Nell'analizzare criticamente i principi trattati, in materia, da Cass, civ, sez. un., n. 3086/2022, l’Autore riesamina i problemi teorico-pratici inerenti ai rapporti fra l'attuale tendenza alla formale “proceduralizzazione” delle attività, affidate al consulente tecnico d’ufficio, e le eventuali sanzioni di nullità (relativa e/o assoluta), che sono al riguardo comminabili. In proposito, secondo l'approccio giurisprudenziale, si reputano sanabili, in quanto relative, le nullità “procedurali”, derivanti da vizi formali, salva eccezionalmente restando la nullità (assoluta, e perciò insanabile, da rilevarsi anche d’ufficio dal giudice, senza limiti temporali) che afferisce ai fatti “principali” eventualmente “diversi” da quelli allegati dalle parti.
The Author analyzes the decision ruled by the Italian Corte di Cassazione (n. 3086/2022) and reviews the theoretical and practical problems posed by the recent developments in the Italian case law about the court appointed expert. In particular, the Author criticizes the recent tendency, emerged in the Italian case law, to consider remediable the procedural flaws of the court appointed expert, except where he has taken account of new main facts (the so called “fatti principali”).
1. Introduzione - 2. I principi di diritto, enunciati in materia da Cass. civ., sez. un., 1 febbraio 2022, n. 3086 - 3. Le attività «proceduralizzate» del consulente tecnico e le sanzioni di nullità, nella prospettiva in cui si colloca il Supremo Collegio con la citata pronuncia - 4. Considerazioni conclusive - NOTE
Nell’accingermi a trattare questo tema, mi ero inizialmente reso conto di non poter recare alcun apporto specifico di analisi e di conoscenze, utili a celebrare (come si deve) la nuova edizione della maxi-opera civilistica di Salvatore Patti sulle prove [1]. Ma mi sono poi convinto che, in ogni caso, valesse la pena di occuparsi di un ambito probatorio così delicato, recentissimamente ripreso ed approfondito da talune «sentenze-trattato» [2] del Supremo Collegio a sezioni unite, le quali (pur nel loro corposo assetto motivazionale) non mancano di suscitare perplessità residue [3]. Credo sia buona norma – sulla scia di esempi metodologici tratti da altre esperienze [4] – premettere introduttivamente qualche notazione generale. Anticipo alcune osservazioni generali. Anzitutto, da un punto di vista terminologico, l’importante pronuncia [5], che (come ho detto) costituisce l’oggetto primario delle mie considerazioni, utilizza – e dà quasi per scontate, nelle accezioni comunemente note [6] – le espressioni «fatti principali», «fatti secondari» e «fatti avventizi» (intendendo però questi ultimi quali fatti «costitutivi della domanda» e fatti «modificativi, impeditivi o estintivi» della pretesa azionata, che non abbiano fatto oggetto di alcuna attività deduttiva di parte). La locuzione «fatti accessori» individua invece, in coerenza con il consolidato indirizzo giurisprudenziale [7], tutti quei (diversi) fatti che rientrino nell’ambito «strettamente tecnico» della consulenza, quali «presupposti necessari» per un’adeguata risposta ai quesiti del giudice, sì da poter essere investigati dal consulente ai sensi dell’art. 194, comma 1, cod. proc. civ., pur in assenza di un’autorizzazione ad hoc del magistrato procedente. Vi è, in aggiunta, l’utilizzazione di altre locuzioni od espressioni, che contraddistinguono, più in generale, quei fatti, di qualsiasi tipo, che debbano considerarsi comunque estranei al thema decidendum. Si parla, inoltre, sporadicamente di «prove scientifiche», per tali intendendosi quelle che, in dipendenza dalla loro vocazione «specialistica», si debbano acquisire, di solito, mediante le consulenze c.d. «percipienti» [8], provviste di [continua ..]
L’ultima pronuncia del Supremo Collegio [14], qui analizzata, si segnala anzitutto per una ben precisa anomalia, che la distingue dalle altre pronunzie coeve cui si è fatto cenno. Essa, invero, decide solo parzialmente le questioni prospettate da un ricorso ordinario, accogliendo il primo motivo di gravame e dichiarando assorbiti il secondo, il terzo ed il quarto [15]. Ma – su sollecitazione motivata dell’ordinanza interlocutoria di rimessione, emessa dalla I sezione della Corte in data 12 gennaio 2021 (n. 9811) – la medesima si sofferma lungamente sul quinto motivo (dichiarato, tuttavia, contestualmente inammissibile per un «manifesto vizio di autosufficienza») [16], badando a superare d’ufficio, nell’interesse della legge (ex art. 363, commi 1-4, cod. proc. civ.), un precedente contrasto giurisprudenziale, ritenuto da quella stessa ordinanza «di notevole rilevanza sistematica», poiché coinvolgerebbe i principi fondamentali del processo e si prospetterebbe quindi gravido di «considerevoli conseguenze pratico-operative» [17]. Come appare ben chiaro, dunque, il dictum cassatorio, del quale ci si occupa, rimane totalmente svincolato dalle sorti della controversia d’origine (ex art. 363, comma 4), esponendosi come tale – in termini teorico-funzionali – all’attenzione degli studiosi e degli operatori pratici, senza incidere minimamente (per la parte qui in rilievo) sulla pronunzia d’appello, già comunque cassata altrimenti (lo si ricordava poc’anzi), nonché sulle posizioni soggettive dei litiganti. Ciò premesso, veniamo al clou delle questioni discusse. Il problema di fondo, sollevato dall’ordinanza interlocutoria di rimessione (ed afferente al quinto motivo di ricorso, poi dichiarato inammissibile dalle Sezioni unite), concerne la natura della fattispecie di nullità riguardante la consulenza in quanto tale, atteggiandosi come relativa, e quindi deducibile unicamente su eccezione tempestiva di parte [18], oppure come assoluta, e perciò rilevabile d’ufficio dal giudice, a prescindere dal comportamento delle parti in lite (nonché dalle decadenze in cui queste siano eventualmente incorse). Tale ordine di vizi – da reputarsi in parte annoverabili, come si diceva, fra le nullità extraformali, cui non sono direttamente applicabili (ma lo sono [continua ..]
