Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

La valutazione delle prove e il suo controllo in cassazione (di Roberto Poli, Professore ordinario di Diritto processuale civile – Università degli Studi di Cassino)


Il saggio esamina l’attività giudiziale di valutazione delle prove e di ricostruzione dei fatti storici, con particolare riguardo alla loro struttura logico-cognitiva e al loro controllo in sede d'impugnazione

The evaluation of evidence and its control in the judgment of appeal

The essay examines the judicial activity of evaluating evidence and reconstructing historical facts, with particular regard to their own logical-cognitive structure and their control in the appeal

SOMMARIO:

1. Considerazioni introduttive - 2. Il ragionamento probatorio dal punto di vista statico e i suoi elementi strutturali - 3. La percezione ed interpretazione dei segni con funzione probatoria - 4. Le rappresentazioni mentali - 5. La problematica comunicabilità delle rappresentazioni mentali ed in particolare del grado soggettivo della credenza - 6. La valutazione della prova in senso stretto - 7. La valutazione in senso dinamico: l’inferenza probatoria, la “presa di decisione” e la sua definitiva fissazione nella motivazione - 8. La struttura triadica del convincimento del giudice sopra il fatto controverso: cosa crede, perché crede, quanto crede - 9. Segue. Sua recezione nella disciplina giuridica del ragionamento presuntivo, archetipo del ragionamento probatorio - 10. Il controllo dell’attività decisoria sui fatti in sede d’impugnazione - 1. Conclusioni: la Corte di cassazione giudice delle leggi giuridiche ma anche delle leggi di strutturazione, organizzazione e funzionamento del mondo (LSOFM) - NOTE


1. Considerazioni introduttive

La valutazione delle prove è un momento centrale dell’esperienza giudiziale. Se le prove non sono valutate adeguatamente, il giudice ricostruisce il fatto in termini diversi rispetto al reale svolgimento della vicenda storica, e a questo fatto mal ricostruito applica una norma diversa da quella prevista dalla legge per quella vicenda, con conseguente ingiustizia della decisione giudiziale e fallimento dell’intero processo [1]. Di qui l’importanza di un accurato discorso sul giudizio di fatto e sul suo controllo nelle fasi d’impugnazione [2]. In estrema sintesi, la valutazione delle prove consiste nell’attribuzione di significato informativo agli elementi di prova. Essa procede per stadi cognitivi: dalla percezione alla interpretazione, fino alla valutazione in senso stretto dell’elemento di prova ed alla conseguente determinazione del risultato di prova. In base all’esperienza passata sul modo di essere e sul funzionamento del mondo, secondo la quale in presenza di A è normalmente presente anche B, il giudice dalla esistenza agli atti di causa dell’elemento di prova A è in grado di formarsi un convincimento sulla esistenza del fatto ignoto e controverso B. Si tratta di un’inferenza di natura ermeneutica, perché il giudice deve comprendere l’esatta portata della legge di esperienza che intende applicare e verificare la riconducibilità nella stessa del particolare caso concreto. Secondo un noto insegnamento della Suprema Corte, la valutazione delle prove costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, e non è sindacabile in sede di legittimità, se non per vizio di motivazione (ma non più per motivazione insufficiente) o per omesso esame circa un fatto decisivo, ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. [3]. È davvero così? Fortunatamente no, ma prima di andare a vedere in dettaglio l’ambito e le forme di tale sindacabilità, per come ammesse dalla stessa Suprema Corte in molte pronunce che si pongono in contrasto con il proprio orientamento appena richiamato, cerchiamo di capire con maggiore approfondimento in cosa consiste la valutazione delle prove.


