Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Brevi note in tema di nullità della prova testimoniale nei contratti aventi forma scritta ad probationem e ad substantiam (di Eleonora Melis)


Il lavoro di queste brevi note è incentrato sull’evoluzione della forma scritta, ad substantiam e ad probationem, ed il legame con la prova testimoniale nel processo civile.

Dall’analisi del codice civile del 1865 e del codice del commercio del 1882 si giunge al codice attuale, sintesi delle nuove esigenze della società e dei suoi antecedenti storici, si dà conto della difficoltà insita nella nozione stessa di forma e degli sforzi della dottrina nella sua formulazione.

Si esamina la normativa sulle prove documentali, sulla prova testimoniale e sui limiti di essa nell’ambito processuale civile. Si dà conto della giurisprudenza granitica sull’eccezione di nullità e sulla rilevabilità d’ufficio e del contrasto giurisprudenziale sollevato di recente dalla III Sezione della Corte di Cassazione, nonché della soluzione adottata dalle Sezioni Unite dell’estate 2020.

Brief notes regarding nullity of testimonial evidence in contracts with ad probationem and ad substantiam written form

The work presented in these brief notes is focussed on the evolution of the written form, ad substantiam and ad probationem, and its ties to testimonial evidence in civil trials.

After the analysis of the 1865 civil code and 1882 commercial code, this work examines the current code, born of the new needs of society and its historical precursors. The intrinsic difficulties in the notion of form itself are discussed, as well as the doctrine’s efforts in formulating it.

The norms on documentary and testimonial evidence, with its limitations in the context of civil trials, are examined. A solid body of jurisprudence on the preliminary objection of nullity and its ex officio detectability is further discussed, together with the jurisprudential contrast recently raised by the III Sezione della Corte di Cassazione and the solutions adopted by the Sezioni Unite in summer 2020.

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Eleonora Melis - Brevi note in tema di nullità della prova testimoniale nei contratti aventi forma scritta ad probationem e ad substantiam

SOMMARIO:

1. La forma nei contratti: breve introduzione storica. - 1.1. La forma scritta nel codice civile. - 1.2. Le prove documentali. - 1.3. La prova testimoniale ed il rapporto con la forma scritta nel processo civile. - 2. I diversi orientamenti adottati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di nullità della prova testi-moniale. Impostazione del problema. - 3. La sentenza delle Sezioni Unite n. 16723 depositata il 5 agosto 2020 ed il principio di diritto in essa enucleato.


1. La forma nei contratti: breve introduzione storica.

I mutamenti socio-economici e culturali che hanno attraversato l’Italia negli ultimi due secoli hanno influenzato le decisioni assunte dal legislatore in sede civile e, specificamente, nel settore dei contratti e della loro forma.

Una prima evoluzione ha riguardato l’arco temporale tra il 1865 ed il 1942, periodo in cui furono promulgati il codice civile con R.D. 25 giugno 1865, n. 2358, il codice del commercio con R.D. 31 ottobre 1882, n. 1062, e, infine, quello attuale con R.D. 16 marzo 1942, n. 262.

I codici del Regno d’Italia erano testi complementari: il primo regolava tutti i settori del diritto ed era applicato indistintamente a ciascun cittadino, il secondo, invece, concerneva solo i commercianti e le società commerciali[1] e le operazioni svolte da questi[2].

Per quanto attiene al settore contrattuale, il codice civile del 1865 presentava un unico articolo, il 1104[3], inserito nel titolo IV “delle obbligazioni e dei contratti in genere”, capo I “delle cause delle obbligazioni”, relativo agli elementi essenziali del contratto, ossia la capacità a contrarre, il consenso valido delle parti, un oggetto determinato che potesse essere materia di convenzione e, infine, la causa lecita per cui obbligarsi. Nulla stabiliva sulla forma.

La decisione assunta dal legislatore si comprende alla luce del contesto storico, poiché l’area contrattuale era rimessa in gran parte all’autonoma scelta dei soggetti giuridici[4]; ciò non può dirsi per quei campi, invece, più rigidi e formali a causa del bene giuridico da tutelare, come nel caso delle successioni[5] o della famiglia[6].

Il codice del commercio, invece, non conteneva disposizioni generali sui contratti, ma stabiliva per ciascuno di essi una particolare forma ad probationem[7]o ad substantiam[8].

Il lasso temporale che copre la fine del XIX secolo e la prima metà del secolo successivo è ricco di avvenimenti storici, i quali hanno influenzato il legislatore moderno sia a livello nazionale, sia a livello internazionale. A titolo esemplificativo e non esaustivo, la Terza guerra d'indipendenza italiana (20 giugno - 12 agosto 1866) e le prime lotte sindacali nel 1882.

È certamente il XX secolo, tuttavia, ad avere un ruolo preponderante, in quanto si verificarono la prima guerra mondiale, l’istituzione della Società delle Nazioni nel 1919 (prima organizzazione mondiale ad occuparsi del benessere dell’uomo), la crisi in Germania, la marcia su Roma guidata da Mussolini nel 1922, la fondazione dell’Unione Sovietica e l’ascesa di Stalin nel 1924. Ancora, i Patti Lateranensi firmati nel 1929, il crollo della borsa negli U.S.A. e l’uscita dalla grande depressione con il New Deal. Non solo, Hitler divenne cancelliere della Germania nel 1933, vi fu lo sviluppo del colonialismo italiano e l’occupazione dell’Albania e, infine, nel 1939 l’invasione tedesca della Polonia e l’inizio della Seconda guerra mondiale. Si susseguirono poi varie occupazioni da parte della Germania, quali quelle del Lussemburgo e dell'Islanda, nei Paesi Bassi fu stabilita la dittatura e nel dicembre 1941, con l’attacco a Pearl Harbor, gli U.S.A. entrarono in guerra.

