Il saggio, dopo avere ricordato le funzioni tradizionalmente attribuite alla norma sull'onere della prova (art. 2697, c.c.), mette in luce le profonde trasformazioni che la norma effettivamente vigente ha conosciuto a seguito dell'evoluzione giurisprudenziale. Esse riguardano sia la regola di ripartizione dell'onere della prova, in molti casi «spostato» per rendere più agevole la posizione di una parte, sia la regola di giudizio, poiché l'«abbassamento» degli standard di prova rende più agevole la soddisfazione dell’onere impedendo la soccombenza della parte onerata.
The essay, after recalling the functions traditionally attributed to the rule regulating the burden of proof (Art. 2697 of the Italian Civil Code), highlights the profound transformations the rule, as interpreted by the judges, has undergone in the wake of jurisprudential evolution. These transformations concern both the rule of distribution of the burden of proof, which in many cases is “shifted” in order to facilitate the position of one party, and the rule according to which the judge has to dismiss a claim if the burdened party did not provide proof, since the “lowering” of the standard of proof makes it easier to satisfy the burden, preventing the burdened party from losing.
1. L’art. 2697 cod. civ. e le due funzioni della regola sull’onere della prova - 2. La natura imperativa della norma, con riguardo alla ripartizione dell’onere e alla regola di giudizio - 3. L’erosione della regola in merito alla distribuzione dell’onere mediante presunzioni - 4. L’erosione della regola in merito alla distribuzione dell’onere mediante il criterio della vicinanza alla prova - 5. L’erosione della regola per quanto concerne il soddisfacimento dell’onere - 6. L’erosione della regola a seguito della consulenza tecnica d’ufficio - 7. Conclusioni - NOTE
Il codice civile italiano del 1942 – come è noto – ha inserito nel libro VI l’art. 2697, una norma in materia di onere della prova [1] che contiene una regola ritenuta fondamentale nonché espressione della ragione e del buon senso. Proprio per tali caratteristiche, la norma, che presenta una sicura continuità storica rispetto a note massime del diritto romano quali actori incumbit probatio ed ei incumbit probatio qui dicit., non qui negat, non è stata prevista in altri codici europei, ad esempio nel BGB tedesco [2]. In base ad una interpretazione sistematica, condivisa dalla migliore dottrina, l’art. 2697 cod. civ. svolge una duplice funzione. In primo luogo, quella di ripartire tra le parti l’onere di provare i fatti che costituiscono il fondamento delle loro pretese: si parla in tal senso di onere della prova in senso soggettivo. In secondo luogo, pur se il principio non è stato espressamente enunciato, quella di permettere al giudice di emettere in ogni caso una pronuncia, di accoglimento o di rigetto della domanda, in dipendenza del soddisfacimento o meno dell’onere: si parla in questo caso di onere della prova in senso oggettivo [3]. Non avere assolto l’onere della prova significa non avere fornito al giudice elementi sufficienti per conseguire il convincimento circa la verità dei fatti allegati e rilevanti per la decisione. Per questo motivo, la norma sull’onere della prova è stata tradizionalmente collegata a quella dell’art. 116 cod. proc. civ., che disciplina il principio del libero convincimento, sostenendo che se il giudice non perviene al convincimento della verità dei fatti deve decidere la controversia in base alla «regola di giudizio» dell’art. 2697 cod. civ. [4]. Analizzando entrambe le funzioni dell’art. 2697 cod. civ., autorevole dottrina ha sottolineato la rilevanza pubblicistica della regola dell’onere della prova, che consente di conseguire «un fine di rilevanza generale» [5]. Ciò in quanto la norma offre al giudice lo strumento per non pronunciare un non liquet, giustificato dalla permanenza del dubbio sulla situazione di fatto, poiché il processo si concluderà accogliendo o respingendo la domanda, a seguito dell’applicazione della regola sull’onere della prova.
