L’autore approfondisce lo schema normativo dell’art. 177, lett. A), c.c. e si propone di identificare la posizione del coniuge non agente co-acquirente rispetto al contratto stipulato dal coniuge agente. Ripercorre, dunque, le diverse possibili dinamiche attraverso cui l’effetto contrattuale si produce anche nella sfera del conuuge acquirente non contraente. Lo studio ricostruisce la struttura <<dell’interesse familiare>> attraverso l’analisi del tessuto codicistico.
The author analyses the legal framework of civil code's Article 177(b) (A) and aims to identify the position of the non-agent co-buyer spouse in relation to the contract concluded by the agent spouse. Therefore, the autor trace the different possible dynamics through which the contractual effect also occurs in the sphere of the non-Contracting buyer. The study reconstructs the structure of the <<family interest>> by analysing codicystic tissue.
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Ercole Trerotola - Comunione legale e parte contrattuale. Spunti critici. La posizione del coniuge non agente co-acquirente rispetto all’atto stipulato dal consorte (art.177, lett. A, c.c.)
1. Profilo del fenomeno e orientamenti della dottrina. - 2. Cenni e rinvio. - 2.1. La relatività del contratto e la concezione codicistica di terzo acquirente per effetto del contratto. Prime osservazioni critiche. - 3. Genesi storica e analisi delle tendenze giurisprudenziali in tema di rifiuto al co-acquisto (Cass. 2688/1989; 1917/20000; 2954/2003). Gli acquisti personali in regime di comunione legale (Cass. 19250/2004; Sez. Un. 22775/2009). Si deve ammettere che il dibattito intorno ai limiti di ammissibilità del rifiuto unilaterale di un bene della comunione interferisce logicamente e giuridicamente con la problematica intorno alla posizione del coniuge non agente co-acquirente. - 4. Effetti distorsivi di una nozione univoca di «terzo» nella identificazione della posizione del co-acquirente. Avvertita è l’esigenza di un approfondimento teorico della nozione di terzo da cui far emergere due distinti atteggiamenti del terzo (destinatario degli effetti [diretti] del contratto e destinatario delle conseguenze del contratto [effetti indiretti]). - 5. Profili evolutivi dei modelli giuridici. Note critiche. Teoria dell’acquisto ex lege. Necessità di ricercare una terza proposta alternativa alle opzioni che identificano il coniuge non agente in posizione di terzo acquirente negoziale o terzo acquirente per effetto della legge. - 6. La duplice funzione contributiva e distributiva della comunione legale nella spiegazione della posizione del coniuge non contraente. - 7. (Segue) Necessità di distinguere, sul piano concettuale e teleologico, l’efficacia estensiva dalla funzione distributiva della comunione legale. - 8. Conclusioni. Analisi e dinamica giuridica delle situazioni soggettive. Critica alla teoria «efficacia estensiva della comunione legale» e riaffermazione del principio di personalità del consenso. Decisiva è, ai fini della soluzione prospettata, la distinzione tra «acquisto per effetto riflesso» e «acquisto per efficacia estensiva». Analisi della struttura giuridica dell’interesse familiare nella spiegazione del co-acquisto. Il problema della responsabilità civile del non contraente.
L’importanza cui è destinata la posizione del coniuge non agente co-acquirente ex art. 177, lett. a), c.c. è sottolineata dai numerosi contributi al tema.
La norma imputa alla comunione legale gli acquisti compiuti separatamente dai coniugi in costanza di matrimonio, attribuendo al consorte non agente la comproprietà del bene per il solo fatto di essere in regime legale. Giustificata dalle esigenze cui andava incontro il legislatore riformista[1], la fattispecie implica problemi ai quali non è ancora stata data una spiegazione capace di conciliare le opposte tendenze della dottrina e i dubbi, come si dirà, sono stimolati dal modo in cui è articolata l’attribuzione del al coniuge non agente, non dovendosi discutere della comunione dell’acquisto stipulato dall’un coniuge, aspetto già risolto dal legislatore (art. 177 c.c.), ma della posizione del coniuge non agente rispetto all’atto concluso dal consorte. Insomma, il problema non è l’effetto (cioè l’acquisto del non agente), ma il modo attraverso cui esso si realizza, e, dunque, la dinamica giuridica attraverso cui si evolve l’effetto acquisitivo in favore del non contraente.
Prima dei prossimi rilievi è preferibile, quindi, accennare da subito alla duplice opzione con cui la dottrina, attraverso differenti percorsi esegetici, spiega il fenomeno ex art. 177, lett. a), c.c. e in cui trovano risposta alcune questioni pratiche più volte sollevate dalla giurisprudenza[2]: il coniuge non contraente co-acquirente sarebbe parte sostanziale[3] o terzo acquirente[4]. Nondimeno, tale ultima dottrina, pur connotando il fenomeno ex art. 177, lett. a), c.c. come effetto legale, afferma, in linea con lo schema di contratto previsto all’art. 1411 c.c., una sostanziale analogia tra l’acquisto del coniuge non agente e l’acquisto del terzo[5]. Le due posizioni (terzo acquirente ex lege e terzo acquirente negoziale) differiscono, tuttavia, almeno sotto un duplice profilo: al di là della differente tipologia dell’acquisto, legale o negoziale, che si vedrà essere uno degli aspetti di maggiore interesse, l’appunto degno di nota attiene all’autonomia privata nel cui ambito, come si potrà notare, maggiore è la libertà del terzo acquirente per effetto del negozio rispetto al coniuge comunista.
Orbene, prima di illustrare le coordinate di una rilettura del fenomeno co-acquisitivo, che nella giurisprudenza più attuale (in part. Cass. 1917/2000) ha già visto una prima tendenziale affermazione, è opportuno anticipare i temi di maggiore interesse che persuadono dell’opportunità di un’inversione di tendenza. Del resto, gli spunti provenienti dall’imponente letteratura sul tema e le argomentazioni che la più recente civilistica ha portato a spiegazione del fenomeno suggeriscono una trattazione più analitica della problematica implicata.
[1] In particolare l’esigenza di indirizzare il rapporto coniugale nel senso della diarchia nelle scelte familiari.
[2] È il caso del litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c. nella causa di annullamento del contratto stipulato dall’un coniuge; la giurisprudenza esclude, a riguardo, che il coniuge non contraente co-acquirente, non essendo parte del contratto ma beneficiario ope legis, possa essere litisconsorte necessario nel giudizio di annullamento del contratto (in tal senso, Cass. 29 ottobre 1992, n. 11773, in Dir. giust. agraria dell’ambiente, 1993, II, p. 355; Cass. 17 ottobre 1992, n. 11428, in Giust. civ. Mass., 1992, fasc. 10; idem, per esteso in Juris data, Giuffrè).
Ma sul tema merita d’essere segnalato l’opposto atteggiamento della giurisprudenza prevalente (anticipato da Trib. Potenza, 7 dicembre 1989, in Dir. fam., 1990, p. 1289) che, non senza ragioni d’ordine processuale, ritiene di porre in relazione la necessità del litisconsorzio del coniuge non agente all’effetto prodotto dall’atto di cui si chiede l’annullamento piuttosto che alla posizione giuridica rispetto ad esso del coniuge non agente. Nello stesso senso e con le medesime argomentazioni è stata prospettata da Cass. 29 luglio 1995, n. 8341 ( in Giust. civ., 1995, I, p. 2622) la qualità di litisconsorte necessario del coniuge non agente nel giudizio di riscatto iniziato dall’avente diritto alla prelazione, dovendo anche il coniuge rimasto estraneo all’atto, subire l’effetto della privazione del bene ad opera del riscattante. Tale orientamento è confermato da Cass., Sez. Un. 1° luglio 1997, n. 5895, in Giust. civ., 1998, I, p. 483.
Non manca nella dottrina chi (G. OBERTO), in tema di legittimazione passiva e litisconsorzio necessario, ritiene doversi distinguere tra carattere reale e personale dall’azione, riconoscendo una situazione di litisconsorzio necessario tra i coniugi per le prime, negandolo, invece, per le seconde ove non travolgano l’effetto traslativo.
Si pensi ancora, tra gli argomenti in discussione, alla legittimazione per il coniuge non agente di chiedere la trascrizione dell’acquisto; se compete al coniuge non agente l’azione di responsabilità contro l’alienante – A. e M. FINOCCHIARO. invocano il principio dell’apparenza del diritto per non sottrarre ai terzi la legittimazione ad agire contro il coniuge non agente –; alla possibilità di invocare contro il coniuge non agente l’obbligo di pagare il corrispettivo. In dottrina T. AULETTA, op. cit., p. 44-46, i cui rilievi hanno trovato sensibile la giurisprudenza, anche di legittimità. Per la giurisprudenza di merito cfr. Trib. Trento, 11 giugno 1987, in Giur. mer., 1988, p. 762, con nt. di M. FINOCCHIARO; minutamente Trib. Matera, 26 novembre 1981, in Corti Bari, Lecce, e Potenza, 1983, p. 43, con nt. di M. F. PANETTA. Di specifico interesse è la dottrina – P. SCHLESINGER, G.Cian-A.VillanI, T. Auletta, A. Galasso, M. Tamburiello – secondo cui il coniuge non agente non può essere considerato parte negoziale ma neppure terzo secondo lo schema generale di questa figura (art. 1411 c.c.); ad esso, pertanto, potranno essere opposte tutte le vicende contrattuali successive.
[3] Meritevoli di segnalazione sono le osservazioni di F. SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia. Il regime patrimoniale della famiglia, in Comm. cod. civ., I, 1, Torino, 1983, p. 172, per il quale il coniuge non contraente è «parte sostanziale»; M. COMPORTI, Gli acquisti dei coniugi in regime di comunione legale, in Riv. Not., 1979, I, p. 46; G. DE RUBERTIS, L’acquisto immobiliare compiuto da uno solo dei coniugi in regime patrimoniale dei coniugi, in Rass. dir. civ., 1986, p. 878, secondo cui l’acquisto del non contraente è un normale effetto del contratto, limitandosi la legge a deviare l’acquisto nel patrimonio del non agente. Tale insegnamento, che si vedrà essere un riferimento costante sulla controversa posizione del coniuge non contraente, non può essere avulso dal dibattito, tuttora in corso, sulla natura giuridica dell’effetto integrativo del contratto, cui delle due proposte, senz’altro coerente con il dettato ex art. 1374 c.c. in cui è scritto che «Il contratto obbliga le parti … a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge …». La disposizione in parola riproduce una ipotesi di eterointegrazione che si colloca nella fase di formazione del negozio e non di produzione degli effetti. La norma, quindi, integra il contenuto del negozio (piuttosto che gli effetti) e di esso è parte necessaria.
Il modus e il tempus operandi della norma sono sintomatici dell’atteggiamento della legge, che resta fonte dell’effetto, né autorizzano, tali modalità, a degradare la legge dal rango di fonte a mera disciplina giuridica. Ciò implica una perfetta interazione tra legge (con funzione suppletiva) e autonomia privata (incompleta), e svolgendo la norma, in tal caso, una funzione integrativa e completiva del regolamento contrattuale lasciato incompleto dalle parti, si deve ammettere che le «conseguenze» del contratto integrato, cui le parti sono soltanto obbligate, hanno carattere legale e non negoziale.
[4] G. ALTIERI, Note sulla posizione del coniuge rispetto al negozio posto in essere dal consorte in regime di comunione legale, nota a lodo arbitrale 27.3.1993, in Rass. giur. Sar., 1994, I, p. 434 ss.; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in genere. La comunione legale, in Trattato dir. civ. comm., diretto da CUCU e MESSINEO, VI, I, 1, Milano, 1979, p. 68,; G. CIAN-A. VILLANI, Comunione dei beni tra coniugi (legale e convenzionale), in Nov. Dig., II, Torino, p. 157 ss.; T. AULETTA, Trattato di Diritto Privato, Il Diritto Di Famiglia, t. II, Torino, 2000, p. 39-53; V. DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, Milano, 2002, II, p. 498 ss. Su questa stessa linea sono A. FINOCCHIARO e M. Finocchiaro, Diritto di Famiglia, Milano, 1984, p. 870 e p. 1002. Ma le incertezze della dottrina sono ancora più evidenti in chi – P. Schlesinger, Commentario, 1992, t. 3, p. 92 – contesta al co-acquirente non agente la qualità di parte del negozio e finanche di beneficiario in via negoziale; cfr. anche E. GIUSTI, L’amministrazione dei beni della comunione legale, Milano 1989, p. 117.
[5] In tal senso, autorevole è l’opinione di T. AULETTA, op. cit., p. 44. Preme affrontare questo aspetto, avendo la dottrina successiva alla riforma del ’75 illustrato l’acquisto del coniuge non agente in chiave di efficacia estensiva della comunione, fenomeno che, ex lett. a) dell’art. 177 c.c., assolverebbe a una funzione dilatatoria della normale efficacia dell’atto separato. Il lungo percorso interpretativo della Corte Suprema se non ancora autorizza a dissolvere tale resistente teorema sembra, tuttavia, invitare a un ripensamento del modulo in cui finora è immaginata la lett. a) dell’art. 177 c.c. (infra, par. 6 e 7).
La teoria preferibile – tra gli altri, Majello, Masiello – configura il contratto a favore del terzo come un tipo ordinario di contratto munito di una clausola accessoria che devia gli effetti nel patrimonio del terzo. Il destinatario degli effetti, nel pensiero più attuale della dottrina, dispone di un vero e proprio diritto alla prestazione, potendo persino pretenderne l’esecuzione[1]; non è soggetto contraente, né parte sostanziale (cioè soggetto del rapporto giuridico), assicurando la norma (art. 1411 c.c.) la sola titolarità del diritto e, quindi, garantendo il terzo in una prospettiva essenzialmente patrimonialistica, evitandone ogni coinvolgimento nella responsabilità e nei doveri contrattuali. Non essendo concesso nel nostro ordinamento il contratto a carico altrui[2], il destinatario, nell’ottica appena delineata, è null’altro che un beneficiario del contratto.
Sulla scorta di tale prevalente teoria, la dottrina di settore esclude che, ex art. 177, lett. a), c.c., possa stabilirsi un rapporto tra l’atto separato e la volontà del coniuge non agente, in tal modo confermando la posizione di terzo acquirente del non contraente. Per questa essenziale ragione, la norma, nel corso degli anni, è stata considerata una eccezione legale al dogma della relatività del contratto sancito all’art. 1372 c.c., riproducendo essa uno schema analogo al modulo previsto all’art. 1411 c.c.[3]. Questa diffusa convinzione non può essere accolta per essere l’acquisto in favore del non contraente autonomo dalla volontà del coniuge agente[4] e non dovendo quest’ultimo imprimere alcuna direzione all’effetto negoziale[5], in ciò diversificandosi dall’acquisto del terzo. Il contraente, infatti, se si dovesse dare una spiegazione pratica del fenomeno co-acquisitivo, non ha un dovere di informazione circa i destinatari dell’acquisto, sebbene la prassi notarile imponga al contraente la comunicazione del regime patrimoniale vigente. Tale dovere grava, semmai, a carico del coniuge che, in regime di comunione legale, intenda acquistare per sé e non anche per il coniuge[6].
Per la insostituibile funzione contributiva[7] della comunione legale, i cui automatismi presumono iuris et de iure l’uguale apporto dei coniugi all’esborso del corrispettivo contrattuale, la ricostruzione proposta dalla dottrina non può essere condivisa[8]. Il non contraente, per il solo fatto di essere coniuge in regime di comunione legale, è assoggettato ipso iure agli automatismi del sinallagma contrattuale, non potendo sottrarsi ad essi se non per le ipotesi di acquisti personali del coniuge contraente (art. 179 c.c.)[9].
Si deve ammettere che un tale rilievo denota un insuperabile contrasto con la fattispecie ex art. 1411 c.c. in cui il terzo acquirente, in quanto non contraente, non entra nel sinallagma contrattuale, non essendo esposto ad alcun sacrificio per il conseguimento dell’acquisto[10].
Ciò posto e scrutando ancora in ambito contrattuale, si deve ulteriormente osservare che il terzo, per il generale principio della intangibilità delle sfere private altrui, è libero di non acquistare (art. 1411, 3° comma, c.c.), e il suo rifiuto – recte, rinunzia[11] – non esige giustificazioni[12] (perciò, rifiuto ad nutum) scaturendo la volontà di non acquistare da un insindacabile giudizio personale[13].
[1] In tema, A. PALAZZO, Contratto a favore di terzo e per persona da nominare, in Riv. dir. civ., 1991, II, p. 178, nota a Cass. 27 marzo 1985, n. 2155; ancora T. AULETTA, op. cit., p. 45. Il diritto alla prestazione è riconosciuto al terzo in quanto legato all’interesse del creditore di cui all’art. 1174 c.c. oltre che all’interesse del contraente ex art. 1322 c.c.
[2] Ovvero un contratto che produca oneri diretti per il non contraente.
[3] Sia consentito rinviare a E. TREROTOLA, Il rifiuto al co-acquisto in regime di comunione legale dei beni; il principio della relatività, in Giur. Mer., 1993, IV, p. 250 ss. Muovendo da questi rilievi e non potendo gli effetti prodursi oltre la sfera giuridco-soggettiva delle parti del contratto, si deve da subito precisare che per relatività contrattuale deve intendersi relatività degli effetti del contratto e non relatività del contratto, che, invece, sappiamo essere opponibile ai terzi (esperite le necessarie formalità).
[4] Diversificandosi, sotto tale profilo, dall’acquisto del terzo ex art. 1411 c.c. che è conseguenza diretta e immediata della volontà dello stipulante.
[5] Siffatte circostanze potrebbero persino rafforzare la tesi che immagina il coniuge non agente in posizione di terzo acquirente negoziale se l’attribuzione al coniuge non contraente fosse giustificata facendo appello allo schema preferito dalla dottrina civilistica – ancora MESSINEO e MAJELLO -. Si afferma, a riguardo, che accanto alla causa interna del contratto ex art. 1411 c.c. - indicata come causa variabile - assorbendo il modulo contrattuale previsto dalla norma la causa del contratto che in concreto è stipulato, esiste una causa esterna ad esso attinente i rapporti tra stipulante e terzo acquirente. Per la dottrina di settore questa causa rappresenterebbe un motivo rispetto al contratto a favore del terzo, irrilevante ai fini della disciplina giuridica tant’è che il regime delle eccezioni regolato dal codice civile (art. 1413 c.c.) consente al promittente di opporre al terzo le eccezioni fondate sul contratto (da cui il terzo deriva il suo diritto [ad es. per inadempimento dello stipulante]) ma non le eccezioni fondate sui rapporti tra promettente e stipulante (come può essere per la compensazione). Per questa teorica, l’acquisto del coniuge non contraente rientrerebbe, quindi, nella cosiddetta causa esterna del contratto rappresentata dalla scelta dei coniugi di dare ai loro rapportipatri-matrimoniali una impronta comunitaria. Soluzione, questa, a cui è possibile pervenire identificando la comunione legale con quei rapporti esterni al contratto intercorrenti tra i coniugi (contraente e non contraente) che la civilistica qualifica come motivi di attribuzione in favore del non contraente.