Il codice civile del 1942 fu promulgato, quindi, durante un contesto storico caotico, privo di sicurezza politica, sociale ed economica, le certezze ed i capisaldi furono smantellati dalla guerra e dalle carestie conseguenti ad essa ed il legislatore dovette adeguarsi alle nuove esigenze della società.

Occorreva, quindi, che vi fosse un unico testo di riferimento per tutti e che la circolazione dei beni dovesse accordarsi con le ragioni dei contraenti e dei terzi potenzialmente coinvolti, garantendo primariamente la certezza del diritto.

Il pregio del codice attuale è quello di aver coniugato i nuovi imperativi della società con l’eredità dei suoi antecedenti storici: il legislatore adottò il principio della libertà delle forme, stabilendo eccezionalmente la forma scritta per ciascun contratto, sia essa ad probationem sia essa ad substantiam.

Ciò può essere evinto da alcuni elementi presenti nel codice e relativi alla vita del contratto, come i requisiti essenziali per la sua validità, la sezione IV “della forma del contratto”, il regime di nullità ed annullabilità, lo schema predisposto per ciascuna fattispecie vagliata e dalla normativa sulle prove, contenuta anche nel codice di procedura civile.

 

[1] Articolo 8: “Sono commercianti coloro che esercitano atti di commercio per professione abituale e le società commerciali”; le norme successive stabilivano chi poteva esercitare l’attività di commerciante, anche per quanto attiene alle persone minorenni e alle donne.

[2] L’articolo 3 elencava dettagliatamente gli atti che la legge qualificava come commerciali, mentre la norma successiva estendeva la disciplina anche ai contratti e alle altre obbligazioni dei commercianti che non avessero natura civile o che non risultassero tali dall’atto stesso.

[3] Articolo 1104: “I requisiti essenziali per la validità di un contratto sono: 1° la capacità di contrarre; 2° Il consenso valido dei contraenti; 3° Un oggetto determinato che possa essere materia di convenzione; 4° una causa lecita per cui obbligarsi.”

[4] L’articolo 1314 codice civile del 1865 stabiliva che: “Devono farsi per atto pubblico o per scrittura privata a pena di nullità: 1° Le convenzioni che trasferiscono proprietà di immobili o altri beni o diritti capaci di ipoteca, salve le disposizioni relative alla rendite sopra lo Stato; 2° Le convenzioni che costituiscono o modificano servitù prediali, o diritti d’uso o di abitazione o trasferiscono l’esercizio del diritto di usufrutto; 3° Gli atti di rinunzia ai diritti enunciati nei due numeri precedenti; 4° I contratti di locazione di immobili per un tempo eccedente i nove anni; 5° I contratti di società che hanno per oggetto il godimento di immobili per un tempo eccedente i nove anni; 6° Gli atti che costituiscono rendite sì perpetue come vitalizie; 7° Le transazioni; 8° Gli altri atti specialmente indicati dalla legge”.

L’articolo 1350 del codice civile attuale stabilisce che: “Devono farsi per atto pubblico o per scrittura privata, sotto pena di nullità: 1) i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili; 2) i contratti che costituiscono, modificano o trasferiscono il diritto di usufrutto su beni immobili, il diritto di superficie, il diritto del concedente e dell'enfiteuta; 3) i contratti che costituiscono la comunione di diritti indicati dai numeri precedenti; 4) i contratti che costituiscono o modificano le servitù prediali, il diritto di uso su beni immobili e il diritto di abitazione; 5) gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri precedenti; 6) i contratti di affrancazione del fondo enfiteutico; 7) i contratti di anticresi; 8) i contratti di locazione di beni immobili per una durata superiore a nove anni; 9) i contratti di società o di associazione con i quali si conferisce il godimento di beni immobili o di altri diritti reali immobiliari per un tempo eccedente i nove anni o per un tempo indeterminato; 10) gli atti che costituiscono rendite perpetue o vitalizie, salve le disposizioni relative alle rendite dello Stato; 11) gli atti di divisione di beni immobili e di altri diritti reali immobiliari; 12) le transazioni che hanno per oggetto controversie relative ai rapporti giuridici menzionati nei numeri precedenti; 13) gli altri atti specialmente indicati dalla legge”.

Il legislatore moderno, a fronte di un riconoscimento più pregnante a favore dell’autonomia privata, ha predisposto un elenco più ricco di schemi contrattuali sottoposti alla forma scritta a pena di nullità, al fine di tutelare la circolazione dei traffici e la certezza del diritto.

[5] In tema di successioni si vedano gli articoli del codice del 1865 presenti nel capo II “delle successioni testamentarie”, sezione III “della forma dei testamenti”, articoli 774 e seguenti. Erano due le forme ordinarie predisposte dal legislatore, ossia il testamento olografo ed il testamento per atto di notaio, mentre nella sottosezione II erano analizzate alcune ipotesi di testamenti speciali, come quello previsto dall’articolo 789 e compiuto in luoghi in cui vi era la peste o altra malattia reputata contagiosa. In questo caso era ammessa la possibilità che il testamento non venisse sottoscritto dal testatore o dai testimoni, purché ne fosse indicata la causa.