2. Il ragionamento probatorio dal punto di vista statico e i suoi elementi strutturali

I momenti strutturali logico-cognitivi del giudizio di fatto ed in particolare della valutazione delle prove, considerati da un punto di vista statico – e previa l’attività di valutazione della attendibilità astratta e della rilevanza dei mezzi di prova richiesti ai fini della loro ammissibilità – possono così essere sintetizzati: a) anzitutto il giudice è chiamato all’attività, essenzialmente di carattere soggettivo, per le ragioni che vedremo, di percezione dei dati grezzi, bruti del mondo esterno; b) di seguito il giudice interpreta soggettivamente i dati stessi, con funzione potenzialmente probatoria, e assegna ai medesimi il loro significato, convertendoli in informazioni probatorie, vale a dire in premesse, enunciati, proposizioni probatorie [4]; c) successivamente il giudice apprezza e valuta in senso stretto tali dati (espressi in enunciati probatori) e di conseguenza assegna, sempre in una prospettiva ineludibilmente soggettiva, il valore probatorio che ritiene spettare ai medesimi, ai fini della formazione del proprio convincimento sui fatti rilevanti del giudizio, anche tenuto conto della attendibilità concreta delle fonti di prova; d) individua, sempre in una prospettiva necessariamente soggettiva, la regola di connessione tra premesse (i dati con funzione probatoria) e conclusione probatoria; e) determina, ancora in base al proprio soggettivo punto di vista, la forza del nesso di consequenzialità e quindi il grado finale e complessivo di plausibilità degli argomenti; f) infine, “prende” e poi definisce e fissa nella motivazione la decisione finale sopra la esistenza o inesistenza del fatto controverso, nel rispetto delle regole sull’onere della prova e sullo standard di prova previste dalla legge. È appena il caso di avvertire che in concreto queste fasi non si presentano così nettamente distinguibili fra loro e non si susseguono nei rigidi termini che appaiono in questa elencazione statica. Nella dinamica del giudizio, infatti, i processi logico-cognitivi presentano piuttosto un complesso movimento circolare, di riempimento e chiarificazione continui, come avremo modo di constatare. Ora dobbiamo però esaminare singolarmente ciascuna di queste fasi con maggior dettaglio, ed ancor prima, per chiarezza del discorso che seguirà, ricordare quali sono gli elementi strutturali oggettivi e soggettivi che [continua ..]


3. La percezione ed interpretazione dei segni con funzione probatoria

Il tipo più importante di percezione, per l’uomo comune ma anche per il giudice, è la percezione visiva, fermo restando che, pure ai fini della ricostruzione dei fatti nel processo, possono venire in gioco anche altri tipi di percezione (uditiva, tattile, ecc.) [6]. In prima approssimazione possiamo distinguere tre tipi di percezione: a) la percezione semplice, in base alla quale semplicemente percepisco un qualche oggetto; percepisco di o qualcosa (ad es., genericamente qualcosa con le sembianze di un muro); b) la percezione oggettuale, attraverso la quale percepisco essere, cioè vedo qualcosa essere in un certo modo: non vedo semplicemente un muro, ma vedo un muro con determinate caratteristiche, determinate proprietà (forme e colori), vale a dire, ad esempio, con un punto scuro nella parte alta in cui incontra un altro muro; c) la percezione proposizionale, mediante la quale percepisco che, vale a dire, nell’esempio in discorso, percepisco che quella parete e quel soffitto presentano una macchia all’altezza del loro punto d’intersezione; macchia causata con ogni probabilità da una infiltrazione proveniente dal piano superiore. Occorre ora collegare percezione, credenza, giustificazione e conoscenza, dopo aver ricordato che la conoscenza è data dalla credenza vera e giustificata [7]. Gli ultimi due casi di percezione sono diversi dal primo, su cui si fondano, per il fatto che implicano dei modi corrispondenti della credenza: vedere una parte di muro più scura implica di credere che vi sia (credenza oggettuale), e vedere una macchia da infiltrazione implica di credere che tale macchia vi sia (credenza proposizionale). In questi due casi la percezione visiva (il vedere) produce credenze che sono fondate nel vedere e possono dunque costituire conoscenza visiva, come sapere che nel punto di intersezione tra parte e soffitto vi è una macchia dovuta ad una infiltrazione [8]. Nella credenza oggettuale la relazione con l’oggetto è tale che non implica alcuna proposizione specifica che debba essere creduta riguardo a quell’oggetto. È una relazione che riguarda un oggetto, ad esempio il muro, senza che vi sia bisogno di pensare ciò che si vede come un muro: anche se vi è qualche proprietà che devo considerare essere propria del muro – larghezza, altezza, presenza di un punto più scuro, in modo corrispondente [continua ..]


