Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

La valutazione delle prove e il suo controllo in cassazione (di Roberto Poli, Professore ordinario di Diritto processuale civile – Università degli Studi di Cassino)


Il saggio esamina l’attività giudiziale di valutazione delle prove e di ricostruzione dei fatti storici, con particolare riguardo alla loro struttura logico-cognitiva e al loro controllo in sede d'impugnazione

The evaluation of evidence and its control in the judgment of appeal

The essay examines the judicial activity of evaluating evidence and reconstructing historical facts, with particular regard to their own logical-cognitive structure and their control in the appeal

SOMMARIO:

1. Considerazioni introduttive - 2. Il ragionamento probatorio dal punto di vista statico e i suoi elementi strutturali - 3. La percezione ed interpretazione dei segni con funzione probatoria - 4. Le rappresentazioni mentali - 5. La problematica comunicabilità delle rappresentazioni mentali ed in particolare del grado soggettivo della credenza - 6. La valutazione della prova in senso stretto - 7. La valutazione in senso dinamico: l’inferenza probatoria, la “presa di decisione” e la sua definitiva fissazione nella motivazione - 8. La struttura triadica del convincimento del giudice sopra il fatto controverso: cosa crede, perché crede, quanto crede - 9. Segue. Sua recezione nella disciplina giuridica del ragionamento presuntivo, archetipo del ragionamento probatorio - 10. Il controllo dell’attività decisoria sui fatti in sede d’impugnazione - 1. Conclusioni: la Corte di cassazione giudice delle leggi giuridiche ma anche delle leggi di strutturazione, organizzazione e funzionamento del mondo (LSOFM) - NOTE


1. Considerazioni introduttive

La valutazione delle prove è un momento centrale dell’esperienza giudiziale. Se le prove non sono valutate adeguatamente, il giudice ricostruisce il fatto in termini diversi rispetto al reale svolgimento della vicenda storica, e a questo fatto mal ricostruito applica una norma diversa da quella prevista dalla legge per quella vicenda, con conseguente ingiustizia della decisione giudiziale e fallimento dell’intero processo [1]. Di qui l’importanza di un accurato discorso sul giudizio di fatto e sul suo controllo nelle fasi d’impugnazione [2].

In estrema sintesi, la valutazione delle prove consiste nell’attribuzione di significato informativo agli elementi di prova. Essa procede per stadi cognitivi: dalla percezione alla interpretazione, fino alla valutazione in senso stretto dell’elemento di prova ed alla conseguente determinazione del risultato di prova. In base all’esperienza passata sul modo di essere e sul funzionamento del mondo, secondo la quale in presenza di A è normalmente presente anche B, il giudice dalla esistenza agli atti di causa dell’elemento di prova A è in grado di formarsi un convincimento sulla esistenza del fatto ignoto e controverso B. Si tratta di un’inferenza di natura ermeneutica, perché il giudice deve comprendere l’esatta portata della legge di esperienza che intende applicare e verificare la riconducibilità nella stessa del particolare caso concreto.

Secondo un noto insegnamento della Suprema Corte, la valutazione delle prove costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, e non è sindacabile in sede di legittimità, se non per vizio di motivazione (ma non più per motivazione insufficiente) o per omesso esame circa un fatto decisivo, ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. [3].

È davvero così? Fortunatamente no, ma prima di andare a vedere in dettaglio l’ambito e le forme di tale sindacabilità, per come ammesse dalla stessa Suprema Corte in molte pronunce che si pongono in contrasto con il proprio orientamento appena richiamato, cerchiamo di capire con maggiore approfondimento in cosa consiste la valutazione delle prove.


2. Il ragionamento probatorio dal punto di vista statico e i suoi elementi strutturali

I momenti strutturali logico-cognitivi del giudizio di fatto ed in particolare della valutazione delle prove, considerati da un punto di vista statico – e previa l’attività di valutazione della attendibilità astratta e della rilevanza dei mezzi di prova richiesti ai fini della loro ammissibilità – possono così essere sintetizzati:

a) anzitutto il giudice è chiamato all’attività, essenzialmente di carattere soggettivo, per le ragioni che vedremo, di percezione dei dati grezzi, bruti del mondo esterno;

b) di seguito il giudice interpreta soggettivamente i dati stessi, con funzione potenzialmente probatoria, e assegna ai medesimi il loro significato, convertendoli in informazioni probatorie, vale a dire in premesse, enunciati, proposizioni probatorie [4];

c) successivamente il giudice apprezza e valuta in senso stretto tali dati (espressi in enunciati probatori) e di conseguenza assegna, sempre in una prospettiva ineludibilmente soggettiva, il valore probatorio che ritiene spettare ai medesimi, ai fini della formazione del proprio convincimento sui fatti rilevanti del giudizio, anche tenuto conto della attendibilità concreta delle fonti di prova;

d) individua, sempre in una prospettiva necessariamente soggettiva, la regola di connessione tra premesse (i dati con funzione probatoria) e conclusione probatoria;

e) determina, ancora in base al proprio soggettivo punto di vista, la forza del nesso di consequenzialità e quindi il grado finale e complessivo di plausibilità degli argomenti;

f) infine, “prende” e poi definisce e fissa nella motivazione la decisione finale sopra la esistenza o inesistenza del fatto controverso, nel rispetto delle regole sull’onere della prova e sullo standard di prova previste dalla legge.

È appena il caso di avvertire che in concreto queste fasi non si presentano così nettamente distinguibili fra loro e non si susseguono nei rigidi termini che appaiono in questa elencazione statica. Nella dinamica del giudizio, infatti, i processi logico-cognitivi presentano piuttosto un complesso movimento circolare, di riempimento e chiarificazione continui, come avremo modo di constatare.

Ora dobbiamo però esaminare singolarmente ciascuna di queste fasi con maggior dettaglio, ed ancor prima, per chiarezza del discorso che seguirà, ricordare quali sono gli elementi strutturali oggettivi e soggettivi che entrano in gioco nei vari momenti del ragionamento probatorio.

Gli elementi in grado di condizionare il ragionamento probatorio dal punto di vista oggettivo sono: a) l’oggetto dell’indagine conoscitiva; b) gli elementi di prova; c) i modelli di inferenza; d) la struttura logica e la razionalità del ragionamento inferenziale probatorio; e) le leggi del mondo poste a fondamento delle inferenze (le leggi di strutturazione, organizzazione e funzionamento del mondo, per brevità LSOFM); f) i criteri di formazione e lo standard, la soglia del convincimento; g) lo “spirito del tempo”, il paradigma culturale in senso oggettivo; h) le attività difensive delle parti; i) le regole processuali; l) le diverse fasi processuali del ragionamento probatorio.

Gli elementi soggettivi del ragionamento probatorio, in quanto propri del giudicante, sono: a) le capacità percettive e cognitive, nonché i suoi stati emotivi; b) le conoscenze di sfondo; c) il sistema etico-valoriale, i desideri, le aspettative e la sensibilità giuridica; d) lo “spirito del tempo” soggettivo [5].


3. La percezione ed interpretazione dei segni con funzione probatoria

Il tipo più importante di percezione, per l’uomo comune ma anche per il giudice, è la percezione visiva, fermo restando che, pure ai fini della ricostruzione dei fatti nel processo, possono venire in gioco anche altri tipi di percezione (uditiva, tattile, ecc.) [6].