La norma dell’art. 2697 cod. civ. è derogabile dalle parti nei limiti fissati dall’art. 2698 cod. civ. Le parti possono quindi invertire l’onere della prova o escludere la possibilità del ricorso a determinati mezzi di prova, purché in tal modo non si renda «eccessivamente difficile» l’esercizio del diritto alla controparte [6]. Tuttavia, in mancanza di accordi delle parti, la norma dell’art. 2697 cod. civ. presenta carattere imperativo. Il giudice deve ripartire l’onere della prova tenendo conto della natura dei fatti (costitutivi, impeditivi, modificativi, estintivi) rilevanti per il giudizio, e non può accogliere la domanda (o l’eccezione) se non è stato soddisfatto l’onere della prova. Così interpretata, la norma ha garantito, in termini generali, stabilità e certezza. Se, ad esempio, A afferma che B gli ha procurato un danno e chiede un risarcimento, deve provare il fondamento della sua pretesa e, pertanto, convincere il giudice della verità delle sue allegazioni. In mancanza di prova il giudice deve respingere la domanda. In presenza di prova, in primo luogo nel caso di prova «legale» di cui il giudice deve tener conto decidendo nel senso imposto dalla legge, la discrezionalità sulla quaestio facti è alquanto limitata. Il c.d. principio del libero convincimento esprime soltanto il potere/dovere di valutare il materiale probatorio, senza tuttavia che si configuri alcuno spazio per considerazioni «soggettive». Domina la razionalità della valutazione delle prove, sottoposta a controllo attraverso la logicità e l’adeguatezza della motivazione; cosicché si favorisce il mantenimento delle situazioni esistenti e si rafforza la tutela degli interessi tutelati mediante il diritto soggettivo. In tal senso, si afferma che il «libero convincimento» deve essere inteso in un modo preciso e rigoroso, e ciò appare incontrovertibile se si pensa che il convincimento è appunto il momento finale e il risultato di un procedimento guidato da regole logiche e giuridiche. Si aggiunge che, in definitiva, è libero non il modo di formazione ma l’an del convincimento [7] e si precisa che in ogni caso si tratta di un convincimento «libero» soltanto in un senso particolare: per quanto sicura può essere la «intima [continua ..]
La regola dettata dall’art. 2697 cod. civ. non corrisponde alla realtà del processo, anzitutto, per quanto concerne la ripartizione dell’onere della prova. Le tecniche di fonte giurisprudenziale più di frequente adoperate per non applicare la norma in esame sono due. La prima consiste nel ricorso ad inversioni dell’onere della prova di «creazione» giurisprudenziale, spesso mediante la costruzione, più o meno formale, di presunzioni semplici ex art. 2729 cod. civ. [10]. La seconda, per la quale è difficile trovare una sia pur debole base normativa, è quella della «vicinanza alla (o della) prova». Nel caso delle inversioni dell’onere, il giudice, ignorando l’art. 2697 cod. civ., dispone gli oneri probatori delle parti sulla base della mera ragionevolezza dell’ipotesi affermata [11]. Frequentemente, il giudice – legittimato ad ammettere presunzioni gravi, precise e concordanti, secondo il dettato dell’art. 2729 cod. civ., unicamente con riferimento alle circostanze del singolo caso sottoposto al suo esame – configura presunzioni che si pongono sullo stesso piano di quelle legali, perché trascendono le peculiarità della fattispecie per la quale di volta in volta trovano applicazione, presentano le caratteristiche di generalità e astrattezza delle norme giuridiche, non svolgono la funzione di risalire dal fatto noto al fatto ignorato, bensì quella di ripartire l’onere della prova [12]. La giurisprudenza, pertanto, nei casi suddetti non applica la norma dell’art. 2697 cod. civ. e il ricorso alla figura della presunzione svolge unicamente una funzione di legittimazione formale della regola adottata. In alcuni casi, addirittura, si abbandona lo schema della presunzione e si formula (direttamente) una regola di ripartizione dell’onere della prova, affermando, ad esempio, che «non spetta alla parte attrice dare la prova…ma incombe all’altra parte la prova di…» [13]. Presunzioni di questo tipo, analizzando anche la giurisprudenza meno recente, si riscontrano in numerosi settori del diritto privato, dal lavoro domestico e tra familiari al licenziamento del lavoratore seguito da immediata riassunzione con identiche mansioni, ove nel primo caso viene configurata una presunzione di gratuità della prestazione e nel secondo una presunzione di [continua ..]