[6] E sul punto si rinvia ai rilievi di Cass. 19259/2004, in Fam., pers., succ., Torino, 2005, p. 437, con nota di E. TREROTOLA-P. MARTORANO. Tendenza confermata dalle Sez. Un. 22775/2009; Cass. Ord. 24719/2017.
[7] Sul cui controverso profilo si rinvia al par. 7.
[8] Promuovendo la comunione dei beni a regime legale, il legislatore riformista ha inteso favorire il profilo comunitario e partecipativo dei coniugi alle ricchezze post nuptias, non potendo riservare le fortune acquisite al solo coniuge che le avesse procurate se non ignorando l’apporto (diretto, indiretto e persino morale) dell’altro coniuge. Attraverso una valutazione economica dei contributi coniugali all’interno della famiglia si è così posto fine ad una sorta di sperequazione tra coniugi in danno del consorte meno fortunato ma ugualmente impegnato nel sostentamento della famiglia. Orbene, pur chi non accetta una tale spiegazione teorica deve prendere atto di questa anomalia rispetto alla fattispecie contemplata all’art. 1411 c.c. E quantunque tal genere di obiezione non permette analogie tra il coniuge non agente co-acquirente, pur sempre esposto, come ancora si dirà, ad un sacrificio economico per l’acquisto, e il terzo acquirente per effetto del negozio, immune dalle obbligazioni ex contractu, l’accennata obiezione neppure rafforza la dottrina che ne sostiene la posizione di acquirente per effetto della legge, essendo l’acquirente ex lege esposto ad oneri connessi all’acquisto diversi dalle obbligazioni in senso tecnico.
[9] E sul punto, da ultimo, cfr E. TREROTOLA-P. MARTORANO, Sulla partecipazione negoziale del coniuge non acquirente in regime di comunione legale, in Fam., pers. succ., Torino, 2005, 6, p. 437 ss.
[10] Per questa ragione la dottrina unanime esclude che l’acquisto del non contraente possa configurare una ipotesi di acquisto a titolo gratuito.
[11] Rilevando dall’impianto della norma una ipotesi di rinunzia piuttosto che di rifiuto (come, invece, secondo il dato normativo), la dottrina ha corretto il lessico legislativo essendo il contratto a favore del terzo l’unica ipotesi contrattuale produttiva di effetti diretti e immediati nel patrimonio del terzo destinatario e non necessitando il modulo ex art 1411 c.c., almeno nella fase immediatamente esplicativa, della cooperazione del terzo.
[12] Il terzo che non vuole profittare della stipulazione deve emettere una dichiarazione immotivata di rinunzia agli effetti. Non è dubbio che la norma (art. 1411, 3° comma, c.c.) sia giusta fonte di una illimitata autonomia del terzo, la cui posizione risulta connotata da una compiuta libertà giuridica.
[13] A tale ultimo rilievo era ispirato il commento più incisivo della Corte (2688/1989) nel sostenere la negoziabilità della destinazione (coniugale o esclusiva) dei beni, non potendo il coniuge, disponendo di una piena autonomia privata, essere obbligato ad acquistare neppure da un regime normativo (e cioè la comunione legale). Sul punto si rinvia alle osservazioni di T. AULETTA, op. cit., p. 44 e 49.
Si tratta, come è facile intuire, di una valutazione analitica delle ipotesi codicistiche (art. 177, lett. a), e art. 1411 c.c.) che consideri non soltanto l’effetto giuridico (e cioè l’acquisto in favore del soggetto non contraente [coniuge e terzo]), ma che sia altresì coordinata da una indagine da cui emergano le divergenze strutturali delle due fattispecie.
La seconda delle due notazioni è il presupposto più concreto alla nuova tendenza giurisprudenziale (Sez. Un. 1917/2000; Cass. 2954/2003) che, innovando l’indirizzo previgente (Cass. 2688/1989), vincola la irrifiutabilità degli acquisti da parte del coniuge non contraente alla immutabile destinazione di essi[1]. Per spiegare tale più recente e, secondo noi, condivisibile atteggiamento della Corte, è necessario precisare i contenuti teorici della precedente posizione del giudice della legittimità che, nella storica sentenza 2688/1989[2], consacrava una autonomia privata dei coniugi capace di ridurre l’oggetto del regime legale[3]. E del resto, la posizione del coniuge non agente, che ha stimolato la dottrina ultraventennale, è, come si dirà, tema connesso alla densa problematica, sviluppatasi nel corso dell’ultimo ventennio, circa i limiti di ammissibilità del cosiddetto «rifiuto al co-acquisto»[4], e cioè la volontà dell’un coniuge di non acquisire al patrimonio comune un bene tipicamente coniugale[5]. È facile immaginare che i due argomenti (la posizione del co-acquirente non agente e il rifiuto all’acquisto separato) finiscono per interferire sui limiti all’autonomia privata dei coniugi in comunione legale, dovendosi, nell’uno e nell’altro caso, accertare sia l’ampiezza della potestà dell’un coniuge che i diritti del singolo che sopravvivono al regime patrimoniale legale[6].
Confermato il carattere pubblicistico sotteso alla comunione legale, il Collegio afferma l’autonomia della destinazione personale del bene dalla volontà dei coniugi[7] ed estende, altresì, questa statuizione alla destinazione coniugale degli acquisti[8], anch’essa svincolata dalla autonomia privata[9].
Corollario dell’assunto secondo cui il carattere personale o coniugale del bene deriva dai presupposti legali (artt. 177 e 179 c.c.) e non dalla volontà dei coniugi è la incapacità del coniuge non agente di rifiutare un bene tipicamente coniugale acquistato dal consorte, non potendo esso imprimere una destinazione differente da quella dichiarata dalla legge. Condividere tale puntuale enunciato non implica accettare la posizione di terzo acquirente negoziale del coniuge non agente, non potendo il terzo, come invece il coniuge, essere obbligato ad acquistare in conseguenza del contratto.
Tracciate le direttrici essenziali della critica all’indirizzo della Corte (2688/1989) che sosteneva la rifiutabilità del co-acquisto, è ora utile ripercorrere, seppure brevemente, le ragioni che hanno incoraggiato la giurisprudenza (19250/2004) di preferire la natura «ricognitiva» anziché «dispositiva» della dichiarazione del coniuge intervenuto nell’atto di acquisto di un bene personale del consorte ai sensi dell’art. 179, ult. comma, cod. civ.[10], ed è altresì opportuno affrontare il problema dei limiti all’autonomia dei coniugi rispetto alla destinazione di un bene acquistato in costanza di comunione legale. L’analisi dei due argomenti consentirà di comprendere il rigore con cui il legislatore riformista ha inteso disciplinare l’assetto dei circuiti patrimoniali in costanza di regime legale.
Nel tentativo di agevolare una migliore comprensione dei flussi patrimoniali all’interno della famiglia, la dottrina di settore[11], allineata all’opinione prevalente, anticipando i rilievi della giurisprudenza più recente, affermava: «Il delicato problema della regolazione del flusso degli acquisti verso i tre sacchi patrimoniali dei coniugi, è stato risolto dal legislatore ora mediante la previsione di adempimenti formali cui i coniugi debbono attenersi (art. 179, 1° comma, lett. f), e 2° co., c.c.), ora distinguendo tra acquisti avvenuti prima e dopo il matrimonio (artt.179, lett. b), e 177 c.c.), ovvero tra acquisti a titolo oneroso e acquisti a titolo gratuito (artt. 177 e 179, 1° comma., lett. b), ora dando rilievo all’uso cui il bene acquistato è destinato (art. 179, 1° comma., lett. c) e d), nonché allo status del coniuge acquirente (alla circostanza, ad es., che questi sia professionista o imprenditore: artt. 178 e 179 lett. d) c.c.)». Orbene, se, come è preferibile credere, la distribuzione della ricchezza familiare, nel vigore del regime legale, segue percorsi obbligati ed è sottratta, dunque, all’autonomia privata dei coniugi, nel solco di questa tendenza la Corte di legittimità[12], pur affermando che il coniuge in regime di comunione legale acquista in via esclusiva se sussiste (anche) il consenso del consorte non acquirente, ritiene in ogni caso – ed è questo l’assunto cui perviene il Collegio – essere insufficiente la sola dichiarazione del contraente a impedire l’ingresso del bene nel patrimonio coniugale se non risultano soddisfatte, sulla base di altre risultanze, le esigenze di certezza della esclusività dell’acquisto[13]. Nel segno di tale più recente giurisprudenza ed in linea con la complessa struttura dell’art. 179 c.c. si è così posto fine a gran parte degli equivoci sorti sul carattere (facoltativo o necessario) della partecipazione negoziale del coniuge non acquirente.
Se ora, come si è potuto osservare, la Corte Suprema non dubita dell’inefficacia della volontà dei coniugi in ordine alla qualificazione (personale o coniugale) del bene, una spiegazione ulteriore alla inefficacia del cosiddetto rifiuto al co-acquisto, che, come meglio si dirà, nella tipologia degli effetti giuridici trova un più solido sostegno scientifico, sarà utile a dissuadere quanti ancora oggi considerano il coniuge non contraente alla stregua di terzo acquirente (per effetto della legge o del negozio stipulato dal consorte)[14].
Affermato il diritto del coniuge non contraente di non acquistare, la Corte[15] accedeva a una nuova prospettiva esegetica della lett. a) dell’art. 177 c.c. E a incoraggiare il rifiuto potevano essere, a parere del Collegio, tanto il semplice convincimento della esclusività del danaro quanto la mancanza di convenienza all’acquisto e, sulla scorta di tali premesse, la dottrina pensò al tentativo del giudice della legittimità di ampliare il campo applicativo dell’ultimo comma dell’art. 179 c.c. fino a legittimare il rifiuto al co-acquisto (anche) di bene tipicamente coniugale[16]. Si osservava, tuttavia, che l’equivoco era duplice, disattendendo tale diffuso orientamento la ratio stessa della novella del ’75 in cui non soltanto la destinazione (personale o coniugale) dei beni è sottratta all’autonomia dei coniugi, ma persino la dichiarazione ex art. 179, ult. comma, c.c., costruita intorno alle specifiche inderogabilità del regime legale, ha natura non negoziale.
A oltre un ventennio da quel pronunciamento, preme riprendere le osservazioni che, se non altro, hanno il merito di aver accresciuto l’attenzione sul tema, tant’è che il settore della civilistica che si interessa al fenomeno dell’acquisto separato ex art. 177, lett. a), c.c., grazie al buon livello di approfondimento raggiunto, dispone oggi di una conoscenza ampia del tema.
Dopo un primo clamore, seguito alla sentenza 2688/1989, la Corte (Cass. 1917/00; Cass.2954/03; SS.UU. 22775/09) riporta il problema entro i vecchi canoni interpretativi, e le innovazioni di quella prima scelta si avviarono verso un graduale tramonto. Confermata la natura non negoziale della dichiarazione (c.d. escludente) del coniuge non acquirente ex art. 179, ult. comma, c.c., si afferma, infatti, l’insufficienza della volontà dell’un coniuge ad evitare l’acquisto, dovendo concorrere a tale obiettivo almeno uno dei presupposti oggettivi della norma[17]. Invero, la dichiarazione del coniuge, come già osservava parte della dottrina di settore, ha una funzione meramente ricognitiva priva di alcun effetto attributivo del diritto, mediante cui il coniuge non acquirente si limita ad attestare il carattere personale dell’acquisto (non incidendo, perciò, sulla destinazione coniugale o personale del bene).
Va già detto che i rilievi della più recente giurisprudenza vanno senz’altro condivisi. E invero, il tentativo del Collegio di duplicare la dichiarazione di «esclusione», immaginandola finanche per gli acquisti coniugali, contraddiceva, non distinguendo i due fenomeni, la logica seguita dal legislatore con la novellazione del codice; una logica innovatrice sostenuta da presupposti antinomici rispetto alla consolidata tendenza orientata al riconoscimento della proprietà individuale. Con la comunione legale, invero, si affermò il principio della proprietà comune quale effetto del comune impegno dei coniugi[18].
Orbene, l’interpretazione della Corte (Cass. 1917/2000; Cass. 2954/2003), nei termini appena esposti, volge il discorso sull’annoso e più complesso problema della posizione del coniuge non agente co-acquirente rispetto all’atto separato del consorte, prospettandosi l’ammissibilità o inammissibilità del diritto di rifiutare un acquisto come sicura espressione della posizione giuridica del coniuge non agente co-acquirente. In questo senso, gli ultimi recenti interventi sul tema non passano inosservati se si tiene conto che la prevalente dottrina e la giurisprudenza pressoché costante, in evidente contrasto con la dichiarata inammissibilità del rifiuto al co-acquisto, affermano la posizione di terzo acquirente negoziale del coniuge non agente. È intuibile, allora, che i prossimi rilievi, pur attraverso le osservazioni del giudice della legittimità, si muoveranno nella direzione di obiettare questa tesi. Sostenere, infatti, che la caduta dell’acquisto nella massa comune non dipende dalla volontà dei coniugi ma dai presupposti stabiliti dal legislatore (Cass. 1917/2000) significa sottrarre al coniuge il diritto di non acquistare un bene coniugale – riconosciuto invece legittimo dalla precedente Cass. 2688/1989 – atteso che non l’autonomia privata ma la legge decide della destinazione, personale o coniugale, degli acquisti.
Da qualche anno, la più recente giurisprudenza sembra invertire l’iniziale tendenza, smentendo il ruolo di terzo acquirente del coniuge non agente ed evidenziando, piuttosto, precisi riscontri teorici in cui ricercare una spiegazione più scientifica del fenomeno co-acquisitivo. Per questa ragione, è forse opportuno ritornare sull’argomento, questa volta per affrontare taluni trascurati aspetti che, se non altro per gli sviluppi emergenti, meritano una maggiore attenzione della dottrina.
Ancor prima di argomentare in tal senso, è però utile un rapido approccio al tema storicamente dibattuto sia nel senso della rifiutabilità che della irrifiutabilità unilaterale di beni coniugali[19].
L’incapacità del coniuge comunista di rifiutare, per via unilaterale, l’acquisto stipulato dal consorte, in qualche modo anticipata da una parte della dottrina e da ultimo riconosciuta dalla Corte (Cass. 2688/1989), risponde a un assunto: i coniugi in regime legale sono vincolati a un comportamento tipizzato indisponibile alla loro volontà[20]. Un primo immediato sostegno a una tale affermazione va ricercato nell’impianto della legge di riforma da cui accertare se le norme in materia di comunione legale alterano i valori di autonomia di cui i coniugi dispongono ante-matrimonio[21]. L’estenuante dibattito di dottrina e giurisprudenza, come dimostrano anche le alterne soluzioni della Cassazione, ruota essenzialmente attorno a questo problema.
Si deve ammettere che, con la comunione legale, il legislatore della riforma non ha inteso compromettere l’autonomia negoziale dei coniugi, non essendo accettabile un sistema che, fuori dalle incapacità giuridiche previste, privasse il soggetto della propria autodeterminazione nei rapporti giuridici. In questa osservazione è racchiusa la ratio di sostegno alla norma scritta all’art. 179 c.c. Essa delimita un’area di esclusiva pertinenza del coniuge al quale riservare una sfera di autonomia in cui agire libera- mente per un interesse proprio, svincolato dagli affari coniugali. Il rilievo sintetizza l’opinione della dottrina più attuale[22] per la quale il regime legale implica una sostanziale interazione con almeno altri due impianti patrimoniali[23] e cioè la separazione dei beni ex art. 179 c.c., e la comunione de residuo, ex art. 177, lett. b) e c), c.c.[24]. Almeno per ciò che riguarda il primo, l’accertata coesistenza dei due regimi patrimoniali sottolinea il carattere non universale della comunione legale da cui dedurre uno spazio di autonomia dell’un coniuge (art. 179 c.c.) garante della personalità e della riservatezza di riconoscimento costituzionale (artt. 2 e 42 Cost).
Eppure, questa circostanza non impedisce al regime legale di modificare l’atteggiamento dei coniugi sul piano delle relazioni giuridiche, producendo la comunione legale obblighi a carico dei coniugi non solo nei rapporti interni ma persino nelle relazioni con i terzi. Sono prova di tale intrascurabile rilievo il carattere vincolante della comunione, da cui l’indisponibilità all’un coniuge dei beni coniugali fino al perdu- rare del regime patrimoniale, e la corresponsabilità del coniuge non agente ex art. 186, lett. c), c.c. per le obbligazioni di interesse familiare separatamente contratte dal consorte. Nel delineato contesto normativo il regime legale, più di ogni altro sistema patri-matrimoniale, esprime la volontà dei coniugi di condividere le vicende giuridiche ricorrenti durante il vincolo coniugale e pertinenti l’interesse familiare.
Queste osservazioni sembrano, tuttavia, avere una debole incidenza se confrontati ai rilievi emergenti dal vecchio corso della giurisprudenza[25] in cui forte era il tentativo, oggi ridimensionato dalle ultime pronunce, di generalizzare il rifiuto all’acquisto del coniuge ex art. 179, ult. comma, c.c. Si sosteneva, in particolare, la piena e incondizionata libertà dell’un coniuge di non acquistare un bene coniugale e da ciò parte della dottrina, come accade per l’ipotesi di esclusione di un bene (non coniugale) ex art. 179 c.c., ha creduto di poter prefigurare il rifiuto al co-acquisto di un bene (anche) coniugale. La tendenza iniziale della giurisprudenza di legittimità cercava sostegno in una triplice ragione, facendo osservare che:
– il rifiuto del coniuge è espressione della sua autonomia negoziale;
– nessuno può essere costretto all’acquisto di un bene;
– la scelta del regime legale non sottrae al coniuge comunista il diritto di rinunziare alla quota sul bene.
