Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

L´“introduzione alla problematica della «proprietà»” nel quadro delle riletture costituzionali del diritto proprietà (di Luca Nivarra)


Il libro di Pietro Perlingieri "Introduzione alla problematica della proprietà", pubblicato nel 1970, viene riletto alla luce del dibattito italiano sull'interpretazione costituzionale del diritto patrimoniale.

The "introduction to the problem of" property "" in the context of the constitutional reinterpretations of property law

Pietro Perlingieri's book "Introduction to the problematic of property", published in 1970, is re-read in the light of the Italian debate on the constitutional interpretation of property law.

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Luca Nivarra - L’“introduzione alla problematica della «proprietà»” nel quadro delle riletture costituzionali del diritto proprietà

SOMMARIO:

1. L’antefatto. - 2. “Concetto” e “concezione”. - 3. “Istituto” e “diritto soggettivo”. - 4. Segue: la Costituzione come “rottura” e la Costituzione come “complessità”. - 5. Le funzioni sociali della proprietà. - 6. Proprietà e impresa. - 7. Aurora di un metodo. - 8. Conclusioni.


1. L’antefatto.

Vorrei richiamare subito l’attenzione su un dettaglio solo apparentemente marginale, ossia i due “caporali” che incorniciano la parola “proprietà” nel titolo del libro che costituirà oggetto delle mie riflessioni (Introduzione alla problematica della «proprietà»)[1]. L’ uso di questo segno grafico può essere considerato una sorta di iperbolica epitome del progetto ricostruttivo che ispira la riflessione di Perlingieri, dislocandola a buon diritto nel panorama delle letture costituzionalmente orientate della proprietà: al riguardo delle quali osserverei, in via preliminare, che il loro irrobustirsi nel decennio 60-70, affidato ad opere ormai classiche (dal saggio di Rodotà, apparso nel 1960, sulla “Trimestrale”, alla monografia di Michele Costantino, solo per citare alcuni dei contributi più noti)[2] eredita, e mette a profitto, un’idea della proprietà non più riducibile al modello protoliberale, consacrato nel Code Napoléon e ricevuto dal primo codice civile dell’Italia unita. Il quadro originario, difatti, era stato intaccato, anche se non stravolto, dal codice civile del ’42 il quale, al netto delle concessioni, più o meno rituali, all’ideologia del regime, abbraccia una concezione del nostro istituto che rispecchia le profonde trasformazioni subite dall’economia nel passaggio dal capitalismo a matrice dominicale a quello a matrice imprenditoriale (dal capitalismo della rendita al capitalismo del profitto). Questa evoluzione può essere apprezzata almeno sotto un duplice profilo. In primo luogo, il nuovo codice civile secolarizza, anche sul piano della trama espositiva (la quale, sempre, si incarica di lasciar intravedere, in filigrana, le ragioni seminali del sistema), il legame tra il contratto e la proprietà: risultato, questo, che viene conseguito eguagliando l’effetto reale (artt.1376 e 922 c.c.) all’effetto obbligatorio (art.1173 c.c.) per mezzo del confinamento della seconda in un Libro diverso da quello destinato ad ospitare il primo. Al vistoso indebolimento del nesso tra proprietà e contratto (indice sicuro della prevalenza di un modello ormai stabilmente indirizzato a promuovere la creazione di nuova ricchezza (mediante l’organizzazione dei fattori produttivi) più che a tutelare quella esistente[3], si accompagna, poi, una manovra [continua ..]


2. “Concetto” e “concezione”.

