., 29 gennaio 2018, n. 2114, in www.leggiditalia.it, ove si legge che: «L'art 1102 c.c., nel prescrivere che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non pone una norma inderogabile. Ne consegue che i suddetti limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale, o da delibere assembleari adottate con il "quorum" prescritto dalla legge, fermo restando che non è consentita l'introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni».
[2] Per l’uso frazionato, si richiamano sul punto Cass., 14 luglio 2015, n. 14694, in Imm. e propr., 2015, 10, 594 nota di Triola; Cass., 11 aprile 2006, n. 8429, in Imm. e propr., 2006, 9, 590; Cass., 14 ottobre 1998, n. 10175, in Giust. Civ., 1999, I, 1059 nota di De Tilla; Cass., 28 gennaio 1985, n. 434, in Riv. Giur. Edil., 1985, I, 445.
[3] Per l’uso turnario, invece, Cass., 12 dicembre 2017, n. 29747, in Imm. e propr., 2018, 2, 125; Cass., 19 luglio 2012, n. 12485, in Imm. e propr., 2012, 10, 596; Cass., 3 dicembre 2010, n. 24647, in Imm. e propr., 2011, 2, 119.
[4] Sul punto si veda E. del Prato, Uso esclusivo permanente in favore di un condomino e tipicità dei diritti reali, in corso di pubblicazione su Nuova giur. civ. comm., 2, 2021 ove si rileva che più che l’esclusività in sé del godimento, è l’ambito su cui esso si estende ad incidere sulla qualificazione della res come parte comune ovvero come proprietà esclusiva del condomino. L’uso esclusivo permanente può ben configurarsi con riguardo ad una specifica porzione della cosa comune, non anche con riguardo alla cosa nella sua interezza. Mentre è ben ipotizzabile, senza che ciò comporti la trasformazione della res da comune ad esclusiva del condomino, il godimento turnario e il godimento frazionato della cosa nella sua interezza. Se tali menomazioni del godimento comune sono solo temporanee, come ricorda tale dottrina, se ne può prevedere l’adozione anche mediante regolamenti condominiali adottati dalla maggioranza assembleare. Dovendo, invece, registrarsi il consenso unanime dei condomini nel caso di menomazione permanente.
[5] Nel caso di lastrici solari, si prevede espressamente la possibilità di un diritto di uso esclusivo. La fattispecie viene ricostruita partendo dal presupposto che il lastrico solare, con funzione di copertura, è parte comune; tuttavia, si può attribuire ad uno dei condomini il diritto di uso esclusivo del calpestio del lastrico.
[6] È quanto avvenuto per le terrazze condominiali, con funzione di copertura dell’edificio.
[7] Si veda il par.5.
[8] Principio di tipicità che non attiene solo ai diritti reali, ma anche alle obbligazioni propter rem. L’opinione tradizionale della dottrina è stata sempre nel senso della tipicità. Si veda sul punto G. Grosso, Servitù e obbligazioni “propter rem”, in Riv. dir. comm., 1939, I, 213 ss.; Id., Le servitù prediali, I, cit. 61 ss.; L. Barassi, La teoria generale delle obbligazioni, Milano, 1964, 127; B. Biondi, Le servitù, cit. 726; Branca, Le servitù prediali, cit., 63 ss.