In prima approssimazione possiamo distinguere tre tipi di percezione: a) la percezione semplice, in base alla quale semplicemente percepisco un qualche oggetto; percepisco di o qualcosa (ad es., genericamente qualcosa con le sembianze di un muro); b) la percezione oggettuale, attraverso la quale percepisco essere, cioè vedo qualcosa essere in un certo modo: non vedo semplicemente un muro, ma vedo un muro con determinate caratteristiche, determinate proprietà (forme e colori), vale a dire, ad esempio, con un punto scuro nella parte alta in cui incontra un altro muro; c) la percezione proposizionale, mediante la quale percepisco che, vale a dire, nell’esempio in discorso, percepisco che quella parete e quel soffitto presentano una macchia all’altezza del loro punto d’intersezione; macchia causata con ogni probabilità da una infiltrazione proveniente dal piano superiore.

Occorre ora collegare percezione, credenza, giustificazione e conoscenza, dopo aver ricordato che la conoscenza è data dalla credenza vera e giustificata [7]. Gli ultimi due casi di percezione sono diversi dal primo, su cui si fondano, per il fatto che implicano dei modi corrispondenti della credenza: vedere una parte di muro più scura implica di credere che vi sia (credenza oggettuale), e vedere una macchia da infiltrazione implica di credere che tale macchia vi sia (credenza proposizionale). In questi due casi la percezione visiva (il vedere) produce credenze che sono fondate nel vedere e possono dunque costituire conoscenza visiva, come sapere che nel punto di intersezione tra parte e soffitto vi è una macchia dovuta ad una infiltrazione [8].

Nella credenza oggettuale la relazione con l’oggetto è tale che non implica alcuna proposizione specifica che debba essere creduta riguardo a quell’oggetto. È una relazione che riguarda un oggetto, ad esempio il muro, senza che vi sia bisogno di pensare ciò che si vede come un muro: anche se vi è qualche proprietà che devo considerare essere propria del muro – larghezza, altezza, presenza di un punto più scuro, in modo corrispondente a ciò che lo credo essere – non è necessario alcun altro modo specifico in cui devo pensarlo. Si è rimarcato in proposito che la “percezione ci lascia grande libertà riguardo a ciò che apprendiamo da essa. Le persone differiscono infatti anche significativamente nelle credenze che formano intorno alle medesime cose che sono offerte alla loro vista [9]”. Proprio in ragione del loro significativo grado di indefinitezza, può essere fuorviante definirle semplicemente vere o false: esse sono piuttosto accurate o inaccurate, a seconda se quanto si crede dell’oggetto sia o non sia vero riguardo ad esso. La credenza oggettuale è una guida attraverso la quale possiamo arrivare a credenze proposizionali e a conoscenze proposizionali [10].

La credenza proposizionale è così chiamata perché è generalmente considerata un caso particolare del credere una proposizione: ad es., che tra la parte e il soffitto vi è una macchia da infiltrazione. La credenza è dunque vera o falsa a seconda del fatto che la proposizione in questione sia vera o falsa. Nel possedere tale credenza, inoltre, in qualche modo penso ciò che vedo come una macchia da infiltrazione: nel credere che la macchia sia da infiltrazione io concepisco ciò che considero essere con quelle specifiche caratteristiche di forma e colori come una macchia da infiltrazione.

Ai nostri fini è importante sottolineare come la credenza proposizionale dipenda dalle nostre risorse concettuali in un modo che non si riscontra nel caso della percezione: la credenza proposizionale rappresenta ciò che vedo come una macchia da infiltrazione secondo una modalità che presuppone io disponga del relativo concetto. Se non dispongo del concetto di “macchia da infiltrazione” allora nell’esprimere il mio pensiero non saprei di che cosa sto parlando [11]. Si può anzi aggiungere che, in tal caso, non sarei in grado di percepire correttamente (a livello proposizionale) e quindi di sapere che si tratta di una macchia da infiltrazione (si pensi al diverso esempio in cui l’oggetto della percezione fosse l’immagine risultante da una risonanza magnetica od un comportamento interpretabile solo sulla base di conoscenze di natura psichiatrica) [12].

Le credenze percettive proposizionali possono essere chiamate percezioni cognitive, dal momento che la credenza è un’attitudine cognitiva: quel tipo di credenza che ha una proposizione (qualcosa di vero o falso) come proprio oggetto.

Ciò chiarito, occorre ora sottolineare che, secondo le più recenti ed accreditate teorie epistemologiche, “vedere o osservare o percepire è una reazione, non solo a stimoli visivi, ma anche a certe situazioni complesse, nelle quali ricoprono un ruolo non soltanto complessi e sequenze di stimoli, ma anche i nostri problemi, i nostri timori e le nostre speranze, i nostri bisogni e le nostre soddisfazioni, le nostre simpatie e antipatie” [13]. Questo vuol dire, come “ha insegnato l’intera psicologia della forma (Gestaltpsychologie) che anche le percezioni sono costrutti, costrutti di una mente attiva e spontanea” [14].

Ai nostri fini è importante rimarcare che il fenomeno in esame – vale a dire il fatto che l’interpretazione di ciò che vediamo con i nostri occhi dipende già da processi creativi del cervello – opera allo stesso modo indipendentemente dalla complessità dell’oggetto percepito e dalla complessità del tipo di approccio osservativo: cervello, linguaggio e osservazione cooperano sempre nella costruzione dell’esperienza percettiva, di quella scientifica come di quella quotidiana [15].

Per tirare le somme di questo discorso, si può concludere osservando che, secondo l’opinione ancora oggi prevalente, la percezione non è per nulla neutra, e che anzi l’esperienza percettiva è significativamente condizionata – se non sul piano del percetto, sicuramente su quello del giudizio percettivo [16] – dai sistemi di riferimento culturale, dalla conoscenza di sfondo e dalle strutture psicologiche, incluse la memoria, le aspettative, i valori, i bisogni, gli stati emotivi e le motivazioni, vale a dire da componenti decisamente relative (al contesto culturale e spazio-temporale) e soggettive di colui che percepisce un determinato oggetto. Scrive Gregory Bateson: “Ogni esperienza è soggettiva. […] è il nostro cervello a costruire le immagini che noi crediamo di ‘percepire’. È significativo che ogni percezione – ogni percezione conscia – abbia le caratteristiche di un’immagine. […] L’esperienza del mondo esterno è sempre mediata da specifici organi di senso e da specifici canali neurali. In questa misura, gli oggetti sono mie creazioni e l’esperienza che ho di essi è soggettiva, non oggettiva” [17].

Le considerazioni che precedono ci consentono anche di distinguere adeguatamente tra percezione (in senso stretto) ed interpretazione dei segni con funzione probatoria. Dobbiamo richiamare al riguardo quanto abbiamo osservato poc’anzi a proposito dei tre tipi di percezione: semplice, oggettuale e proposizionale.

Immaginiamo che gli elementi di prova a disposizione siano degli articoli di giornale, con cui si intende provare, in un primo caso, la consapevolezza della nocività del fumo in Italia in un determinato periodo di tempo (ad es., negli anni settanta) nell’ambito di una causa risarcitoria per danni da fumo [18]; in un secondo caso, la conoscenza dello stato d’insolvenza da parte di una banca nell’ambito di un giudizio di revocatoria fallimentare [19].