Distinguere tra “concetto” e “concezione” può essere d’aiuto per meglio comprendere il senso della traiettoria disegnata dalla proprietà negli ultimi due secoli[1]. La proprietà ottocentesca, quella del codice francese e dei numerosi altri codici che da questo trassero ispirazione, è una proprietà caratterizzata dalla sovrapponibilità di “concetto” e “concezione”, ovvero dell’istituto come insieme di regole positive e dell’istituto per come esso si presenta alla coscienza collettiva e a quella dominante in seno al ceto dei giuristi[2]. Le modificazioni alle quali ho accennato più sopra alterano questo equilibrio. Il fortunatissimo plurale pugliattiano, le “proprietà”, si incarica di cogliere, sul piano di una raffinata tecnica giuridica, l’assoggettamento del nucleo più intimo (o di quello che, secondo un certo modo di vedere le cose per il quale “concezione” e “concetto” sono indissolubili, appare tale) del dispositivo dominicale a quell’insieme di limiti ed obblighi che descrive il tratto specifico dei nuovi regimi differenziati[3]. Si tratta, se vogliamo, di una sorta di gioco di specchi, in buona parte governato a partire dal versante della “concezione” la quale trasferisce sul “concetto” l'ombra protettiva dell’immagine tradizionale della proprietà sostanzialmente riducendo le novità introdotte dal ius novum a semplici variazioni sul tema. Insomma, i giuristi non possono non aggiornare il “concetto”, ma questo non vuol dire che essi rottamino la “concezione”, ancora saldamente agganciata al paradigma classico dell’istituto[4]. Venendo ora a quelle che sogliono chiamarsi le letture costituzionali della proprietà, si può dire, intanto, che esse descrivano un moto di riavvicinamento a segno invertito: in altre parole la “concezione” della proprietà rintracciabile in seno al dettato costituzionale sollecita la revisione dell’omologo “concetto”, revisione che si indirizza, appunto, verso una ricucitura tra i due livelli[5]. Rinviando ad un momento successivo del discorso l’approfondimento di questo punto, vorrei, invece, sviluppare qualche riflessione intorno al modo in cui la Costituzione, una volte scongelata, irrompe nel mai lineare approssimarsi [continua ..]


3. “Istituto” e “diritto soggettivo”.

Vorrei ora provare a sviluppare il ragionamento avanzato nel § precedente. La dialettica “concetto” – “concezione”, non in generale, beninteso, ma applicata ad un oggetto specifico – la proprietà – reca segni inconfondibili della lingua parlata dall’oggetto medesimo: che è quella dei giuristi con un manzoniano resticciuolo proteso su ciò che sta fuori, ovvero sui processi reali che muovono le cose. La dialettica “istituto” – “diritto soggettivo” prende in prestito dall’idioletto della scientia iuris le parole, ma si sporge oltre, là dove riesce a superare la gabbia imposta dall’appartenenza ad un vocabolario contrassegnato da un grado di rigore sempre relativo. Intendo dire che l’allargamento dello spazio di significato rinvenibile nel passaggio da “diritto soggettivo” a “istituto” permette di cogliere, con tutte le approssimazioni di un codice linguistico mai davvero univoco, il definitivo congedo del diritto borghese da qualsiasi residua illusione naturalistica e il suo ingresso nel mondo della “complessità”, cioè del surplus di regolazione di un modo di produzione dagli equilibri tanto più ramificati quanto più precari di cui il sistema giuridico deve ora farsi carico. “Complessità” è una di quelle parole magiche che periodicamente transitano, nonostante il loro scarso tecnicismo, nel vocabolario del giurista (altri esempi sono “crisi”, “confine” -preferibilmente al plurale -, “ritorno”, “svolta” e altre se ne potrebbero aggiungere) con la pretesa di descrivere (anzi, evocare) fenomeni di ampia portata, il più delle volte perfino accreditati dell’energia necessaria ad improntare di sé un’intera fase storica. Per es., di “complessità” negli ultimi anni si è parlato molto nella dottrina italiana con riguardo, in primo luogo, al sistema delle fonti, fortemente inciso dal processo di integrazione europea, sia sotto il profilo formale sia sotto il profilo sostanziale, cioè del ruolo assunto dalla giurisprudenza e del riparto di competenze tra le Corti nazionali e sovranazionali. Certo, l’europeizzazione della nomodinamica degli ordinamenti statali è una vicenda di cui è impossibile sottovalutare l’importanza. [continua ..]