4. Le rappresentazioni mentali

È necessario a questo punto soffermarsi con maggior dettaglio sulle conseguenze, dal punto di vista cognitivo, della percezione di uno stimolo: le rappresentazioni mentali. In generale, gli stimoli possono essere di diversa natura: visivi, tattili, olfattivi, del gusto, uditivi diversi dalle parole di una lingua (un miagolio, una sirena dell’ambulanza, ecc.), uditivi dei suoni di una lingua (parole, o comunque termini e proposizioni linguistiche). Secondo la teoria della doppia codifica esistono due sistemi simbolici ma interconnessi, specializzati per codificare, organizzare, trasformare, immagazzinare e recuperare l’informazione veicolata dallo stimolo. I due sistemi di codifica usano due differenti rappresentazioni mentali. Il primo tipo di rappresentazioni, dette imagens, costituisce la modalità elettiva di elaborazione delle informazioni non verbali e viene attivato nell’esplorazione di scene o nella generazione delle immagini mentali. Gli imagens operano in maniera sincrona o in parallelo, perciò tutti i costituenti di un’immagine sono disponibili nello stesso momento. Il secondo tipo di rappresentazioni, dette logogens, costituisce, invece, la modalità privilegiata per l’elaborazione delle informazioni di tipo linguistico. I logogens operano in maniera sequenziale, poiché in una frase sintatticamente appropriata le parole si presentano una alla volta [22]. Possiamo quindi anche distinguere tra rappresentazioni analogiche e rappresentazioni proposizionali. Le prime consentono di riprodurre e di mantenere nella mente le relazioni strutturali e le caratteristiche distintive di ciò che viene rappresentato, alla stregua di una riproduzione fisica: così come l’ambiente che ci circonda o le scene di cui siamo protagonisti o spettatori possono essere riprodotti in rappresentazioni esterne come fotografie, dipinti o diagrammi, gli stessi oggetti possono trovare una qualche forma di rappresentazione a livello mentale [23]. Gli stimoli possono avere un differente valore di «immaginabilità», ovvero la diversa capacità di evocare un’immagine, come ad esempio le parole «mela» o «gatto» da una parte ed «evento» o «valore» dall’altra. Alcune parole, quindi, possono essere in grado di attivare una qualche esperienza sensoriale, come un suono o un’immagine, più o meno [continua ..]


5. La problematica comunicabilità delle rappresentazioni mentali ed in particolare del grado soggettivo della credenza

Un tema estremamente complesso ed assai importante ai nostri fini è quello della comunicabilità delle rappresentazioni mentali. E si comprende agevolmente il perché: il giudice deve giustificare attraverso la motivazione il suo convincimento sopra i fatti della causa, deve quindi tradurre in termini proposizionali le sue rappresentazioni mentali, ed in particolare deve giustificare e motivare la sua rappresentazione di credenza. E questa motivazione deve poter essere controllata dal giudice dell’impugnazione, il quale deve verificare se la motivazione sia esente da vizi, secondo le regole proprie di ciascun mezzo di controllo. Un punto che deve essere subito rimarcato è che, quando si cerca di tradurre in termini proposizionali una rappresentazione mentale dovuta ad uno stimolo diretto esperibile dai sensi, il «contenuto» della rappresentazione risulta non quantitativamente, ma qualitativamente diverso: la differenza è la stessa che corre tra sperimentare direttamente una cosa (vedere in diretta la famosa semifinale Italia-Germania 4-3; ascoltare il Concerto per piano n. 2 di Rachmaninov; provare un attacco di panico, ecc.) ed ascoltare qualcuno che racconta la medesima esperienza (o leggere un racconto descrittivo di quella esperienza) [33]. I termini linguistici proposizionali solo molto genericamente determinano i concetti cui si riferiscono, ragion per cui il destinatario del discorso descrittivo si formerà una rappresentazione mentale del concetto oggetto del discorso per nulla coincidente con la rappresentazione mentale originaria che si cerca di comunicare [34]. Per le ragioni già viste, più la rappresentazione mentale proposizionale sarà astratta e quindi complessa, più i contorni del concetto che si cerca di comunicare saranno sbiaditi ed indeterminati. E non c’è bisogno di spendere soverchie parole per comprendere come non sia nemmeno pensabile di comunicare le rappresentazioni mentali concettuali in termini quantitativi, numerici: che senso avrebbe – in termini di comunicazione effettiva, concreta e specifica della portata della relativa credenza – dire: “la mia rappresentazione mentale del concetto di «consapevolezza» era forte, chiara e convincente al 100%”? Per non parlare della rappresentazione emozionale. L’unità di misura della traducibilità nel linguaggio delle [continua ..]