[6] A tal proposito si si evidenzia l’importante evoluzione che ha riguardato il settore del diritto di famiglia e della qualifica del matrimonio. Da un lato, infatti la nozione di famiglia, intesa come nucleo allargato non più vincolato dall’esistenza di un legame formale (Corte Cost., 15 aprile 2010, n. 138), è stata possibile grazie alla riforma del diritto di famiglia del 1975, all’interpretazione più ampia ed estensiva degli articoli 2, 3, 29, 30 e 31 della Carta Costituzionale, all’interpretazione evolutivo-estensiva in tema di convivenza more uxorio nella giurisprudenza penale in tema di maltrattamenti in famiglia (sul tema Cass. 23 gennaio 2019, n. 10222, in Diritto & Giustizia 19 aprile 2019; Cass., 17 marzo 2010, n. 24688 in CED Cassazione penale 2010) e alla legge Cirinnà, nonostante essa presenti alcune problematicità.

 Dall’altro lato, è mutata la qualifica del matrimonio, in quanto nel codice civile del 1865 era presente il titolo V “del contratto di matrimonio”, in cui gli articoli 1382 e 1383 lo qualificavano come contratto, da stipulare per atto pubblico davanti ad un notaio e le cui eventuali modifiche dovevano rivestire la medesima forma.

Attualmente tale istituto è qualificato come un negozio giuridico a contenuto non patrimoniale, grazie alla valorizzazione del vincolo di carattere morale e personale che unisce i coniugi, senza pregiudicare gli importanti effetti economici connessi ad esso ma di natura accessoria.

[7] L’articolo 44 prevedeva la forma scritta ad probationem per le obbligazioni commerciali e le liberazioni: con atti pubblici; con scritture private; colle note dei mediatori sottoscritte dalle parti; nella forma stabilita dall’articolo 33 (relativa agli atti e ai libri che devono tenere i mediatori); con fatture accettate; colla corrispondenza; con telegrammi; coi libri delle parti contrenti; con testimoni e, sempreché l’autorità giudiziaria lo consenta, anche nei casi preveduti nell’articolo 1341 del c.c. (relativo alla prova testimoniale); con ogni altro mezzo ammesso dalle leggi civili; Per le compere e le vendite rimane ferma la disposizione dell’articolo 1314 c.c.

[8] A titolo esemplificativo e non esaustivo, era prevista la forma scritta ad substantiam per i seguenti contratti: il contratto di società e le società per con atto pubblico articolo 87; i titoli di credito artt. 251 e ss.; il contratto di trasporto articolo 388 (la lettera di vettura articolo 390); il contratto di assicurazione articolo 420; la fede di deposito articolo 461.

Per quanto attiene ai contratti per la costruzione di navi, al fine di renderli opponibili ai terzi, ai sensi dell’articolo 481, la loro eventuale modificazione e revocazione era da trascrivere nel registro dell’ufficio di compartimento marittimo in cui doveva eseguirsi o si era intrapresa la costruzione, così come l’alienazione o la cessione totale o parziale della proprietà o del godimento della nave ai sensi dell’articolo 483; il contratto di pegno sulla nave articolo 486; il contratto di noleggio articolo 547; la polizza di carico artt. 555 e 556.  


1.1. La forma scritta nel codice civile.

Il legislatore non ha fornito una definizione della forma, probabilmente ritenendo che si trattasse di un concetto chiaro e comune a tutti i cittadini. Con essa si intende “l’aspetto esteriore con cui si configura ogni oggetto corporeo o fantastico, o una sua rappresentazione”.[1]

Ebbene, dottrina e giurisprudenza hanno tentato di calare tale definizione nel linguaggio giuridico, interrogandosi sulla sua finalità e la sua portata.

Un’illustre dottrina ha evidenziato come tutti gli atti aventi rilevanza giuridica necessitino di una forma, ossia di una modalità di estrinsecazione che li “riveli al mondo delle relazioni sociali e giuridiche[2]; secondo altra impostazione si tratta di un “veicolo con il quale la volontà negoziale è manifestata o la figura esteriore dell’atto che nella vita di relazione è riconoscibile per gli altri se non attraverso la forma stessa[3]. Altro orientamento sottolinea che “la forma ed il negozio giuridico sono due elementi inscindibili, anzi la forma altro non è se non il modo con cui l’atto umano si esteriorizza. Tale modo è libero, sempre che l’esteriorizzazione assolva al compito di rendere oggettivamente riconoscibile il divisato regolamento di interessi. In concreto tale esteriorizzazione non potrà che rivestire le forme della dichiarazione o del comportamento concludente”[4].

La Suprema Conte, invece, nonostante le numerose pronunce sul tema, non ha dato una definizione di forma, ma si è limitata ad evidenziarne l’essenzialità a seconda dei contratti oggetto del suo vaglio[5].

È pacifico, nonostante le diverse definizioni, che la forma nel settore contrattuale è il mezzo attraverso cui le parti manifestano all’esterno il loro consenso alla stipula.

Le parti possono concludere sia in forma espressa, attraverso una dichiarazione scritta o verbale, oppure per facta concludentia, ossia quei comportamenti che possiedono il significato univoco di volontà tacita alla conclusione.

La regola adottata dal codice civile è quella della libertà delle forme[6], salvo che non sia previsto diversamente dalla legge: ciò si evince dall’articolo 1325 c.c. che indica la forma come elemento essenziale del contratto, purché lo sia ad substantiam. Proprio alla luce di tale rapporto, si impone il divieto di estensione analogica previsto dall’articolo 14 delle preleggi: infatti, le norme che prevedono un onere di scrittura, ad substantiam o ad probationem, sono di natura eccezionale[7].

Tale assunto è presupposto anche nell’ipotesi vagliata dall’articolo 1352 c.c., in cui le parti hanno convenuto per iscritto l’adozione di una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, poiché si tratta di elemento costitutivo[8].

