Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Onere della prova e vicinanza della prova (di Renato Rordorf, Primo Presidente emerito della Corte di cassazione)


La regola dell’onere della prova, seppur regolata dall'art. 2697 c.c., è destinata a trovare applicazione, prevalentemente, nel nostro diritto processuale: il presente contributo ripercorre il ruolo di tale principio ed esamina i casi in cui detto onere risulti alleggerito o addirittura escluso, lasciando così al giudice una maggiore discrezionalità di quanto si potrebbe, a prima vista, pensare. In questo solco (nella recente giurisprudenza, soprattutto a seguito dalla nota pronuncia a Sezioni Unite n. 13533/2001), si colloca il principio di vicinanza della prova, talvolta utilizzato come criterio per derogare al principio dell’onere della prova, correggendo l'astrattezza di quest'ultimo principio. Nel quadro così delineato, un ruolo fondamentale è svolto dal giudice, chiamato a trovare un giusto punto di equilibrio tra esigenze di certezza del diritto, da un lato, e adattamento delle regole processuali al caso concreto, dall'altro.

Burden of proof and proximity of proof

The essay examines the role of the burden of proof (set by article 2697 of the Italian Civil Code) and the restrictions or exemptions from this principle. Mainly following the judgement n. 13533 of 2001 by the Italian Supreme Court, the principle of the proximity of proof is one of the main examples of this trend: indeed, the proximity of proof can be used by the judge, in order to better rule on a specific case, balancing between legal certainty and the specific characteristics of each case.

SOMMARIO:

1. L’onere della prova tra diritto e processo - 2. Il gioco processuale e la ricerca della verità - 3. La vicinanza (o prossimità) della prova - 4. Il compito del giudice - NOTE


1. L’onere della prova tra diritto e processo

L’onere della prova in ambito civile è regolato, come tutti sanno, dall’art. 2697 cod. civ., che impone a chi vuole azionare un diritto in giudizio di provare i fatti sui quali esso si fonda ed a chi eccepisce l’inefficacia di quei fatti, ovvero l’estinzione o la modificazione di quel diritto, di provare le circostanze sulle quali si basa la sua eccezione [1].

La disposizione del codice che ho appena richiamato si pone nel solco di una tradizione assai antica e rispecchia un principio già presente nel Digesto: “Ei incumbit probatio qui dicit., non qui negat”. In tempi moderni la si è talvolta definita un “dogma” [2], ed una simile definizione potrebbe suggerire, a prima vista, che il suo fondamento sia più fideistico che razionale. A me sembra, viceversa, che la regola di cui si sta parlando non sia affatto priva di una sua base logica. È anzitutto innegabile che, dal punto di vista storico, essa si ponga nel solco di uno dei grandi progressi della scienza giuridica, la quale anche in tal modo si è pian piano svincolata dalla concezione originariamente divina del diritto. L’accertamento dei fatti rilevanti nel processo ha così cessato di essere affidato al giudizio di Dio, che si manifestava attraverso l’ordalia, il duello o altri simili mezzi evocanti un intervento sovrannaturale, per basarsi invece su di un criterio laico e logico [3]: chi allega un fatto è tenuto a darne dimostrazione.

Benché situata nel codice civile, la regola sull’onere della prova è ovviamente destinata ad operare soprattutto in ambito processuale. Già la sua collocazione nel Libro VI del codice civile, dedicato alla tutela dei diritti, ne sottolinea però lo stretto legame anche col diritto sostanziale. Non si dà un diritto senza adeguati mezzi per tutelarlo. Molto si è scritto sul rapporto e sulla distinzione tra diritto ed azione, ma mi pare innegabile che, per certi versi, si tratti di due facce di una medesima medaglia: un diritto non azionabile sarebbe vuoto di contenuto, e perciò lo stabilire le regole che consentono di azionarlo efficacemente vale, al tempo stesso, ad individuarne la reale consistenza [4].

Osservo poi incidentalmente, a tal proposito, che il porsi della regola sull’onere della prova in certo senso a cavallo tra diritto e processo si riflette anche sulla natura dell’errore – in iudicando o in procedendo – che derivi dalla sua eventuale violazione. Donde le incertezze, quanto alla riconducibilità del motivo di ricorso in cassazione col quale si denunci quell’errore [5] all’ipotesi di cui al n. 3 o al n. 4 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. pen. Questione non meramente formale, ma che può avere ricadute sul potere della Suprema corte di giudicare non soltanto in diritto ma anche in fatto, come le è consentito fare quando appunto si tratti di errores in procedendo [6].