Le tre affermazioni sono espressione di principi comuni che appartengono all’autonomia privata del soggetto, ma ciò, come oggi persuasivamente espone la Corte Suprema – che considera il regime legale a misura di uno «statuto speciale» –, non esclude che i principi affermati nell’ordinamento possano soffrire eccezioni nell’ambito di quei rapporti per i quali il legislatore ha statuito regole speciali (certamente restrittive delle libertà giuridiche). E del resto, l’esigenza di intervenire con una legge ad hoc – L. n. 151/1975 – è scelta che esprime la peculiarità della materia[26]. In linea con queste scelte della dottrina si è preferito, di recente[27], optare per un contenimento del rifiuto ad acquistare entro i margini di provenienza normativa. Consentire, infatti, all’un coniuge, come era nelle aspettative del giudice della legittimità, acquisti personali oltre i limiti indicati all’art. 179 c.c.[28], ipotesi alla quale condurrebbe una generalizzazione del rifiuto, equivale a smentire il fondamento egalitario che i coniugi hanno inteso imprimere ai loro rapporti patrimoniali, nei quali il mancato acquisto dell’uno è legittimato esclusivamente dalla natura non comunitaria del diritto. Se, dunque, nell’ambito di un ordinario rapporto giuridico privato, alcun divieto impedirebbe al soggetto di rifiutare l’acquisto di un bene o una quota di esso cfr. art. 1411 c.c., vigendo lo «statuto complessivo della comunione legale»[29] – che è normative special -, non può il coniuge rifiutare l’acquisto di un bene comune. Orbene, sostenere come afferma la Corte, che la scelta del regime legale non preclude la facoltà di rinunciare all’acquisto di beni tipicamente coniugali significa compromettere gli equilibri di sostegno alla legge di riforma e, al contempo, disattendere lo spirito che accompagnò il legislatore riformista nell’affermazione del principio generale (art. 210 c.c.) della uguale ripartizione della ricchezza familiare.
Ragioni d’ordine sostanziale inficiano quella soluzione giurisprudenziale (Cass. 2688/1989), qui ripercorsa per comprendere le innovazioni che la scelta del regime legale riflette nei rapporti patrimoniali. E si è già avuto occasione di dire[30], peraltro, che carattere inderogabile della comunione legale, partecipe dell’intero impianto legislativo, va ricercato nei limiti al principio di autonomia privata che la novella del ’75 aggiunge a quelli già contenuti nella disciplina codicistica. Questo ulteriore profilo del problema consente di cogliere nell’art. 210 c.c. l’esatta indicazione dei limiti entro cui contenere l’autonomia privata dei coniugi comunisti pur fuori dallo schema legale. La norma enuclea il profilo inderogabile e cogente cui i coniugi debbono uniformarsi pur optando per una comunione di tipo convenzionale fissando, altresì, il limite minimo oltre il quale non può spingersi l’autonomia privata dei coniugi. L’art. 210 c.c., invero, ribadisce la inviolabilità del principio di uguaglianza delle quote sui beni comuni affermando la volontà del legislatore di individuare nella uguale ripartizione delle ricchezze familiari, non diversamente distribuibili, uno dei punti cardine della nuova legge[31].
[1] L’incapacità del coniuge di cambiare la destinazione personale o comune dell’acquisto è una condivisibile spiegazione normativa alla inefficacia del rifiuto, e la Corte, affermando che «l’esclusione dell’acquisto dalla comunione dipende dal realizzarsi della fattispecie legale», è fin troppo esaustiva nel puntualizzare che i coniugi nulla possono aggiungere o togliere alla classificazione, di formazione codicistica, coniugale o personale del patrimonio.
[2] Cui sia consentito rinviare ai commenti di E. TREROTOLA, Il rifiuto al co-acquisto in regime di comunione legale dei beni; il principio della relatività, in Giur. mer., 1993, IV, p. 250 ss.; ID., Il rifiuto al co-acquisto nella modificabilità convenzionale dell’oggetto della comunione legale dei beni fra coniugi, in Giur. mer., 1994, p. 748 ss.; ID., Acquisto alla comunione legale. Ancora sul rifiuto al co-acquisto dell’un coniuge. Da una opzione elastica verso una atteggiamento restrittivo della Corte Suprema, in Il nuovo diritto, 2002, fasc. 4, p. 233 ss.
[3] Va già chiarito che quella sentenza indagava una ipotesi di acquisto coniugale (art. 177 c.c.) ricaduto nella proprietà esclusiva del solo coniuge acquirente a seguito del rifiuto del consorte. Diversamente, la sentenza 1917/2000 indaga sull’acquisto personale e la natura giuridica della dichiarazione ex art. 179, ult. comma, c.c. (dichiaratamente incapace di operare una trasformazione qualificativa dell’acquisto manente matrimonio). Orbene, se nella prima sentenza si discute dei limiti di ammissibilità e configurazione del rifiuto dell’un coniuge al co-acquisto di un bene coniugale, la seconda delle due decisioni affronta il problema dell’efficacia della dichiarazione di non appartenenza del bene alla comunione resa dal coniuge non acquirente. La diversità delle due fattispecie non esclude, tuttavia, che entrambe le decisioni finiscano per incidere sul potere dei coniugi di derogare alle norme in tema di qualificazione (coniugale o personale) dei beni. Affermare, infatti, la natura ricognitiva della dichiarazione ex art. 179 c.c. (come in Cass. 1917/2000) significa smentire la natura negoziale del rifiuto (invece ammessa da Cass. 89/2688) poiché se «l’esclusione dell’acquisto dalla comunione dipende non già dall’assenso dell’altro coniuge ma dal realizzarsi della fattispecie legale» – come riferito nella più recente decisione – ciò implica che l’acquisto di un bene al patrimonio coniugale non può essere pregiudicato dalla volontà negativa di uno dei coniugi ma determinata dai presupposti legali che connotano l’acquisto come coniugale o personale.
[4] Si deve ammettere, infatti, che il dibattito intorno ai limiti di ammissibilità del rifiuto unilaterale di un bene della comunione interferisce logicamente e giuridicamente con le tematiche intorno alla posizione del coniuge acquirente non contraente. E d’altronde, non avrebbe potuto il giudice della legittimità (Cass. 2688/1989) affermare il diritto del non agente di rifiutare l’acquisto separato del consorte se non immaginandolo in posizione di terzo acquirente. In argomento, si segnala G. LAURINI, tra i primi commentatori critici della storica sentenza, (A proposito di un’originale inter - prestazione dell’ultimo comma dell’art. 179 c.c., nota a Cass. 2 giugno 1989, n. 2688, in Riv. not., 1990, II, p. 172). Tra gli altri, G. GABRIELLI-W CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, p. 3 ss.; E. QUADRI, op. cit., p. 314; F. PARENTE, Il preteso rifiuto al co-acquisto «ex lege» da parte di coniuge in comunione legale, in Foro it., 1990, I, c. 608; Per la giurisprudenza, Cass. 2 giugno 1989, n. 2688, in Giust. civ., 1989, I, p. 1997; Cass. 19 febbraio 2000, n. 1917, in Dir. proc. civ., 2000, p. 39 ss. Cass. 27 febbraio 2003, n. 2954, in Guida dir., 2003, p. 52. Per la giurisprudenza di merito, anche Trib. Catania, 14 novembre 1989, in Foro it., Rep. 1990; Trib. Parma, 28 marzo 1985; ivi, 1986.
[5] Per la posizione del dottrina circa l’ammissibilità del rifiuto ad nutum si rinvia alle note bibliografiche di T. AULETTA, Il Diritto di Famiglia, in Trattato dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, 2000, p. 39 ss.; V. DE PAOLA, Il Diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, t. II, Milano, 2002.
[6] Un ampio approfondimento del tema è in P. PERLINGIERI, I diritti del singolo quale appartenente al gruppo familiare, in Rass. dir. civ., 1982.
[7] In tal senso Cass. 2954/2003 che avverte: «le categorie dei beni personali sono tassativamente indicate dalla legge». Nello stesso senso Cass. 19259/2004, con nt. adesiva di E. TREROTOLA-P. MARTORANO, in Fam., pers. succ. Torino, 2005, p. 437 ss. In senso critico sono i rilievi di T. AULETTA, op. cit., p. 49, in part. nt. 36.
[8] Esplicita è in tal senso Cass. 2954/2003.
[9] Merita d’essere segnalata la sentenza 2954/2003 in tema di acquisti in regime di comunione legale. Se con la pronuncia 2688 del 1989 la Corte Suprema introduceva la libertà dell’un coniuge di non acquistare un bene riservatogli per legge (lett. a) dell’art. 177 c.c.), la più recente, e oramai consolidata, giurisprudenza del Collegio afferma che <
[10] V. DE PAOLA, op. cit.
[11] R. CARAVAGLIOS, op. cit., p. 121.
[12] Cass., sez. I civ., sentenza 24 settembre 2004, n. 19250. Il caso all’esame del Collegio è quello di un coniuge in regime legale, acquirente di un immobile, che, pur di evitare l’ingresso del bene nel patrimonio della comunione, dichiara, in assenza del consorte, di acquistare con danaro personale (incassato dalla precedente vendita di un bene proprio). In vista di quest’obiettivo, i giudici del Collegio sottolineano il difetto della compartecipazione al negozio del consorte non acquirente eccependo l’illegittimità della fattispecie per essere, malgrado la dichiarazione del coniuge acquirente, «obiettivamente incerto se l’acquisto realizzi – o meno – il reinvestimento (o l’investimento) di danaro … personale». La soluzione del Collegio, che si dice insoddisfatto della sola dichiarazione del coniuge acquirente, va condivisa non prima, tuttavia, di aver richiamato l’attenzione sul particolare profilo di illegittimità discusso dal giudice.
[13] Sia ancora consentito rinviare ai rilievi di E. TREROTOLA-P. MARTORANO, Sulla partecipazione negoziale del coniuge non acquirente in regime di comunione legale, in Fam., pers. succ., Torino, 2006, 6, p. 437 ss.
[14] Del «rifiuto al co-acquisto» si è scritto molto nell’ultimo ventennio e le più recenti osservazioni del Collegio sono, questa volta, l’occasione per approfondire il tema, di storico interesse, circa la posizione del coniuge non contraente, allungo studiato dalla dottrina di settore. E del resto si vedrà quanto la consacrata illegittimità del rifiuto ad acquistare un bene della comunione sia tema connesso alla posizione del coniuge non contraente co-acquirente rispetto all’atto separato del consorte.
[15] Cass., sentenza n. 2688 del 1989.
[16] Stimolata dalle nuove tendenze emergenti sul finire degli anni ’80, la dottrina non mancò di sottolineare «il preoccupante orientamento esegetico della giurisprudenza di legittimità impegnata a svuotare di contenuto la comunione legale in ogni caso di interferenza con istituti generali. Atteggiamento che si è tradotto in un ingiustificato favor per le ragioni individualistiche dell’autonomia privata rispetto a quelle comunitarie e partecipative che animano il nuovo diritto di famiglia». Così R. CARAVAGLIOS, La Comunione legale, Milano, 1995, p. 16-17. Ma si leggano anche le osservazioni di E. QUADRI, Il Contenuto della comunione legale: l’itinerario esegetico della Cassazione, in Nuova giur. civ. comm., 1994, II, p. 311-319.
[17] Conforme era la precedente Cass. 23 settembre 1997, n. 9355, in Foro it., 1999, I, c. 1323, in cui già si ammetteva l’ingresso automatico in comunione immediata dei beni acquistati dall’un coniuge con proventi dell’attività separata senza possibilità per il consorte di escluderli con la dichiarazione ex ult. co. dell’art. 179.
[18] E si leggano i rilievi di E. RUSSO, Le Convenzioni Matrimoniali, Milano, 1983, p. 152. In effetti l’osservatorio più critico della dottrina rilevava, fin dal principio, la natura collettiva della proprietà coniugale (in tema, cfr. E. PROTETTÌ, in Commentario teorico pratico al codice civile, diretto da De Martino, Novara, 1979), aspetto, questo, che non può sorprendere se si riflette sulle continue pressioni politiche che in quel momento storico erano esercitate sul legislatore (Relazione al primo progetto Reale, in L. CARRARO, G. OPPO, A. TRABUCCHI, 1977, II, p. 272). Dai movimenti per la rivalutazione del ruolo della donna nella società contemporanea, fortemente penalizzata da una persistente legislazione sperequata – di questo avviso è F. BOCCHINI –, fino alla riconsiderazione del lavoro domestico come forma partecipativa alla crescita e allo sviluppo della famiglia – così, V. DE PAOLA, E. RUSSO, F. SANTOSUOSSO, L. BELLANTONI, M. PONTORIERI –, erano assiduamente esercitate influenze che non potevano oltremodo essere trascurate, tanto che gli scritti che più si avvicinano a quegli anni fanno emergere la scelta della comunione legale quale strumento di garanzia della donna, non ancora percettrice di redditi, all’interno del nucleo familiare – in questo senso, G. CIAN, A. VILLANI, M. BESSONE, L. CARRARO.
Ove pure tali molteplici ragioni d’ordine costituzionale abbiano avuto, come talora si ammette, un peso decisivo nelle scelte del legislatore riformista, più condivisibile appare il senso in cui altra dottrina – R. CARAVAGLIOS, op. cit., p. 55 – interpreta la ratio della comunione legale: essa, è un deliberato rafforzamento del profilo comunitario patrimoniale della vita familiare che già in epoca pre-riforma aveva un radicamento nella conduzione quotidiana della famiglia. Rifugge, questa dottrina, da letture paracostituzionali del regime legale che, diversamente, condurrebbe a un sistema patri-matrimoniale in cui scegliere regimi più o meno costituzionali (testualmente, R. CARAVAGLIOS). Quest’ultima opzione della dottrina – in cui l’innegabile fondamento egalitario non ha una derivazione costituzionale ma una provenienza volontaristica – è preferibile nei limiti in cui la comunione legale sia intesa non come occasione per collettivizzare la ricchezza individuale dell’un coniuge a vantaggio dell’altro (e, quindi, per agevolare il consorte più debole), ma per affermare l’uguale apporto dei coniugi alla formazione del patrimonio familiare. In tale più condivisibile spiegazione è finanche evidente che il regime legale – nonostante la prevalente opinione riconosca nella comunione una accentuata interferenza costituzionale e pur avendo trovato il principio egalitario di derivazione costituzionale il giusto radicamento nel governo dei beni comuni (non più di impronta maritale ma diarchico) - neppure è applicazione dell’uguaglianza costituzionale, (non) essendo la comunione sul patrimonio (una conseguenza necessaria del matrimonio ma) l’effetto della volontà dei coniugi. Si deve ammettere, tuttavia, che se il regime legale non è interamente pervaso dei dogmi costituzionali, l’effettivo disancoraggio della comunione coniugale dai parametri costituzionali, attiene il profilo patrimoniale, ovvero la ripartizione della ricchezza familiare e non il modello di amministrazione in cui, anzi, non è difficile riconoscere la matrice costituzionale dell’uguaglianza dei coniugi. Cosicché, i principi a presidio della Costituzione Repubblicana, senz’altro riconoscibili nell’opera di riequilibrio, per mano del legislatore del ’75, del rapporto di coniugio (inizialmente penalizzante per la donna), sono improponibili a spiegare l’uguale distribuzione delle risorse familiari (che si è detto essere, invece, la logica conseguenza dell’identico apporto dei coniugi e, perciò, la giusta ripartizione delle risorse familiari).
[19] Ciò nondimeno, va spiegata la incapacità dei coniugi in regime legale di evitare al coniuge non contraente, attraverso un accordo bilaterale, l’acquisto stipulato dal consorte – ammissibile, invece, per la migliore dottrina (E. GABRIELLI, Acquisto in proprietà esclusiva di beni immobili e mobili registrati da parte di persona coniugata, in Vita Not., 1984, p. 656 ss.). La ragione dell’illegittimità di un tale accordo, come ancora si dirà, è nel rigore di alcune norme in tema di comunione, che, rispetto al principio di uguaglianza delle quote – art. 210, 3° comma, c.c. –, non concede spazio all’autonomia dei coniugi, stabilendone l’inderogabilità assoluta pur optando per un regime di comunione convenzionale.
[20] Questi i rilievi critici di F. PARENTE, Il preteso rifiuto del co-acquisto «ex lege» da parte del coniuge in comunione legale, in Foro it., 1990, c. 608 ss., per il quale «il rifiuto al coacquisto sarebbe in contrasto con lo statuto complessivo della comunione legale»; tale espressione sembra essere condivisa dalla più recente giurisprudenza di legittimità.
[21] Sul punto C. DONISI, Limiti all’autoregolamentazione degli interessi nel diritto di famiglia, in Famiglia e circolazione giuridica, a cura di Fucillo, Milano, 1997, p. 20 ss. Ancora P. PERLINGERI, I diritti del singolo quale appartenente al gruppo familiare, cit.
[22] R. CARAVAGLIOS, La comunione legale, Milano 1995, p. 15. Al testo si rimanda per la «teoria dei cinque sacchi» con cui l’A. identifica l’assetto patrimoniale della famiglia.
[23] «Il regime che genera altri regimi», così ID., op. cit.
[24] ID., op. cit., p. 18, «La comunione legale come regime che genera un insieme di regimi … ciò che appartiene al sacco dei beni personali, ciò che appartiene alla comunione legale e ciò che è destinato alla comunione de residuo>>.
[25] Cass. 89/2688, cit. Sul punto, sia ancora consentito rinviare a E. TREROTOLA, Il rifiuto al co-acquisto nella modificabilità convenzionale dell’oggetto della comunione legale dei beni fra coniugi, in Giur. Mer.,
4/5, 1994, p. 748 ss.
[26] Non mancano di sottolineare i giudici di merito che il diritto di famiglia, è «un subsistema connotato dall’intreccio di interessi patrimoniali ma prevalentemente personali, in cui le regole del diritto patrimoniale, quando pure se ne possa legittimamente postulare l’applicazione, subiscono necessariamente una particolare conformazione». In tal senso, Trib. Catania, 14 dicembre 1992, in Giur. mer., 1993, p. 315 ss.
[27] Cass. 19 febbraio 2000, n. 1917 e Cass. 2954/2003.
[28] Per le differenti argomentazioni a sostegno della legittimità del rifiuto al co-acquisto, T. AULETTA, op. cit., in part. nota 36.
[29] L’espressione è di PARENTE, op. cit. Il legislatore, peraltro, ha tipizzato, in questo statuto, le ipotesi di acquisto esclusivo (art. 179 c.c.).
[30] E. TREROTOLA, op. ult. cit., p. 748 ss.
[31] Sulla natura giuridica della comunione legale si rinvia ai rilievi di C. Cost., 10 marzo 1988, n. 311, in Giust. civ., 1988, I, p. 1388. Prospettando una ipotesi di comunione senza quote – in ambito codicistico presente all’art. 37 c.c. – fa emergere la Consulta una tipologia di regime legale insolita nel nostro Ordinamento in cui, piuttosto, è accolto il modulo della comunione per quote di tipo romano. Si tratterebbe, cioè, di una ipotesi di comunione di tipo germanico, cosiddetta a mani riunite, la cui caratteristica è quella di non possedere il singolo una quota ideale ma di essere i comunisti solidalmente titolari dei beni della comunione; in tal senso anche Cass. 14 gennaio 1997, n. 284, in Mass., 1997; in dottrina, M. FRAGALI, S. LENER, P. RESCIGNO. Per alcuni rilievi, cfr. V. DE PAOLA, op. cit., p. 282 e ss. Di uguale tenore sono le osservazioni di S. LENER, La comunione, in Trattato dir. priv., diretto da Rescigno, 1982, p. 260) secondo cui la indisponibilità dei beni della comunione renderebbe del tutto insufficiente i richiami del legislatore al concetto di quota (e si vedano gli artt. 210, 3° comma, e 189 c.c.) per accogliere la tesi, pure ipotizzata dalla dottrina, della «comunione per quote».