In base alla percezione semplice, il giudice percepisce qualcosa con le sembianze di un articolo di giornale; con la percezione oggettuale percepisce chiaramente che si tratta di un articolo di giornale con determinate caratteristiche grafiche (titolo, sottotitolo, eventuali fotografie, rilevanza nel contesto della pagina e nel contesto dell’intero giornale, ecc.); con la percezione proposizionale comprende ciò che l’articolo denota ed eventualmente anche ciò che l’articolo connota.

La c.d. percezione proposizionale rappresenta quindi, a ben vedere, l’interpretazione del segno probatorio. Ed è attraverso questa attività di interpretazione che il giudice può individuare, esaminando il percetto, l’informazione percettiva – che, nel nostro caso, sarà l’informazione probatoria – il contenuto proposizionale doxastico e, infine, il contenuto proposizionale complessivo, vale a dire l’informazione probatoria complessiva [20].

Naturalmente, giusta quanto abbiamo testé osservato, vale anche qui il discorso secondo cui l’inter­pretazione di ciò che il giudice vede con i suoi occhi dipende già da processi creativi del cervello, e che il contenuto proposizionale complessivo, il significato attribuito all’articolo di giornale passa dai sistemi di riferimento culturale, dalla conoscenza di sfondo, dai valori e dalle strutture psicologiche della percezione del singolo giudice.

Si tratta, come del pari poc’anzi osservato, di credenze percettive proposizionali che possono essere chiamate percezioni cognitive, dal momento che la credenza è un’attitudine cognitiva. Ed abbiamo visto come la credenza proposizionale dipenda dalle nostre risorse concettuali: la credenza proposizionale rappresenta ciò che vedo e per come lo interpreto secondo una modalità che presuppone io disponga del relativo concetto [21].


4. Le rappresentazioni mentali

È necessario a questo punto soffermarsi con maggior dettaglio sulle conseguenze, dal punto di vista cognitivo, della percezione di uno stimolo: le rappresentazioni mentali.

In generale, gli stimoli possono essere di diversa natura: visivi, tattili, olfattivi, del gusto, uditivi diversi dalle parole di una lingua (un miagolio, una sirena dell’ambulanza, ecc.), uditivi dei suoni di una lingua (parole, o comunque termini e proposizioni linguistiche).

Secondo la teoria della doppia codifica esistono due sistemi simbolici ma interconnessi, specializzati per codificare, organizzare, trasformare, immagazzinare e recuperare l’informazione veicolata dallo stimolo.

I due sistemi di codifica usano due differenti rappresentazioni mentali. Il primo tipo di rappresentazioni, dette imagens, costituisce la modalità elettiva di elaborazione delle informazioni non verbali e viene attivato nell’esplorazione di scene o nella generazione delle immagini mentali. Gli imagens operano in maniera sincrona o in parallelo, perciò tutti i costituenti di un’immagine sono disponibili nello stesso momento.

Il secondo tipo di rappresentazioni, dette logogens, costituisce, invece, la modalità privilegiata per l’elaborazione delle informazioni di tipo linguistico. I logogens operano in maniera sequenziale, poiché in una frase sintatticamente appropriata le parole si presentano una alla volta [22].

Possiamo quindi anche distinguere tra rappresentazioni analogiche e rappresentazioni proposizionali. Le prime consentono di riprodurre e di mantenere nella mente le relazioni strutturali e le caratteristiche distintive di ciò che viene rappresentato, alla stregua di una riproduzione fisica: così come l’ambiente che ci circonda o le scene di cui siamo protagonisti o spettatori possono essere riprodotti in rappresentazioni esterne come fotografie, dipinti o diagrammi, gli stessi oggetti possono trovare una qualche forma di rappresentazione a livello mentale [23].

Gli stimoli possono avere un differente valore di «immaginabilità», ovvero la diversa capacità di evocare un’immagine, come ad esempio le parole «mela» o «gatto» da una parte ed «evento» o «valore» dall’altra. Alcune parole, quindi, possono essere in grado di attivare una qualche esperienza sensoriale, come un suono o un’immagine, più o meno rapidamente o facilmente rispetto ad altre parole che provocano tali esperienze più difficilmente o non le provocano affatto. Vi sono quindi stimoli esperibili e stimoli non esperibili dai sensi.

Inoltre, gli stimoli possono presentare un differente grado di concretezza e questo valore si riflette sulla capacità di generare una rappresentazione basata sull’immagine. Le ricerche al riguardo hanno mostrato che quelle parole che avevano un certo grado di capacità di evocare immagini erano anche quelle che presentavano un corrispondente grado di concretezza. Ciò sembra far pensare che capacità di evocare immagini e concretezza misurino la medesima dimensione sottostante [24].

Diversamente, il mondo esterno e le diverse situazioni in cui possiamo svolgere un qualche ruolo possono essere rappresentati anche in forme simboliche mediante segni arbitrari e descrizioni: questa modalità di rappresentazione esterna può trovare una forma mentale come rappresentazione proposizionale (che chiamerei semplice, per distinguerla da quella qui subito appresso indicata) [25].

Le proposizioni sono rappresentazioni astratte, descrizioni degli oggetti ed eventi che rappresentano e perciò non catturano né contengono le caratteristiche fisiche di ciò che rappresentano: la descrizione del Colosseo, per quanto minuziosa, non potrà mai «contenere» le caratteristiche fisiche di questa bellezza monumentale. Analogamente, la rappresentazione mentale di quegli oggetti ed eventi su base proposizionale presenta gli stessi caratteri della descrizione [26].

In questa tipologia deve essere ricondotta la rappresentazione mentale dei significati, anche nella forma più complessa di concetti astratti, che ne costituiscono le unità di base (e qui parlerei di rappresentazione proposizionale complessa).

I concetti costituiscono la conoscenza che permette agli individui di trattare differenti entità come appartenenti alla medesima categoria, vale a dire di trattare queste entità nello stesso modo: tutti i cani o tutte le automobili che un individuo incontra sono trattati nello stesso modo perché pur essendo differenti tra loro possediamo il concetto di cane e di automobile [27].

La conoscenza contenuta nei concetti ha degli effetti sull’attività percettiva e sulla rappresentazione mentale del mondo che ci circonda: come abbiamo già in precedenza osservato, infatti, se guardando la documentazione ecografica non dispongo del concetto di lesione tumorale, non sono in grado di percepire correttamente (a livello proposizionale) e quindi di sapere che si tratta di tale tipo di lesione.

I concetti sono rappresentati mentalmente in base a due meccanismi: il nucleo concettuale e la funzione di identificazione. Il primo è costituito dall’insieme dei principi necessari e sufficienti per la definizione del concetto. Il secondo meccanismo, invece, permette di classificare gli elementi sulla base degli attributi percettivi e funzionali condivisi con grado diverso dai differenti esemplari della categoria [28].

La teoria della doppia codifica, da cui abbiamo preso le mosse, prevede che tra i due sistemi di codifica e organizzazione delle informazioni vi siano delle connessioni referenziali che ci consentono di visualizzare gli oggetti nominati e di nominare gli oggetti che vediamo. Questa teoria è stata confermata da studi sulla memoria che mostrano come la rievocazione libera di parole concrete sia migliore di quella di parole astratte. Infatti, mentre parole come «cane», «automobile» ecc. possono essere codificate sia nel sistema verbale sia in quello analogico, parole come «desiderio», «idea» ecc. possono essere rappresentate soltanto mediante il codice verbale [29].