2. Il gioco processuale e la ricerca della verità

La regola sull’onere della prova appare, a prima vista, molto chiara, ma in realtà nasconde non poche complicazioni ed assume un significato diverso a seconda della funzione che le si attribuisca nel processo ed, in qualche misura, a seconda della concezione stessa che del processo si abbia.

Se il processo è visto essenzialmente come duello, o addirittura come giuoco [7], quella regola vi inerisce profondamente, perché ad ogni gioco sono essenziali delle regole ed il loro scopo si esaurisce nel consentire che il gioco si svolga e possa giungere a conclusione decretando un vincitore. Se concepita in quest’ottica, la regola sull’onere della prova parrebbe, in certo senso, neutra: utile soprattutto a risolvere le situazioni dubbie, giacché al giudice non è data la possibilità del non liquet, ed è proprio applicando quella regola che egli sarà pur sempre in grado di decidere la causa nel merito, anche quando non sia stato possibile accertare come si sono davvero svolti i fatti intorno ai quali si controverte [8]. Non importa allora tanto il modo in cui l’onere della prova si distribuisce tra le parti, quanto il fatto che vi sia una regola di chiusura del gioco che permette di decidere la causa anche in situazioni dubbie nelle quali altrimenti l’esito della partita rischierebbe di restare in sospeso.

L’applicazione della regola sull’onere della prova anche ai fatti negativi [9], con riguardo ai quali la sua intrinseca razionalità potrebbe esser messa in dubbio, a dispetto dell’antico brocardo secondo cui negatoria non egent probationem, sembrerebbe confermare una qualche indifferenza di tale regola rispetto al contenuto delle vicende cui la prova attiene.

Tuttavia, benché sia noto che verità storica e verità processuale non necessariamente coincidono, giacché il processo è la scena sulla quale taluni fatti vengono rappresentati, per poterli giudicare, e quasi mai la realtà di un fatto coincide del tutto con la sua rappresentazione, mi sembra sia pur sempre ineludibile la necessità di minimizzare il più possibile questa discrepanza. Non va dimenticata la natura strumentale del processo, che deve servire all’effettiva tutela dei diritti, garantita dalla Costituzione; e la nozione di “giusto processo”, che la stessa Costituzione enuncia all’art. 111, postula che, sia pure solo tendenzialmente, il processo debba avere come scopo l’accertamento della verità dei fatti [10], perché questa costituisce il presupposto per la corretta applicazione delle regole di diritto e, dunque, per l’auspicabile giustizia della decisione. Se davvero il processo, ridotto a mero gioco, potesse prescindere completamente da ogni aspirazione alla verità, e perciò alla giustizia, mi parrebbe davvero arduo definirlo “giusto”.

Credo perciò che le regole attraverso le quali si perviene all’accertamento giudiziale dei fatti controversi non possano esser solo funzionali a consentire un esito, quale che sia, della contesa processuale, ma debbano esser concepite in modo da risultare il più possibile funzionali all’obiettivo di rendere giustizia. Sotto questo profilo, la regola sull’onere della prova si dimostra dunque qualcosa di più di una semplice regola tecnica del gioco. Lo conferma altresì la sua indisponibilità, quando si tratti di diritti di cui le parti non possono disporre, e la nullità dei patti sulla prova, quando ne risulterebbe troppo difficile l’esercizio di un diritto (art. 2698 cod. civ.).

La ripartizione dell’onere della prova nei termini indicati dal citato art. 2697 ed il rischio della mancata prova che ne consegue assumono perciò un significato più sostanziale. Direi che, anzitutto, rispondono ad un criterio di buon senso, alla luce del quale è naturale che chi sostiene una tesi sia anche colui che dispone degli elementi di fatto idonei a dimostrarne la fondatezza e che, quindi, sia lui a doversi far carico di riversarli convincentemente nel processo. Ovviamente, onere di allegazione ed onere della prova non vanno confusi, ma è del tutto ragionevole ipotizzare che colui il quale si spinge ad affermare l’esistenza di un determinato fatto se ne sia anzitutto egli stesso convinto, avendo potuto, per così dire, dimostrarlo prima di ogni altro a se stesso: per questo egli è, di regola, la persona meglio in grado di dimostrarlo anche agli altri e di produrre tale dimostrazione in giudizio.