Non v’è dubbio, a questo punto, che il recente dictum delle Sezioni unite (n. 3086/2022) venga ad assumere, al pari dell’analogo dictum pressoché coevo (n. 6500/2022), una incisiva ed (absit iniuria) quasi ingombrante consistenza, sollecitando – quantomeno là dove il ragionamento della Corte appaia occasionalmente criptico – ulteriori spunti, anche critici, e riflessioni sistematiche. Si rammenti, ancora una volta, che la disciplina della «nullità degli atti», secondo gli artt. 156-161 cod. proc. civ., viene normalmente intesa come codificata e direttamente applicabile alle sole nullità formali (riferibili cioè al contenuto-forma dei singoli atti), distribuite e rinvenibili in più settori della regolamentazione codicistica [42]. Di conseguenza, mancando ogni più immediata riferibilità a nullità di stampo diverso, il c.d. principio di tassatività o di tipicità (art. 156, comma 1) e la regola generale della rilevabilità ad istanza di parte (con la connessa sanabilità: art. 157) sono invocabili per analogia, nella predetta consulenza «proceduralizzata», tenendo altresì conto del fatto (postulabile, a quanto si crede, anche per le nullità extraformali) che la nullità sarebbe in ogni caso «pronunciabile» dal giudice (lo si rammentava poco fa) «… quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo…» (ex art. 156, comma 2). Ciò significa che, con riguardo alle (atipiche e innominate) nullità extraformali, secondo la dominante dottrina ad esse dovrebbe potersi imporre, come regola opposta, la rilevabilità d’ufficio, tanto più laddove si tratti di nullità non testuali, e perciò di nullità non espressamente previste dalla legge, derivanti o meno (come sopra si diceva) dalla carenza del ricordato «requisito formale indispensabile al raggiungimento dello scopo» [43]. È quanto tende a prospettarsi, già lo si è sottolineato, nell’ambito della dominante giurisprudenza, a proposito della consulenza tecnica intesa quale «procedimento istruttorio» a sé stante, da reputarsi (direttamente o indirettamente) soggetto alla disciplina codicistica delle «nullità» formali. Eccoci, allora, ad [continua ..]
Il discorso, complesso ed in parte involuto, che le Sezioni Unite hanno inteso svolgere, lascia emergere, dunque, talune perduranti perplessità, che – riferendosi pure alla condivisa interpretazione del cit. art. 198 cod. proc. civ., tese semmai ad estendere (più che a restringere) i poteri del consulente contabile [49] – si incentrano sull’utilizzazione (argomentativa e non già propositiva) [50] della (più raffinata) nozione di «indispensabilità» [51], riferita agli «accertamenti istruttori» da compiersi, quale «segno caratterizzante» del c.d. «campo largo» che il legislatore avrebbe inteso assicurare al «teatro delle investigazioni peritali», con un’assonanza sempre più vicina al ruolo (non più «passivo», ma concretamente) «attivo» del giudice ordinario nell’amministrazione dinamica della prova (anche a costo di sottili forzature dei modelli tradizionali, attinenti al processo ordinario). Ed allora – se non può negarsi in linea generale (è constatazione ormai comune) che l’estrema proliferazione, nella prassi quotidiana, delle prove «scientifiche» e, quindi, la diffusione delle consulenze c.d. «percipienti» siano, ancor più, il futuro impegnativo degli accertamenti istruttori dinanzi al giudice, con l’azzardo marcato (quod Deus avertat!) di un giudice-robot, dominato da una giustizia scandita e razionalizzata con strumenti algoritmici – non potrà certo disconoscersi, ma sarà destinata ad accentuarsi, quella sottile ed ampia «deresponsabilizzazione» del giudicante (diremmo: priva in sé di conseguenze invalidanti) [52], di cui con acume, nel riguardo a tali consulenze, la dottrina più recente ha fatto più volte menzione [53]. Il che, d’altro canto, conduce – piaccia oppure no – ad un sottile (e progressivo) svuotamento di quelle funzioni che, da tempo, consentono al giudice di attribuirsi (o di sentirsi riconoscere) lo status (tradizionalmente proclamato con enfasi, ma oggi posto in discussione) di peritus peritorum.