Ovviamente, quanto più è artificiale, astratto e complesso il contenuto del concetto, tanto più complesse saranno la sua rappresentazione mentale e la sua memorizzazione. E ciò, con riferimento alla determinazione sia del nucleo concettuale, sia dei suoi contorni [30]. Si pensi, ad es., al concetto «consapevolezza», dianzi evocato a proposito dell’esempio che abbiamo preso in considerazione e sul quale tra poco torneremo.

In una scala ideale di crescente complessità abbiamo quindi dapprima la rappresentazione analogica o per immagine, poi la rappresentazione proposizionale semplice (che ricomprende categorie e concetti naturali e concreti) e, infine, la rappresentazione proposizionale complessa (che ha ad oggetto categorie e concetti artificiali ed astratti).

Un’ultima notazione: a volte possono venire in considerazione scopi specifici e particolari, diversi rispetto a quelli per i quali un determinato oggetto viene normalmente apprezzato: la prima cosa che viene in mente, ad es., di fronte ad un particolare mobile è che si tratti di una sedia; ma potrebbe venire in mente che si tratti di legna da ardere se un individuo si trovasse nella sua casa di montagna, non vi fosse legna a disposizione per riscaldarsi al camino e la sedia non fosse più utile per la sua funzione primaria [31].

Tornando al nostro esempio, così come la sedia, anche l’articolo di giornale può essere apprezzato e classificato in modi diversi – in una categoria di base o in una categoria ad hoc – a seconda delle circostanze: nel nostro esempio si tratta di classificarlo in via del tutto occasionale e specifica come idoneo o meno a determinare la consapevolezza dei danni da fumo nella collettività: si può parlare a questo proposito di rappresentazione proposizionale [ma in generale potrebbe anche essere analogica] funzionale specifica e concreta, o ad hoc (in contrapposizione alle rappresentazioni – analogiche o proposizionali – funzionali di base, o naturali o primarie).

L’elenco delle conseguenze mentali degli stimoli non è però completo. Occorre aggiungervi il piano delle emozioni ed il piano che possiamo chiamare della rappresentatività degli stimoli: quest’ultimo piano costituisce anche la credenza con riguardo al suo oggetto.

Con il primo mi riferisco al piano emozionale che viene attivato a seguito dello stimolo, e quindi alla rappresentazione emozionale; e ciò tenendo sempre ben presente che, a monte, sono proprio le emozioni ad innescare ed orientare la mente e il corpo nel momento in cui si debba percepire ed apprezzare un oggetto ed operare una scelta: si è osservato che qualunque decisione nella sua fase embrionale è emotivamente condizionata dal vissuto del soggetto decisore, che confronterà le sue esperienze personali pregresse simili per giungere ad una decisione apparentemente razionale [32].

Con il secondo mi riferisco al piano che misura il grado di certezza soggettiva delle rappresentazioni mentali fino a qui considerate: posso infatti essere più o meno convinto che quello che ho visto è effettivamente un gatto, o un’automobile, ecc. In altre parole, viene in considerazione il grado di consapevolezza, di intima convinzione, di (libero) convincimento in ordine alle rappresentazioni mentali determinate dallo stimolo: una specie di rappresentazione mentale della forza delle altre rappresentazioni. Si tratta del piano della rappresentatività, la cui unità di misura è il valore di rappresentatività, che può essere espresso nel linguaggio qualitativo con locuzioni tipo inesistente, molto basso, basso, insufficiente, sufficiente, medio, alto, molto alto, ecc. E possiamo parlare al riguardo di rappresentazione credenziale.

Si può in effetti continuare a parlare di rappresentazioni mentali, poiché anche le emozioni e le sensazioni dei gradi di certezza soggettiva si presentano alla mente, purché si tengano presenti le differenze tra i vari piani.


5. La problematica comunicabilità delle rappresentazioni mentali ed in particolare del grado soggettivo della credenza

Un tema estremamente complesso ed assai importante ai nostri fini è quello della comunicabilità delle rappresentazioni mentali. E si comprende agevolmente il perché: il giudice deve giustificare attraverso la motivazione il suo convincimento sopra i fatti della causa, deve quindi tradurre in termini proposizionali le sue rappresentazioni mentali, ed in particolare deve giustificare e motivare la sua rappresentazione di credenza. E questa motivazione deve poter essere controllata dal giudice dell’impugnazione, il quale deve verificare se la motivazione sia esente da vizi, secondo le regole proprie di ciascun mezzo di controllo.

Un punto che deve essere subito rimarcato è che, quando si cerca di tradurre in termini proposizionali una rappresentazione mentale dovuta ad uno stimolo diretto esperibile dai sensi, il «contenuto» della rappresentazione risulta non quantitativamente, ma qualitativamente diverso: la differenza è la stessa che corre tra sperimentare direttamente una cosa (vedere in diretta la famosa semifinale Italia-Germania 4-3; ascoltare il Concerto per piano n. 2 di Rachmaninov; provare un attacco di panico, ecc.) ed ascoltare qualcuno che racconta la medesima esperienza (o leggere un racconto descrittivo di quella esperienza) [33].

I termini linguistici proposizionali solo molto genericamente determinano i concetti cui si riferiscono, ragion per cui il destinatario del discorso descrittivo si formerà una rappresentazione mentale del concetto oggetto del discorso per nulla coincidente con la rappresentazione mentale originaria che si cerca di comunicare [34].

Per le ragioni già viste, più la rappresentazione mentale proposizionale sarà astratta e quindi complessa, più i contorni del concetto che si cerca di comunicare saranno sbiaditi ed indeterminati. E non c’è bisogno di spendere soverchie parole per comprendere come non sia nemmeno pensabile di comunicare le rappresentazioni mentali concettuali in termini quantitativi, numerici: che senso avrebbe – in termini di comunicazione effettiva, concreta e specifica della portata della relativa credenza – dire: “la mia rappresentazione mentale del concetto di «consapevolezza» era forte, chiara e convincente al 100%”? Per non parlare della rappresentazione emozionale.

L’unità di misura della traducibilità nel linguaggio delle rappresentazioni mentali è il valore di immaginabilità/rappresentatività/comunicabilità, dove per l’immaginabilità non rileva solo la rappresentazione analogica, ma l’insieme delle percezioni, emozioni e sensazioni conseguenti allo stimolo: un concetto semplice, naturale, concreto, facilmente e ben conosciuto da tutti («mela» «bicicletta» ecc.) sarà traducibile in termini linguistici e quindi comunicabile in termini molto più precisi e determinati rispetto ai concetti via via più complessi, artificiali, astratti, non agevolmente e ben conosciuti da tutti (dalla stessa «consapevolezza», alla «lesione tumorale», allo «stato d’insolvenza», fino ai concetti che coinvolgono attribuzioni di valori: «una evidente, gravissima lesione»).

La misura della traducibilità e comunicabilità della rappresentazione mentale dipende quindi dal suo oggetto – concreto o astratto, naturale od artificiale, semplice o complesso, esperibile o non dai sensi – e dal tipo di rappresentazione mentale, che dal basso verso l’alto è via via più difficilmente comunicabile: analogica e proposizionale, semplice o complessa, emozionale e credenziale.

In questa situazione ci dobbiamo chiedere che cosa di una credenza è comunicabile, ed in particolare che cosa possiamo ragionevolmente chiedere al giudice di fare per motivare, per giustificare la sua decisione.

È possibile rispondere a questa domanda analizzando la struttura della credenza, la quale è scomponibile nei seguenti tre aspetti: a) cosa credo; b) perché credo; c) quanto credo.