6. La valutazione della prova in senso stretto

Rimarcato che percezione, interpretazione, valutazione e (perfezionamento della) conclusione probatoria sono attività strettamente correlate, la valutazione in senso stretto consiste nell’attribuzione di valore probativo all’elemento di prova, con il quale si determina l’idoneità dello stesso ad offrire elementi di conoscenza in ordine alla risposta circa l’esistenza del fatto ignoto e controverso: si individua il rapporto di probatività tra l’elemento di prova A ed il fatto ignoto B. In altre parole, con la valutazione delle prove il giudice prende in esame il segno con funzione probatoria interpretato e gli assegna il valore probatorio, il quale esprime la misura di quanto l’esistenza dell’elemento di prova A dice in ordine alla esistenza del fatto da provare B; esprime la forza della correlabilità di A con B. Detto in termini di probabilità, il valore probatorio esprime la probabilità di B dato A. Questa probabilità può essere minima, bassa, media, medio-alta, alta, altissima, ecc. La valutazione dell’elemento di prova ha una unità di misura – il valore probatorio, o di probatività – che non è traducibile a livello proposizionale, se non attraverso una descrizione in termini qualitativi. Questa descrizione, per le ragioni illustrate nel paragrafo precedente, non può tuttavia «contenere», riprodurre la relativa rappresentazione mentale, analogica e proposizionale, anche concettuale (provocata dallo stimolo sia da immagine, sia da aspetti proposizionali, derivante, nel nostro esempio, dalla vista dell’articolo), cioè proprio il valore che si è attribuito. In altre parole, il valore di probatività attribuito all’elemento di prova, non è mai pienamente comunicabile attraverso la motivazione, la quale, per le ragioni già viste, non potrà rappresentare altro che una sottodeterminazione ed una generica determinazione del concetto o dei concetti oggetto della rappresentazione mentale originaria. In particolare, non sono comunicabili gli aspetti soggettivi delle qualità probative percepite, in termini di contenuti probativi e di intensità della forza probativa. In generale, nel passaggio da una fase all’altra dell’apprezzamento delle prove – percezione, interpretazione e valutazione in senso stretto – specialmente [continua ..]


7. La valutazione in senso dinamico: l’inferenza probatoria, la “presa di decisione” e la sua definitiva fissazione nella motivazione

La valutazione della prova (A) in ordine alla esistenza di un determinato fatto (B) avviene fondamentalmente per mezzo di una inferenza. Nella prospettiva probatoria che qui interessa, l’inferenza è un’ar­gomentazione con la quale il soggetto del ragionamento attribuisce ai dati di partenza l’attitudine a fornire elementi di conoscenza sugli aspetti da lui ignorati dell’oggetto sul quale intende formarsi un convincimento. Questa argomentazione è intrisa di “modi di vedere il mondo”, secondo i quali quei dati di partenza significano le conseguenze in termini di conoscenza che sono state ritratte, quale conclusione del ragionamento, sopra gli aspetti ignorati dell’oggetto indagato, o sopra l’esistenza tout court dell’oggetto ignorato. La relazione d’inferenza, tra i dati di partenza e la conclusione, è pertanto, normalmente, di natura gnoseologica, epistemica [35]. Esistono vari tipi d’inferenza, in ragione della loro complessità: si va da inferenze di tipo automatico, o semiautomatico, ad inferenze di tipo interpretativo o, per meglio dire, ermeneutico: se devo compiere una mera operazione di calcolo matematico, la mia inferenza sarà di carattere automatico, ma normalmente la realtà è assai più complessa. Torniamo all’esempio delle notizie di stampa. Ora – e, per il momento, sempre da una prospettiva statica della decisione – per stabilire se un articolo di giornale sia in grado di offrire elementi di conoscenza sufficienti per ritenere provata la consapevolezza dei danni da fumo in Italia, il giudice deve compiere un’attività ermeneutica particolarmente complessa, mirante a “comprendere” il caso concreto i tutti i suoi aspetti problematici [36]. Il giudice infatti deve considerare e porre nella sua “pagina mentale”, come tante tessere di un mosaico: a) cosa egli intende per: aa) consapevolezza; bb) consapevolezza dei danni da fumo; cc) raggiungimento della consapevolezza dei danni da fumo; b) cosa per lui è in grado di determinare la consapevolezza dei danni da fumo (e quindi quali regole d’esperienza devono essere applicate); c) tutte le caratteristiche grafiche e semantiche dell’articolo di giornale considerato e la loro idoneità a determinare la consapevolezza dei danni da fumo; d) il contesto sociale e culturale del periodo storico in [continua ..]