4. Segue: la Costituzione come “rottura” e la Costituzione come “complessità”.

Una serie di fattori e circostanze rivenienti dalla storia generale del Paese hanno contribuito in misura decisiva ad accreditare l’immagine della Costituzione del ’48, e del suo effettivo, apicale radicarsi in seno al sistema delle fonti (tenuto a battesimo dalla prima pronunzia della Corte costituzionale, ma destinato a dare i suoi frutti nel corso dei nostri agitatissimi anni ’60) come di un evento in un certo senso traumatico, che avrebbe rappresentato un’autentica “rottura” del quadro risultante dalle prassi, dalle forme di pensiero, dalle abitudini mentali di cui la cultura giuridica allora dominante si nutriva. Ora, a scanso di equivoci, dirò subito che questa percezione è corretta e condivisibile: e, tuttavia, è anche parziale. Essa, infatti, va storicizzata, ovvero messa in connessione con tutto quanto animava la fase dentro la quale il c.d. disgelo costituzionale viene a compimento. Una fase caratterizzata, in primo luogo, da una brusca impennata del moto di modernizzazione della società italiana, passata in un arco di tempo ab bastanza breve da un tipo di economia in cui il settore primario aveva ancora un grande peso ad un’economia di tipo industriale, fortemente orientata al mercato interno e, dunque, al consumo su scala di massa. Questa profonda trasformazione si porta dietro un gran numero di ricadute, apprezzabili su vari piani, ma si può senz’altro affermare che il profilo più significativo del disgelo sociale sperimentato a partire dall’inizio degli anni ’60 sia rappresentato dal manifestarsi di una forte conflittualità: la quale, naturalmente, investe il rapporto capitale – lavoro, dove si registra, almeno in partenza, perfino lo scavalcamento “a sinistra” del movimento operaio organizzato (P.C.I. e C.G.I.L.), ma che, in un certo senso, diventa la cifra dominante del periodo. Famiglia, scuola, università, fabbrica (dove anche la rivendicazione salariale tende ad assumere i contorni di un mezzo di lotta finalizzato alla messa in crisi del potere padronale) sono i teatri di uno scontro poi culminato nel biennio 68-69, non a caso divenuto sinonimo, se non di rivoluzione, quanto meno di spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. Dentro il sommovimento generale, il progressivo familiarizzare del ceto dei giuristi con il testo costituzionale e il repertorio degli argomenti da esso [continua ..]


5. Le funzioni sociali della proprietà.

Il corso perlingieriano si iscrive all’interno di questo quadro e, anzi, si segnala proprio per l’attenzione con la quale vengono tracciate le ricadute delle disposizioni costituzionali in tema di proprietà sulla disciplina dell’istituto affidata al codice civile e alla legislazione speciale. Non è mia intenzione ripercorrere tutti i passaggi della minuziosa analisi sviluppata dall’Autore nelle oltre duecento pagine del suo libro. Mi limiterò, pertanto, ad alcune osservazioni avvalendomi, ancora una volta, come criterio ordinatore del binomio “concezione” – “concetto”. Con riguardo al primo profilo, direi, intanto, che la “concezione” perlingieriana della proprietà cattura e riproduce efficacemente, sulla scala costituzionale, la complessità che il “concetto” aveva già attinto nella stagione precedente, quella che, con una facile ellissi, abbiamo chiamato delle “proprietà”. Le due polarità attorno alle quali si agglutina il nuovo paradigma sono la persona e l’impresa. Da entrambi questi versanti, Perlingieri registra una netta presa di distanze non soltanto dal modello protoliberale – già congedato, come si è visto, a seguito dell’avvento del secondo capitalismo – ma anche da quello produttivistico – corporativo riassunto nei fraseggi del codice del ’42. Gli elementi che precipitano nella relazione tra la persona (fisica, come più volte l’A. si premura di sottolineare) e la proprietà sono irriducibili allo spartito giusnaturalistico, tributario dell’idea, variamente declinata ma sostanzialmente unitaria, per la quale il diritto di proprietà si presenta come un attributo della persona, sicché tutelare l’una significa, in definitiva, tutelare anche l’altra. Ora, Perlingieri, nel prendere atto della inclusione della proprietà nell’ambito della disciplina costituzionale dei rapporti economico – sociali – indice inequivoco della definitiva secolarizzazione dell’istituto[1] – ne ripercorre le trasformazioni molecolari che l’hanno investita attraverso la lettura combinata di alcune disposizioni – segnatamente gli artt. 42, 44 e 47, comma 2 – dalle quali, a suo avviso, sarebbe possibile desumere la chiara volontà del legislatore costituente di [continua ..]