La giurisprudenza, invece, fino agli anni ’50 del XX secolo ammetteva la possibilità di creare liberamente tali obbligazioni, richiedendo necessariamente la trascrizione ai fini dell’opponibilità nei confronti dei terzi. Cass, 31 dicembre 1917, in Riv.dir. comm., 1918, II, 486; Cass., 21 marzo 1927, in Riv. dir. comm.,1927, II, 621 con nota di Albertario; Cass., 19 dicembre 1931, in Foro it., 1932, I, 404; Cass., 9 luglio 1940, in Giur. it., 1941, I, 1, 85; Cass., 17 marzo 1941, n. 713, in Foro it., 1941, 155; Cass., 6 febbraio 1946, in Riv. dir. comm., 1946, II, 197. Tale orientamento è stato superato a partire da Cass., 18 gennaio 1951, n. 141, in Giur. it., 1952, I, 1, 29; Cass., 14 giugno 1956, n. 2069, in Foro it., 1956, I, 1, 1582; Cass., 22 luglio 1966, n. 2003, in Giust. Civ., 1966, I, 2136; Cass., 7 settembre 1979, n. 4045, in Giur.it, 1978, I, 1, 796; Cass., 2 gennaio 1997, n. 8, in Corr. Giur., 1997, 5, 556 nota di Rolfi; Cass., 4 dicembre 2007, n. 25289 in Mass. Giur. It., 2007; Cass. 11 marzo 2010 n. 5888, Cass. 26 febbraio 2014 n. 4572, Cass. 15 ottobre 2018 n. 25673,
Autorevole dottrina rileva che il principio di tipicità concerne anche i casi in cui venga costituito un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter. Tale vincolo è reale perché inerente alla cosa, opponibile – una volta trascritto – agli aventi causa a titolo particolare, purché previsto nel limite massimo di novanta anni o della durata della vita dei beneficiari. E. del Prato, Uso esclusivo permanente in favore di un condomino e tipicità dei diritti reali, cit.
[9] Si ricordano i già citati F. Romano, Diritto e obbligo, cit., 70; D. Messinetti, Oggettività giuridica delle cose incorporali, cit., 126; P. Vitucci, Autonomia privata, numero chiuso dei diritti reali e costituzione convenzionale di servitù, cit., 855 ss.; M. Costanza, Numerus clausus dei diritti reali e autonomia contrattuale, cit., 424 ss.; Id., Il contratto atipico, cit., 169 ss.
[10] Di contrario avviso, R. Triola, Il c.d. diritto di uso esclusivo di parti comuni, cit., 509; secondo cui: «Né si potrebbe sostenere che le parti hanno inteso costituire il diritto reale d’uso di cui all’art. 1021 c.c. e che ai sensi dell’art. 1419, comma 1, c.c. si dovrebbe considerare nulla solo la clausola relativa alla perpetuità del godimento esclusivo, per due ordini di ragioni. In primo luogo, in quanto occorrerebbe dimostrare che le parti avrebbero comunque concluso il contratto senza la clausola nulla. In secondo luogo, il contratto, come modificato dalla eliminazione della clausola relativa alla perpetuità dell’uso, sarebbe ugualmente nullo, in quanto il contenuto del diritto sarebbe divergente da quanto previsto nell’art. 1021 c.c., in base al quale l’uso si sostanzia nel diritto, per il soggetto titolare, di servirsi di una cosa (e se fruttifera di raccogliere i frutti) per quanto occorre ai bisogni suoi e della famiglia, nel contratto in questione, invece, l’uso esclusivo sarebbe in funzione del miglior godimento di una unità immobiliare in proprietà esclusiva, senza alcun riferimento ai bisogni del titolare e della sua famiglia.»
[11] In questo senso anche E. del Prato, Uso esclusivo permanente in favore di un condomino e tipicità dei diritti reali, cit.
In realtà, al di là delle criticità emerse in ordine alle conclusioni addotte dalla Corte, ciò che non sembra potersi condividere è la qualificazione stessa del diritto di uso esclusivo come diritto reale atipico.
Si ritiene, invece, che il diritto di uso esclusivo a favore di un condomino – con ciò intendendosi il diritto perpetuo, trasferibile ad eredi e aventi causa, di godere di una porzione appartenente all’area comune - possa ragionevolmente ricondursi ad un diritto reale già previsto dal legislatore.
Si procederà per gradi, vagliando le ipotesi da escludersi e quelle, invece, da accogliersi.
Al riguardo, è da escludersi una qualificazione del diritto in esame come di un diritto di uso[1] ex art. 1021 c.c., dal momento che mancherebbe la perpetuità del diritto, in quanto destinato ad estinguersi con la morte dell'usuario (artt. 1026 e 979 c.c.); così come difetterebbe la cedibilità (art. 1024 c.c.).