Considerazioni analoghe possono svolgersi con riferimento alle sentenze che distribuiscono l’onere in base al criterio della c.d. vicinanza alla (o della) prova [19]. Anche questo criterio, infatti, non trova fondamento della legge ma risponde ad esigenze di buon senso e di ragionevolezza, evidenti soprattutto in alcuni settori. Il criterio (o principio) della vicinanza alla prova non è ovviamente estraneo al tessuto normativo in materia di prove e, ad esempio, può servire per spiegare la regola contenuta nell’art. 1218 cod. civ. riguardo all’imputabilità dell’inadempimento. La norma, infatti, assegna al debitore l’onere di provare che l’impossibilità della prestazione è derivata da causa a lui non imputabile. Si ammette anche che il debitore possa dimostrare la non imputabilità quando la causa non sia identificabile. Il criterio di vicinanza alla prova non comporta quindi che il debitore debba provare in termini positivi la non imputabilità. Nella fattispecie sopra indicata può scorgersi quindi una eccezione alla regola generale posta dall’art. 2697 cod. civ., ma si tratta di una eccezione prevista dalla legge. Una significativa (e condivisibile) utilizzazione del criterio, elaborata invece dalla giurisprudenza, si riscontra – ad esempio – in materia di vizi della cosa oggetto della vendita. La sentenza Cass., sez. un., 3 maggio 2019, n. 11748 [20], ha infatti modificato sul punto il precedente posto dalla nota Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533 [21], secondo cui incombe sul venditore l’onere di provare la mancanza di vizi al momento della consegna del bene. La decisione più recente, che ha accolto la diffusa tesi secondo cui la garanzia per i vizi non configura una obbligazione del venditore, ha seguito – con maggiore rigore – il criterio della vicinanza alla prova, essendo certamente l’acquirente, che ha ricevuto la consegna del bene, nella migliore condizione per dimostrare l’esistenza dei vizi. Nella motivazione si legge infatti che «il principio di vicinanza alla prova induce a porre l’onere della prova dei vizi (stessi) a carico della parte che, avendo accettato la consegna della cosa, ne abbia la materiale disponibilità» [22].
La norma dettata dall’art. 2697 cod. civ. non corrisponde alla realtà del processo neanche come regola di giudizio, a causa del frequente «abbassamento» dello standard di prova richiesto. Infatti, tutte le volte in cui il giudice ritiene sufficiente che la prova soddisfi il parametro del «più probabile che non», o addirittura quello della c.d. probabilità prevalente, non applica l’art. 2697 cod. civ., che avrebbe invece imposto di respingere la domanda (o l’eccezione) [23]. Il fenomeno è noto anche in altre esperienze giuridiche, nelle quali tuttavia si presenta in termini attenuati e spesso sulla base di prescrizioni di legge [24]. Per quanto concerne il parametro del «più probabile che non», l’evoluzione giurisprudenziale può essere condivisa, ma essa impone la massima prudenza nella valutazione delle percentuali di prova nonché un’adeguata riflessione sull’ambito di applicazione della norma in tema di convincimento del giudice. Precisamente al suddetto risultato si perviene richiedendo alla parte di dimostrare soltanto un certo «grado» di probabilità del verificarsi del fatto allegato, e stabilendo che il giudice deve considerarlo sufficiente per ritenere fornita la prova [25]. Il giudice non deve quindi pervenire al convincimento della verità – sia pure intesa come «certezza morale», per usare un’espressione diffusa nella nostra dottrina – ma semplicemente accertare, in base alle prove fornite dalle parti, se (la sussistenza di) una certa fattispecie presenti un certo grado di probabilità [26]. Il permanere del dubbio è quindi previsto e in un certo senso fisiologico: il giudice non deve sforzarsi di compiere quel «passo ulteriore», secondo alcuni di natura esclusivamente psicologica, che lo dovrebbe condurre al supremo momento della certezza interiore. Certo, il giudice deve tener conto delle massime d’esperienza, ma a lui spetta determinare in ultima analisi il valore probante dei fatti e quindi stabilire se nel caso concreto sia stato raggiunto il «grado» di prova richiesto, in genere il «più probabile che non» [27]. Non rimane in tal modo alcuno spazio per un «convincimento» della «verità» di tipo soggettivo, almeno nel senso inteso nella nostra [continua ..]