Proprio per quanto appena detto, però, appare chiaro che non può trattarsi di una regola assoluta. Ed, infatti, è lo stesso legislatore a temperarla in vario modo, ogni qual volta essa appaia inadeguata o addirittura potrebbe risultare controproducente. Donde le molte situazioni in cui è dato al giudice il potere di disporre d’ufficio atti istruttori finalizzati all’acquisizione della prova e di avvalersi, nell’accertamento dei fatti, di presunzioni – legali o giurisprudenziali – in forza delle quali la parte che dovrebbe fornire una prova ne viene esonerata (con o senza possibilità per la controparte di fornire la prova contraria), perché ciò che egli asserisce è già di per sé largamente verosimile e non occorre altro. Così come altro non occorre se il fatto è ammesso dalla controparte o non è contestato o è notorio.

In queste situazioni, alquanto frequenti, indubbiamente l’onere della prova risulta alleggerito o addirittura escluso. Va poi considerato che raramente la prova di un fatto è, per così dire, lampante ed inconfutabile. Spesso il dato probatorio – documento, testimonianza o altro che sia – richiede un’opera di interpretazione o di valutazione rimessa al libero apprezzamento di chi deve giudicare. Forse è eccessivo dedurne che la regola dell’onere della prova, alla luce del principio di libera valutazione da parte del giudice, è ormai un pezzo da museo, come pure taluno ha adombrato [11]. Un conto è stabilire su chi gravi l’onere di fornire la prova di un fatto, con gli strumenti a tal fine previsti dall’ordinamento, altro è attribuire al giudice il compito di valutare, in concreto, se quell’onere è stato o meno assolto; ed è solo sotto quest’ultimo profilo che il libero convincimento del giudice entra in gioco [12]. È vero però che l’apparente linearità di questa distinzione di piani può appannarsi alquanto, nella realtà del processo, lasciando alla discrezionalità del giudice più spazio di quel che si potrebbe a prima vista supporre, ogni qual volta sia problematico stabilire se davvero l’onere della prova gravante su una parte è stato o meno adeguatamente assolto, se gli indizi forniti sono sufficientemente univoci e concordanti da assurgere alla dignità di prova, se la prova acquisita è plena o semiplena, e quali conseguenze se ne debbano trarre. Vi sono d’altronde molte zone grigie, quali ad esempio quelle che si riscontrano spesso quando i fatti da provare presentano aspetti di complessità tecnica tali da richiedere l’intervento di un consulente d’ufficio, il cui incarico sovente oscilla tra la ricerca e la valutazione di quei fatti [13].


3. La vicinanza (o prossimità) della prova

È proprio in questa zona grigia che si colloca anche il cosiddetto principio della vicinanza (o prossimità) della prova. Un asserito principio – ma forse meglio dovrebbe dirsi: una regola o un criterio [14] – per il quale colui nella cui disponibilità sono gli elementi probatori occorrenti alla dimostrazione di un fatto dovrebbe, per ciò stesso, farsi carico di dimostrarli in giudizio [15].

Questo principio (continuiamo pure per abitudine a chiamarlo anche così) ha trovato un’eco nell’art. 64, comma 1, del c.p.a., che è così formulato: “Spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni”. Non v’è invece alcuna analoga disposizione nel codice civile o nel codice di procedura civile, e tuttavia il criterio della vicinanza della prova si è andato sempre più affermando nella giurisprudenza dei tribunali e delle corti, grosso modo a partire dagli anni novanta del secolo scorso e, soprattutto, nel nuovo secolo.