Del pari, non può considerarsi utile il richiamo al diritto di usufrutto[2]. Anche in questo caso, mancherebbe la perpetuità del diritto, perché destinato a venire meno con la morte dell'usufruttuario (art. 979 c.c.). Inoltre, non sarebbe trasferibile mortis causa, estinguendosi con la morte del suo titolare. Mentre, sarebbe cedibile tramite atti inter vivos, ma con limiti di durata: l’art. 980 c.c. consente la cessione del diritto di usufrutto «per un certo tempo o per tutta la sua durata», dunque, al massimo, per tutta la vita dell’usufruttuario.
Escluse le due precedenti ipotesi – dell’uso e dell’usufrutto – si ritiene possano invece accogliersi le seguenti.
Se l’interpretazione del contratto lo consenta, potrebbe trattarsi di un vero e proprio trasferimento della proprietà. La porzione di cortile diverrebbe, così, pertinenza di proprietà esclusiva del condomino. Il diritto sarebbe opponibile ai terzi; perpetuo; trasferibile sia per atto inter vivos che mortis causa, anche indipendentemente dal trasferimento dell’unità cui accede. In questo caso è necessario il consenso di tutti i condomini al trasferimento della porzione di parte comune al condomino.
Se, invece, il contratto non consente l’interpretazione appena presa in considerazione, si tratterà di valutare se la costituzione del diritto in esame possa essere qualificato come servitù prediale[3]. Bisogna, a tal fine, valutare se il vantaggio attribuito al fondo dominante, consistente nel godimento esclusivo di una porzione di cortile, sia tale da non svuotare di contenuto sostanziale il diritto di proprietà del fondo servente.
Si deve tenere a mente la premessa secondo cui la proprietà del fondo servente si considera un mero «simulacro» quando la conformazione della servitù si traduce in un «diritto di godimento generale del fondo servente».
Alla luce di ciò, appare ben ragionevole concludere nel senso che se il godimento esclusivo costituito in favore del fondo dominante è imposto sull’intero fondo servente, non si può ritenere validamente costituita una servitù prediale; mentre, se il godimento attribuito in favore del fondo dominante di un condomino inerisce ad una singola porzione del fondo servente, allora potrà ricondursi all’istituto delle servitù prediali.
Ancora, non è d’ostacolo a tale classificazione il principio nemini res sua servit, il quale trova applicazione solo quando un solo soggetto è titolare sia del fondo servente che di quello dominante, non quando il proprietario del fondo dominante sia comproprietario del fondo servente.
Ultimo requisito affinché possa dirsi validamente costituita la servitù prediale di uso esclusivo di una porzione di cosa comune, si rinviene nella necessaria conformità del contenuto di questo diritto alla destinazione del bene cui inerisce.
La riconduzione del diritto di uso esclusivo alle servitù[4], oltre ad evitare che si configuri una ipotesi di nullità per inconfigurabilità dell’oggetto ex artt. 1346 e 1418, co. 2 c.c. – garantendo, dunque, la conservazione di tutti gli autoregolamenti che tale diritto abbiano previsto – mantiene ferma la natura «comune» del fondo servente, qualificandosi come esclusivo solo il godimento di una sua frazione.
Ne escono perfettamente contemperati gli interessi individuali incidenti sulle cose comuni, da un lato, e l’interesse comune[5] del condominio, dall’altro. Si assicura, infatti, il contestuale - benché non paritario - godimento della cosa comune.
Così configurato, il diritto di uso esclusivo a favore di un condomino mantiene i requisiti di opponibilità erga omnes, di perpetuità, nonché di cedibilità, a condizione che, però, assieme alla servitù sia ceduto anche il fondo cui essa inerisce.
Se manca uno solo dei caratteri ora individuati, il rapporto eventualmente costituito esplicherà solo meri effetti obbligatori, purché vi siano i presupposti della conversione sostanziale di cui all’art. 1424 c.c.