Ebbene, con tale norma si parifica la vincolatività della scelta del legislatore, il quale astrattamente decide, dopo il bilanciamento degli interessi sottesi coinvolti, se indicare una forma scritta ad substantiam, con quella assunta dalle parti, dopo aver eseguito un’analisi in concreto delle proprie ragioni, economiche oppure no.

Le diverse coordinate legislative permettono di evincere come la forma scritta a pena di nullità abbia varie funzioni di protezione, come la garanzia di una maggiore tutela nei traffici giuridici, la trasparenza delle condizioni contrattuali e, un’analisi più accurata dell’atto che le parti stanno per concludere, anche per evitare un possibile squilibrio contrattuale.

La tutela è ancor più forte se calata nello svolgimento del procedimento civile, come si evince dalla valenza probatoria riconosciuta alla forma scritta ad substantiam, non essendo possibile, di regola, dimostrare l’esistenza del negozio con qualsiasi mezzo[9]. L’unica eccezione ammessa è l’ipotesi in cui vi sia stata la perdita incolpevole del documento, ovvero la sua distruzione o smarrimento non causato da negligenza, imprudenza o imperizia nella custodia.

La forma scritta ad probationem, invece, è richiesta ai soli fini della prova dell’esistenza del contratto: nell’ipotesi di una stipula priva di tale forma, la conclusione sarà valida ed efficace inter partes, ma potranno sorgere problemi di opponibilità del negozio giuridico nei confronti dei terzi in buona fede.

 

[1] Vocabolario della lingua Italiana Treccani, Milano, 1987, 492 e ss.

[2] E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Edizioni Scientifiche Italiane, 1994, 126 e ss.; F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Jovene, 1966, 135 ss.

[3] Palazzo, D, VIII, 442; F. Caringella L. Buffoni, Manuale di diritto civile, Dike, 2015, p. 209 “l’atto è la forma mediante cui la volontà del soggetto è proiettata nel mondo esterno, diventando idonea a produrre un effetto giuridico”; “tutti i negozi hanno bisogno di forma, intendendosi la dichiarazione o manifestazione di volontà”.

[4] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2013, 923;

[5] Cass., 10 ottobre 2019, n. 25539 “I contratti traslativi della proprietà di beni immobili o costitutivi, modificativi o traslativi di diritti reali immobiliari su cosa altrui devono, ai sensi dell'art. 1350 c.c., rivestire la forma scritta "ad substantiam", per cui è nulla la promessa verbale dei proprietari del suolo di trasferirsi reciprocamente la proprietà del manufatto su di esso edificato per singole porzioni individuate nel corso del godimento delle rispettive abitazioni”.

Cass., 11 settembre 2020, n. 18929 “in tema di comunione, l'uso frazionato della cosa a favore di uno dei comproprietari può essere consentito per accordo fra i partecipanti solo se l'utilizzazione, concessa nel rispetto dei limiti stabiliti dall'art. 1102 c.c., rientri tra quelle cui è destinato il bene e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comunisti, trovando l'utilizzazione da parte di ciascun comproprietario un limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri. Qualora, pertanto, la cosa comune sia alterata o addirittura sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo nei termini funzionali originariamente praticati, non si rientra più nell'ambito dell'uso frazionato consentito, ma nell'appropriazione di parte della cosa comune, per legittimare la quale è necessario il consenso negoziale di tutti i partecipanti che - trattandosi di beni immobili - deve essere espresso in forma scritta "ad substantiam".

Cass., 20 marzo 2020, n.7478 “I contratti conclusi dalla P.A. richiedono, al fine di soddisfare il requisito della forma scritta "ad substantiam", la contestualità delle manifestazioni di volontà delle parti, salva l'ipotesi eccezionale prevista dall'art. 17 del r.d. n. 2440 del 1923 per i contratti stipulati con ditte commerciali. La proposta e l'accettazione possono, comunque, essere contenute in documenti distinti, purché siano poi consacrate in un unico testo”.

Cass., 09 dicembre 2019, n. 32108 “Il "pactum fiduciae" esige la forma scritta "ad substantiam" qualora comporti il trasferimento, sia pure indiretto, di un bene immobile; deve, pertanto, essere stipulato per iscritto anche il patto fiduciario comportante il trasferimento indiretto di un immobile attraverso l'intestazione della quota di partecipazione alla società proprietaria del bene”.

[6] V. Roppo, voce Il Contratto I) In generale, in Enc. Giur. Treccani, 1990; M. Giorgianni, Forma degli atti (Dir. Priv.), Edizioni Scientifiche Italiane, 1968, 1003.

[7] Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, Diritto civile, I, 2, Il sistema giuridico italiano, 1996, 628.

[8] Sulla natura del patto previsto dall’articolo 1352 c.c. Chinè, Zoppini, Manuale di diritto civile, (con il coordinamento della riedizione di Roberto Garofoli e Davide Giovanni Pintus), Nel Diritto Editore, 2019, 1187: “Trattasi di contratto avente natura normativa, avendo lo scopo di fissare tra le parti le regole per la stipulazione di negozi e non vincolando in alcun modo alla conclusione degli stessi”.

[9] Articolo 2725 c.c. Atti per i quali è richiesta la prova per iscritto o la forma scritta “Quando, secondo la legge o la volontà delle parti, un contratto deve essere provato per iscritto, la prova per testimoni è ammessa soltanto nel caso indicato dal n. 3 dell'articolo precedente. La stessa regola si applica nei casi in cui la forma scritta è richiesta sotto pena di nullità”.