Si tratta dunque, almeno per quel che attiene al diritto ed alla procedura civile, di un principio di natura essenzialmente giurisprudenziale, la cui diffusione e rilevanza sono attestate anche dai ripetuti riferimenti che vi hanno fatto le Sezioni unite della Corte di cassazione: a cominciare dalla nota decisione che anche sulla vicinanza della prova ha fondato l’affermazione secondo cui sul creditore grava solo l’onere di dimostrare la fonte dell’obbligazione, sia che egli agisca per l’adempimento sia che agisca per la risoluzione del contratto, mentre compete all’obbligato dare prova del proprio adempimento [16]. Lo stesso principio è stato invocato per porre l’onere della prova dell’esistenza dei requisiti occupazionali, da cui dipende l’applicabilità della disciplina dello statuto dei lavoratori in tema di licenziamento, a carico del datore di lavoro, e non del lavoratore, perché costui è privo della disponibilità dei fatti idonei a dimostrare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa [17]. E sempre al medesimo principio le Sezioni unite si sono più di recente riferite quando hanno stabilito che l’onere della prova dei vizi della cosa venduta compete all’acquirente, giacché è colui il quale ormai di quella cosa dispone [18].

Occorre però distinguere tra un’accezione che definirei “debole” ed una “forte” del principio in discorso.

Talora si tratta di un mero enunciato verbale col quale il giudice rafforza la motivazione di una decisione fondata piuttosto su presunzioni, da lui ritenute gravi, precise e concordanti, che gli consentono di considerare provato un determinato fatto accaduto nella sfera di disponibilità di una delle parti ed al di fuori di quella della controparte. Altre volte – come mi sembra di poter dire sia accaduto nel caso delle pronunce delle Sezioni unite sopra richiamate – quel principio non è evocato per derogare alla regola legale dettata dall’art. 2697 cod. civ., bensì come un corollario e criterio applicativo proprio di quella regola, la quale ripartisce in astratto tra le parti l’onere di provare i fatti costitutivi ed i fatti estintivi o modificativi del diritto dedotto in causa, ma non li identifica. Come distinguere nella realtà concreta della materia del contendere i fatti costitutivi di un diritto da quelli modificativi o estintivi non sempre è agevole. Il criterio della vicinanza, quando difetti una diversa norma che consenta di operare la suddetta distinzione, può allora tornare utile: può servire, appunto, per stabilire quali siano i fatti costitutivi del diritto, che tocca all’attore di provare, e quali invece quelli estintivi o modificativi, della cui prova è onerato il convenuto. Il principio di vicinanza della prova, se così inteso, lungi dal derogare alla regola di cui al citato art. 2697, funge così da criterio ermeneutico, alla stregua del quale i fatti costitutivi vanno identificati in quelli più prossimi all’attore e perciò nella sua disponibilità, mentre i fatti estintivi o modificativi sono quelli che si trovano nella disponibilità del convenuto, di modo che la vicinanza riguarda la possibilità di conoscere in via diretta o indiretta il fatto, e non già la possibilità concreta di acquisire la relativa prova [19].

In altri casi il principio della vicinanza della prova viene evocato non quale criterio applicativo in concreto della regola di riparto dell’onere della prova, enunciata solo in astratto dal codice, bensì come criterio a sé stante, che a quella regola codicistica si affianca. Oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, quindi, il giudice, per non interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio, tutelato dalla Costituzione, dovrebbe tener conto anche del suddetto principio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova e, conseguentemente, ove i fatti possano essere noti solo ad una parte e non anche all’altra, dovrebbe porre a carico del primo l’onere della prova [20].

In effetti i maggiori problemi si pongono quando alla vicinanza o prossimità della prova si fa appello non come criterio applicativo o complemento della regola iuris espressa dal citato art. 2697, bensì per fondare su di essa una vera e propria deroga a quella regola, in funzione correttiva dell’astrattezza del precetto legale, muovendo dal presupposto che la peculiarità della fattispecie concreta evidenzi l’inadeguatezza, se non addirittura l’ingiustizia, della meccanica applicazione di quel precetto.