La duplice interpretazione che la giurisprudenza (nelle sentenze 2688/1989 e 2954/2003) ha dato del rifiuto all’acquisto dissuade dall’affermare la irrifiutabilità di un bene coniugale se non dopo aver indagato alcuni aspetti della nozione (o delle nozioni) di «terzo», di cui, nonostante la ricchezza dei della dottrina, resta da spiegare i molteplici significati.
In questa singolare prospettiva si deve avvertire dell’incoerenza di quella giurisprudenza che ancora immagina il coniuge non agente coacquirente in posizione di terzo acquirente negoziale al quale, tuttavia, impedire (o anche solo condizionare[1]) il diritto di rifiutare l’acquisto. Non si può condividere un tale insegnamento se si riflette che la obbligatorietà (degli effetti) del contratto è prerogativa del rapporto tra le parti cui risponde il principio della inviolabilità della sfera privata altrui[2] affermato in via di principio all’art. 1372 c.c. (e cioè, la relatività del contratto).
In una chiave di lettura in cui si ricerchi ogni possibile aspetto del fenomeno, non può stupire il silenzio del legislatore che di rado fornisce formule nozionistiche, e la vocazione non nozionistica del codice civile neppure aiuta la dottrina[3] che non offre ancora una nozione soddisfacente di «terzo»[4]. D’altronde, la mera contrapposizione concettuale del terzo al «soggetto del contratto», cui di frequente ricorre la dottrina, è parsa una semplificazione tanto carente da non informare a sufficienza dei limiti entro cui misurarne la nozione giuridica. Per altro aspetto, si deve ammettere che una definizione omnicomprensiva in cui raccogliere i diversi possibili atteggiamenti del terzo è insostenibile se si pensa alla duplicazione che nel nostro ordinamento è fatto della nozione di terzo, e cioè destinatario diretto e indiretto degli effetti negoziali cui corrispondono le definizioni di effetti diretti ed effetti riflessi del negozio[5]. Invero, il legislatore si serve della nozione per indicare talora il destinatario degli effetti del contratto – ad es., il terzo ex art. 1411 c.c. - talaltra il destinatario delle conseguenze contrattuali, ossia interessato da modificazioni (determinate dal contratto ma) non qualificabili (almeno sul piano causale) come effetti contrattuali. In entrambe le ipotesi il soggetto è in posizione terza rispetto alla struttura dell’atto giuridico, ma, al di là di questo denominatore comune, il profilo giuridico del terzo cambia se si riflette che nel primo caso il soggetto è destinatario degli effetti negoziali, nel secondo subisce le sole conseguenze ulteriori dell’atto che non sono effetti negoziali secondo l’accezione tecnica del termine[6]. Il problema può sembrare una improficua speculazione teorica, ma non lo è ove si osservino le conseguenze pratiche che ne derivano. E del resto i rilievi della dottrina manualistica[7] insegnano che soltanto gli effetti diretti, in quanto legati al contratto da un nesso di derivazione immediato, rientrano nella causa del negozio (e sono quindi effetti causali); tali effetti, pur producendosi indipendentemente dalla volontà del terzo (come nell’ipotesi dell’art. 1411 c.c.), non possono permanere nella sfera del destinatario medesimo mancandone il consenso.
Questa spiegazione risente del profilo giuridico di terzo, ossia di soggetto estraneo al(la struttura del) contratto; concezione evolutasi in una più avanzata esegesi della nozione da quando la moderna civilistica[8] circoscrive il dogma della relatività[9] alle sole ipotesi di contratto a carico del terzo, da cui, cioè, al destinatario non possono che derivare oneri e svantaggi. Sicché, in linea con tale assunto, il contratto non tocca il terzo se non per beneficiarlo (artt. 1411 e 1372, 2° comma, c.c.).
Illuminati dalla rimeditazione che la dottrina più moderna (C. Donisi) ha fatto del principio della relatività e accertato che il contratto può produrre effetti (purché vantaggiosi) anche oltre la sfera giuridica delle parti negoziali, potendo esso generare effetti verso i terzi (consenzienti), è sufficiente alla posizione di terzo la estraneità del soggetto alla volontà negoziale[10].
La provenienza negoziale degli effetti diretti e l’origine extra negoziale degli effetti riflessi, questi ultimi identificabili come la conseguenza di una particolare condizione giuridica in cui si trova il soggetto terzo[11] piuttosto che il prodotto del contratto, consentono di concludere che gli effetti riflessi sono in ogni caso di derivazione normativa[12]. Sicché, chiarito che gli effetti riflessi, non aventi un rapporto derivativo con l’accordo negoziale – per questo detti anche effetti indiretti –, non entrano nella causa del negozio, la dottrina riconosce che la loro esplicazione nella sfera giuridica del terzo non deroga il canone della relatività[13] e, perciò, non opponibile il detto principio al fine della immodificabilità della situazione del terzo, essendo gli effetti riflessi conseguenza inevitabile della stipulazione. Non disponendo il terzo di alcuno strumento per neutralizzare gli effetti indiretti del negozio, esso dovrà subire tali conseguenze[14].
In linea con questi rilievi, si deve ammettere che il rifiuto, del quale si sono potute ora meglio comprendere le implicazioni con il tema della posizione del coniuge non contraente, è istituto attinente al principio della relatività la cui regola è essenziale alla corretta circolazione degli effetti negoziali e non di limite alla produzione di qualsiasi effetto giuridico[15]. Il rifiuto è, in questa prospettiva, strumento destinato a proteggere la sfera giuridica del terzo dagli effetti diretti del contratto e non da quelli riflessi.
L’esatta identificazione della finalità e dell’ambito operativo del rifiuto consentono, a questo punto, di precisare che gli effetti negoziali (quelli diretti) delineano un profilo di terzo differente da altre configurazioni connotate da una minore autotutela, non essendo sempre il terzo nelle condizioni di proteggere la propria sfera privata – così è per il destinatario delle conseguenze giuridiche -.
Ad arricchire questa indagine concorre altro rilievo che del primo è diretta conseguenza. Non richiedendo il prodursi degli effetti indiretti la complicità del destinatario[16], neppure la permanenza di tali conseguenze nel patrimonio del terzo esige – contrariamente a quanto accade per gli effetti diretti – alcuna sua cooperazione[17].
Se ora si conviene che, in assenza di specifici obblighi a contrarre, la volontà di acquistare è incoercibile, si deve altresì riconoscere, nel rispetto del principio dell’intangibilità delle sfere individuali, l’impossibilità di obbligare il non contraente a subire gli effetti di un contratto: il terzo è, cioè, legittimato a difendere la propria sfera giuridica utilizzando gli strumenti predisposti dal legislatore[18].
Occorrendo, peraltro, il concorso (persino tacito) del destinatario alla permanenza degli effetti negoziali nel proprio patrimonio, si deve ammettere che il terzo, potendo liberamente rifiutare, non è vittima del contratto[19] ma complice nella produzione di tali effetti, diversamente dal destinatario delle conseguenze giuridiche[20] in relazione alle quali, vigendo il principio della obbligatorietà degli effetti riflessi, non può opporsi né alla produzione né alla permanenza.
[1] T. AULETTA, op. cit.
[2] Di entrambi è espressione la relatività del contratto secondo l’antico brocardo res inter alios actatertio neque nocet neque prodest.
[3] Per tutti A. TRABUCCHI, Istituzioni, p. 619; F. GIRINO, Studi in tema di stipulazione a favore di terzi, Milano, 1965; più di recente, G.B. FERRI, Parte del negozio, in Enc. Dir., XXXII, Milano, p. 901 ss.; E. CESARO, Contratto aperto e adesione del terzo, Napoli, 1979, p. 15 ss.
[4] Si afferma, in tal modo offrendone una nozione negativa, che il terzo non è parte del contratto (e cioè, un «non contraente»). Nella manualistica, cfr. F. GAZZONI, Manuale, Napoli, 1990, p. 867; per A. TRABUCCHI, Istituzioni, p. 619, secondo il quale la identificazione del terzo passa attraverso il criterio degli interessi, «terzo è colui che rimane sostanzialmente estraneo al contratto».
[5] Sul tema cfr. F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali, cit., p. 238, p. 259, e p. 264 ss.
[6] Spunti di particolare interesse sono in P. PERLINGIERI, Profili Istituzionali del diritto civile, Napoli, 1979, p. 164 ss. L’A. spiega che l’effetto riflesso trova la sua causa in un effetto prodotto da un fatto precedente. Così è per l’acquisto per accrescimento che, ai sensi dell’art. 676 c.c., ha luogo di diritto non occorrendo la volontà del testatore. L’estensione della quota dell’erede accresciuto è, in tal caso, un effetto indiretto della rinunzia del coerede, valere a dire che «l’ulteriore effetto, cioè l’accrescimento, non trova la sua causa nel testamento … ed è un effetto riflesso della rinunzia … che trova la sua causa nell’art. 676 c.c.». Se si accetta questa ricostruzione, da cui emerge che l’accrescimento è conseguenza della legge, si dovrà ammettere che il negozio non è fonte dell’effetto riflesso, non provenendo esso dall’accordo negoziale ma direttamente dalla norma – in argomento, F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine Generali, cit.
[7] tra gli altri A. TRABUCCHI, Istituzioni, p. 619; F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine, p. 238-259 ss. (57) Cfr., C. DONISI, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli, 1972.
[8] C. DONISI, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli, 1972.
[9] Vale a dire la improduttività del negozio verso i terzi.
[10] Così è per il terzo acquirente ai sensi dell’art. 1411 c.c.; esso è estraneo alla struttura del contratto, ma non agli effetti.
[11] L’erede in accrescimento, terzo rispetto al negozio di rinunzia all’eredità compiuto dal coerede, acquista la quota rinunziata in quanto successore del medesimo de cuius.
[12] Allineata a tale insegnamento, la dottrina di settore è nel senso di ritenere che il non agente acquisterebbe in conseguenza della condizione giuridica di coniuge in regime di comunione legale. E nel rigore di tale dottrina, affermata la indisponibilità degli effetti legali all’autonomia del soggetto, la Corte Suprema (Cass. 2954/2003) sanciva la irrifiutabilità dei beni coniugali. Afferma il Collegio: «… il coniuge non può validamente rinunziare alla comproprietà di singoli beni (non appartenenti alle categorie elencate dall’art. 179 c.c.) acquistati durante il matrimonio; salvo che venga previamente o contestualmente mutato il regime patrimoniale della famiglia».
[13] La relatività, del resto, dettata al fine dell’inefficacia del contratto verso il terzo, è principio posto a difesa dagli effetti negoziali e non da ogni effetto giuridico. In argomento F. SANTORO-PASSARELLI, op. cit., p. 23.
[14] L’acquirente successive con patto di riscatto dovrà, ai sensi dell’art. 1504 c.c., subire l’espropriazione del bene ad opera del primo alienante riacquirente con patto di riscatto. Il secondo acquirente di bene opzionato è, in tale ipotesi, terzo rispetto alla vendita con patto di riscatto stipulata tra l’alienante riacquirente e il primo acquirente.
In linea con questi rilievi sembrano muoversi i fautori della teoria che inquadrano l’acquisto del coniuge non agente tra gli effetti ex lege. L’acquisto, infatti, sarebbe una conseguenza dell’art. 177 lettera a), e per questo anche irrifiutabile.
[15] Sul tema spunti di particolare interesse sono in F. GAZZONI, L’attribuzione patrimoniale mediante conferma, Milano, 1974, p. 177 ss.
[16] Diversamente che dal terzo ex art. 1411 c.c. che, malgrado il linguaggio codicistico (in cui si parla di rifiuto), può rinunziare agli effetti già prodottisi nel proprio patrimonio.
[17] S’intende affermare la differenza di maggiore rilievo tra le due accezioni di “terzo destinatario degli effetti negoziali” e “terzo destinatario delle conseguenze giuridiche”, e cioè la incapacità di quest’ultimo di impedire (la permanenza del) l’effetto legale (nella sua sfera giuridica). Se, infatti, il successore in accrescimento è obbligato ad acquistare la quota rinunziata dal coerede (ove intenda conservare la qualità di erede), il terzo acquirente ex art. 1411 c.c. dispone, al contrario, della incondizionata facoltà di rifiutare (recte, rinunziare al) l’acquisto prodottosi nel suo patrimonio per effetto della stipulazione.
Fedele a questa impostazione è la giurisprudenza della Corte (Cass. 2954/03) secondo cui soltanto il mutamento del regime patrimoniale (da comunione iseparazione) consente ai coniugi di realizzare la volontà di non co-acquistare un bene coniugale. E nella prospettiva di tale ultima decisione, la giurisprudenza realizza, anticipandone le conclusioni, la sintesi cui oggi è possibile pervenire per via teorica; e cioè, che l’acquisto del non contraente, come meglio si dirà – par. 7 –, non è l’effetto della efficacia estensiva della comunione legale, nel cui ambito è inquadrato dalla dottrina di settore, ma espressione della funzione distributiva del regime legale voluto dai coniugi.
[18] Su questo fronte sono le maggiori incertezze della Corte. Nella decisione 2688/1989 si riconosce al coniuge il diritto di non acquistare, invece negato nelle sentenze 1917/2000 e 2954/2003 che sottraggono la destinazione dei beni all’autonomia dei coniugi. In tale incerto atteggiamento, il coniuge non contraente è talora configurato come terzo acquirente negoziale (legittimato a rifiutare), ma talaltra gli è negata tale condizione giuridica (e, conseguentemente la possibilità di rifiutare l’acquisto).
[19] Sull’argomento, lucidamente T. AULETTA, op. cit., p. 49, il quale afferma «detta imposizione (cioè l’acquisto) contrasterebbe con i principi del nostro ordinamento che lasciano libero il soggetto di profittare o no degli effetti …». In ossequio all’esposto principio della intangibilità delle sfere private, l’osservazione va condivisa, ma non si comprende la ragione per cui l’A., aderendo alla dottrina più liberale, sostiene la posizione di terzo del coniuge non agente co-acquirente pur negandogli la facoltà di rifiutare l’acquisto. L’Autore, il quale parla di «motivazioni di convenienza dell’acquirente alla base del rifiuto», precisa che il coniuge non può rifiutare se non per giusta causa (diversamente dal terzo acquirente che – come sopra accennato – può dismettere l’acquisto con un rifiuto ad nutum senza dover giustificare la volontà di non acquistare.
[20] Negli esempi fatti, il coerede in accrescimento.
Le obiezioni che precedono sembrano consolidare la tendenza maggioritaria della dottrina che sostiene la posizione di acquirente ex lege del coniuge non contraente. In tale affermata ipotesi, infatti, potrebbe l’acquisto ex art. 177, lett. a), c.c. essere interpretato come un effetto legale, e, in questa prospettiva di indagine, la riferita incapacità del coniuge non agente di rifiutare il bene[1], finanche sintonica al principio della indisponibilità degli effetti indiretti, consentirebbe, peraltro, di apprezzare il rilievo del Collegio[2] secondo cui «l’esclusione dell’acquisto dalla comunione legale non dipende dall’assenso del coniuge …».
E del resto, se la Corte, secondo le osservazioni che si sono anticipate, sottraendo al coniuge il diritto di rifiutare, smentisce la posizione di terzo acquirente nel senso inteso all’art. 1411 c.c.[3], per altro aspetto, sostenendo che soltanto «il realizzarsi della fattispecie legale» può determinare l’esclusione del bene dal patrimonio coniugale, sembra rafforzare la tesi prevalente secondo cui il coniuge non agente sarebbe terzo investito delle conseguenze dell’atto separato (e cioè degli effetti indiretti)[4].
Se si dovesse dare credito a questa spiegazione, il coniuge, obbligato ad acquistare, sarebbe vittima e non complice dell’atto separato a misura di quelle ipotesi, frequenti nel nostro codice, in cui il terzo è obbligato a subire talune conseguenze giuridiche[5]. D’altronde, non essendo il coniuge terzo destinatario degli effetti (diretti) dell’atto separato – che si sono visti liberamente rifiutabili –, e non potendo neppure rifiutare la comproprietà del bene acquistata dal consorte – come confermato dalla più recente tendenza della giurisprudenza –, non sarebbe errato immaginare l’acquisto del non agente come la conseguenza della condizione giuridica di coniuge in regime di comunione legale. Il non contraente, secondo questa ricostruzione, sarebbe acquirente ex lege (e, dunque, destinatario degli effetti indiretti).
Sennonché, gli sviluppi emersi dalle osservazioni che si sono precedute non soltanto evidenziano la infondatezza della teoria «coniuge non agente terzo acquirente negoziale», ma se per un verso scongiurano la più accreditata proposta che teorizza il coniuge non contraente in posizione di terzo acquirente ex lege, per altro aspetto consentono di introdurre i presupposti a sostegno della posizione di parte sostanziale del non agente.
Se confrontate con le osservazioni della migliore civilistica[6], non convincono le ricostruzioni della dottrina che, nel tracciare una possibile dinamica dell’effetto riflesso, sostiene che «l’effetto riflesso trova la sua causa in altro effetto prodotto da un fatto precedente». Orbene, se, come s’è detto, l’effetto, allorché si propone come vicenda autonoma dal negozio[7], è obbligatorio in ogni caso – non potendo il soggetto investito sottrarsi alla sua esplicazione, se non abbandonando la situazione giuridica soggettiva in cui si trova[8] –, l’osservazione di questa dottrina persuade del fatto che l’acquisto del coniuge non contraente non proviene, come si potrebbe immaginare, «da un altro effetto … (il regime comunitario) … prodotto da un fatto precedente … (il non aver optato per altro diverso regime patrimoniale)»[9]. E del resto, non essendo la comunione legale un regime necessario, potendo le norme ex art. 177 c.c. ss. trovare attuazione solo per la volontà concorde dei coniugi di non optare per altro e diverso regime patri-matrimoniale, non può parlarsi del co-acquisto come di un effetto riflesso dell’atto separato (o di effetto legale del contratto)[10] ma, come è preferibile credere, di effetto del negozio di acquisto.