1.2. Le prove documentali.

Non può sottacersi come l’esistenza di un documento sia ontologicamente collegato al problema della sua prova in giudizio.

Se da un lato, infatti, la disciplina dettata in tema di prova documentale non ha dato origine a particolari querelle, dall’altro lato il legame tra l’esistenza del contratto e la prova testimoniale è al centro di un ampio dibattito.

La prova documentale è disciplinata agli articoli 2699 e seguenti, inseriti nel libro VI “della tutela dei diritti” titolo II “delle prove” capo II “della prova documentale”.

Secondo il codice civile l’atto pubblico è un documento redatto, con le formalità richieste, da un notaio o un pubblico ufficiale, autorizzato dalla legge ad attribuirgli pubblica fede. Proprio tale riconoscimento è strettamente connesso alla sua efficacia come piena prova fino a querela di falso, per quanto attiene alla provenienza del documento, alle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti attestati in esso[1].

La scrittura privata, invece, è un documento scritto dalle parti ma, a differenza dell’atto pubblico, forma piena prova in due casi: quando colui contro il quale è stata prodotta la scrittura la riconosce oppure se la sottoscrizione è autenticata. Anche in questi casi deve farsi querela di falso [2], poiché tale scrittura possiede lo stesso valore dell’atto pubblico. In tutti gli altri casi è necessario eseguire il disconoscimento.

 

[1] Cass., 29 settembre 2020, n.20520 “L'efficacia probatoria dell'atto pubblico è limitata ai fatti che pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza e alla provenienza delle dichiarazioni, senza implicare l'intrinseca veridicità di esse o la loro rispondenza all'effettiva intenzione delle parti”.

[2] Sulla querela di falso avente come oggetto la scrittura privata deve aggiungersi anche l’ipotesi in cui vi sia stato un giudizio di verificazione ex articolo 216 c.p.c. al termine del quale sia stata accertata l’autenticità della relativa sottoscrizione.


1.3. La prova testimoniale ed il rapporto con la forma scritta nel processo civile.

Come è stato evidenziato in precedenza, invece, la prova testimoniale è foriera di incertezze.

La testimonianza ha una disciplina composita: essa è regolata nel codice civile, capo III articoli 2721 e seguenti, e nel codice di procedura civile, il quale indica limiti e modalità con cui essa deve essere escussa.

Un primo problema attiene all’ammissibilità nel caso dei contratti il cui oggetto supera il valore di 2,58 euro: il legislatore riconosce a favore del giudice ampio potere discrezionale, cosicché può essere ammessa tenendo conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza.

La Corte di Cassazione ha riconosciuto come “L'ammissione della prova testimoniale oltre i limiti di valore stabiliti dall'art. 2721 c.c. costituisce un potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio, o mancato esercizio, è insindacabile in sede di legittimità ove sia correttamente motivato”[1] .

Tale discrezionalità è riconosciuta anche nell’ipotesi di patti posteriori alla formazione del documento, purché appaia verosimile che siano state fatte delle aggiunte o delle modifiche verbali, tenendo conto delle qualità delle parti, delle circostanze e della natura del contratto stesso. Al contrario, la prova di patti aggiunti o contrari al contenuto del documento, e che si alleghi essere stati stipulati anteriormente e/o contemporaneamente, non può essere raggiunta con la prova testimoniale.

Sono state vagliate, inoltre, tre eccezioni per le quali è possibile ammettere la prova testimoniale imperativamente: “1) quando vi è un principio di prova per iscritto: questo è costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato; 2) quando il contraente è stato nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta; 3) quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova”.

Infine, l’articolo 2725 c.c. stabilisce che la prova per testimoni è sempre ammessa nel caso di perdita incolpevole del documento per i contratti aventi forma scritta ad probationem e per quelli a pena di nullità.

I limiti previsti dal codice civile devono essere combinati con quelli previsti dal codice di procedura civile: esso, oltre a regolare le modalità con cui la testimonianza deve essere escussa[2], analizza la qualità del testimone stesso e della sua capacità a testimoniare.

È opportuno chiarire che il testimone è “qualsiasi individuo che, senza avere interesse nella causa, riferisca sotto giuramento su fatti o circostanze di cui sia venuto a conoscenza direttamente o indirettamente[3].

L’articolo 246 c.p.c. tratta dell’incapacità a testimoniare e sottolinea come il testimone debba essere terzo[4], ossia disinteressato rispetto all’oggetto della controversia. L’ufficio di testimone, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 248 del 23 luglio 1974, può essere rivestito anche dai parenti o affini, dal coniuge separato e da coloro che sono legati da un vincolo di affiliazione[5]. In ogni caso, la persona può esercitare la facoltà di astensione nei casi previsti dagli articoli 200, 201 e 202 c.p.p.[6]

Appare evidente come le caratteristiche che si presume possedere il testimone, terzo ed imparziale, e i divieti stabiliti dal legislatore al fine di evitare incertezze, permettano di valutarne l’attendibilità e credibilità, almeno in astratto[7].

È, infatti, rimesso al prudente apprezzamento del giudice il vaglio, in concreto, circa l’attendibilità del testimone e di quanto dichiarato dallo stesso in sede di prova orale[8].

Il legislatore, infatti, non ha potuto conferire alla prova testimoniale la stessa validità ed efficacia della prova documentale e ciò dipende proprio dalla figura della persona-testimone. Da un lato, infatti, non si può ritenere credibile l’esistenza di una totale indifferenza del terzo rispetto alla causa, dall’altro lato si deve tenere presente la fallibilità della memoria, poiché il teste potrebbe essere sentito a distanza di anni dal fatto e, non ultimo, la narrazione di quanto accaduto è una ricostruzione personale di quanto verificatosi o percepito.