Si potrebbe esser tentati di sostenere che una tale accezione del principio di vicinanza della prova – in un senso, per così dire, più “forte” – non sia poi del tutto eversiva, considerando che, a ben vedere, il porre l’onere della prova a carico della parte che meglio ne dispone, e che quindi è meglio in grado di assolverlo, risponde alla medesima ratio legis cui si ispira la regola legale stabilita dal più volte art. 2697: la quale ugualmente, come s’è già prima accennato, riposa sulla presunzione secondo cui, almeno di norma, è colui qui dicit ad essere nella condizione più favorevole per fornire la prova di quanto afferma. Vero è però che così si finisce, in un certo senso, per degradare la regola legale sull’onere della prova ad una mera presunzione di vicinanza della prova; una presunzione che giustificherebbe quella regola, ma che poi sarebbe destinata a venir meno ogni qual volta, in concreto, la prova risulti invece più “vicina” alla controparte. Ma una simile costruzione, per suggestiva che sia, non appare sufficientemente suffragata da dati normativi, giacché nulla consente di ravvisare nel disposto del citato art. 2697 una mera presunzione, superabile mediante prova contraria, ed appare viceversa palese che con quella norma il legislatore ha inteso fissare un preciso criterio legale dal quale il giudice non sembrerebbe autorizzato a discostarsi in base a valutazioni connesse alle peculiarità del caso concreto.

Non sono peraltro mancati tentativi di dare un fondamento legale al principio di prossimità della prova, pur essendo innegabile la sua origine pretoria. Si è fatto leva sul dovere di lealtà e probità, che il primo comma dell’art. 88 c.p.c. impone a tutte le parti del giudizio [21] e si è anche invocato un ancor più generale dovere di collaborazione tra le parti ed il giudice [22], in forza del quale chi ha la disponibilità dei dati occorrenti per la piena comprensione dei fatti di causa avrebbe l’obbligo di non tenerli solo per sé. Una tale impostazione, se non m’inganno, appare assai vicina a quella di coloro i quali postulano l’esistenza di un dovere di verità gravante sulle parti del giudizio [23]. Ove davvero fosse possibile sostenere che i doveri di lealtà e probità processuali si traducono in un dovere di leale collaborazione di tutte le parti col giudice per favorire l’accertamento della verità, risulterebbe sicuramente più agevole argomentare anche in favore di un obbligo di disclosure e di un onere di prova esteso ai fatti rilevanti dei quali ciascuna parte abbia piena disponibilità. Il tema è troppo ampio per essere qui adeguatamente discusso, ma non può farsi a meno di rilevare come, allo stato, un’applicazione così estrema dei doveri di lealtà e probità delle parti in giudizio sia ancora ben lungi dall’essere comunemente ammessa. molto discussa. Il nostro sistema processuale non conosce l’istituto tipicamente anglosassone della discovery [24]; il che rende davvero difficile sostenere che il dovere di lealtà processuale si spinga sino ad imporre alla parte – a dispetto del tradizionale brocardo nemo contra se tenetur – il compimento di atti contrari al proprio interesse, ove faccia difetto una specifica disposizione normativa da cui ricavarlo. Altrettanto difficile mi pare, di conseguenza, voler desumere dai suddetti doveri di lealtà e probità una regola sulla ripartizione dell’onere della prova diversa e contrastante con quella di cui all’art. 2697 cod. civ.

In giurisprudenza il principio di vicinanza della prova viene però sovente giustificato anche in altro modo: richiamandosi all’art. 24 Cost. (e 47 della Carta dei diritti fondamentali della Ue), ogni qual volta questo appaia il mezzo occorrente per garantire l’effettiva possibilità di agire in giudizio a tutela dei propri diritti o interessi legittimi. Talora vi si aggiunge altresì un richiamo all’art. 3 Cost., che impone un canone di eguaglianza sostanziale tra le parti in giudizio, laddove l’applicazione pedissequa della regola sull’onere della prova, posta dal citato art. 2697, risponderebbe invece ad un criterio di eguaglianza meramente formale. Né manca, a questo proposito, il riferimento anche ad un ulteriore principio costituzionale: quello della parità delle armi, come elemento del giusto processo garantito dall’art. 111 Cost.