Questa più ampia prospettiva teorica, sottolinea l’assenza della volontà del destinatario rispetto all’acquisto legale[11]. E in linea con tale rilievo, si potrebbe persino ipotizzare un acquisto ex lege in favore del non acquirente allorché vigesse una norma cogente, applicabile in ogni caso, che imporrebbe il regime di comunione legale come unico sistema patri-matrimoniale. Ma la decisione di non optare per altri regimi patrimoniali – antecedente all’atto di acquisto in senso cronologico e giuridico –, che esprime la volontà dei coniugi di acquistare ogni qualvolta acquista uno di essi, non permette di accreditare alla legge l’acquisto del consorte non agente perché la lett. a) dell’art. 177 c.c. è norma disciplinare che, come anticipato, interviene nella fase di produzione degli effetti dell’atto e non di formazione del regolamento negoziale[12]. Essa, cioè, non è fonte dell’effetto[13], come nelle ipotesi di acquisto ex lege, limitandosi, piuttosto, a riferire il fatto (della stipulazione separata dell’un coniuge) da cui dedurre, in favore del non agente, la presunzione iuris tantum della contitolarità della proprietà sostanziale[14]. Trattandosi peraltro di presunzione relativa, essendo possibile ex artt. 177, lett. a), e 179 c.c. dimostrare la natura personale dell’acquisto, è a maggior ragione evidente la precipua finalità probatoria[15] della norma che, per questo, non opera sul piano sostanziale[16].
Ma l’insuccesso della teoria che introduce l’acquisto del non contraente tra gli effetti legali riemerge ove si comprenda che il coniuge, per effetto della comunione legale, oltre al normale carico dei doveri familiari (di assistenza e mantenimento sanciti all’art. 143 c.c., cui è soggetto per effetto del matrimonio), assume, esponendo con ciò i beni comuni alla soddisfazione dei creditori, l’altro obbligo (cui non sono esposti i beni del coniuge separatista) inerente le passività contratte dall’altro coniuge e riconducibili al ménage familiare (art. 186, lett. c), c.c.). A tali ulteriori doveri, sintomatici della volontà dei coniugi di privilegiare il profilo comunitario, non può essere ascritta una matrice legale[17] perché contenuti nella norma, giacché la legge, almeno in questo caso, si limita a realizzare la volontà dei coniugi nell’unica direzione possibile, ossia attuare lo schema tipico di comunione, dettando uno «statuto speciale»[18] improntato al canone della risolubilità[19]. Con il regime di comunione – che certamente limita l’autonomia privata – i coniugi rafforzano il profilo comunitario della famiglia sommando altri doveri a quelli fondamentali e immanenti (artt. 143 c.c. ss.), già sorti per effetto del matrimonio, e che la dottrina identifica come regime primario.
Nel contesto in cui si è inteso discutere del problema, può ora essere affermato con maggiore convinzione che il coniuge non contraente non è, come sostiene la dottrina, nella condizione di soggetto passivo dell’attività giuridica altrui (quindi destinatario degli effetti riflessi) perché l’effetto dell’acquisto, come ancora si vedrà, è da accreditare alla volontà di entrambi i coniugi di optare per il regime legale e non alla legge (art. 177, lett. a), c.c.), che stabilisce il contenuto (necessario) del patrimonio coniugale[20].
[1] In tema è utile la consultazione di A. FALZEA, voce Efficacia Giuridica, in Enc. dir.
[2] Così, Cass. 1917/2000.
[3] Verso questa soluzione era invece orientata la Corte nella storica sentenza 2688/1989, in cui affermò l’ampia autonomia dell’un coniuge di rifiutare liberamente il bene acquistato dal consorte.
[4] Cosicché, secondo tale ipotesi teorica, vigendo una norma inderogabile (art. 177, lett. a), c.c.) non sarebbe consentito al coniuge non contraente di evitare (recte, rifiutare) l’acquisto. Ad ogni modo, secondo questa ricostruzione, l’acquisto del non contraente sarebbe un effetto legale.
[5] § 4.
[6] P. PERLINGIERI, Profili, p. 164.
[7] Ed è questa l’ipotesi dell’accrescimento ex art. 676 c.c., autonomo dalla volontà testamentaria e dalla rinunzia del coerede. Come si avrà modo di vedere, l’effetto dell’accrescimento della quota del coerede non ha alcun rapporto causale con il negozio testamentario né con l’atto di rinunzia
[8] L’esperienza insegna che l’accrescimento si realizza indipendentemente dalla volontà del coerede accresciuto, il quale nulla potrebbe fare per evitare il realizzarsi dell’effetto dilatatorio della quota ereditaria – se non rinunziando ad ogni diritto ereditario, dunque alla situazione giuridica soggettiva di erede –. Al contrario, il coniuge potrebbe cambiare il regime patrimoniale senza perdere il proprio status di coniuge. Altre ipotesi di acquisto legale – coniuge superstite legatario ex lege ai sensi dell’art. 540, 2° comma, c.c.; le successioni legittime ex art. 565 c.c. – evidenziano la provenienza autonoma e inevitabile dell’effetto.
[9] Per alcune anticipazioni sul tema si leggano le osservazioni di G. BONILINI, Nozioni di Diritto di Famiglia, Torino, 1992, p. 62 ss.; E. ROPPO, voce Coniugi, in Enc. giur., 1988.
[10] Così G. DE RUBERTIS, L’acquisto, p. 878.
[11] Tale aspetto, già sufficiente a distinguere il co-acquisto dall’acquisto legale, accentua altresì la diversità con l’acquisto del terzo (che è acquisto negoziale) in cui l’acquirente, potendo rifiutare o accettare l’effetto conseguente alla stipulazione, gioca un ruolo attivo nella fattispecie contrattuale.
[12] Si rinvia alle osservazioni in nt. 3.
[13] Non è dubbio che il diverso momento di intervento della legge avrebbe inciso sulla natura dell’effetto determinandone l’origine legale se la norma fosse intervenuta nel momento di formazione del negozio. Un tale differente momento di intervento della disposizione in parola, con finalità completive del regolamento negoziale, sarebbe stato il sintomo di un diverso atteggiamento della lett. a) dell’art. 177 c.c. (ossia di fonte dell’effetto), dovendosi, in tale ipotesi, inquadrare la disposizione nel fenomeno della integrazione del contratto ex art. 1374 c.c. (si rinvia ancora alle osservazioni in nt. 3).
[14] La lett. a) dell’art. 177 c.c. non entra, quindi, nei meccanismi dell’acquisto con finalità integrativa della volontà dei contraenti, ma è piuttosto la sintesi di quanto il legislatore statuisce all’art. 144, 2° comma, c.c.
[15] Sul punto cfr. F. SA NTORO-PASSARELLI, Dottrine Generali, Napoli, 1981, p. 299; F. GAZZONI, Manuale, Napoli, 1990, p. 101 ss.
[16] In argomento cfr. G. FABBRINI, voce Presunzioni, in Nov. dig. It. disc. priv., 1996, Torino, p. 281 ss.
[17] E sono, invece, doveri legali quelli descritti all’art. 143 c.c. la cui attuazione è inderogabile e prescinde dalla volontà dei coniugi.
[18] Così, Cass. 1917/2000.
[19] Il regime legale è, infatti, in ogni tempo sostituibile con altro e diverso regime patrimoniale; in argomento cfr. E. TREROTOLA, op. cit., p. 748 ss.
[20] In questo senso l’acquisto del non agente è un effetto causale, cioè un effetto diretto dell’atto separato che il contraente ha potuto stipulare in quanto attuativo dell’interesse familiare. Per una diversa opinione, autorevole è l’analisi di G. DE RUBERTIS, L’acquisto immobiliare compiuto da uno solo dei coniugi in regime patrimoniale legale, in Rass. dir. civ., 1986, p. 873, per il quale si tratterebbe di un’ipotesi di deviazione ex lege degli effetti contrattuali da confluire nell’ampio fenomeno della eterointegrazione del contratto (art. 1374 c.c.). Per alcuni spunti generali sulla integrazione del contratto si rinvia a S. RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969. G. CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, p. 192 ss .; M. BIANCA, op. cit.
Accettata la bipartizione della nozione di terzo, in terzo acquirente negoziale e terzo acquirente ex lege, si è dovuto osservare che il non contraente, nel contratto a favore del terzo, in quanto destinatario dei soli effetti vantaggiosi[1], non è esposto (come, invece, l’acquirente per effetto della legge)[2] ad alcun obbligo; esso non entra nel sinallagma contrattuale e perciò non è parte (ma creditore della prestazione).
Questa osservazione alla concezione codicistica di terzo si è visto essere il tema più prezioso al dichiarato intento critico alla teoria dominante secondo cui il coniuge non agente è un mero beneficiario dell’atto di acquisto.
Sin da ora si deve avvertire dell’inconsistenza del ricorso allo schema del contratto a favore del terzo per spiegare il fenomeno co-acquisitivo. Anzi, sebbene la dottrina persista nell’immaginare il non contraente alla stregua di un mero titolare del diritto (Altieri), l’accennata obiezione è già sufficiente a indicare una prima immediata divergenza tra le posizioni del coniuge co-acquirente e del terzo acquirente per effetto del negozio.
In questa prospettiva, si deve ammettere che il tentativo di ridurre le distanze esistenti tra i due modelli, ipotizzando una cointeressenza del coniuge non agente alla sola proprietà sostanziale ed esonerandolo - come è per il terzo acquirente - dalle obbligazioni connesse all’acquisto, si mostra carente di argomenti al punto da minare l’asserita equivalenza tra le posizioni di coniuge non agente e terzo acquirente negoziale. L’insanabile divergenza tra le due figure, tuttavia, è sottolineata dalla presunzione con cui il legislatore ha inteso riconoscere in capo a entrambi i coniugi la proprietà del danaro utilizzato per l’acquisto; circostanza intrascurabile del fenomeno co-acquisitivo che non permette di identificare nell’acquisto del consorte non agente un mero vantaggio. Piuttosto, questa spiegazione del fenomeno in esame, nei termini che si sono appena accennati, autorizza di considerare l’acquisto come sicura espressione della logica del corrispettivo e, pertanto, del rapporto sinallagmatico tra prestazione – esborso del danaro – e controprestazione – trasferimento del bene – di cui il coniuge non agente, come meglio si dirà, è partecipe[3].
Pur evitando di cedere ad una soluzione tuzioristica che tragga esclusivamente dall’esperienza legislativa riformista, si capisce che la soluzione da dare alla posizione del coniuge co-acquirente non è indifferente all’impianto normativo che i coniugi decidono di accogliere come disciplina giuridica dei loro rapporti patri-matrimoniali.
Su questo fronte occorre approfondire le analisi di due studiosi[4] che hanno concorso a una migliore spiegazione del sistema contributivo-distributivo della famiglia, determinanti di una ulteriore divisione della dottrina in chi attribuisce in via esclusiva al regime primario una funzione minimamente contributiva (con finalità satisfattiva dei bisogni della famiglia) e chi riconosce, seppure con una destinazione tendenzialmente affaristica, una funzione contributiva anche al regime secondario della comunione legale.
Quest’ultima opinione sarebbe da sottoscrivere se con essa fosse accreditato al regime legale una forza espansiva del dovere contributivo ex art. 143 c.c.[5]; e gli elementi di cui accertarsi, a tal fine, sono nella legge di riforma in cui, con presunzione iuris et de iure, concorrente all’acquisto di un bene coniugale è non soltanto il coniuge contraente, ma, in uguale misura, il consorte non agente, appartenendo a entrambi le risorse da destinare agli incrementi del patrimonio coniugale[6]. Si assiste, come appare comprensibile, ad una sorta di spersonalizzazione dell’agire dell’un coniuge a tutto vantaggio di una connotazione coniugale dei singoli atti caratterizzati da finalità familiari[7]. A questi rilievi non si deve omettere che il regime primario è sistema normativo elementare necessariamente coesistente con almeno uno dei regimi secondari e, trattandosi di comunione legale, l’atto separato ex art. 177, lett. a), c.c. è espressione della funzione distributiva (l’acquisto) come di quella contributiva di questo regime (il pagamento del prezzo)[8]. È ancora utile ricordare che il legislatore del ’75 immaginava un sistema di flussi patrimoniali attraverso cui redistribuire le risorse familiari in ossequio alla logica della redistribuzione del profitto (proporzionato all’uguale sacrificio dei coniugi[9]), e, nel solco di questa tendenza, il non contraente concorre alle obbligazioni dell’acquisto grazie alla intrinseca finalità contributiva della comunione legale (ult. cit. nota 36).
Se si accetta, in linea con questa interpretazione, che il patrimonio coniugale è il risultato dell’impegno di entrambi i coniugi si deve altresì rifiutare qualsiasi immaginaria convergenza tra le posizioni di terzo beneficiario (titolare del diritto) e coniuge non agente co-acquirente, risultando anomala una situazione giuridica soggettiva in cui il medesimo soggetto è terzo rispetto al contratto e al contempo, come è per il coniuge non agente, contitolare del danaro utilizzato per l’acquisto. Avendo riguardo a tale profilo teorico, non tollerando il contratto a favore del terzo obbligazioni a carico del beneficiario, la posizione del coniuge non agente non riflette queste premesse minime qualificanti del profilo di terzo acquirente per effetto del negozio.
I rilievi esposti consentono, peraltro, di approfondire il ruolo del regime primario nella spiegazione dell’acquisto separato.
È necessario, in questa prospettiva, stabilire il giusto rapporto tra l’acquisto in favore del non contraente e il regime primario, pur avvertendo che alcun collegamento diretto e immediato può esservi tra l’effetto acquisitivo e il nucleo normativo in cui la dottrina di settore identifica il cosiddetto regime primario della famiglia. E del resto, la contribuzione dei coniugi all’acquisto di un bene comune non è, come si potrebbe credere, diretta attuazione dei doveri, primari e inderogabili, contributivo e assistenziale statuiti all’art. 143 c.c., dovendosi concludere, altrimenti, che anche i coniugi in regime di separazione, ai quali il regime primario si applica ugualmente, concorrono all’acquisto separato di ciascuno[10]. Ma, la comunione legale neppure è di intralcio all’attuazione del principio stabilito al 2° comma dell’art. 144 c.c. – secondo cui ciascuno dei coniugi ha il «potere» di attuare l’indirizzo concordato, ivi compreso la scelta del regime patrimoniale –, anzi essa, riconsiderata in un ambito tipicamente patrimonialistico e con finalità differenti dal regime primario (affaristiche e non solidaristiche), ne è finanche espressione, accentuando, per volontà dei coniugi, i doveri ivi stabiliti e ampliandone la portata e il significato. Seppure la comunione legale «non dà alcuna affidabilità per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia»[11], affidati, invece, al regime primario, la scelta dei coniugi di rafforzare, attraverso il regime legale, la communio omnis vitae[12] vorrà quanto meno denotare un loro più completo coinvolgimento negli affari della famiglia; un patto partecipativo che non significa soltanto indisponibilità dei beni coniugali e uguaglianza delle quote, due principi cui il legislatore fa espresso riferimento (art. 210 c.c.), ma altresì dovere di contribuire all’interesse comune.
La dottrina sembra non gradire la rappresentazione di un regime primario di base distinto dai regimi patrimoniali secondari, ma è pacifico, pur con ampi e qualificati dissensi, che la posizione del coniuge non contraente rispetto all’atto separato del consorte risente della duplice funzione contributiva e distributiva della comunione legale, concorrendo i coniugi al pagamento del corrispettivo per gli acquisti manente comunione nonché alla uguale ripartizione dell’acquisto.
[1] Cfr. C. DONISI, op. cit.
[2] Nell’esempio riportato, l’erede in accrescimento subentra nella identica posizione giuridica del coerede rinunziante, non escluse le passività connesse alla quota ereditaria accresciuta.
[3] Per alcuni rilievi sul tema, si rimanda alle note. 13 e 91.
[4] R. CARAVAGLIOS e CORSI.
[5] La «collaborazione nell’interesse della famiglia», cui è obbligato il coniuge ai sensi dell’art. 143 c.c., trova, cioè, nel regime legale una ulteriore, più ampia finalità cui destinare le «sostanze» e «la capacità» di ciascun coniuge. Trattasi, cioè, di «… un di più, rispetto agli effetti fondamentali del matrimonio», così persuasivamente E. RUSSO, cit. in R. CARAVAGLIOS, op. cit., p. 31.
[6] Se si dovesse accedere alla teoria secondo cui il legislatore ha inteso celebrare il momento dell’accesso del bene nella comunione e in questa ottica formulato l’art. 177 c.c. – il cui testo identifica l’oggetto della comunione attraverso i beni in via di ingresso anziché in uscita – si potrebbe pure accogliere l’idea di non considerare il danaro utilizzato per l’acquisto alla stregua di una «risorsa comune» dei coniugi. E del resto una tale ricostruzione troverebbe sostegno nel non avere il legislatore preteso il consenso di entrambi i coniugi alla stipula dell’acquisto. Sennonché, una tale ipotesi – in cui, tra l’altro, la nozione di «bene» è concepita essenzialmente in relazione al management del patrimonio (cfr. art. 180 c.c.) - tradirebbe il principio di riferimento del regime legale la cui ratio non è, come da molti si era immaginato, quella di collettivizzare la ricchezza familiare – quindi trasformare la proprietà personale dell’un coniuge in collettiva di entrambi –, ma di considerare il patrimonio familiare come il risultato della uguale partecipazione dei coniugi al ménage familiare.
Si deve ammettere, sotto questo profilo, che il rifiuto del coniuge di acquistare un bene coniugale, di formazione giurisprudenziale, oltre che violare il principio di uguaglianza delle quote (art. 210 c.c.), finisce per alterare l’equilibrio patrimoniale tra i coniugi preteso in costanza del regime legale. Nella prima elaborazione concettuale (Cass. 2688/1989), infatti, non precludendo all’un coniuge la conclusione del negozio né l’uso del danaro comune (indi la spendita di una risorsa della comunione) e impedendo, piuttosto, l’effetto dell’acquisto in capo al coniuge rifiutante, il rifiuto, in questa dimensione, era senz’altro causa dell’incremento del patrimonio personale del coniuge acquirente a fronte di un corrispondente decremento del patrimonio coniugale cui appartiene iuris et de iure il danaro utilizzato. Contra T. AULETTA, op. cit., p. 49; per l’A. il rifiuto del coniuge «non viola il principio di parità delle quote … perché il divieto è volto ad evitare che un coniuge riesca ad imporre patti discriminatori in danno dell’altro, situazione di certo non esistente quando alla base del rifiuto vi sono motivazioni di convenienza dell’acquisto».
[7] Per una attenta critica a questa teoria si rinvia ai rilievi di V. DE PAOLA, Il Diritto Patrimoniale della Famiglia nel Sistema del Diritto privato, t. II, 2002, p. 640.
[8] I momenti contributivo e distributivo del regime legale sono caratterizzati, il primo dall’uguale apporto dei coniugi, il secondo dalla distribuzione del bene simmetrica alla contribuzione.
[9] Il legislatore riformista, infatti, prescinde dall’effettivo apporto di ciascuno dei coniugi e presume iuris et de iure un identico contributo all’acquisto. Sul tema cfr. Cass. 18 giugno 1992, n. 7524, in Dir. fam., 1993, p. 75; Cass. 16 dic. 1993, n. 12439; Cass. 27 febbraio 2003, n. 2954.