6. Proprietà e impresa.

Come ho già anticipato, l’altra polarità attorno alla quale si sviluppa il discorso perlingierano è rappresentata dall’impresa. Qui il punto di maggior interesse, proprio sotto il profilo di una metodologia dell’interpretazione costituzionale, si rinviene, a mio avviso, nel tentativo di leggere lo statuto impresso dalla Carta del ’48 alla libertà di iniziativa economica attraverso il filtro della proprietà[1]. Un interesse dettato, in primo luogo, proprio da un approccio ermeneuticamente unitario, ispirato dall’idea che tutti i singoli precetti della Costituzione, così come del resto l’intero corpo delle norme di cui si compone l’ordinamento giuridico, sono, e debbono essere, permeati dello spirito, mi verrebbe da dire, dal logos, che soffia impetuoso dai grandi principi costituzionali (dignità, solidarietà, eguaglianza sostanziale): un approccio che, mi sembra di poter dire, rimarrà una costante nella riflessione scientifica di Pietro Perlingieri, fino a diventare cifra inconfondibile del pensiero suo e della sua scuola. In concreto, poi, questo approccio si risolve – semplifico in modo grossolano, ma non credo di tradire il senso profondo del ragionamento svolto dall’Autore – nel parificare la posizione dell’imprenditore a quella del proprietario, con il risultato di creare una potente simmetria tra la funzione sociale della proprietà e i vincoli, ed i limiti, posti alla libertà di iniziativa economica, a partire da quanto previsto dall’art.41, comma 2. L’idea di fondo, molto moderna, e sintomatica di un atteggiamento indisponibile a farsi ingabbiare entro le maglie del formalismo, è che il controllo dei mezzi di produzione di cui l’imprenditore è l’organizzatore, equivalga ad una forma di proprietà, indipendentemente dalla modalità giuridica attraverso la quale i singoli assett di cui essa si compone entrano a far parte dell’azienda. Una volta compiuta questa mossa, la simmetria alla quale accennavo in precedenza si dispiega con grande evidenza L’art. 41, comma 3 («la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere coordinata e indirizzata a fini sociali») trasferisce sulla libertà di iniziativa economica il progetto di [continua ..]


7. Aurora di un metodo.

La lettura che Perlingieri propone delle disposizioni costituzionali in materia di proprietà cancella anche quell’ultima traccia di fissità protoliberale che aveva resistito, se non altro sul piano della “concezione” e, quindi, in una chiave eminentemente ideologica, alle trasformazioni imposte dal secondo capitalismo e alla stagione delle “proprietà” al plurale. Nelle mani di Perlingieri, la proprietà, della quale viene colto e valorizzato in primo luogo, il carattere di infrastruttura sociale, piuttosto che di semplice diritto soggettivo (e anche questo spostamento d’accento è indice di una notevole modernità dell’approccio privilegiato dal Nostro), diviene il punto di coagulo di una trama molto fitta di interessi e di rapporti tra individui ma, ancora prima, tra gruppi, se non tra classi: e ciò non può non avere una ricaduta sul “concetto” stesso di proprietà. Al riguardo, vorrei indicare quello che, almeno a mio avviso, rappresenta il punto che posto a a fondamento della riconcettualizzazione perlingierana della proprietà: della quale, va da sé, qui si può offrire solo un quadro sommario. Si tratta dell’idea che, come situazione giuridica soggettiva, la proprietà presenti un contenuto complesso, non più riducibile allo schema elementare del godere e del disporre. In realtà, proprio a cagione del convergere su di essa di una pluralità di interessi tra i quali certamente emergono, ma non più in solitudine, quelli del titolare del diritto, la proprietà finisce per assumere una postura relazionale, se non altro nel senso che, a seconda dei casi (e vedremo subito di quali casi si tratta), le prerogative tipicamente dominicali dovranno adattarsi ad una inevitabile convergenza con istanze esoproprietarie e subire un adattamento dal quale discende una loro, parimenti inevitabile, riconfigurazione. Le variabili individuate da Perlingieri in dipendenza delle quali è dato riscontrare questo fenomeno di permanente riarticolazione delle attribuzioni dominicali sono fondamentalmente tre: 1) la soggettività proprietaria: privata, pubblica, collettiva rispetto alla quale la variabile 2) ossia la funzione sociale agisce in modo molto diverso, posto che rispetto alla proprietà privata essa incarna un progetto da attuare, rispetto alla seconda essa inerisce alla [continua ..]


8. Conclusioni.