Come tutti gli argomenti con cui, invocando regole o principi della Costituzione, ci si sforza di adeguare e di rendere il più possibile compatibili con la Carta fondamentale disposizioni codicistiche sorte in epoca antecedente, anche quelli cui sopra si è accennato meritano certamente di esser presi sul serio e si possono ben comprendere le ragioni per le quali essi per lo più incontrano tra gli interpreti un certo favore. È però innegabile che v’è una qualche forzatura nell’adoperare simili argomenti in chiave di interpretazione costituzionalmente orientata, quando essi conducano non tanto ad un’interpretazione quanto ad una vera e propria disapplicazione (più o meno giustificata da principi costituzionali) di una ben chiara ed univoca regola legale [25]. Il che spiega la diffidenza di buona parte della dottrina, che vi scorge il rischio di una pericolosa manipolazione dell’esito del processo ad opera del giudice [26]. Né può dimenticarsi, rimanendo sul terreno costituzionale, che, per espressa indicazione del già menzionato citato art. 111, il “giusto processo” è quello regolato dalla legge, alla quale d’altronde il giudice è sempre soggetto, come ci ricorda anche il capoverso del precedente art. 101.


4. Il compito del giudice

In definitiva, mi sembra che anche a questo proposito vada in scena il mai sopito dibattito tra chi, attento soprattutto ai valori della certezza e della prevedibilità, propende per una concezione rigorosa del diritto, nella convinzione che l’astrattezza e generalità delle sue regole sia la migliore garanzia per gli utenti della giustizia, facendo da scudo a possibili abusi applicativi, e chi, viceversa, portatore di un punto di vista in certo senso più pragmatico, avverte la necessità di adeguare di volta in volta la regola legale alle peculiari caratteristiche di ogni situazione concreta per evitare il rischio che l’applicazione del diritto si ponga in contrasto con quel senso di giustizia che pur sempre dovrebbe ispirarlo.

Tra queste due impostazioni, ciascuna delle quali ha buone frecce al proprio arco, il giudice è, come sempre, chiamato a scegliere o forse, meglio ancora, a trovare un giusto punto di equilibrio, con l’obbligo in ogni caso di fornire adeguata motivazione delle sue scelte. Che egli fruisca di un margine non piccolo di discrezionalità nel condurre il processo – basti pensare al potere di disporre consulenze tecniche, di ordinare ispezioni o l’esibizione di cose e documenti, di deferire il giuramento suppletorio, di interrogare liberamente la le parti sui fatti di causa e desumere argomento di prova dal loro comportamento – è fuori discussione. Come in tutte queste ipotesi, espressamente contemplate dal legislatore, così pure nell’intervenire sul riparto del­l’onere della prova utilizzando il criterio della vicinanza, ove si voglia ammettere l’ammissibilità di applicare tale criterio nell’accezione che ho prima definito “forte”, occorre che il giudice sappia esercitare la sua discrezionalità in modo equilibrato e che sappia darne persuasivamente conto, anche al fine di consentirne il controllo in sede di eventuale impugnazione.

Particolarmente importante mi sembra comunque che si riesca ad evitare, pure a questo proposito, decisioni poco prevedibili, rispetto alle quali le parti siano prese di sorpresa non avendo potuto previamente interloquire per far valere le proprie ragioni. È vero che, probabilmente, la valutazione che il giudice faccia circa l’assolvimento dell’onere della prova da parte di chi vi è tenuto non rientra, a rigor si termini, tra le questioni rilevabili d’ufficio che non possono esser poste a fondamento della decisione se prima il giudice non le abbia segnalate alle parti, a norma dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. [27] Ciò, tuttavia, non toglie che, in tutti quei casi nei quali l’applicazione del criterio della vicinanza della prova non appaia ovvio e le parti non ne abbiano discusso, sia opportuno che il giudice, nell’esercizio dei suoi generali poteri di direzione del processo, che il primo comma dell’art. 175 c.p.c. espressamente gli attribuisce anche per assicurare che il procedimento si svolga in modo leale, prima di decidere inviti le parti ad esprimersi sul punto.

In questo, d’altronde, consiste il mestiere del giudice – o, se si preferisce così definirla – la sua arte: nell’applicare il diritto con quella virtù il cui nome riecheggia nella parola stessa “giuris-prudenza”: la prudenza, che già ab antiquo era considerata la prima delle virtù cardinali (auriga virtutum) e che non va certo intesa come sinonimo di tremebonda cautela, bensì di equilibrio e ponderato discernimento.


NOTE

[1] Sulla prova nel processo civile e perciò anche, in particolare, sulla disciplina dell’onere della prova la letteratura giuridica è vastissima. Mi limiterò qui a citare la recente monografia di S. Patti, La prova, Giuffrè, Milano, 2021, alla quale può attingersi per ulteriori riferimenti bibliografici.