Il «cosa credo» si riferisce all’oggetto della credenza: un gatto, una moto, un articolo di giornale, il contenuto di un concetto, ecc. Il «cosa credo» può naturalmente essere comunicato o attraverso una immagine più o meno corrispondente, ove si tratti di un oggetto riproducibile per immagini, oppure in termini linguistici qualitativi, non in termini quantitativi, numerici: posso dire “si trattava di un gatto”, oppure “di un gatto molto molto grande”, e non “di un gatto grande 100”, o “grande 8 su 10”, salvo voler intendere convenzionalmente, con queste ultime due locuzioni, lo stesso concetto espresso in termini qualitativi, e quindi tenuto presente che l’uso di simboli numerici non consente una comunicazione più fedele della corrispondente rappresentazione mentale (e salvo il caso in cui io sia a conoscenza delle caratteristiche del gatto misurabili con unità di misura precise ed intenda comunicarle: ad es., “si trattava di un gatto del peso accertato di 3 chili”). Il «cosa credo» rinviene il suo contenuto dall’attività di percezione e di interpretazione del segno, e quindi di individuazione del suo significato, il quale può apparire più o meno nitido, nella corrispondente rappresentazione mentale, a seconda delle caratteristiche espressive del segno stesso.

Il «perché credo» si riferisce alle ragioni ed alle giustificazioni della credenza in senso stretto, ed in particolare alle caratteristiche delle fonti della credenza, alla loro attitudine rappresentativa (o rappresentatività) ed alle modalità di percezione di tali fonti, come ad es. attraverso il senso della vista, che è un’ottima ragione di giustificazione della credenza (altra modalità, di certo meno sicura, potrebbe essere la testimonianza). Il «perché credo» è comunicabile o per mezzo della medesima fonte (o di una sua riproduzione fedele), da sottoporre alla visione (o comunque all’attenzione di uno dei cinque sensi, a seconda dei casi) del destinatario della comunicazione, oppure in termini linguistici qualitativi, non in termini quantitativi, numerici. Ad es., potrò giustificare perché credo che l’oggetto in discorso sia un gatto motivando in base al fatto che ho visto con i miei occhi un’immagine chiarissima che presentava in modo inequivocabile le caratteristiche del prototipo del gatto e potrò elencare tali caratteristiche descrivendole dettagliatamente (sempre in termini qualitativi).

Il «quanto credo» si riferisce alla intensità, alla forza della credenza: a quanto io sono convinto che l’oggetto in discorso sia, ad es., un gatto. A questo proposito, la mia giustificazione/motivazione consiste nella argomentazione mirante a mostrare, da un lato, la fedeltà al prototipo di tutti gli elementi percepibili (visibili, nel nostro esempio); dall’altro, la mancanza di elementi che potrebbero contraddire la riconducibilità dell’immagine percepita (vista) alla categoria «gatto» (si pensi, ad es., al classico disegno tigrato arancione che contraddistingue la tigre). Anche il «quanto credo» può essere comunicato in termini linguistici qualitativi e non quantitativi.

Sono sempre fatti salvi i casi i cui, al fine di favorire la comunicazione della rappresentazione mentale, proprio lo stesso oggetto sia sottoponibile alla percezione diretta del destinatario della comunicazione. Anche in quest’ultimo caso, tuttavia, in virtù dei fattori strettamente soggettivi che entrano in gioco nella percezione, la rappresentazione mentale del destinatario della comunicazione sarà ben diversa rispetto a quella originaria del comunicante (in misura direttamente proporzionale alla complessità della rappresentazione mentale comunicata). Di certo in ogni caso non può essere comunicato il grado di certezza soggettiva della propria credenza.

Stando così le cose, possiamo riassuntivamente concludere su questo importante punto osservando che:

1) il contenuto della credenza non è traducibile e comunicabile in termini quantitativi, numerici;

2) il contenuto della credenza è relativamente traducibile e comunicabile in termini linguistici qualitativi e, ove l’oggetto della percezione sia riproducibile (per foto, video o altra forma di fedele riproduzione), anche attraverso tale riproduzione, nonché, sempre ove possibile, pure sottoponendo l’oggetto stesso alla percezione diretta del destinatario della comunicazione;

3) in ogni caso sussiste uno scarto tra percepito e comunicato, scarto che emerge nella motivazione/giustificazione: sottodeterminazione dei concetti comunicati per un verso (la proposizione comunicativa non «contiene», non riproduce molti dei contenuti della credenza); generica e relativa determinazione dei concetti comunicati per l’altro verso (la proposizione comunicativa solo genericamente traduce e comunica il concetto cui si riferisce, il quale viene poi riempito e specificato grazie ai codici di codificazione soggettivi del destinatario della proposizione).

4) La motivazione/giustificazione consiste di “buone ragioni” su base argomentativa, e non già dimostrativa, strutturata essenzialmente in termini qualitativi e non quantitativi.


6. La valutazione della prova in senso stretto

Rimarcato che percezione, interpretazione, valutazione e (perfezionamento della) conclusione probatoria sono attività strettamente correlate, la valutazione in senso stretto consiste nell’attribuzione di valore probativo all’elemento di prova, con il quale si determina l’idoneità dello stesso ad offrire elementi di conoscenza in ordine alla risposta circa l’esistenza del fatto ignoto e controverso: si individua il rapporto di probatività tra l’elemento di prova A ed il fatto ignoto B.

In altre parole, con la valutazione delle prove il giudice prende in esame il segno con funzione probatoria interpretato e gli assegna il valore probatorio, il quale esprime la misura di quanto l’esistenza dell’elemento di prova A dice in ordine alla esistenza del fatto da provare B; esprime la forza della correlabilità di A con B. Detto in termini di probabilità, il valore probatorio esprime la probabilità di B dato A. Questa probabilità può essere minima, bassa, media, medio-alta, alta, altissima, ecc.

La valutazione dell’elemento di prova ha una unità di misura – il valore probatorio, o di probatività – che non è traducibile a livello proposizionale, se non attraverso una descrizione in termini qualitativi. Questa descrizione, per le ragioni illustrate nel paragrafo precedente, non può tuttavia «contenere», riprodurre la relativa rappresentazione mentale, analogica e proposizionale, anche concettuale (provocata dallo stimolo sia da immagine, sia da aspetti proposizionali, derivante, nel nostro esempio, dalla vista dell’articolo), cioè proprio il valore che si è attribuito.

In altre parole, il valore di probatività attribuito all’elemento di prova, non è mai pienamente comunicabile attraverso la motivazione, la quale, per le ragioni già viste, non potrà rappresentare altro che una sottodeterminazione ed una generica determinazione del concetto o dei concetti oggetto della rappresentazione mentale originaria. In particolare, non sono comunicabili gli aspetti soggettivi delle qualità probative percepite, in termini di contenuti probativi e di intensità della forza probativa.

In generale, nel passaggio da una fase all’altra dell’apprezzamento delle prove – percezione, interpretazione e valutazione in senso stretto – specialmente quando la funzione probatoria indagata non è quella propria e tipica del segno in esame, ma una particolare e specifica funzione ricollegata al caso di specie, ci si allontana dal dato oggettivo e sempre più si accresce quello soggettivo.

Ad ogni modo, anche la credenza sul valore probativo di un elemento di prova può essere scomposta logicamente secondo la triade: a) cosa credo; b) perché credo; c) quanto credo.