 

[1] Cass., 09 gennaio 2020, n.190

[2] La prova per testimoni deve essere chiesta in modo preciso e specifico sia per quanto riguarda le persone che devono ricoprire tale ufficio, sia per i fatti oggetto dei capitoli su cui ciascuna deve essere sentita.

[3] F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., 105.

[4] Cass., 17 febbraio 2020, n. 3849 “La capacità a testimoniare differisce dalla valutazione sull'attendibilità del teste, operando la valutazione su piani diversi, atteso che l'una, ai sensi dell'art. 246 c.p.c., dipende dalla presenza in un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua non solo di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) ma anche di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all'eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità”.

[5] Cass., 28 settembre 2018, n. 23447 “In tema di prova testimoniale, l'insussistenza, a seguito della sentenza della Corte costituzionale 248/1974, del divieto di testimoniare sancito per i parenti e per gli altri soggetti indicati dall'articolo 247 del codice di procedura civile, non permette una aprioristica valutazione di non credibilità delle deposizioni rese dalle persone indicate da detta norma, ma neppure esclude che l'esistenza di uno dei rapporti in essa indicati possa, in concorso con ogni altro utile elemento, essere considerato ai fini della verifica della maggiore o minore attendibilità delle deposizioni stesse”.

[6] Trattasi rispettivamente dei casi in cui la deposizione dei testimoni possa riguardare segreti d’ufficio, segreti di Stato e i nomi degli informatori della polizia giudiziaria e della pubblica sicurezza.

[7] Tale tesi è avvalorata anche dall’incompatibilità per cui la stessa persona nel corso del giudizio non può rendere dichiarazioni in qualità di parte e di testimone.

[8] Le modalità con cui la testimonianza è escussa sono evinte dal combinato degli articoli 253 e 231 c.p.c.

Il giudice, dopo aver ammonito le parti sull’importanza morale del giuramento e aver ricordato le conseguenze penali di una falsa testimonianza, fa leggere la formula indicata nell’articolo 253 c.p.c. e i testimoni si impegnano a ricoprire l’ufficio con il sì. Da quel momento, l’autorità giudiziaria interroga i testimoni sui capi di prova ammessi e, qualora lo ritenga utile ai fini della decisione, su istanza di parte o d’ufficio, può fare ulteriori domande. L’interrogatorio reso dal testimone non può essere tenuto dal Pubblico Ministero o dalle parti, come indicato tassativamente dall’articolo 253 c.p.c.


2. I diversi orientamenti adottati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di nullità della prova testi-moniale. Impostazione del problema.

Al centro del dibattito giurisprudenziale recente, risolto da una pronuncia delle Sezioni Unite dell’estate 2020, vi sono stati i limiti della prova testimoniale e l’eventuale loro opponibilità e rilevabilità d’ufficio.

La Suprema Corte, nell’ipotesi di assenza della forma scritta ad probationem, il cui scopo è la tutela di interessi privati, ha sottolineato come essa non sia rilevabile d’ufficio dal giudice e che, ai sensi dall’articolo 157, comma 2 c.p.c., deve essere eccepita dalla parte interessata entro il termine previsto dall’art. 157, comma 2, c.p.c., ad un’eccezione di parte tempestiva, ossia nella prima istanza o difesa successiva alla sua formulazione[1].

Sebbene tale giurisprudenza sia costante, la Cass. 14 agosto 2014 n. 17986[2] ha affermato il seguente principio: “In tema di prova testimoniale, l'unitarietà della disciplina risultante dagli artt. 2725 c.c. e 2729 c.c. esclude l'esistenza di un diverso regime processuale in ordine al rilievo dell'inammissibilità della prova testimoniale con riferimento ai contratti per i quali la forma scritta sia richiesta "ad probationem" ovvero "ad substantiam", sicché quando, per legge o per volontà delle parti, sia prevista, per un certo contratto, la forma scritta "ad probationem", la prova testimoniale (e quella per presunzioni) che abbia ad oggetto, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza del contratto, è inammissibile, salvo che non sia volta a dimostrare la perdita incolpevole del documento”.

La Cassazione, al fine di pervenire a tale conclusione, analizza la disciplina della prova testimoniale ed evidenzia come l’articolo 2725 c.c. contenga un unico regolamento per entrambe le tipologie di forme contrattuali, così da rendere “trasparente l'intento del legislatore di normare in maniera assolutamente sovrapponibile le due ipotesi”.

Secondo la decisione in esame, l'unitarietà della disciplina normativa applicabile in tema di prova testimoniale sarebbe evincibile anche da altri fattori, come il secondo comma dell’art. 2729 c.c., il quale stabilisce che le presunzioni semplici non possano essere ammesse nei casi in cui la legge escluda la testimonianza, e gli “indici ermeneutici, ritenuti di carattere dirimente, evincibili dal ricorso al criterio sistematico ed a quello letterale”.

Secondo tale decisione “l'inammissibilità di una prova testimoniale per contrasto con le norme che la vietano (artt. 2722 e 2725 c.c.) non è sanata dalla mancata tempestiva opposizione della parte interessata perché la sanatoria per acquiescenza riguarda soltanto le decadenze e nullità previste per la prova testimoniale dall'art. 244 c.p.c. (modalità di deduzione e assunzione della prova, indicazione dei testimoni e loro capacità a testimoniare), e non anche la prova testimoniale erroneamente ammessa; conseguentemente la relativa eccezione può essere utilmente formulata anche dopo l'espletamento della prova vietata”.