[2] Definizione che si rinviene a più riprese già nella classica, seppure ormai alquanto risalente, monografia di Gian Antonio Micheli, L’onere della prova, Giuffrè, Milano, 1966.

[3] “La regola di giudizio” – osserva G. Verde, voce Prova (dir. proc. Civ.), in Enc. dir., vol. XXXVII, Giuffrè, Milano, 1988, 626, – “è la necessaria conseguenza di un sistema che affida le proprie risorse alla razionalità degli uomini destinati ad esercitare la funzione del giudicare”.

[4] Tornano qui alla mente le accorate parole di S. Satta, Il mistero del processo, Adelphi, Milano 1991, 62-63, il quale, lamentando come la scissione tra il diritto e la sua tutela si sia tradotta in una dissociazione fra diritto e processo, esclama: “noi processualisti, noi che dal fondo dell’anima sentiamo sempre nel processo un valore, ci poniamo oggi il problema della tutela del diritto nel processo”; e poi aggiunge che “solo con la tutela del diritto si salva il processo, e quella che noi chiamiamo tutela del diritto è in realtà tutela del processo”.

[5] Cfr. M. Gravaglia, Il controllo in cassazione sulla violazione della regola dell’onere della prova, in Riv. dir. proc., 2019, 1499 ss.

[6] Si veda, in argomento, Cass., sez. un., 22 maggio 2012, n. 8077, in Corr. giur., 2013, 89, con nota di A. Scarpa, Nullità della citazione, errores in procedendo ed accesso diretto della corte di cassazione agli atti del procedimento. Mi sia anche consentito, per brevità, rinviare al mio scritto Fatto e diritto nel giudizio di cassazione, in La cassazione civile, a cura di M. Acierno, P. Curzio, A. Giusti, Cacucci, Bari, 2020.

[7] È d’obbligo, in proposito, il riferimento agli scritti di B. Cavallone, Il processo come gioco, in Riv. dir. proc., 2016, 1548 ss., e Rien ne va plus (ancora sul processo come gioco), ivi¸ 2018, 1128 ss.

[8] Questa impostazione è dovuta soprattutto G. Micheli, op. cit., 177 ss.

[9] È tradizionale in giurisprudenza l’affermazione per cui l’onere della prova gravante su chi agisce o resiste in giudizio non subisce deroghe nemmeno quando abbia ad oggetto fatti negativi, anche se, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può essere data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario o mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo: si vedano, per tutte, Cass., 22 marzo 2021, n. 8018, Cass., 17 luglio 2019, n. 19171, e Cass., 13 giugno 2013, n. 14854.

[10] Si vedano, in argomento, le persuasive considerazioni di M. Taruffo, Verità e prova nel processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2018, 1305 ss.

[11] J. Nieva-Fenoll, L’onere della prova: una reliquia storica che dovrebbe essere abolita, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2020, 1195 ss.

[12] Sulla necessità di mantenere il principio del libero convincimento entro i limiti suoi propri e di non intenderlo come un illimitato potere del giudice di indagare sui fatti di causa, pena altrimenti lo svilimento della stessa giuridicità del fenomeno processuale, insiste particolarmente G. Verde, op. cit., 590 ss.

[13] Sui limiti entro cui il consulente tecnico d’ufficio può accertare egli stesso i fatti oggetto della lite si sono di recente pronunciate le Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza del 1° febbraio 2022, n. 3086, in Foro it., 2022, I, 1798, con nota di A. Alfieri, La natura della nullità della consulenza tecnica d’ufficio: il chiarimento delle Sezioni Unite.

[14] Per una critica alla definizione della vicinanza della prova in termini di principio, si veda M. Franzoni, La «vicinanza della prova», quindi …, in Contratto e impr., 2016, 373 ss.

[15] Sulla derivazione del criterio della vicinanza della prova dal pensiero del filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham, si veda C. Besso, La vicinanza della prova, in Riv. dir. proc., 2015, 1383 ss.

[16] Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Contratti, 2002, 113, con nota di U. Carnevali, Inadempimento e onere della prova.