7. La valutazione in senso dinamico: l’inferenza probatoria, la “presa di decisione” e la sua definitiva fissazione nella motivazione

La valutazione della prova (A) in ordine alla esistenza di un determinato fatto (B) avviene fondamentalmente per mezzo di una inferenza. Nella prospettiva probatoria che qui interessa, l’inferenza è un’ar­gomentazione con la quale il soggetto del ragionamento attribuisce ai dati di partenza l’attitudine a fornire elementi di conoscenza sugli aspetti da lui ignorati dell’oggetto sul quale intende formarsi un convincimento. Questa argomentazione è intrisa di “modi di vedere il mondo”, secondo i quali quei dati di partenza significano le conseguenze in termini di conoscenza che sono state ritratte, quale conclusione del ragionamento, sopra gli aspetti ignorati dell’oggetto indagato, o sopra l’esistenza tout court dell’oggetto ignorato. La relazione d’inferenza, tra i dati di partenza e la conclusione, è pertanto, normalmente, di natura gnoseologica, epistemica [35].

Esistono vari tipi d’inferenza, in ragione della loro complessità: si va da inferenze di tipo automatico, o semiautomatico, ad inferenze di tipo interpretativo o, per meglio dire, ermeneutico: se devo compiere una mera operazione di calcolo matematico, la mia inferenza sarà di carattere automatico, ma normalmente la realtà è assai più complessa.

Torniamo all’esempio delle notizie di stampa. Ora – e, per il momento, sempre da una prospettiva statica della decisione – per stabilire se un articolo di giornale sia in grado di offrire elementi di conoscenza sufficienti per ritenere provata la consapevolezza dei danni da fumo in Italia, il giudice deve compiere un’attività ermeneutica particolarmente complessa, mirante a “comprendere” il caso concreto i tutti i suoi aspetti problematici [36].

Il giudice infatti deve considerare e porre nella sua “pagina mentale”, come tante tessere di un mosaico: a) cosa egli intende per: aa) consapevolezza; bb) consapevolezza dei danni da fumo; cc) raggiungimento della consapevolezza dei danni da fumo; b) cosa per lui è in grado di determinare la consapevolezza dei danni da fumo (e quindi quali regole d’esperienza devono essere applicate); c) tutte le caratteristiche grafiche e semantiche dell’articolo di giornale considerato e la loro idoneità a determinare la consapevolezza dei danni da fumo; d) il contesto sociale e culturale del periodo storico in merito al quale occorre indagare la presenza della consapevolezza oggetto dell’indagine, ecc. Occorre sottolineare in proposito che, al momento in cui inizia la sua inferenza, il giudice non dispone del contenuto degli elementi ora indicati in modo preciso e netto. Anzi, tali elementi gli appariranno nella mente in termini sbiaditi, sfocati, indeterminati, bisognosi di una messa a punto; in breve, vaghi e «fluidi»: il giudice piuttosto intuisce il contenuto delle varie tessere nella fase iniziale del suo ragionamento, anziché disporre con esattezza del loro nucleo e dei loro contorni semantici.

A questo punto, “avendo in mente”, sia pure in modo assai fluido, sia la regola generale (la quale ci dice cosa determina la consapevolezza dei danni da fumo, secondo l’esperienza), sia le caratteristiche del caso concreto (le caratteristiche fisiche essenziali, il significato, l’uso e la funzione dell’articolo di giornale), il giudice dovrà iniziare quel delicato, complesso circolo ermeneutico tra caso concreto e regola generale per verificare se ed in che misura quelle specifiche qualità dell’articolo di giornale in esame possano essere incluse nella regola generale e se, per l’effetto, questa possa essere applicata a quello.

L’attività di interpretazione e comprensione del caso svela così al suo fondo un carattere e un procedere non lineari ma circolari, articolati in una pluralità di livelli successivi, al modo di una spirale: infatti non comporta mai da parte dell’interprete un tautologico e puro e semplice ritorno al punto di partenza, ma l’innalzare su piani nuovi e maggiormente chiarificanti, anche alla luce di nuove circostanze, la comprensione della regola generale [37].

In questa delicata e complessa attività, il giudice darà maggiore o minore peso – secondo il suo modo di vedere le cose inevitabilmente soggettivo –, ad es., all’autorevolezza dell’autore, all’importanza dell’articolo sia nel contesto del giornale (prima o altra più o meno importante pagina), sia nel contesto della pagina; al titolo; ad eventuali fotografie; all’accuratezza del testo; all’attendibilità delle fonti richiamate; alla chiarezza e perentorietà del discorso ecc. E ciò, tenuto conto della sensibilità del lettore, dell’insieme delle conoscenze sulla dannosità del fumo altrimenti acquisibili nel momento storico oggetto d’indagine, dell’esistenza di fattori che possano contrastare l’efficacia informativa dell’articolo in analisi, ecc. (ad es., media nei quali i fumatori vengono presentati come personaggi vincenti e di successo). Per tale via potrà ritenere all’esito del suo ragionamento tali caratteristiche idonee o meno ad integrare la regola generale, che a sua volta sarà stata riconsiderata anche alla luce dell’articolo in esame e del contesto di riferimento [38].

E poiché non esiste una massima d’esperienza vera e propria bella e pronta per la soluzione specifica dell’ipotesi che stiamo considerando, il giudice perverrà alla sua decisione finale avvicinando fino a far congiungere e confondere caso particolare e legge generale (in realtà, si tratta di un fascio di leggi generali), con una serie di apprezzamenti e soluzioni specifiche di buon senso comune, fondate sull’esperienza e adattate all’unico, irripetibile caso concreto. Così facendo, il giudice avrà anche contribuito all’interpretazione, arricchendone il contenuto, dell’insieme di LSOM che ha applicato al caso concreto. Infatti, nello stesso momento in cui ha ritenuto che quello specifico caso concreto potesse essere sussunto nella regola generale, quella regola, applicata a tale caso, ha acquisito una portata più ampia rispetto a quella che aveva precedentemente a questa sua ultima applicazione [39].

Come ha scritto Guido Calogero quasi cento anni fa – a proposito dell’essenza del giudizio, “cioè del­l’effettivo e concreto sforzo mentale del giudice”, avente ad oggetto il “rapporto di probatività, che possa o meno stabilirsi tra il fatto A, di cui si assume, o si contesta, la capacità a servir di prova del fatto B, e questo stesso fatto B – […] quando il giudice vi è giunto (cioè è giunto alla convinzione che, di certi fatti presentati alla sua consapevolezza, egli può, o meno, considerarne alcuni come prova di altri), il suo reale ragionamento probatorio è compiuto, tutto il resto potendo essere, nel migliore dei casi, una sua postuma e capovolta raffigurazione verbale” [40].

A quest’ultimo proposito occorre però aggiungere un’importante precisazione: come abbiamo ricordato all’inizio di questo studio, gli elementi strutturali del ragionamento probatorio sono molteplici, in parte oggettivi ed in parte soggettivi. Nell’attività valutativa e decisoria il simultaneo operare di questa fitta rete di componenti oggettive e soggettive, che s’influenzano reciprocamente e continuamente, determina una successione ed una progressione di flussi e stadi cognitivi, fino alla vera e propria “presa di decisione”.

L’inafferrabilità dell’essenza del giudizio e la sua natura fondamentalmente intuitiva-ricostruttiva-costi­tutiva [41] – più che inventiva-creativa [42] – dipendono dal fatto che non è possibile isolare e identificare con precisione l’ambito di operatività di ciascuno dei plurimi elementi oggettivi e soggettivi che simultaneamente e continuativamente, su più piani, concorrono alla sua formazione [43].