[10] Al contrario, il coniuge in regime di separazione non è obbligato, come il coniuge in comunione legale (ex lett. c), art. 186 c.c.), a concorrere all’adempimento delle obbligazioni separatamente contratte dal consorte, dovendo, piuttosto, contribuire ai bisogni della famiglia proporzionatamente alle proprie capacità economiche (ai sensi dell’art. 143 c.c.). Ciò determina, sul piano pratico, maggiori possibilità di soddisfazione per i creditori del coniuge in regime di comunione rispetto ai creditori del coniuge separatista, potendo soltanto i primi agire, ai sensi dell’art. 186, lett. c), c.c., anche sui beni comuni del coniuge non agente. Ai creditori del coniuge in regime di separazione dei beni non compete che il patrimonio del coniuge agente, il quale, al più, potrà agire in regresso nei confronti del consorte, non avendo il dovere contributivo ex art. 143 c.c. una rilevanza esterna (e dunque diretta) se non attraverso una disposizione attuativa del principio espresso dalla norma.
[11] Così, R. CARAVAGLIOS, op. cit., p. 26. (101) Ancora R. CARAVAGLIOS, op. cit., 21.
[12] Ancora R. CARAVAGLIOS, op. cit., 21.
Il percorso intrapreso per dare una soluzione al problema della posizione del coniuge co-acquirente non agente, suggerisce di affrontare altro tema su cui dissentire dalla opinione prevalente. La dottrina, infatti, non ha del tutto chiarito, sul piano teleologico e concettuale, la distinzione tra la funzione distributiva e la cosiddetta efficacia estensiva, accreditando alle norme in tema di comunione legale tale ultimo fenomeno e facendo da essa discendere l’acquisto del non agente. Non convince il tentativo della dottrina di affidare alla lett. a) dell’art. 177 c.c. una speciale efficacia estensiva con finalità ripartitoria dell’acquisto stipulato dall’un coniuge, né sembra possibile difendere le ragioni a sostegno dell’opinione che, da tale particolare fenomeno, fa conseguire l’effetto acquisitivo in capo al coniuge non-contraente.
Seguendo questa impostazione, i due acquisti, del coniuge contraente e del non-contraente, si connoterebbero per la differente natura giuridica, configurando il primo un acquisto tipicamente negoziale, laddove l’acquisto del non agente si identificherebbe come ipotesi di acquisto legale, riconoscendo, questa dottrina, il fenomeno efficacia estensiva come effetto legale[1].
Per il solo fatto di promuovere la legge a rango di fonte dell’acquisto del non contraente[2], questa elaborazione della nozione efficacia estensiva della comunione legale non può essere accolta. Sebbene la dottrina teorizzi il fenomeno efficacia estensiva alla stregua di un effetto legale[3], essa, tuttavia, immagina l’acquisto del non agente come la conseguenza dell’estensione dell’ambito soggettivo della normale efficacia del negozio stipulato dal consorte[4]. Persino in tale più attenta prospettiva l’acquisto del non contraente si distingue dall’effetto legale.
I due fenomeni, cui si è appena fatto cenno, come ancora si dirà, sono entrambi da collocarsi nel momento di produzione degli effetti[5], e, più di tutto, la funzione distributiva (e non l’efficacia estensiva) è una peculiarità della comunione legale, limitandosi tale fenomeno all’automatismo della ripartizione della ricchezza familiare voluta dai coniugi con la scelta del regime comunistico; non è un effetto giuridico ma un modus operandi della legge (art. 177, lett. a), c.c.), laddove l’efficacia estensiva ha una finalità dilatatoria del normale ambito soggettivo degli effetti del negozio[6].
Orbene, se i due fenomeni operano nel medesimo momento negoziale – e cioè nel momento della produzione degli effetti – essi, tuttavia, si distinguono per il differente modo di operare, atteggiandosi la funzione distributiva (ex art. 177, lett. a), c.c.) a disciplina degli effetti conseguenti al negozio di acquisto separato, laddove l’efficacia estensiva interviene (come nell’ipotesi ex art. 510 c.c.) per deviare gli effetti negoziali (anche) in una sfera giuridica diversa dall’autore del negozio. Comune denominatore nelle due ipotesi è la natura negoziale degli effetti – impregiudicata dal modo di operare dei due fenomeni –, laddove il fattore di insanabile distinzione rimane la maggiore (o minore) autonomia del soggetto destinatario, che di fronte all’effetto conseguente al funzionamento dell’efficacia estensiva, trattandosi pur sempre di effetti negoziali, può efficacemente opporre il proprio rifiuto[7], mentre l’effetto per funzione distributiva – pur configurando un effetto tipicamente negoziale, ma non essendo il co-acquirente in posizione di terzo – non concede al coniuge non agente il diritto di rifiutare l’acquisto.
Questi argomenti non persuadono la dottrina della necessità di riconsiderare la posizione del coniuge acquirente non agente. Si afferma, infatti, che il principio di personalità del consenso, vigente nel nostro sistema giuridico, non consente di attribuire la paternità del negozio a chi non manifesta la volontà negoziale e, per questa ragione, il coniuge non contraente, estraneo all’accordo negoziale, sarebbe terzo acquirente[8]. Il rilievo, come si è potuto osservare, riscuote i maggiori consensi della dottrina di settore, ma la consapevolezza di tale intrascurabile principio stimola, piuttosto, a ulteriori approfondimenti da cui dimostrare che il dogma della personalità del consenso – utilizzato per smentire ogni collegamento tra il negozio di acquisto separato e il consorte non agente – è, nel caso in studio, utile a fugare ogni residua incertezza sulla effettiva esistenza della volontà negoziale (anche) del coniuge non contraente.
[1] A conclusioni diverse perverrebbe C. DONISI, Ricerche, p. 64, cit., per il quale il fenomeno efficacia estensiva si risolverebbe, piuttosto, in una speciale attitudine dell’effetto negoziale.
[2] A tale conclusione perviene la dottrina, osservando – v. nt. 3 – che si tratterebbe di un effetto legale del contratto.
[3] Ipotesi, questa, smentita dalle ricerche della civilistica; sul punto si rinvia ancora a C. DONISI, L’efficacia estensiva dell’accettazione di eredità con il beneficio d’inventario, in Riv. dir. civ., 1975; il quale distingue tra efficacia estensiva ed effetto estensivo
[4] E quantunque l’acquisto del non contraente fosse realmente effetto della efficacia estensiva, si dovrebbe ugualmente concludere, alla luce dei rilievi della dottrina (C. DONISI), per la natura negoziale di tale acquisto, non mutando il fenomeno estensivo la natura delle effetto.
[5] Quindi, come pure si anticipava, pur chi ipotizza l’acquisto del non contraente come espressione del fenomeno efficacia estensiva dovrà ammettere che l’effetto dell’acquisto resta un effetto negoziale.
[6] In linea con questa osservazione prende corpo l’ipotesi di una effettiva dissociazione dell’efficacia estensiva dall’effetto legale, talora impropriamente associati dalla giurisprudenza. Le argomentazioni favorevoli a una sovrapposizione concettuale lascerebbero immaginare che la legge, nel caso di efficacia estensiva, non si limiterebbe ad incidere, con effetto dilatatorio, sul profilo soggettivo di efficacia del negozio deviandone il naturale percorso, ma si porrebbe persino come fonte dell’effetto, sostituendosi, in tale atteggiamento, alla causa negoziale. Per quanto ancora possibili evoluzione sul tema, si deve preferire la dottrina (C. DONISI) che distingue l’efficacia estensiva dall’effetto legale – par. 8 – sia sotto il profilo meramente nozionistico che sostanziale, giacché la norma, nell’ipotesi di efficacia estensiva, non è causa dell’effetto. Ipotesi normativa di efficacia estensiva è il beneficio di inventario. Esso giova ai chiamati diversi dall’accettante cum beneficio perché l’art. 510 c.c. estende il profilo soggettivo di efficacia del negozio di accettazione compiuto da uno soltanto degli eredi. La fattispecie normativa permette ai chiamati diversi dall’accettante richiedente di avvantaggiarsi degli effetti del beneficio soltanto se vogliono giovarsene e, in tale ipotesi, non dovendo rinnovare le prescritte formalità. Non essendo, infatti, l’operatività dell’art. 510 c.c. subordinata a una successiva adesione degli altri chiamati all’accettazione già compiuta dal chiamato cum beneficio, essi sono chiamati beneficiari in virtù del negozio, che nei loro confronti produce l’effetto del beneficio, e non per effetto dell’art. 510 c.c. la cui funzione è quella di estendere il beneficio d’inventario a tutti i chiamati all’eredità
[7] Come del resto è dimostrato nell’ipotesi del beneficio d’inventario ex art. 510 c.c. dove i con-chiamati possono dichiarare di non voler profittare degli effetti del beneficio (art. 490, n. 3, c.c.).
[8] Questa tendenza della civilistica non può essere accolta. Malgrado il diverso ambito di incidenza, l’art. 184 c.c., applicabile agli atti di amministrazione straordinaria diversi dagli acquisti, può aiutare ad approfondire il livello di indagine. La norma, nel sancire la invalidità del negozio privo del concorso coniugale, legittima il coniuge non contraente all’azione di annullamento. Aldilà delle differenti opzioni esegetiche accreditate alla norma, è sufficiente per ora affermare un primo dato: al coniuge non contraente è riconosciuta la legittimazione processuale all’azione di annullamento. Si aggiunga, a quanto detto, che l’art. 1444 c.c. ammette il «contraente» alla legittimazione alla convalida. Se ora si riflette che l’art. 1441 c.c. riserva l’azione di annullamento non a «chiunque abbia interesse», come è per l’azione di nullità, ma alla «parte interessata», e cioè al contraente, e che l’art. 184 c.c individua nel consorte non agente il soggetto legittimato all’annullamento e alla convalida – e sul punto cfr. ancora C. Cost., n. 311 del 1988, in Giust. civ., 1988, I, p. 1299 – è agevole concludere che il coniuge, benché assente, é parte de iure dell’atto separato stipulato dal consorte (su tale argomento, a conclusioni diverse perviene V. DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, Milano, 2002, p. 665). E del resto, non si potrebbe dare una diversa spiegazione del concetto di «parte interessata», cui riferisce la norma, se non quello di «parte del contratto». Se poi, a maggior ragione, si analizzano le ipotesi di annullabilità contrattuale di derivazione codicistica, è già possibile accertare che la legittimazione all’annullamento, se non emergono ragioni di ordine pubblicistico che giustificano un’eccezionale ipotesi di annullabilità assoluta, appartiene al contraente giacché soltanto la condizione giuridica di parte del contratto è sede dell’interesse negoziale.
Precisazioni, queste, che, a ben vedere, consentono di scorgere nella natura giuridica degli strumenti di tutela predisposti dal legislatore il sintomo della effettiva collocazione del coniuge rispetto all’atto giuridico, perché se il non agente fosse in posizione di terzo, ovvero di soggetto interessato ai soli effetti, di porrebbe non dell’annullamento o della convalida bensì della facoltà di rifiutare (o aderire) agli affetti.
L’esposta problematica e, soprattutto, la tipologia delle azioni a tutela del coniuge (art. 184 c.c.) provano la volontà del legislatore di considerare l’assenza dal negozio circostanza insufficiente a privare il coniuge non agente della qualità di parte negoziale.
L’iter per giungere a questa conclusione suppone risolta ogni residua incertezza sulla effettiva partizione tra acquisto riflesso e acquisto per efficacia estensiva, diversità insita nella natura giuridica delle due ipotesi di acquisto, atteggiandosi la legge nel primo caso al duplice ruolo di fonte e titolo dell’acquisto, laddove, nel secondo, l’acquisto è l’effetto del contratto[1]. Tale ultima osservazione non consente analogie tra le due ipotesi[2], costituendo i due modi di acquisto tipologie differenti (legale e negoziale).
Questa critica alla tesi prevalente, che di seguito troverà spunti di maggiore interesse, avverte dell’inconsistenza del tentativo di dottrina e giurisprudenza di chiudere il difficile capitolo aperto dalla legge di riforma del ’75, che improbabilmente potrà essere archiviato configurando il coniuge non agente acquirente alla stregua di terzo beneficiario (negoziale o legale). Se, peraltro, inquadrato il problema in una prospettiva conflittuale tra i coniugi, si considera l’affollamento dei Tribunali e delle Corti territoriali, la posizione di terzo acquirente del coniuge non agente appare, forse, la soluzione più accessibile perché immediatamente si presta a una prima interpretazione, ma essa è inaccettabile alla luce dei fondamentali principi contrattuali[3].
Il modo di operare della funzione distributiva prelude ogni osservazione al fenomeno che la civilistica spiega come «efficacia estensiva della comunione legale» e che la dottrina di settore[4] ricava dalla lett. a) dell’art. 177 c.c. È essenziale ai nostri obiettivi approfondire questa interpretazione della norma, condivisa dalla giurisprudenza prevalente, perché nella efficacia estensiva risiede la più accreditata e diffusa chiave di lettura del fenomeno co-acquisitivo.
Di efficacia estensiva, come pure si è detto, la dottrina ha già discusso avendo riguardo ad altre fattispecie presenti nel codice civile. È stato sostenuto[5], a riguardo, che la efficacia estensiva non si traduce in un effetto ulteriore ed autonomo dall’atto ma in «una attitudine estensiva dell’unico effetto»[6]. Il rilievo ha permesso di distinguere l’efficacia estensiva (generata dalla norma) – la cui conseguenza è l’ampliamento dell’ambito soggettivo di efficacia del negozio[7] –, da altro fenomeno in cui l’effetto è autonomo dal negozio. È questa l’ipotesi dell’effetto riflesso, non avente natura causale ma una provenienza legale, configurandosi, tale effetto, come una conseguenza della legge e non del negozio[8]. L’effetto, in tale ultima ipotesi, non ha alcun rapporto derivativo con l’atto giuridico[9] e la dottrina[10], a riguardo, identifica nella sequenza fatto-effetto-fatto l’origine dell’effetto riflesso da cui dedurre una disciplina giuridica differente da quella riservata all’effetto negoziale[11]. E non potrebbe essere diversamente se, come pure s’è detto, l’effetto riflesso non ha una matrice negoziale.
Questi differenti presupposti danno conto di una diversità sostanziale dei due fenomeni, avendo l’effetto riflesso una genesi normativa[12], laddove l’efficacia estensiva è «una caratteristica» – dunque un’attitudine e non un effetto – di quelle vicende «il cui operare prescinde da qualsiasi atteggiamento subbiettivo»[13]. L’efficacia estensiva, in tale più attenta valutazione, è persino privata della capacità di pregiudicare la natura causale degli effetti sui quali, piuttosto, incide dilatando l’ambito soggettivo di efficacia del negozio senza recidere il rapporto di causalità diretta con la volontà negoziale[14].
La variante nelle due ipotesi è il differente atteggiamento della norma, che nella efficacia estensiva è causa del solo fenomeno estensivo sancito dalla legge[15], laddove rispetto all’effetto riflesso si pone come fonte dell’esito negoziale.
Opposte a queste conclusioni conducono le argomentazioni maturate dalla dottrina secondo cui, seguendo la dinamica evolutiva della efficacia estensiva attribuita alla comunione legale, l’atto separato stipulato in costanza di regime legale, per effetto della lett. a) dell’art. 177 c.c., estenderebbe i propri effetti oltre la sfera del coniuge agente fino a raggiungere il consorte non agente. Non avendo concorso alla formazione della volontà negoziale, il non contraente sarebbe, perciò, terzo acquirente ex lege[16]. E del resto, producendo effetti nella sfera del non contraente, l’atto separato non potrebbe che essere – secondo i rilievi di questa dottrina – di eccezione alla relatività del contratto[17].
Gli argomenti che si sono esposti consentono di comprendere l’equivoco di questa teorica da cui, ancora una volta, emerge la tendenza ad una errata sovrapposizione concettuale tra efficacia estensiva ed effetto riflesso[18].
Non essendo la relativita contrattuale di preclusione a qualsiasi tipo di effetto giuridico[19], questa spiegazione non può essere accolta. Gli effetti legali, infatti, producendosi nella sfera giuridica del terzo, non violano il canone della relatività contrattuale avendo essi autonomo accesso alla sfera privata.
Dalla opinione dominante della dottrina, a cui improbabilmente la legge di riforma ha potuto dare un contributo sostanziale, si dissente, dovendo osservare, a riguardo, che l’aspetto non convincente della prospettata spiegazione è l’avere accreditato alla (accresciuta) efficacia dell’unico negozio – stipulato dall’un coniuge – l’acquisto del consorte non agente. Che si tratti di «efficacia estensiva della comunione» oppure, come crediamo, di «effetto del negozio», è, in ogni caso, da escludere la possibilità di configurare l’acquisto del non contraente come ipotesi di acquisto ex lege.
Non avendo la riforma del ’75 interessato le sole norme riguardanti la proprietà esclusiva e coniugale dei beni, e avendo la legge corretto i principi informatori del diritto di famiglia[20], la lett. a) dell’art. 177 c.c. - che rappresenta il quid novi della legge di riforma va recensita non, come vorrebbe la dottrina, in una dimensione esclusivamente patrimonialistica volta ad assicurare al coniuge non agente parte delle ricchezze familiari, ma inquadrata in un contesto generale connotato dalla volontà dei coniugi di concordare anche l’aspetto patrimoniale dell’indirizzo familiare che ciascuno di loro (separatamente e con potere rappresentativo del consorte) ha il diritto di realizzare. Sicché la scelta del regime patrimoniale, attraverso cui decidere dell’organizzazione (prevalentemente comunitaria o separatista) da dare alla vita familiare, è parte integrante di un più ampio accordo coniugale e, trattandosi di comunione legale, l’un coniuge dispone, ai sensi del 2° comma dell’art. 144 c.c.[21], del potere di attuare l’indirizzo concordato, non escluso il diritto di acquistare nell’interesse comune dei coniugi[22].
In questa più appagante prospettiva è già possibile accertare che il regime patrimoniale prescelto dai coniugi è un profilo essenziale dell’«indirizzo della vita familiare»[23] – art. 144 c.c. –, non potendo i coniugi privarsi di un regime secondario da affiancare al regime primario della famiglia – art. 143 c.c. ss. I rilievi che precedono consentono di obiettare l’affermazione della dottrina secondo cui la lett. a) dell’art. 177 c.c. è un modo attraverso cui garantire il coniuge non agente della proprietà sostanziale (SANTOSUOSSO) perché l’acquisto separato è semmai espressione di quel «potere di attuazione» che il 2° comma dell’art. 144 c.c. affida a ciascuno dei coniugi e che con la lett. a) dell’art. 177 c.c. trova piena attuazione[24].
