Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Onere della prova e vicinanza della prova (di Renato Rordorf, Primo Presidente emerito della Corte di cassazione)


La regola dell’onere della prova, seppur regolata dall'art. 2697 c.c., è destinata a trovare applicazione, prevalentemente, nel nostro diritto processuale: il presente contributo ripercorre il ruolo di tale principio ed esamina i casi in cui detto onere risulti alleggerito o addirittura escluso, lasciando così al giudice una maggiore discrezionalità di quanto si potrebbe, a prima vista, pensare. In questo solco (nella recente giurisprudenza, soprattutto a seguito dalla nota pronuncia a Sezioni Unite n. 13533/2001), si colloca il principio di vicinanza della prova, talvolta utilizzato come criterio per derogare al principio dell’onere della prova, correggendo l'astrattezza di quest'ultimo principio. Nel quadro così delineato, un ruolo fondamentale è svolto dal giudice, chiamato a trovare un giusto punto di equilibrio tra esigenze di certezza del diritto, da un lato, e adattamento delle regole processuali al caso concreto, dall'altro.

Burden of proof and proximity of proof

The essay examines the role of the burden of proof (set by article 2697 of the Italian Civil Code) and the restrictions or exemptions from this principle. Mainly following the judgement n. 13533 of 2001 by the Italian Supreme Court, the principle of the proximity of proof is one of the main examples of this trend: indeed, the proximity of proof can be used by the judge, in order to better rule on a specific case, balancing between legal certainty and the specific characteristics of each case.

SOMMARIO:

1. L’onere della prova tra diritto e processo - 2. Il gioco processuale e la ricerca della verità - 3. La vicinanza (o prossimità) della prova - 4. Il compito del giudice - NOTE


1. L’onere della prova tra diritto e processo

L’onere della prova in ambito civile è regolato, come tutti sanno, dall’art. 2697 cod. civ., che impone a chi vuole azionare un diritto in giudizio di provare i fatti sui quali esso si fonda ed a chi eccepisce l’inefficacia di quei fatti, ovvero l’estinzione o la modificazione di quel diritto, di provare le circostanze sulle quali si basa la sua eccezione [1]. La disposizione del codice che ho appena richiamato si pone nel solco di una tradizione assai antica e rispecchia un principio già presente nel Digesto: “Ei incumbit probatio qui dicit., non qui negat”. In tempi moderni la si è talvolta definita un “dogma” [2], ed una simile definizione potrebbe suggerire, a prima vista, che il suo fondamento sia più fideistico che razionale. A me sembra, viceversa, che la regola di cui si sta parlando non sia affatto priva di una sua base logica. È anzitutto innegabile che, dal punto di vista storico, essa si ponga nel solco di uno dei grandi progressi della scienza giuridica, la quale anche in tal modo si è pian piano svincolata dalla concezione originariamente divina del diritto. L’accertamento dei fatti rilevanti nel processo ha così cessato di essere affidato al giudizio di Dio, che si manifestava attraverso l’ordalia, il duello o altri simili mezzi evocanti un intervento sovrannaturale, per basarsi invece su di un criterio laico e logico [3]: chi allega un fatto è tenuto a darne dimostrazione. Benché situata nel codice civile, la regola sull’onere della prova è ovviamente destinata ad operare soprattutto in ambito processuale. Già la sua collocazione nel Libro VI del codice civile, dedicato alla tutela dei diritti, ne sottolinea però lo stretto legame anche col diritto sostanziale. Non si dà un diritto senza adeguati mezzi per tutelarlo. Molto si è scritto sul rapporto e sulla distinzione tra diritto ed azione, ma mi pare innegabile che, per certi versi, si tratti di due facce di una medesima medaglia: un diritto non azionabile sarebbe vuoto di contenuto, e perciò lo stabilire le regole che consentono di azionarlo efficacemente vale, al tempo stesso, ad individuarne la reale consistenza [4]. Osservo poi incidentalmente, a tal proposito, che il porsi della regola sull’onere della prova in certo senso a cavallo tra diritto e processo si riflette anche sulla natura [continua ..]


2. Il gioco processuale e la ricerca della verità

La regola sull’onere della prova appare, a prima vista, molto chiara, ma in realtà nasconde non poche complicazioni ed assume un significato diverso a seconda della funzione che le si attribuisca nel processo ed, in qualche misura, a seconda della concezione stessa che del processo si abbia. Se il processo è visto essenzialmente come duello, o addirittura come giuoco [7], quella regola vi inerisce profondamente, perché ad ogni gioco sono essenziali delle regole ed il loro scopo si esaurisce nel consentire che il gioco si svolga e possa giungere a conclusione decretando un vincitore. Se concepita in quest’ottica, la regola sull’onere della prova parrebbe, in certo senso, neutra: utile soprattutto a risolvere le situazioni dubbie, giacché al giudice non è data la possibilità del non liquet, ed è proprio applicando quella regola che egli sarà pur sempre in grado di decidere la causa nel merito, anche quando non sia stato possibile accertare come si sono davvero svolti i fatti intorno ai quali si controverte [8]. Non importa allora tanto il modo in cui l’onere della prova si distribuisce tra le parti, quanto il fatto che vi sia una regola di chiusura del gioco che permette di decidere la causa anche in situazioni dubbie nelle quali altrimenti l’esito della partita rischierebbe di restare in sospeso. L’applicazione della regola sull’onere della prova anche ai fatti negativi [9], con riguardo ai quali la sua intrinseca razionalità potrebbe esser messa in dubbio, a dispetto dell’antico brocardo secondo cui negatoria non egent probationem, sembrerebbe confermare una qualche indifferenza di tale regola rispetto al contenuto delle vicende cui la prova attiene. Tuttavia, benché sia noto che verità storica e verità processuale non necessariamente coincidono, giacché il processo è la scena sulla quale taluni fatti vengono rappresentati, per poterli giudicare, e quasi mai la realtà di un fatto coincide del tutto con la sua rappresentazione, mi sembra sia pur sempre ineludibile la necessità di minimizzare il più possibile questa discrepanza. Non va dimenticata la natura strumentale del processo, che deve servire all’effettiva tutela dei diritti, garantita dalla Costituzione; e la nozione di “giusto processo”, che la stessa Costituzione enuncia all’art. 111, postula [continua ..]