Ad ogni modo, il simultaneo operare di questa fitta rete di componenti oggettive e soggettive, che s’in­fluenzano reciprocamente e continuamente, determina una successione ed una progressione di flussi e stadi cognitivi [44] fino al punto in cui produce, in ordine alla sussistenza o insussistenza di un determinato fatto, il convincimento che, nella prospettiva del giudicante, soddisfa lo standard di prova richiesto dalla legge [45].

La «presa di decisione» è dunque, anzitutto, uno stadio cognitivo soggettivo. Il decidente avverte, secondo i propri personalissimi parametri soggettivi, che il ragionamento probatorio ha raggiunto il suo scopo: le evidenze disponibili (A) lo hanno convinto (oppure non lo hanno convinto) dell’esistenza del fatto incerto e controverso B. Egli in questo caso percepisce una propria rappresentazione mentale: la credenza che B effettivamente sia (o non sia) esistito, alla luce dell’elemento di prova A.

Con maggior dettaglio tecnico si può dire che, secondo il convincimento soggettivo del decidente, all’esito del ragionamento probatorio l’evidenza disponibile A è idonea (o non è idonea) a far ritenere probabile il fatto incerto B nei termini che raggiungono lo standard di prova richiesto dalla legge per ritenere quel fatto provato nel processo. L’inferenza ermeneutica ha quindi determinato nel giudice la credenza secondo cui l’evidenza A è idonea (o non è idonea) a far ritenere probabile il fatto B al punto richiesto dalla legge per poterlo ritenere provato e portarlo legittimamente a fondamento della sua sentenza.

Ora, ciò che qui preme rimarcare è che la stesura della motivazione nella sentenza rappresenta anch’essa una fase, l’ultima, quella perfezionativa, dell’attività decisoria: infatti, prima della stesura della motivazione, le credenze del giudice su tutti gli elementi costitutivi della decisione finale sono ancora avvertiti in modo fluido, opaco, non pienamente determinato. È solo con la stesura della motivazione che il giudice fissa e specifica definitivamente, per sé e per i destinatari del suo provvedimento, ogni aspetto costitutivo della sua elaborata decisione [46].


8. La struttura triadica del convincimento del giudice sopra il fatto controverso: cosa crede, perché crede, quanto crede

Anche con riferimento alla inferenza ermeneutica di cui abbiamo appena detto possiamo individuare una credenza, un convincimento avente ad oggetto la correlabilità, il rapporto di probatività A-B che ha gli stessi contenuti che abbiamo già considerato: a) cosa credo; b) perché credo; c) quanto credo.

Dobbiamo ora convertire i contenuti strutturali della credenza, del convincimento del giudice, in termini giuridici:

a) il «cosa credo» indica, nel caso della credenza, del convincimento del giudice, l’intensità con cui possiamo ritenere A prova di B. In termini maggiormente tecnici, quanto B sia associabile ad A, ovvero, ancora diversamente, la probabilità di B dato A. Qui il giudice è chiamato ad argomentare e giustificare la scelta della massima d’esperienza che ha ritenuto di applicare, di senso comune o tecnico-scientifica, e la determinazione della forza del nesso di conseguenzialità che ha riconosciuto al rapporto tra le premesse del suo ragionamento (elementi di prova, da un lato, massima d’esperienza, dall’altro) e la conclusione raggiunta in ordine alla affermata probabilità di B dato A.

E siccome per l’accoglimento della domanda il fatto B deve potersi ritenere pienamente provato, secondo le regole sull’onere della prova, nell’indicare il «cosa credo» il giudice deve anche mostrare di aver osservato lo standard di prova richiesto affinché un fatto possa ritenersi (pienamente) provato e, di conseguenza, legittimamente portato a fondamento della decisione assunta. In particolare, come ho già osservato in altre occasioni, gli elementi di prova, considerati nel loro complesso, devono rappresentare un quadro probatorio che significa, normalmente, vale a dire secondo l’id quod plerumque accidit – misurato sulla base delle regole di strutturazione, organizzazione e funzionamento del mondo – verità/esistenza del fatto ignoto da provare [47].

Il livello di probabilità di B dato A può essere, a seconda dei casi, altissimo, alto, medio, sufficiente, basso, quasi inesistente ecc. Lo standard di prova ora indicato è soddisfatto ogni volta che, dato A, è più probabile B che non B.

Il livello minimo di probabilità di B dato A, comunque idoneo a soddisfare l’indicato standard di prova, si ha quando, dato A, è ancora più probabile B che non B, ovvero quando il livello di probabilità, in una scala ideale che, rappresentata solo convenzionalmente a fini meramente descrittivi in termini numerici, si attesta sul 50 + 1% di probabilità. È solo in questi termini che può e deve essere applicato lo standard del “più probabile che non” (“more probable than not”) in Italia [48].

b) Il «perché credo» qui indica le ragioni in senso stretto della credenza, vale a dire principalmente le caratteristiche morfologiche e semantiche dei segni con funzione probatoria, ma anche le modalità della loro percezione e quindi del loro apprezzamento (diretto o indiretto).

Qui il giudice argomenta in ordine alla rappresentatività degli elementi di prova, e quindi a proposito della loro idoneità strutturale a generare il convincimento che si è formato in ordine ai fatti ignoti. Il giudice descrive le caratteristiche strutturali e semantiche degli elementi di prova, evidenziandone gli aspetti con attitudine probativa, al fine di motivare e giustificare le scelte operate in punto di grado di correlabilità dell’elemento di prova A rispetto al fatto da provare B.

Naturalmente anche a questo proposito il discorso può essere espresso solo in termini qualitativi, sicché il giudice, dopo aver descritto eventualmente la configurazione degli elementi di prova, potrà esprimersi in termini quali, ad es., chiaro (o chiarissimo), forte, attendibile, convincente (o molto convincente), serio, nitido, dai contorni netti, inequivoco, espresso con grande evidenza grafica (con riferimento all’articolo di giornale), ecc.

È certo infatti che il giudice non dispone di una unità di misura certa ed obbiettiva per tradurre con precisione nella sua motivazione la rappresentazione mentale (della consistenza, qualità e densità) del valore probatorio che ha ritenuto di riconoscere agli elementi di prova direttamente o indirettamente percepiti ed apprezzati [49].

A ben vedere, è a questo riguardo che può acquistare pieno senso il criterio, utilizzato per determinate cause civili nei sistemi di common law, del clear and convincing evidence, il quale in effetti può essere più appropriatamente riferito alle caratteristiche degli elementi di prova rispetto al grado di probabilità di B dato A, cui invece normalmente è riferito [50].

c) Il «quanto credo» indica la soglia, il grado di certezza soggettiva raggiunta in ordine al grado di probabilità di B dato A che si è ritenuto di riconoscere. Qui gli elementi fondanti della persuasione soggettiva, della intima convinzione, che naturalmente è graduabile, maggiore o minore, sono la coerenza, coesione ed univocità degli elementi di prova, nel senso il giudice sarà tanto più convinto di una certa correlazione tra A e B quanto più i segni con funzione probatoria deporranno verso un unico ed univoco senso ricostruttivo. Il giudice può essere più o meno convinto di una certa correlazione tra A e B a seconda del numero e della tipologia di prove, della maggiore o minore univocità della loro portata semantica, e della presenza o meno di elementi di prova in grado di affievolire, contrastare o annientare il significato probatorio ritraibile dagli elementi di prova a favore di tale correlazione.