[17] Cass., sez. un., 10 gennaio 2006, n. 141, in Foro it, 2006, I, 704, con note di A. Proto Pisani, La prova del «requisito dimensionale» ex art. 18 l. 300/70: un grand arrêt delle sezioni unite, e di D. Dalfino, La prova del «requisito dimensionale» ex art. 18 l. 300/70 al vaglio delle sezioni unite.

[18] Cass., sez. un., 3 maggio 2019, n. 11748, in Foro it., 2019, I, 2726, con nota di M. Magliulo, Garanzia per vizi, inesatto adempimento ed onere della prova: l’intervento delle sezioni unite e la rilettura del principio di vicinanza alla fonte di prova.

[19] Così, da ultimo, Cass., 22 aprile 2022, n. 12910, che ha rigettato un ricorso col quale una società che pretendeva di aver diritto a sgravi contributivi per avere assunto mano d’opera con contratti di formazione-lavoro aveva omesso di provare la condizione a tal fine prescritta dall’Unione europea, secondo cui lo sgravio non compete in caso di assunzione di mano d’opera connessa ad operazioni d’investimento.

[20] In tal senso Cass., 26 febbraio 2021, n. 5476, in Giur. it., 2021, 2173, che, nel caso di una lavoratrice la quale aveva lamentato una discriminazione in suo danno per il mancato rinnovo di un contratto a termine a causa del suo stato di gravidanza, laddove il rinnovo era stato invece concesso a tutti i colleghi che si trovavano nelle sue stesse condizioni contrattuali, ha posto a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare quale fosse il trattamento riservato agli altri dipendenti essendo i relativi contratti nella sua materiale disponibilità. Allo stesso modo, Cass. 25 luglio 2008, n. 20484, in una vertenza riguardante il riconoscimento del premio di produttività preteso da un lavoratore in conseguenza dei positivi risultati economici dell’impresa, ha ritenuto che l’andamento dell’azienda rientrasse tra gli elementi suscettibili di conoscenza solo da parte dell’imprenditore, sul quale pertanto incombeva il relativo onere probatorio; e Cass. 17 aprile 2012, n. 6008, ha invocato il medesimo criterio per addossare al preponente, che aveva risolto in tronco un contratto di agenzia, l’onere di dimostrare l’anomalia della contestata diminuzione di affari e, quindi, di fornire al giudice i dati per comparare il risultato ottenuto dall’agente in questione rispetto al volume di vendite conseguito da altri agenti dello stesso preponente in altre zone.

[21] S. Patti, Delle prove, in Comm. Scialoja-Branca, Zanichelli, Bologna-Roma, 2015, 32 ss.

[22] C. Bresso, op. cit., 1397 ss.

[23] M. Gradi, L’obbligo di verità delle parti, Giappichelli, Torino, 2018.

[24] Osserva C. Bresso, op. cit., 1394 ss., che il tema della vicinanza della prova è meno sentito nei paesi di common law proprio perché in quegli ordinamenti opera l’istituto della discovery.

[25] Si veda in proposito M. Luciani, Interpretazione conforme a costituzione, in Enc. dir. – Annali, Giuffrè, Milano, 2016, vol. IX, 391 ss.

[26] Vedi, tra gli altri, M. Franzoni, op. cit., 360 ss.; M. Taruffo, Il regime probatorio: i principi generali, in Contratto e impr., 2014, 1 ss.; e F. Piraino, Travisamenti pretori in tema di esonero dalla responsabilità contrattuale tra causalità e vicinanza della prova, in Foro it., 2020, I, 2000 ss.

[27] M. Taruffo, L’onere come figura processuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 425, nt. 22. Per ovviare aI rischio di decisioni che colgano ”di sorpresa” la parte, la quale potrebbe ritrovarsi ad essere soccombente per non aver soddisfatto un onere probatorio che non le spettava in base all’art. 2697 e che il giudice le ha attribuito in maniera imprevedibile, lo stesso M. Taruffo, Il regime probatorio, cit., 3-4, suggerisce di attuare comunque il principio del contraddittorio di cui all’art. 101 cod. proc. civ., superando in via interpretativa il riduttivo riferimento alle “questioni rilevabili d’ufficio” contenuto nel secondo comma di tale articolo.