8. La struttura triadica del convincimento del giudice sopra il fatto controverso: cosa crede, perché crede, quanto crede

Anche con riferimento alla inferenza ermeneutica di cui abbiamo appena detto possiamo individuare una credenza, un convincimento avente ad oggetto la correlabilità, il rapporto di probatività A-B che ha gli stessi contenuti che abbiamo già considerato: a) cosa credo; b) perché credo; c) quanto credo. Dobbiamo ora convertire i contenuti strutturali della credenza, del convincimento del giudice, in termini giuridici: a) il «cosa credo» indica, nel caso della credenza, del convincimento del giudice, l’intensità con cui possiamo ritenere A prova di B. In termini maggiormente tecnici, quanto B sia associabile ad A, ovvero, ancora diversamente, la probabilità di B dato A. Qui il giudice è chiamato ad argomentare e giustificare la scelta della massima d’esperienza che ha ritenuto di applicare, di senso comune o tecnico-scientifica, e la determinazione della forza del nesso di conseguenzialità che ha riconosciuto al rapporto tra le premesse del suo ragionamento (elementi di prova, da un lato, massima d’esperienza, dall’altro) e la conclusione raggiunta in ordine alla affermata probabilità di B dato A. E siccome per l’accoglimento della domanda il fatto B deve potersi ritenere pienamente provato, secondo le regole sull’onere della prova, nell’indicare il «cosa credo» il giudice deve anche mostrare di aver osservato lo standard di prova richiesto affinché un fatto possa ritenersi (pienamente) provato e, di conseguenza, legittimamente portato a fondamento della decisione assunta. In particolare, come ho già osservato in altre occasioni, gli elementi di prova, considerati nel loro complesso, devono rappresentare un quadro probatorio che significa, normalmente, vale a dire secondo l’id quod plerumque accidit – misurato sulla base delle regole di strutturazione, organizzazione e funzionamento del mondo – verità/esistenza del fatto ignoto da provare [47]. Il livello di probabilità di B dato A può essere, a seconda dei casi, altissimo, alto, medio, sufficiente, basso, quasi inesistente ecc. Lo standard di prova ora indicato è soddisfatto ogni volta che, dato A, è più probabile B che non B. Il livello minimo di probabilità di B dato A, comunque idoneo a soddisfare l’indicato standard di prova, si ha quando, dato A, è ancora più [continua ..]


9. Segue. Sua recezione nella disciplina giuridica del ragionamento presuntivo, archetipo del ragionamento probatorio

Vi è traccia di questi tre elementi strutturali della credenza – id est, del libero convincimento del giudice – nell’ordinamento processuale italiano? E quando tale convincimento può dirsi legittimo? E, da ultimo, in cosa consiste la motivazione idonea a dar adeguatamente conto delle ragioni della decisione sui fatti controversi? Il problema è complicato dal fatto che le rappresentazioni mentali del giudice, come abbiamo visto, non sono fedelmente traducibili nel linguaggio. Quando il giudice attribuisce un valore probatorio in base ad una sua considerazione inevitabilmente soggettiva, in ipotesi un valore di prova molto alto – ad esempio ritiene che, per le sue caratteristiche, un certo articolo, ove letto, determini con molta probabilità la consapevolezza dei danni da fumo – non è in grado di tradurre la sua corrispondente rappresentazione mentale in termini linguistici tali da suscitare nel suo interlocutore la medesima rappresentazione mentale. Egli potrà usare un gran numero di elementi linguistici qualitativi – e definire l’articolo chiarissimo, dal significato univoco, eloquente ed esaustivo, esemplare, ecc. –, anche con grande proprietà e precisione di linguaggio, e tuttavia non potrà mai far acquisire al destinatario, al ricevente la sua comunicazione verbale, la stessa rappresentazione mentale. E tutto ciò a fortiori ove si tratti della rappresentazione mentale relativa al raggiungimento della soglia, dello standard di prova previsto dalla legge: ad esempio, per richiamare il criterio penalistico, se il giudice è convinto “al di là di ogni ragionevole dubbio” della esistenza/verità del fatto ignoto, questa rappresentazione mentale non può essere esattamente veicolata attraverso il linguaggio. In effetti, a questo riguardo, viene in rilievo il “fattore sottodeterminante” incrociato tra fatti e loro valutazione: in breve, gli specifici elementi strutturali della valutazione e della decisione – anche e specialmente con riguardo al raggiungimento dello standard di prova richiesto dalla legge – non sono mai perfettamente traducibili in termini linguistici di cui sia possibile apprezzarne pienamente il significato e, per l’effetto, controllarne compiutamente la validità (o, meglio, la credibilità razionale), dal punto di vista epistemologico o comunque [continua ..]