3. La vicinanza (o prossimità) della prova

È proprio in questa zona grigia che si colloca anche il cosiddetto principio della vicinanza (o prossimità) della prova. Un asserito principio – ma forse meglio dovrebbe dirsi: una regola o un criterio [14] – per il quale colui nella cui disponibilità sono gli elementi probatori occorrenti alla dimostrazione di un fatto dovrebbe, per ciò stesso, farsi carico di dimostrarli in giudizio [15]. Questo principio (continuiamo pure per abitudine a chiamarlo anche così) ha trovato un’eco nell’art. 64, comma 1, del c.p.a., che è così formulato: “Spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni”. Non v’è invece alcuna analoga disposizione nel codice civile o nel codice di procedura civile, e tuttavia il criterio della vicinanza della prova si è andato sempre più affermando nella giurisprudenza dei tribunali e delle corti, grosso modo a partire dagli anni novanta del secolo scorso e, soprattutto, nel nuovo secolo. Si tratta dunque, almeno per quel che attiene al diritto ed alla procedura civile, di un principio di natura essenzialmente giurisprudenziale, la cui diffusione e rilevanza sono attestate anche dai ripetuti riferimenti che vi hanno fatto le Sezioni unite della Corte di cassazione: a cominciare dalla nota decisione che anche sulla vicinanza della prova ha fondato l’affermazione secondo cui sul creditore grava solo l’onere di dimostrare la fonte dell’obbligazione, sia che egli agisca per l’adempimento sia che agisca per la risoluzione del contratto, mentre compete all’obbligato dare prova del proprio adempimento [16]. Lo stesso principio è stato invocato per porre l’onere della prova dell’esistenza dei requisiti occupazionali, da cui dipende l’applicabilità della disciplina dello statuto dei lavoratori in tema di licenziamento, a carico del datore di lavoro, e non del lavoratore, perché costui è privo della disponibilità dei fatti idonei a dimostrare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa [17]. E sempre al medesimo principio le Sezioni unite si sono più di recente riferite quando hanno stabilito che l’onere della prova dei vizi della cosa venduta compete all’acquirente, giacché [continua ..]


4. Il compito del giudice

In definitiva, mi sembra che anche a questo proposito vada in scena il mai sopito dibattito tra chi, attento soprattutto ai valori della certezza e della prevedibilità, propende per una concezione rigorosa del diritto, nella convinzione che l’astrattezza e generalità delle sue regole sia la migliore garanzia per gli utenti della giustizia, facendo da scudo a possibili abusi applicativi, e chi, viceversa, portatore di un punto di vista in certo senso più pragmatico, avverte la necessità di adeguare di volta in volta la regola legale alle peculiari caratteristiche di ogni situazione concreta per evitare il rischio che l’applicazione del diritto si ponga in contrasto con quel senso di giustizia che pur sempre dovrebbe ispirarlo. Tra queste due impostazioni, ciascuna delle quali ha buone frecce al proprio arco, il giudice è, come sempre, chiamato a scegliere o forse, meglio ancora, a trovare un giusto punto di equilibrio, con l’obbligo in ogni caso di fornire adeguata motivazione delle sue scelte. Che egli fruisca di un margine non piccolo di discrezionalità nel condurre il processo – basti pensare al potere di disporre consulenze tecniche, di ordinare ispezioni o l’esibizione di cose e documenti, di deferire il giuramento suppletorio, di interrogare liberamente la le parti sui fatti di causa e desumere argomento di prova dal loro comportamento – è fuori discussione. Come in tutte queste ipotesi, espressamente contemplate dal legislatore, così pure nell’intervenire sul riparto del­l’onere della prova utilizzando il criterio della vicinanza, ove si voglia ammettere l’ammissibilità di applicare tale criterio nell’accezione che ho prima definito “forte”, occorre che il giudice sappia esercitare la sua discrezionalità in modo equilibrato e che sappia darne persuasivamente conto, anche al fine di consentirne il controllo in sede di eventuale impugnazione. Particolarmente importante mi sembra comunque che si riesca ad evitare, pure a questo proposito, decisioni poco prevedibili, rispetto alle quali le parti siano prese di sorpresa non avendo potuto previamente interloquire per far valere le proprie ragioni. È vero che, probabilmente, la valutazione che il giudice faccia circa l’assolvimento dell’onere della prova da parte di chi vi è tenuto non rientra, a rigor si termini, tra le questioni [continua ..]


NOTE