Tale decisione ha, peraltro, precisato che, ove risulti documentata per iscritto l’esistenza del contratto, è ammissibile il ricorso alla prova orale (o per presunzioni) al fine di dimostrare quale sia stata la comune intenzione delle parti, mediante un’interpretazione del contratto non limitata al senso strettamente letterale delle parole[3].

Appare evidente come tale decisione si ponga in contrasto con la giurisprudenza costante e che generi incertezze e dubbi circa la corretta interpretazione da dare sull’eccezione di nullità e sull’eventuale rilevabilità d’ufficio.

 

[1] Cass. n. 5489 del 1993; Cass. n. 3013 del 1985. Sul rapporto tra transazione e quietanza Cass. n. 5702 del 1986.

[2] Tale orientamento è stato condiviso anche da Cass., 3 giugno 2015, n. 11479; Cass., 6 maggio 1996, n. 4167 e Cass., 28 gennaio 2013, n. 1824 riguardante la forma scritta del contratto di agenzia.

[3] Medesimo filone giurisprudenziale Cass., 9 ottobre 1996, n. 8838, la quale ha affermato che “Il divieto di prova testimoniale conseguente alla previsione, per un tipo di contratti, della forma scritta "ad probationem" determina l'inammissibilità della prova testimoniale che abbia ad oggetto, implicitamente od esplicitamente, l'esistenza del contratto, mentre, a fronte della documentazione per iscritto di quest'ultimo, è consentito il ricorso ad una prova orale, oppure anche - ai sensi dell'art. 2729 c.c. - ad una prova basata su presunzioni gravi, precise e concordanti, che consenta di accertare quale sia stata la comune intenzione delle parti mediante un'interpretazione del contratto non limitata al senso strettamente letterale delle parole”.


3. La sentenza delle Sezioni Unite n. 16723 depositata il 5 agosto 2020 ed il principio di diritto in essa enucleato.

Con ordinanza interlocutoria n. 30244 del 20 novembre 2019 la Seconda Sezione della Corte di Cassazione ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, al fine di dirimere il contrasto.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 16723 depositata il 5 agosto 2020, (udienza del 07 luglio 2020), hanno enucleato il seguente principio di diritto: "L’inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto, ai sensi dell'art. 2725 c.c., comma 1, attenendo alla tutela processuale di interessi privati, non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell'ammissione del mezzo istruttorio; qualora, nonostante l'eccezione d’inammissibilità, la prova sia stata egualmente assunta, è onere della parte interessata opporne la nullità secondo le modalità dettate dall'art. 157 c.p.c., comma 2, rimanendo altrimenti la stessa ritualmente acquisita, senza che detta nullità possa più essere fatta valere in sede di impugnazione".

Il percorso motivazionale è preciso e analitico.

La Suprema Corte ha evidenziato come la forma scritta ad substantiam abbia finalità di ordine pubblico e, proprio per lo scopo che essa persegue, l’inammissibilità della prova testimoniale è rilevabile in ogni stato e grado del processo, sia su istanza di parte, sia d’ufficio[1]. Non solo, avendo una funzione costitutiva per la stipula del contratto, essa ricomprende logicamente anche la prova del negozio e il difetto dello scritto è rilevabile, anche in questo caso, d’ufficio in ogni momento[2].

Nel caso di forma scritta ad probationem, invece, sia essa stabilita dal legislatore o dalle parti contraenti, l’obiettivo perseguito è la prova dell’esistenza del contratto. Ciò significa che la forma non riguarda l’atto, bensì la prova stessa della stipula ed ha un valore processuale, non sostanziale. L’assenza di un documento, in questo caso, ha rilevanza sul regime probatorio, ma non intacca la validità e l’efficacia del negozio. Il fine si ripercuote sul profilo dell’ammissibilità o meno della testimonianza, qualunque sia il valore del contratto.

La Suprema Corte, dopo aver definito e analizzato le fattispecie-chiave della decisione, inizia a scandagliare il terreno del regime probatorio e qualifica come norme di carattere dispositivo i limiti oggettivi indicati agli articoli 2721 ss. c.c.: tali limitazioni, compreso quello posto dall’art. 2725 c.c. al primo comma, possono essere derogate dalle parti, le quali vi possono rinunciare tacitamente o espressamente[3].

Tale qualificazione conduce, inevitabilmente, all’onere a carico delle parti di attivarsi prontamente ai fini dell’eccezione di nullità prevista dall’articolo 157, comma 2 c.p.c., nel caso in cui vi sia una presunta violazione delle formalità stabilite per l'ammissione della prova testimoniale.

Nel caso, invece, delle norme dettate sulle preclusioni assertive o istruttorie, nel giudizio di cognizione, poste per la salvaguardia dei principi di garanzia del diritto di agire e di resistere in giudizio, la loro violazione è rilevabile d’ufficio.   

Le sezioni Unite hanno evidenziato, inoltre, come la costante applicazione giurisprudenziale di tale disciplina abbia subordinato la loro operatività al potere di eccezione spettante alla parte interessata.