Questa conclusione misura le distanze tra la nostra proposta esegetica e la soluzione prevalente della dottrina in cui l’acquisto del non agente è attribuito al fenomeno della efficacia estensiva del negozio di acquisto separato.
La infondatezza di tale ultima opzione ermeneutica emerge a maggior ragione se si analizza il percorso cui
l’oggetto del trasferimento è costretto a seguire per raggiungere il patrimonio del coniuge non contraente.
Due sono le teoriche che, in vista di tale obiettivo, si prestano a un attento esame:
Una tra le più autorevoli opinioni della dottrina immagina l’acquisto del coniuge non agente attraverso un doppio trasferimento: dall’alienante al coniuge contraente, e da quest’ultimo al coniuge non agente. Evidente è l’analogia con la rappresentanza impropria di diritto comune, riproducendo questa teoria lo schema del mandato senza rappresentanza in cui il rappresentato acquista a seguito di un secondo trasferimento successivo al primo acquisto stipulato dal rappresentante.144
Le critiche a questa impostazione risalgono a due ordini di ragioni. Innanzitutto, il mandante non conferente del potere rappresentativo acquista in conseguenza di un nuovo trasferimento e, nell’impianto normativo, non v’è traccia di un doppio passaggio[26]; trattandosi, per di più, di un co-acquisto e non di un ritrasferimento, non esiste consecutività cronologica dell’acquisto a favore del coniuge non agente.
L’esposta teoria mostra, peraltro, un’insanabile incompatibilità con il fenomeno
«efficacia estensiva della comunione» perché, se è esatta l’analogia allo schema del mandato senza rappresentanza, cui si è fatto appello, essa esclude qualsiasi estensione dell’efficacia del negozio separato, conseguendo l’acquisto del coniuge non agente a un secondo trasferimento e non al primo acquisto tra alienante e coniuge agente.
È utile accennare brevemente alla teoria che, pur senza i favori della dottrina, ha senz’altro rappresentato uno dei punti fermi della evoluzione dottrinale sul tema. Si sostiene che ad acquistare siano non i coniugi ma direttamente la comunione, essendo il regime legale un centro autonomo di imputazioni giuridiche.
Per spiegare questo insegnamento occorre fare ricorso al rapporto organico – c.d. rappresentanza organica – attraverso cui il soggetto giuridico si manifesta nei rapporti esterni attraverso l’azione dei suoi organi; contraente (nonché beneficiario) è, in tal caso, il soggetto giuridico, e cioè la comunione. Il coniuge contraente, in questa prospettiva, agirebbe in veste di organo del soggetto comunione in virtù di un potere di agire ex lege. E del resto l’unico strumento disponibile al soggetto giuridico per esprimere la propria volontà è la persona fisica (quale di organo del soggetto).
La dottrina esclude che il legislatore riformista abbia potuto impiantare nella normativa codicistica un soggetto sostitutivo dei coniugi, avendo piuttosto stabilito una contitolarità nei rapporti[28].
Le due teorie non lasciano dubbi circa il soggetto acquirente, che nella proposta sub a) sono i coniugi (agente e non agente) consecutivamente ed in conseguenza di due distinti negozi; nella teoria sub b) il medesimo soggetto agente, cioè la comunione, attraverso l’opera dell’un coniuge[29].
Anche la seconda delle due soluzioni preclude ogni possibile apertura alla teoria «efficacia estensiva» perché se l’acquirente è il medesimo soggetto agente (e cioè la comunione) l’atto di acquisto non estende la propria efficacia oltre la parte costituita in contratto, non esistendo altro soggetto, oltre la comunione, cui imputare l’effetto dell’acquisto. In vero il rapporto organico, al cui schema si affida questo insegnamento, immedesimando l’ente nell’organo agente, fa si che lo stesso soggetto di diritto è parte del negozio.
Orbene, se l’ampliamento della normale efficacia negoziale suppone due condizioni concorrenti[30], la resistenza alla formula «efficacia estensiva» muove dagli schemi su cui si fondano le due fondamentali teoriche, giacché gli istituti del rapporto organico e del mandato senza rappresentanza, cui è ispirata la seconda delle tue ipotesi teoriche, smentiscono ogni affinità con il detto fenomeno.
Alla luce della suggerita rilettura del fenomeno co-acquisitivo[31] può ora più persuasivamente essere sostenuta la posizione di parte sostanziale del coniuge non agente rispetto all’atto separato.
Non è opportuno ritornare in argomento, ma occorre ribadire che la spiegazione «acquisto ex lege», tutt’ora prevalente nella dottrina, sarebbe credibile qualora l’effetto a favore del coniuge non agente fosse la conseguenza inevitabile di una norma applicabile in ogni caso, quale che sia il regime patrimoniale. Trattasi, al contrario, di una disposizione (art. 177 c.c.) appartenente a un regime discrezionale - quello della comunione - la cui derogabilità è impedita dalla vigenza del regime stesso – è un regime inderogabile ai sensi dell’art. 210 c.c. -, attuato attraverso un accordo (art. 144 c.c.) risolubile in ogni tempo, potendo i coniugi cambiare (ai sensi dell’art. 159 c.c.) il profilo patrimoniale «dell’indirizzo della vita familiare» concordato ai sensi dell’art. 144 c.c.[32] L’acquisto in favore del non contraente non è, per questa ragione, espressione della coercizione della volontà dei coniugi[33] ma l’effetto del loro consenso.
La posizione del coniuge non contraente, che si è detto essere un vero e proprio rappresentato, potrebbe aprire un varco al tema di responsabilità. L’esatta qualificazione giuridica del non agente rispetto all’atto separato, inquadrata nell’ampio fenomeno rappresentativo, implica, infatti, la soluzione al tema della responsabilità per gli obblighi nascenti dall’acquisto. La responsabilità per le obbligazioni ex contractu, insussistente se il non contraente fosse in posizione di terzo acquirente, è una conseguenza dell’atteggiamento del coniuge non agente, nella cui sfera giuridica ricadrà non soltanto l’effetto dell’acquisto, ma altresì l’obbligazione di pagare il corrispettivo nonché di adempiere ogni altra obbligazioni contrattuale[34]. In quanto parte sostanziale, il non agente ha legittimazione attiva e passiva rispetto alla causa giudiziale di annullamento, risoluzione, rescissione e simulazione del contratto separato. È in facoltà del non agente pretendere la trascrizione dell’acquisto concluso dal consorte, promuovere l’azione di responsabilità contro l’alienante, chiedere all’alienante l’esecuzione della prestazione (subirne l’espropriazione in conseguenza dell’annullamento, rescissione e risoluzione del contratto) perché l’esigenza della pubblicità immobiliare, la responsabilità dell’alienante e la consegna della cosa sono eventi legati al consenso oltre che al diritto di proprietà.
Si può affermare, conclusivamente, che anche gli oneri e le azioni pertinenti la manifestazione del consenso competono al coniuge non contraente e sono contro di esso esperibili, estendendosi la responsabilità del non contraente sino agli oneri contrattuali ulteriori ad esclusione della responsabilità precontrattuale imputabile esclusivamente al dolo o alla colpa del soggetto agente[35].
Il mandatario (recte, coniuge agente) dovrà, da parte sua, eseguire il mandato nell’interesse della famiglia e con la diligenza pretesa all’art. 1710 c.c.[36]
Per le implicazioni che ne derivano, queste osservazioni esigono una ulteriore spiegazione avendo altri correlato la responsabilità del non contraente alla effettiva partecipazione alla decisione dell’agente di stipulare. Non può essere condivisa una tale spiegazione. Si deve ammettere, infatti, che in assenza di uno specifico dovere di informazione a carico del consorte agente[37], la responsabilità del non contraente sussiste a prescindere dalla partecipazione alla decisione di stipulare, avendo i coniugi conferito reciprocamente un generico potere di rappresentanza limitato a tutti gli atti di acquisto ex art. 177, lett. a), c.c. Anzi, in assenza di una norma che imponga al coniuge l’obbligo di comunicare al consorte la volontà di acquistare e stante il potere reciproco dei coniugi di attuare l’accordo raggiunto, si deve riconoscere che la sottrazione del non agente – al quale incombe l’onere di informarsi[38] – alla responsabilità contrattuale dipende esclusivamente dall’avere costui informato il consorte agente del proprio dissenso alla stipulazione. Spetta, cioè, secondo le regole del mandato, al soggetto conferente del potere – il non contraente – revocare il diritto di agire in nome e nell’interesse dei coniugi, e ciò, in via generale, mediante il mutamento del regime patrimoniale[39] oppure, limitatamente al singolo affare, attraverso la manifestazione di un formale dissenso alla singola stipulazione[40].
[1] Rileva l’osservazione se si ammette che le eccezioni contrattuali sono opponibili in quanto fondate sul contratto e sempre che il diritto del terzo costituisca una derivazione del contratto tra stipulante e promittente. Orbene, semmai si dovesse immaginare che l’acquisto del coniuge opponente è un effetto legale (e non negoziale) dovrebbe in tal caso ammettersi che le eccezioni disponibili al terzo acquirente ex lege sono quelle a difesa del diritto (come l’inadempimento o l’irregolare adempimento dello stipulante) e non le eccezioni a difesa del contratto.
[2] Su questo aspetto si rinvia a C. DONISI, Ricerche, p. 64, spec. nt. 47; spunti generali sono in A. TRABUCCHI, Istituzioni, 1990, p. 272, spec. nt. 1.
[3] Tale osservazione è invocata dagli stessi Autori – P. SCHLESINGER, G. CIAN, A. VILLANI, T. AULETTA, A. GALASSO, M.Glaasso – che, pur negando al coniuge non agente la posizione di parte del contratto, contestano altresì che il non agente possa essere assimilato al terzo acquirente; un (improbabile) tertium genus al quale opporre le vicende contrattuali pur non essendo parte del contratto.
[4] Sul tema, G. TEDESCHI, Il regime patrimoniale della famiglia, in Trattato dir. civ. it., diretto da F. Vassalli, IV, vol. III, t. I, Torino, 1963, p. 312; M. COMPORTI, Gli acquisti dei coniugi in comunione legale, in Riv. not., 1979, p. 46; F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, in Trattato dir. civ. comm., diretto da A. CUCU e F. Messineo, vol. 1, p. 68; M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, Milano, 1984, p. 868; P. SCHLESINGER, Della comunione legale, in Comm. dir. it. fam., diretto da G. CIAN-G. OPPO-A. Trabucchi, Padova 1992, vol. III, p. 92.
[5] Per tutti, C. DONISI, Ricerche, p. 62 ss.
[6] Tale attitudine si concreta nella idoneità dell’effetto a raggiungere anche la sfera di un soggetto diverso dall’autore dell’atto (recte, estensione dell’ambito soggettivo del contratto). Ma più che l’attitudine dell’unico effetto, l’efficacia estensiva è la capacità della norma di amplificare l’effetto negoziale oltre la sfera dei contraenti. In tal senso l’efficacia estensiva è la capacità della norma e non l’attitudine dell’effetto, nel senso, cioè, che qualsiasi effetto negoziale è idoneo raggiungere la sfera di un soggetto diverso dal contraente se lo prevede la norma giuridica. Potrà essere condivisa questa obiezione se si comprende che l’effetto è riconducibile al negozio, laddove l’efficacia estensiva è conseguenza della norma che, attraverso la previsione legislativa, aziona il fenomeno estensivo amplificando l’ambito soggettivo del negozio.
[7] Circostanza utile ad affermare che l’effetto, benché esteso dalla norma, non sovverte la propria origine negoziale per essere stato trasmesso anche ad altro soggetto diverso dal contraente.
[8] In questa spiegazione trovano sostegno le teorie di M. FINOCCHIARO, op. cit., 1984, p. 870, p. 1002, che esclude il coniuge non agente dal rapporto, del quale unica parte è il coniuge agente. Tali teorie riconducono il fenomeno co-acquisitivo nell’ampia categoria degli acquisti ex lege. Di fronte a questa diffusa proposta, si capisce che il rapporto è tra effetto e norma, e, sotto questo profilo, non v’è differenza tra chi configura l’acquisto del coniuge non agente come ipotesi di acquisto legale e chi, ricorrendo a una ipotesi di integrazione del contratto (M. DE RUBERTIS) qualifica l’acquisto come effetto legale del contratto – sul punto si rinvia ai rilievi già esposti in nt. 3; cfr. F. SANTORO-PASSARELLI, op. cit., p. 230.
[9] Essenziali a una migliore comprensione dell’argomento sono i rilievi di M. BIANCA, Il Contratto, Milano, 1987, p. 497; F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine, p. 264 ss.
[10] P. PERLINGIERI, ivi, p. 164.
[11] In tale rigorosa sequenza si spiega l’acquisto per accrescimento rispetto al quale l’atto è l’origine non causale dell’effetto riflesso, e il rapporto causale permane tra norma ed effetto.
[12] Così è per l’accrescimento ex art. 676 c.c. ove il realizzarsi dei presupposti legali stabiliti all’art. 674 c.c. determina l’acquisto di diritto della quota vacante.
[13] C. DONISI, Ricerche, cit., p. 64. Essenziale a questa trattazione è la consultazione di P. BARCELLONA, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969, p. 165 ss.; A. FALZEA, voce Efficacia giuridica, in Enc. dir., Milano. In questa prospettiva, la distinzione cui deve procedersi è triplice dovendosi differenziare l’efficacia estensiva – che si è detto essere un meccanismo normativo con funzione espansiva del profilo soggettivo del contratto, non incidente sulla natura (negoziale) dell’effetto espanso –, la funzione distributiva – che si risolve nell’automatismo dell’effetto acquisitivo senza mutare la natura negoziale dell’effetto distribuito –, l’effetto riflesso – che è effetto legale involontario e irrinunciabile –. La differenza, quanto alle conseguenze, tra i fenomeni efficacia estensiva e funzione distributiva è, come si è potuto osservare, nella disponibilità dell’effetto conseguente alla efficacia estensiva – essendo rifiutabile ad opera del destinatario – e nella indisponibilità dell’effetto che sia conseguenza della funzione distributiva. A tali differenze sono riconducibili i due orientamenti giurisprudenziali della Corte 2688/1989, in cui si affermava la rifiutabilità del co-acquisto ad opera del non agente, e 1917/2000 in cui, invece, se ne sosteneva la irrifiutabilità. L’accennata tripartizione consente di identificare le coordinate cui è ispirata la teoria, prevalente nella dottrina, di G. DE RUBERTIS. L’Autore definisce il co-acquisto come l’effetto legale del contratto stipulato dal coniuge agente, collocando l’acquisto del non contraente nell’ampio fenomeno della integrazione del contratto ex art. 1374 c.c. L’opinione, in linea con la natura legale degli effetti integrati previsti dalla norma, non appare compatibile con la funzione distributiva e ripartitoria che la dottrina attribuisce alla comunione legale. Si deve ribadire, infatti, che se la integrazione del contratto è fenomeno coercitivo della volontà delle parti – obbligate dalla norma ad adempiere anche gli effetti legali del contratto – vedi nt. 3 –, la funzione distributiva è mera disciplina giuridica degli effetti destinata a regolare i flussi patrimoniali dei coniugi in regime di comunione.
[14] Coerenti con queste osservazioni, seppure si volesse aderire alla teoria prevalente, si dovrebbe escludere che l’acquisto del non contraente possa integrare un effetto legale. Configurando, infatti, l’effetto riflesso [A] un effetto legale [B], e non sostituendo l’efficacia estensiva la natura negoziale dell’effetto (che, dunque, resta un effetto causale), la formula «efficacia estensiva della comunione legale» [C], gradita alla dottrina specialistica, consente ugualmente di identificare il coniuge non agente in posizione di acquirente per effetto del negozio [D]. Si avrebbe, cioè, che: A : B = C : D
[15] Si rinvia al par. 7.
[16] Rispetto a questa ipotesi si avrebbe, dunque, che: C : B = A : D. Sul punto cfr. G. DE RUBERTIS, op. cit., p. 873.
[17] Ma si sono esposte (par. 4) le ragioni per le quali gli effetti legali non sono di violazione al detto principio. Il maggiore equivoco di questa teorica è, dunque, di immaginare una analogia tra l’efficacia estensiva e l’effetto legale, quando, piuttosto, il fenomeno efficacia estensiva è destinato a correggere – per voluntas legis – il normale funzionamento degli effetti negoziali; è, per questa ragione, un modus operandi e non un effetto giuridico.
[18] Equivoco di cui già avvertiva C. DONISI, op. cit.
[19] In tal senso argomenta art. 1372 c.c.
[20] Si è passati dalla potestà maritale alla diarchia del potere domestico in cui la regola dell’accordo è il presupposto insuperabile alle scelte familiari.
[21] La dottrina avverte che la norma riferisce del «potere» dei coniugi, espressione abitualmente riservata all’ambito della rappresentanza – argomenta E. GABRIELLI, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Corso di diritto civile, Trieste, 1981, p. 18.
[22] Naturalmente, non aderisce a questa soluzione la dottrina prevalente che delimita l’operatività dell’art. 144, 2° comma, c.c. in ambito familiare domestico (art. 186 c.c.). Il potere di attuazione dell’un coniuge, per questa teorica, sarebbe privato, per mano del legislatore (art. 180, 2° comma, c.c.), degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione.
Sul punto la dottrina di settore (E. RUSSO, «Bisogni» ed «interesse» della famiglia: il problema delle obbligazioni familiari, Le convenzioni matrimoniali, Milano, 1983, p. 251 ss.) distingue gli ordinari bisogni familiari dalle obbligazioni di interesse familiare, limitando ai primi la solidarietà passiva del non contraente e, dunque, escludendo dall’orbita di efficacia dell’art. 186, lett. c), c.c. le esigenze svincolate dal ménage familiare. Tale spiegazione, assoggettando detta norma i beni della comunione alla soddisfazione dei creditori, tiene conto delle garanzie patrimoniali a favore dei terzi che hanno contratto anche con uno solo dei coniugi senza per questo imporre limiti di efficacia al potere di attuazione dell’un coniuge.
Pur ammettendo che nell’impianto codicistico rilevano limitazioni al potere del coniuge, non può essere accolta l’opzione prevalente della dottrina, appartenendo in ugual modo alla sfera dell’interesse familiare gli atti esclusi (rectius, sospesi) dal potere di attuazione (art. 180, 2° comma, c.c.). Si può comprendere questa obiezione se si indaga la ratio della norma ex art. 181 c.c. che legittima l’intervento del giudice per il caso di rifiuto dell’un coniuge alla stipulazione (recte, vendita). Accertata l’effettiva idoneità dell’atto ai bisogni della famiglia, l’un coniuge potrà, in tale ipotesi normativa, essere autorizzato alla stipulazione separata preclusagli dal rifiuto del consorte.