Infine, la regola di distribuzione dell’onere dettata dall’art. 2697 cod. civ. non trova in concreto applicazione in alcuni dei casi in cui la complessità tecnica della questione di fatto impone al giudice di richiedere una consulenza tecnica. Ad esempio, se A ha acquistato un complesso macchinario, da inserire nella catena di produzione della propria azienda, e agisce in giudizio lamentando il difettoso funzionamento del macchinario stesso, il giudice – in genere – non si basa soltanto sulle relazioni tecniche eventualmente prodotte dall’asserito danneggiato, ma richiede una consulenza tecnica d’ufficio. Tanto più complessa è la materia (e di conseguenza la consulenza) quanto minore sarà la possibilità di valutazione e di autonomo giudizio da parte del giudice. Ma, soprattutto, sembra doversi superare l’antico orientamento che esclude la consulenza tecnica dai mezzi di prova e, invero, perde di significato la regola dell’onere della prova, poiché il giudice deciderà a favore dell’attore o del convenuto in base alle indicazioni fornite dal consulente tecnico, nell’esempio fatto circa l’esistenza o meno del vizio del macchinario fornito. In tal modo, da un lato, si rispetta il risalente insegnamento secondo cui il giudice, servendosi dei propri poteri istruttori ufficiosi, deve evitare per quanto possibile di ricorrere alla regola di giudizio di cui all’art. 2697 cod. civ. [29], dall’altro, la decisione sul fatto, in molte ipotesi, viene in effetti presa dal consulente tecnico. Il giudice – soltanto formalmente peritus peritorum – tiene conto dei risultati della consulenza e su di essi basa la decisione. D’altra parte, la complessità degli argomenti e delle valutazioni tecniche rende estremamente improbabile un’adeguata motivazione di una decisione contrastante con i risultati della consulenza tecnica. Con riferimento a determinate materie, si afferma addirittura che il consulente dovrebbe prendere il posto del giudice o si prospetta la formazione di collegi giudicanti formati da giuristi e da tecnici [30]. In realtà, la collocazione dell’esperto a fianco del giudice, in posizione di «ausiliare», riduce la portata delle difficoltà segnalate. In altri termini, il sistema italiano non ignora che in alcune materie il consulente tecnico non si limita a fornire [continua ..]
I motivi di erosione dell’antica regola dell’onere della prova si riscontrano anche in altri paesi e, soprattutto, nella legislazione di fonte europea. Si pensi, in primo luogo, alla normativa in tema di danno da prodotto difettoso, che, in materia di prova, in attuazione della Direttiva del Consiglio 25 luglio 1985 (85/374/CEE), ha utilizzato i concetti di «probabilità» e di «verosimiglianza» [32], ed in generale alla normativa di tutela del consumatore inteso quale parte debole del rapporto contrattuale: ad esempio, in tema di vessatorietà delle clausole di deroga alla competenza del foro e di patti probatori contenuti nelle condizioni generali di contratto [33]. La diffusione del fenomeno e l’indubbia utilità dei nuovi criteri impongono di prendere atto del (parziale) tramonto dell’antica regola e dimostrano che perfino norme basate su «principi» di ragione e rispondenti ad antichissime tradizioni sono inevitabilmente soggette all’erosione del tempo.