A tal proposito affermano che “Questa diffusa interpretazione, non contenendo il codice di procedura civile, come pure già accennato, una distinta regolamentazione della inutilizzabilità processuale dei mezzi di prova, riconduce, infatti, al regime della nullità ex art. 156 c.p.c., ed in particolare a quello della nullità relativa, la violazione delle norme procedurali in materia di prove, ovvero, nella specie, la violazione dei limiti di ammissibilità della prova per testimoni, quando non siano in gioco contratti con forma scritta ad substantiam. in alcune pronunce si è inteso precisare, peraltro, come sul piano delle definizioni occorrerebbe distinguere l'eccezione di inammissibilità della prova testimoniale dedotta senza osservare le limitazioni di cui agli artt. 2721 c.c. e ss. dalla eccezione di nullità della prova assunta, operando la prima ex ante per impedire un atto invalido, e la seconda, invece, ex post per evitare che gli effetti di esso si consolidino. In tal modo, possono pure essere diversamente apprezzati gli interessi dalla medesima parte, la quale, valutata la prova, potrebbe ritenerne vantaggioso l'esito, che, in forza del principio di acquisizione, giova o nuoce indipendentemente da chi abbia dedotto il mezzo istruttorio[4]. Tale eccezione di inammissibilità ex ante costituirebbe comunque un'eccezione in senso proprio[5].

In ogni modo, poiché gli artt. 2721 c.c. e ss. sono accomunati dal prevedere i divieti della prova testimoniale dei contratti e le rispettive eccezioni, tutti stabiliti nell'esclusivo interesse delle parti private, e non nell'interesse pubblico al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, il regime di rilevabilità della eventuale deviazione dal modello legale non è officioso, ma viene lasciato alla disponibilità dei contendenti.

Così, l'eventuale inosservanza di dette limitazioni va necessariamente eccepita dalla parte interessata per opporsi alla richiesta di ammissione della prova; qualora, nonostante la preventiva eccezione di inammissibilità, la prova testimoniale sia stata egualmente assunta, la correlata nullità deve essere opposta dalla medesima parte nel cui interesse sostanziale è stabilito il requisito inosservato, secondo la scansione articolata dall'art. 157 c.p.c., comma 2, in funzione del corretto sviluppo dei poteri dei contendenti, verificandosene, in difetto, la sanatoria[6] Se l'interessato non abbia eccepito dapprima l'inammissibilità della deduzione istruttoria e poi la nullità della prova per testimoni comunque assunta, tale nullità non potrà più essere rilevata o eccepita per la prima volta in appello, e, tanto meno, in sede di legittimità[7].

Peraltro, il principio secondo cui la nullità per violazione dei limiti di ammissibilità della prova testimoniale sanciti dagli artt. 2721 c.c. e ss. rimane sanata, se non tempestivamente eccepita dalla parte interessata, non interferisce con il generale potere giudiziale di revoca delle ordinanze istruttorie attribuito dall'art. 177 c.p.c., né con il controllo affidato al collegio in sede di decisione della causa ai sensi dell'art. 178 c.p.c., comma 1, non essendo comunque tali strumenti esercitabili al fine di rilevare inammissibilità o nullità di cui il giudice non può disporre. Rimane integro, in ogni caso, il potere del giudice di valutare secondo il suo prudente apprezzamento la prova testimoniale comunque assunta in ordine ai diritti ed agli obblighi derivanti dal contratto, alla volontà dei contraenti ed alla portata delle varie pattuizioni”.

Appare evidente, alla luce delle osservazioni svolte, che non possano essere che diverse le conclusioni per quanto attiene la forma scritta ad substantiam: il principio dispositivo, la derogabilità dei limiti oggettivi della prova testimoniale non superano la rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, derivante da quanto indicato all’articolo 1325 c.c.

 

[1] Cass., 24 novembre 2015, n. 23934; Cass., 12 maggio 1999, n. 4690; Cass., 25 marzo 1987, n. 2902; Cass., 25 gennaio 1974, n. 196; Cass., 26 aprile 1969, n. 1352.

[2] Cass. Sez. Unite, 12 dicembre 2014, n. 26242 e n. 26243, Cass. Sez. Unite, 4 settembre 2012, n. 14828.

[3] Punto motivazionale II.6: “L'argomento della congiunta collocazione, nei due commi nel medesimo art. 2725 c.c., delle regole sulla testimonianza inerenti, rispettivamente, ai contratti da provare per iscritto ed ai contratti scritti ad substantiam, non si rivela così forte da indurre ad obliterare, sia pure ai limitati fini dell'ammissibilità della prova, le differenze che negli uni e negli altri riveste l'elemento formale, essendo la forma scritta solo nei secondi, come ricorda la stessa norma, "richiesta sotto pena di nullità". Nè depone per la forzata soggezione ad un identico regime applicativo di inammissibilità la comunanza, in entrambi i commi dell'art. 2725 c.c., della deroga rappresentata dallo smarrimento senza colpa del documento, essendo a sua volta tale ipotesi ripresa dalle eccezioni che l'art. 2724 c.c. riconosce per tutti i limiti di ammissione della prova per testimoni dei contratti”.

[4] Cass., 15 febbraio 2018, n. 3763; Cass., 19 Settembre 2013, n. 21443; Cass., 23 marzo 2013, n. 12784.

[5] Cass., 20 febbraio 2004, n. 3392; Cass., 25 marzo 1995, n. 3550; Cass., 01 ottobre 1991, n. 10206.

[6] Cass., 19 febbraio 2018, n. 3956; Cass., 15 febbraio 2018, n. 3763; Cass., 19 settembre 2013, n. 21443; Cass., 16 aprile 2008, n. 10062; Cass., 14 febbraio 2006, n. 3186; Cass., 3 aprile 1999, n. 3287; Cass., 21 ottobre 1993, n. 10433; Cass., 25 marzo 1976, n. 1069.

[7] Cass., 13 marzo 2012, n. 3959; Cass., 25 marzo 1995, n. 3550; Cass., 3 ottobre 1979, n. 5068; Cass., 10 luglio 1962, n. 1828.