L’opposizione alla interpretazione restrittiva della dottrina è nel tessuto codicistico, da cui non emergono limitazioni della sfera del potere di attuazione alle sole obbligazioni domestiche. Anzi, l’art. 181 c.c. è il sintomo della inesistenza, almeno in ambito normativo, di indizi a favore della esclusione degli atti di amministrazione straordinaria dall’ambito del potere di attuazione, sebbene non contemplati nella norma. Il potere di attuazione dell’un coniuge, piuttosto, subisce, per volontà del legislatore, limitazioni a tutela della integrità del patrimonio familiare atteso che in tale potere sono immediatamente inclusi gli atti attraverso cui incidere in uscita sui beni coniugali (art. 180, 2° comma, c.c.). Non può sorprendere questa affermazione se si riflette che l’art. 181 c.c. attenua il rigore del 2° comma dell’art. 180 c.c. rafforzando, altresì, la vocazione onnicomprensiva del potere di attuazione, nel cui ambito l’un coniuge ha facoltà di includere, per le vie giudiziarie, in un momento successivo al rifiuto del consorte, gli atti straordinari dei quali dimostri, ai sensi della suddetta norma, l’effettiva idoneità familiare. In linea con questa proposta esegetica, l’art. 181 c.c. postula, come già si anticipava, la legittimità di una autorizzazione giudiziale in luogo del consenso del coniuge alla stipula di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione. Tale provvedimento, secondo la comune opinione della dottrina – sul punto, si rinvia ai rilievi di V. DE PAOLA, Il Diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, t. II, 2002, p. 640 –, non integra la capacità del coniuge, né ad esso conferisce nuovi poteri, ma rimuove un limite all’esercizio di un diritto già esistente – espliciti sono i rilievi di C. Cost., 10 marzo 1988, n. 311, in Giust. civ., 1988, I, p. 1388, in ordine alla natura giuridica del consenso del coniuge alla stipulazione -. Fedele a questa ricostruzione è una ipotesi strutturale di interesse familiare che consente di identificare e sovrapporre la sfera del potere di attuazione dell’un coniuge all’ambito di effettiva pertinenza dei bisogni della famiglia. Cosicché:
Le esigenze familiari [A] non sono le pretese egoistiche del singolo [B]
A ≠B
ma l’equivalente di tutto ciò che rientra nei doveri matrimoniali, e cioè: la convivenza [α], il rispetto della sfera affettiva del consorte [β], l’impegno per il sostentamento familiare [γ]
A = α + β + γ
Queste sono esigenze che appartengono all’ambito oggettivo del bisogno familiare [C]
{α, β, γ} ϵ C
rispettivamente implicanti: la coabitazione [1], la fedeltà coniugale [2], il mantenimento della famiglia [3], la collaborazione [4] e contribuzione [5], l’assistenza [6], l’educazione [7], l’istruzione della prole [8], esigenze, queste, comprese nella sfera normativa (art. 143 c.c.) dell’interesse familiare [D]
α ⇒ 1; β ⇒ 2; γ ⇒ (3 + 4 + 5 + 6 + 7 + 8)
{1,2,3,4,5,6,7,8} ⊂ D
Di queste, non soltanto le esigenze [3,4,5,6,7,8], che rispondono all’ordinario interesse della famiglia ex art. 186, lett. c), c.c. [γ], cioè pertinenti il ménage familiare, appartengono alla sfera del potere di attuazione dell’un coniuge [E]
dove E = {3,4,5,6,7,8}, E ⊂ D
appartenendovi altresì gli acquisti ex lett. a) dell’art. 177 c.c. e, per effetto del dell’art. 181, co. 1, c.c., previa autorizzazione del Tribunale, gli atti (straordinari) ex art. 180, co. 2, c.c. L’insieme di queste esigenze individuali (convivenza, rispetto della sfera affettiva del consorte, impegno per il sostentamento familiare) rappresentano, quindi, gli elementi (coabitazione, fedeltà, mantenimento, collaborazione, contribuzione, assistenza, educazione, istruzione) attraverso cui si struttura l’interesse familiare, che, in relazione tra loro, divengono funzionali al bisogno della famiglia.
(la struttura dell’interesse familiare è ideata e formulata in collaborazione con la dott.essa Aurora Pacella).
È questa la ratio da recuperare alla lett. a) dell’art. 177 c.c. La norma è, in altre parole, una specificazione cui il legislatore è obbligato in conseguenza della limitazione che il potere di attuazione dell’un coniuge, sancito all’art. 144 c.c., subisce ad opera del secondo comma dell’art. 180 c.c. E del resto, il secondo comma dell’art 144, c.c. – da qualsiasi prospettiva si voglia leggere la norma, e, dunque, pur volendo scorgere in essa una procura generale reciproca ex lege tra i coniugi – non autorizza a una disapplicazione della norma per gli atti di acquisto, né sembra potersi esigere che l’art. 177 c.c. riaffermi la formula già scritta (in via di principio) in quella disposizione («a ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare …») se si ammette che essa ha un ambito di generale applicazione il cui unico limite è costituito da una diversa statuizione di legge. Invero, seguendo questa logica, l’art. 144, secondo comma, c.c. è immediatamente inapplicabile agli atti di amministrazione straordinaria diversi dagli acquisti perché, per essi, il legislatore, esigendo il concorso coniugale (art. 180, secondo comma, c.c.), ha inteso privare (almeno nell’immediato) l’un coniuge del potere di attuazione avendo privilegiato il principio dell’unica chiave di accesso per gli acquisti e della doppia chiave d’uscita per le alienazioni. Si comprende, in questa diversa prospettiva, che il maggiore equivoco della dottrina è quello di immaginare l’acquisto separato come deroga al modulo di amministrazione congiunta, essendo, piuttosto, l’art. 144 c.c. la norma da cui trae origine il potere d’agire dell’un coniuge di cui la lett. a) dell’art. 177 c.c. è conferma e rispetto al quale il secondo comma dell’art. 180 c.c. costituisce l’eccezione legale (al quale l’un coniuge può porre rimedio attraverso il disposto dell’art. 181 c.c.). Tale suggerita rilettura è peraltro esplicitata dal giudice delle leggi (cit.) che, attraverso una pur discutibile ricostruzione della natura giuridica della comunione legale, ha riconosciuto all’un coniuge il potere, di fronte ai terzi, di disporre dei beni della comunione, così confermando che il consenso del consorte per il compimento degli atti di straordinaria amministrazione, richiesto al secondo comma dell’art. 180 c.c. non attribuisce alcun (nuovo) potere ma rimuove un limite all’esercizio di un potere già esistente.
[23] In tema, e in particolare su una possibile nozione dell’accordo ex art. 144, secondo comma, c.c., cfr. F. RUSCELLO, citato in G. ARCIERI, Codice della Famiglia, a cura di M. Sesta, Milano, 2007, p. 452 ss.
[24] In linea con questo assunto, si è avuto modo di affermare – E. TREROTOLA, Il rifiuto al co-acquisto in regime di comunione legale dei beni; il principio della relatività, in Giur. mer., 1993, IV, p. 250 ss. – che la costituzione nel negozio stipulato dall’un coniuge è anche rappresentativa del coniuge assente – per una attenta critica a questa teoria si rimanda alle osservazioni di v. DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della fa miglia nel sistema del diritto privato, II, Milano, 2002, p. 402 –. E del resto, se la contemplatio domini consente la produzione diretta e immediata degli effetti nel patrimonio del rappresentato (v. DE PAOLA, op. cit.), non si deve trascurare, nella fattispecie, che è la legge (lett. a) dell’art. 177 c.c.) a disporre la comunione dell’acquisto, onerando, nella prassi contrattuale, l’acquirente di riferire il proprio status di coniuge in regime di comunione legale dei beni.
Ancora oggi la dottrina discute dell’ambito patrimoniale del potere di attuazione ex art. 144 c.c., se cioè debba essere circoscritto alle cosiddette obbligazioni domestiche – in tal senso E. RUSSO – ovvero possa trovare applicazione anche al di fuori di una concezione ordinaria del ménage familiare. Le incertezze che caratterizzano il tema accentuano un diffuso interesse se si riflette che in alcuni ordinamenti europei, ad avanzata civiltà giuridica, il problema della rilevanza esterna del regime patrimoniale della famiglia è risolto a livello normativo. In Francia (art. 220 Code Civil) come in Germania (par. 1357 del BGB) si è affermato il principio della solidarietà passiva dei coniugi rispetto alle obbligazioni contratte separatamente nell’interesse della famiglia, osservando, tuttavia, che le obbligazioni suscettibili di stipulazione separata, per il puvoir del diritto francese come per lo schlusselgewalt (potere delle chiavi) dell’ordinamento tedesco, sono incluse nell’ambito della normale conduzione familiare analogamente al vecchio «potere domestico» dell’ordinamento italiano di cui disponeva la moglie pre-riforma; pur avvertendo che il potere di gestire, conferito ex lege alla moglie, non era ispirato all’accordo coniugale e perciò diverso dall’attuale potere di attuazione previsto all’art. 144 c.c. Sul punto ZATTI, I Diritti e i doveri che nascono dal matrimonio, in Trattato Rescigno, 2, III, Torino, 1982, p. 79. Ciò che rileva nelle ipotesi menzionate è la solidarietà del coniuge non agente (responsabile a non debitore) attraverso il dovere di contribuire al ménage della famiglia, ipotesi evidentemente diversa da una partecipazione diretta del coniuge non agente alle operazioni di rilievo giuridico compiute dal consorte e realizzate attraverso il «potere di attuazione» con cui il coniuge non contraente è investito dell’efficacia dell’atto giuridico.
Il secondo profilo del problema riguarda, infatti, la natura giuridica del potere di attuazione, tuttora dibattuta tra «potere di contrattazione verso i terzi», da cui la responsabilità solidale del coniuge non contraente per le obbligazioni del consorte, e «potere di sostituzione rappresentativa ex lege» che consentirebbe agli effetti negoziali di raggiungere direttamente il coniuge non agente (non in quanto terzo ma perché parte sostanziale del negozio). In argomento, S. LENER, in AA.VV., Questioni di diritto patrimoniale della famiglia, p. 11; E. GABBRIELLI, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Corso di diritto civile, Trieste, 1981, p. 18; e F. BOCCHINI, Rapporto coniugale e circolazione di beni, Napoli, 1989, p. 54. Cfr. Ancora sulla esistenza per l’un coniuge di un potere contrattuale verso i terzi vincolante per il consorte non agente F. SANTORO-PASSARELLI, in Comm. dir. fam., a cura di L. CARRARO, G. OPPO, A. TRABUCCHI, I, 1, Padova, 1977, p. 221, 239 ss.; ID., Poteri e responsabilità patrimoniale dei Coniugi per i bisogni della famiglia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, p. 15 ss. F. SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia. Il regime patrimoniale della famiglia, in Commentario cod. civ., I, 1, III, Torino, 1983; Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. dir. civ., 1977, I, p. 614. Per la tesi che nega l’esistenza di un potere esterno cfr. G. CATTANEO, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, sub art. 217, a cura di L. Carraro, G. Oppo, A. Trabucchi, I, 1, Padova 1977; M. FINOCCHIARO, Riforma del diritto di famiglia, commentario teorico pratico alla legge 19 maggio 1975, n. 151, I, Milano, 1975, p. 152 ss.
[25] G. CIAN e A. VILLANI, La comunione dei beni tra coniugi, legale e convenzionale, in Riv. dir. civ., 1980, p. 352.
[26] M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984, p. 869. Per una critica a tele impostazione, ancora V. DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, II, Milano, 2002, p. 402.
[27] V. DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia ne sistema del diritto privato, II, Milano, 2002, p. 456 ss.
[28] Alle medesime conclusioni si potrà pervenire immaginando che il modulo sottostante al rapporto tra coniuge e comunione fosse quello del mandato (e non del rapporto organico).
[29] Ancora V. DE PAOLA, op. ult. cit., p. 456.
[30] Cioè, un unico negozio di acquisto e la estraneità al medesimo del soggetto co-acquirente.
[31] Da cui dedurre che i coniugi si sono reciprocamente attribuiti il potere di compiere acquisti anche per conto del consorte assente.
[32] Queste premesse sono la maggiore obiezione alla proposta della dottrina che vincola la responsabilità del non agente all’efficacia esterna del dovere di contribuzione ex art. 143 c.c. Se per un verso tale, non condivisibile, spiegazione accentua il vincolo della solidarietà familiare tra i coniugi, giustificando persino una responsabilità coniugale (come forma di responsabilità oggettiva) sostenibile per il solo fatto di essere coniugi, essa, tuttavia, non raggiunge l’obiettivo di affermare la responsabilità diretta del coniuge non agente per le obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia. Anzi, pur nutrendo la dottrina poche incertezze in ordine alla rilevanza esterna del dovere contributivo. In tal senso, tra gli altri, S. ALAGNA, Famiglia e rapporti tra coniugi nel nuovo diritto, Milano, 1983, p. 305 ss.; R. CARAVAGLIOS, La Comunione legale, 1995, p. 86 ss.; A. FALZEA, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. dir. civ., 1977, I, p. 628, sembra che un tale profilo dell’obbligo di contribuzione possa non essere la strada per affermare la responsabilità esterna del non agente per ogni tipo di obbligazione familiare (in tema, cfr. E. QUADRI, Obblighi gravanti sui beni della comunione, 1989, p. 768). E del resto, il principio di solidarietà, affermato nelle disposizioni generali in tema di matrimonio (artt. 143 ss. c.c.), pur limitando la responsabilità del non agente (in regime di comunione legale) a tutto quanto è ordinaria contribuzione (art. 186, lett. c), c.c.) è insufficiente a coinvolgere il coniuge nelle obbligazioni straordinarie, mancando per esse una norma equivalente alla lett. c) dell’art. 186 c.c. che, sul presupposto del dovere contributivo affermato all’art. 143 c.c. e in deroga ai principi di diritto comune (artt. 2740, 2741 c.c.), espone i beni della comunione alla soddisfazione dei creditori (sul punto lucidamente E. RUSSO, «Bisogni» ed «interesse» della famiglia: il problema delle obbligazioni familiari. Le convenzioni matrimoniali, Milano, 1983, p. 251 ss. L’A. distingue gli ordinari bisogni familiari dalle obbligazioni di interesse familiare, affermando per i primi la solidarietà passiva del non contraente. Per un confronto esaustivo, tra gli altri cfr. S. PATTI, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984, p. 67). La specialità della norma ex art. 183 c.c., si deve avvertire, è quella di apprestare un sistema di garanzie patrimoniali a sostegno del dovere coniugale di contribuire agli ordinari bisogni della famiglia non estensibile, tale obbligo, agli atti che, pur rientrando nella sfera dell’interesse familiare, esorbitano dalle esigenze quotidiane (cfr. nt. 124).
Allineato a tale osservazione, il legislatore riformista introduceva la lett. a) dell’art. 177 c.c., non inquadrabile in una prospettiva esclusivamente sostanziale e patrimonialistica ma anche negoziale e rappresentativa.
Non è arduo, allo stato delle cose, parlare di responsabilità coniugale come responsabilità oggettiva del coniuge. Una tale forma di responsabilità affonderebbe le sue radici sullo status di coniuge (come si evince dall’art. 143 c.c.), dovendo distinguere tra coniuge in regime di comunione e coniuge in regime di separazione soltanto ai fini della responsabilità diretta verso i terzi e non per affermare la responsabilità del coniuge non agente, che, in ogni caso, discende dal dovere di contribuzione ex art. 143 c.c. quale espressione del regime primario della famiglia. Il coniuge, sia esso comunista o separatista, è pur sempre responsabile delle obbligazioni separate contratte dal consorte nell’interesse della famiglia, e la differenza attiene al complesso delle garanzie a favore del terzo creditore, nei confronti del quale il coniuge non agente, in regime di separazione dei beni, non ha alcun dovere di adempimento dovendo rispondere soltanto al proprio coniuge.
In questa ottica, si deve eccepire la proposta più accreditata della dottrina che attribuisce efficacia esterna al dovere di contribuzione ex art. 143 c.c., non conferendo la detta norma ai terzi alcun potere di agire verso il coniuge non agente. Tale potere, in vero, è riconosciuto ai terzi verso il coniuge in regime di comunione avendo il legislatore, con gli artt. 186 e 190 c.c., accentuato il profilo comunitario, partecipativo e solidaristico del regime legale, riconoscendo in esso una maggiore comunione di interessi. In questo senso è legittimo parlare, anche nel nostro ordinamento, di efficacia esterna del regime patrimoniale della famiglia.
[33] Sul punto, ancora M. BIANCA, Il Contratto, Milano, 1987, p. 497; F. SANTORO-PASSARELLI, op. cit., p. 265.
[34] Di avviso contrario alla suggerita proposta nonché alla tesi della solidarietà tra coniugi, verso cui, iinvece, si mostra la dottrina prevalente, cit., è la giurisprudenza pressoché dominante che, come già detto, fa del principio della relatività ex art. 1372, 2° comma, c.c. un limite insuperabile; in tal senso cfr. Cass. 18 giugno 1990, n. 6118, in Foro it., 1991, c. 832; da ultimo, Cass. 4 agosto 1998, n. 7640, in Giust. civ., 1999, p. 791; Cass. 4 giugno 1999, n. 5487, in Fam. dir., 1999, p. 496. Contraria al richiamato prevalente indirizzo giurisprudenziale è l’unica pronuncia della Cassazione 8995/1992 (con commento di R. CARAVAGLIOS, op. cit., p. 101). (143). Sul punto cfr. Cass. 28 ottobre 1983, n. 6386.
[35] Sul punto cfr. Cass. 28 ottobre 1983, n. 6386.
[36] In questa prospettiva e in vista dell’obiettivo cui è destinato il potere di attuazione – la realizzazione dei bisogni della famiglia –, la negligenza del coniuge agente nel perseguire l’interesse familiare è senz’altro causa di responsabilità esclusiva (art. 1711 c.c.) nonché dello scioglimento della comunione (art. 193 c.c.) per il disordine negli affari dei coniugi. Non deve sorprendere una tale ultima ipotesi avendo il nostro ordinamento giuridico recepito (artt. 191 e 193 c.c.) strumenti a difesa del patrimonio – qua- li lo scioglimento ope legis della comunione legale, o la separazione giudiziale dei beni – utilizzabili dal coniuge per proteggersi dalla negligenza del consorte.
[37] L’assenza di un dovere di informazione (cioè di preavvertire il consorte della volontà di contrarre) esula dal generico dovere del mandatario, ex 2° comma dell’art. 1710 c.c., di «rendere note al mandante le circostanze sopravvenute …».
[38] In questa logica è l’art. 193 c.c. che consente al coniuge di chiedere la separazione giudiziale dei beni a causa del disordine del consorte negli affari della famiglia.
[39] In tal senso Cass. 2459/1993.
[40] Sul punto, conformemente, infra nt. 17.