10. Il controllo dell’attività decisoria sui fatti in sede d’impugnazione

Che affidabilità, che sicurezza danno queste «buone ragioni»? Certo è che queste «buone ragioni» possono essere messe in discussione solo attraverso altre «buone ragioni», senza che vi possa mai essere la garanzia, ad un certo punto, di raggiungere le «oggettivamente valide ragioni». Ed infatti la prevalenza delle «ragioni» della Suprema Corte, quale organo posto al vertice del sistema giurisdizionale, è di carattere formale-normativo, non già sostanziale-epistemico. Ma vediamo con ordine. Mentre nel giudizio di appello la possibilità di revisionare il giudizio di fatto è generalmente ammessa – purché la parte appellante individui con precisione la parte di sentenza, da intendersi come “decisione di questione” [66], che intende censurare e formuli al riguardo specifici motivi di impugnazione –, diversamente secondo l’insegnamento della Suprema Corte richiamato all’inizio di questo lavoro, la valutazione delle prove costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, e non è sindacabile in sede di legittimità, se non per vizio di motivazione (ma non più per motivazione insufficiente, dopo la riforma del 2012) o per omesso esame circa un fatto decisivo, ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. [67]. Come abbiamo accennato [68], in realtà le cose stanno diversamente, ma prima di verificare in particolare l’ambito e le forme di sindacabilità del giudizio di fatto, per come in concreto ammesse dalla stessa Suprema Corte in molte pronunce che smentiscono il proprio orientamento appena richiamato, dobbiamo porci le seguenti domande: può essere riconosciuto alla Suprema Corte un effettivo e quindi penetrante controllo sulle «buone ragioni» del giudizio di fatto? E quanto questo controllo finisce per sconfinare nel giudizio di merito? E tale eventuale sconfinamento deve essere difeso o evitato? Nonostante il contrario orientamento ora ricordato, a ben vedere, secondo la giurisprudenza della stessa Corte tutti i momenti strutturali della valutazione delle prove sono sindacabili, e la parte decisamente prevalente anche nel giudizio di cassazione. In particolare: a) gli errori nell’attività di percezione dei segni e dei fatti con funzione probatoria, che [continua ..]


1. Conclusioni: la Corte di cassazione giudice delle leggi giuridiche ma anche delle leggi di strutturazione, organizzazione e funzionamento del mondo (LSOFM)

Alla luce delle considerazioni svolte in questo studio, l’ora descritto stato di cose comporta le seguenti conseguenze: α) all’interno della motivazione si dovrebbe distinguere tra elementi di prova oggettivi e controllabili direttamente da chiunque (si pensi ad una fotografia, allegata al fascicolo, che può essere percepita direttamente anche dal giudice dell’impugnazione) e fonti di prova controllabili non direttamente, ma solo attraverso la loro descrizione (si pensi al verbale della ispezione di un luogo compiuta dal giudice di primo grado; o di una dichiarazione testimoniale assunta in primo grado), per le quali non dovrebbe mai mancare una dettagliata indicazione delle caratteristiche morfologiche apprezzabili, altrimenti il giudizio resterebbe eccessivamente soggettivo e non adeguatamente controllabile (a causa della relativa traducibilità delle rappresentazioni mentali, di cui abbiamo detto) [75]. Come già aveva osservato Guido Calogero, il giudice dell’impugnazione, ed in particolare la Suprema Corte, conosce sempre del fatto non dal punto di vista del giudice che lo ricostruì, ma da quello di un lettore che ne esamini l’esposizione e documentazione storiografica; e ciò vale anche se questo punto di vista potrà coincidere per qualche aspetto con la situazione visuale originaria, in quanto anch’essa sia stata determinata in certa misura da documenti che abbia poi presenti anche il giudice dell’im­pugnazione [76]. β) A parte la portata «costruttiva» della stessa attività percettiva (semplice ma soprattutto proposizionale), di cui abbiamo detto, nel passaggio dalla percezione diretta dei segni con funzione probatoria alla percezione indiretta, attraverso la loro descrizione, è inevitabile uno scarto semantico tra portata oggettiva e possibilità di comprensione del significato probatorio dello stesso segno; ed in disparte pure il discorso, ineccepibile ma del tutto diverso, che per qualcuno quel segno potrà apparire «grave» e per altri no [77]. γ) Pur con le indicate conseguenze di scarto semantico tra la percezione diretta e la percezione solo indiretta degli elementi di prova, e quindi in presenza di un controllo di regola su base essenzialmente proposizionale – ex actis avrebbe detto ancora Guido Calogero [78] – il sindacato sulla valutazione delle prove, dal [continua ..]


NOTE