[1] Sul diritto di uso, G. Pugliese, Abitazione e uso, in NN.D.I., I, Torino, 1957, 57; Id., Usufrutto, uso e abitazione, in Tratt. dir. civ. diretto da F. Vassalli, Torino, 1972, 816; A. Quaranta e R. Preden, Superficie, enfiteusi, usufrutto, uso e abitazione. (Art. 952-1026), in Comm. teorico-pratico al c.c., diretto da V. De Martino, 1972; F. De Martino, Dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione, in Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 978-1026, Bologna-Roma, 1978, 352; L. Bigliazzi Geri, Usufrutto, uso e abitazione, Milano, 1979; G. Palermo, L’uso e l’abitazione, in Tratt. dir. priv. diretto da P. Rescigno, 8, Torino, 1982, 143; M. Trimarchi, Uso (diritto di), in Enc. dir., XLV, 1992, 922; G. Musolino, Uso, abitazione e servitù irregolari, Bologna, 2012.
[2] Sul diritto d’usufrutto, P. E. Bensa; Corso di diritto civile tenuto nell’Università di Genova, Dell’usufrutto (lezioni dell’anno accademico 1923-1924, raccolte da Federici e Pertusio), Genova, 1924; A. Cicu, Diritto civile. Dell’usufrutto (lezioni dell’anno accademico 1924-1925), Bologna, 1925; G. Venezian, Dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione, vol. I, a cura di G. Osti, Napoli-Torino, 1931; vol. II, a cura di F. Maroi, Napoli-Torino, 1936; L. Barassi, I diritti reali limitati, Milano, 1937; D. Barbero, L’usufrutto e i diritti affini, Milano, 1952; G. Pugliese, Usufrutto, uso e abitazione, cit.; F. De Martino, Dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione, cit.; L. Bigliazzi Geri, Usufrutto, uso e abitazione, cit.; A. De Cupis, Usufrutto (diritto vigente), in Enc. dir., XLV, 1992, 1111; G. Bonilini (a cura di), Usufrutto, uso, abitazione, Torino, 2010.
[3] Passando in rassegna le varie figure di diritto reale tipizzate dal legislatore, nonché le ricostruzioni giurisprudenziali volte a precisarne i tratti peculiari, appare evidente che, tramite l’istituto delle servitù prediali, è possibile per il privato servirsi di un ampio margine di autonomia privata: le servitù, infatti, non sono individuate sulla base di un particolare contenuto, bensì per il fatto di imporre un peso sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo, appartenente a diverso proprietario. Se, invece, la limitazione alla proprietà di un fondo altrui è imposta per il beneficio di una persona, si costituisce una servitù cd. irregolare, ovverosia un rapporto di natura obbligatoria. L’utilitas, consistente nell’oggettivo e diretto vantaggio che il fondo ricava dalla servitù, va distinta, dunque, dai vantaggi soggettivi-individuali.
Sulle servitù vi è immensa letteratura, P.E. Bensa, Delle servitù prediali, cit.; L. Barassi, I diritti reali limitati, cit.; F. Messineo, Le servitù, Milano, 1949; D. Barbero, Tipicità, predialità e indivisibilità nel problema dell’identificazione delle servitù, cit.; B. Biondi, Le servitù, cit.; A. Burdese, Le servitù prediali, Milano, 1960; G. Grosso e G. Deiana, Le servitù prediali, cit.; P. Vitucci, Utilità e interesse nelle servitù prediali, cit.; G. Branca, Servitù prediali, cit.; M. Comporti, Servitù (dir. priv.), in Enc. Giur., XLII, 1990, 285; R. Triola, Le servitù prediali, cit.
[4] In questo senso, E. del Prato, Uso esclusivo permanente in favore di un condomino e tipicità dei diritti reali, cit.: «La servitù è insieme affermativa e negativa perché esclude alcune fruizioni da parte degli altri comproprietari. Permangono in capo a questi ultimi le facoltà di godimento che non collidono con l’esercizio della servitù (ad es. il passaggio); il proprietario del fondo dominante, in quanto comproprietario di quello servente, soggiace a tutti gli altri limiti posti a carico dei comproprietari.»
[5] Pur se con riguardo alla comunione, si veda E. del Prato, I regolamenti privati, cit., 83, ove si legge che «L’interesse comune, in quanto caratteristica del rapporto comproprietario e limite del godimento di ogni partecipante alla comunione, costituisce il presupposto ed il parametro cui rapportare le clausole limitatrici dell’uso della cosa».