Lo standard del «quanto credo», per così dire, necessario e sufficiente per portare legittimamente un fatto a fondamento della decisione lo stabiliscono per ciascun ordinamento le regole sull’onere della prova. Ad es., nel sistema civilistico, una volta raggiunta la prova e quindi il convincimento sugli elementi costitutivi della domanda, il dubbio circa l’esistenza di un fatto estintivo non esclude l’accoglimento della domanda. Nel sistema penalistico, diversamente, il dubbio su un fattore causale alternativo esclude la condanna, in applicazione del criterio Bard – beyond any reasonable doubt, oggi codificato nell’art. 533 c.p.p. [51].

Anche a questo proposito è certo che il giudice non dispone di una unità di misura certa ed obbiettiva per tradurre nella sua motivazione la rappresentazione mentale (della consistenza, della qualità e della densità) del suo convincimento, né del momento in cui tale convincimento ha superato la soglia (della certezza morale?) che gli ha consentito di ritenersi a tutti gli effetti e definitivamente «convinto».

Pertanto, qui il giudice argomenta in termini linguistici qualitativi per descrivere la quantità e le caratteristiche semantiche degli elementi di prova (nella prospettiva della coerenza, coesione e univocità) a sostegno del convincimento che lo pervade e la mancanza o la irrilevanza di elementi di prova contrari.


9. Segue. Sua recezione nella disciplina giuridica del ragionamento presuntivo, archetipo del ragionamento probatorio

Vi è traccia di questi tre elementi strutturali della credenza – id est, del libero convincimento del giudice – nell’ordinamento processuale italiano? E quando tale convincimento può dirsi legittimo? E, da ultimo, in cosa consiste la motivazione idonea a dar adeguatamente conto delle ragioni della decisione sui fatti controversi?

Il problema è complicato dal fatto che le rappresentazioni mentali del giudice, come abbiamo visto, non sono fedelmente traducibili nel linguaggio. Quando il giudice attribuisce un valore probatorio in base ad una sua considerazione inevitabilmente soggettiva, in ipotesi un valore di prova molto alto – ad esempio ritiene che, per le sue caratteristiche, un certo articolo, ove letto, determini con molta probabilità la consapevolezza dei danni da fumo – non è in grado di tradurre la sua corrispondente rappresentazione mentale in termini linguistici tali da suscitare nel suo interlocutore la medesima rappresentazione mentale. Egli potrà usare un gran numero di elementi linguistici qualitativi – e definire l’articolo chiarissimo, dal significato univoco, eloquente ed esaustivo, esemplare, ecc. –, anche con grande proprietà e precisione di linguaggio, e tuttavia non potrà mai far acquisire al destinatario, al ricevente la sua comunicazione verbale, la stessa rappresentazione mentale. E tutto ciò a fortiori ove si tratti della rappresentazione mentale relativa al raggiungimento della soglia, dello standard di prova previsto dalla legge: ad esempio, per richiamare il criterio penalistico, se il giudice è convinto “al di là di ogni ragionevole dubbio” della esistenza/verità del fatto ignoto, questa rappresentazione mentale non può essere esattamente veicolata attraverso il linguaggio.

In effetti, a questo riguardo, viene in rilievo il “fattore sottodeterminante” incrociato tra fatti e loro valutazione: in breve, gli specifici elementi strutturali della valutazione e della decisione – anche e specialmente con riguardo al raggiungimento dello standard di prova richiesto dalla legge – non sono mai perfettamente traducibili in termini linguistici di cui sia possibile apprezzarne pienamente il significato e, per l’effetto, controllarne compiutamente la validità (o, meglio, la credibilità razionale), dal punto di vista epistemologico o comunque oggettivo. In effetti, il dato linguistico sottodefinisce e sottodetermina – o, per meglio dire, solo genericamente determina – il (campo semantico del) dato empirico cui si riferisce. Nello stesso tempo, e di riflesso, per dirla con Quine, il dato empirico a disposizione (le prove e gli elementi di prova) sottodeterminano e solo genericamente determinano il dato linguistico che li descrive e che, sulla loro base, esprime la conclusione dell’inferenza probatoria, ricostruendo il fatto storico passato [52].

Il punto da risolvere consiste pertanto, come accennato poc’anzi, nello stabilire cosa può essere richiesto ragionevolmente al giudice in sede di redazione della motivazione, tenuto conto del fatto che, se da un lato certamente non possiamo lasciare ad una incontrollata discrezionalità del giudice stesso la decisione sui fatti, e nemmeno rimetterci interamente ed esclusivamente alla sua intime conviction, o alla sua «certezza morale», dall’altro lato non è pensabile pretendere un discorso a carattere rigorosamente oggettivo o dimostrativo, perché non è nelle possibilità dell’uomo ragionare in questi termini sopra i fatti giudiziali controversi.

A mio modo di vedere, come ho già in altra occasione segnalato, il nostro ordinamento ha piena e chiara contezza degli elementi strutturali del convincimento del giudice e li contempla quali presupposti di legittimità del ragionamento probatorio e della relativa motivazione.

In questa prospettiva, il «cosa credo» esprime il “grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere dal fatto noto” [53]; la «forza» dell’inferenza, ossia il grado di conferma che essa attribuisce alla conclusione relativa a questo enunciato; e si ritiene raggiunto un grado di conferma sufficiente quando l’inferenza si fonda su generalizzazioni non spurie e dotate di adeguato fondamento conoscitivo, ossia su una massima d’esperienza che corrisponde davvero all’id quod plerumque accidit nella realtà [54].

Non è pertanto necessario, con riguardo al «cosa credo», ritenere che la dimostrata (o comunque certa) sussistenza del fatto noto “comporti ed implichi, con il massimo grado di probabilità, anche la sussistenza” del fatto ignorato [55]. Si può infatti convenire con chi ha affermato che l’inferenza è legittima anche se attribuisce alla conclusione sul factum probandum una probabilità prevalente (o del più probabile che non), “ossia un grado di attendibilità maggiore di quello che risulta attribuibile all’ipotesi contraria” [56].

Il «perché credo» va riferito al fatto noto che “costituisce il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso non sia vago ma ben determinato nella sua realtà storica” [57]. Il requisito della precisione va riferito all’elemento di prova assunto a premessa minore del sillogismo, all’indizio, e attiene al suo grado di attendibilità [58]; più precisamente, come abbiamo visto, al suo grado di rappresentatività, vale a dire di idoneità strutturale morfologica e semantica a generare il convincimento che il giudice si è formato in ordine ai fatti ignoti.

Il «quanto credo» indica che il fatto ignoto sia di regola desunto da una pluralità di elementi di prova, “univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, anche se il requisito della concordanza deve ritenersi menzionato dalla legge solo per il caso di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi” [59]; gli elementi di prova devono essere «convergenti» (id est, «coerenti»), “a supporto della medesima ipotesi sul fatto” [60].

Dal punto di vista dell’inferenza, anziché dell’elemento di prova – in presenza della possibilità di formulare una pluralità di inferenze non tutte convergenti, tenuto conto degli eterogenei elementi di prova a disposizione, dal significato divergente o addirittura contrapposto – per assicurare la fondatezza (e la legittimità) dell’accertamento fondato su più inferenze, è “sufficiente che alcune di esse convergano verso la medesima conclusione, purché le altre inferenze possibili non siano tali da attribuire un grado di conferma uguale o superiore ad una diversa conclusione sul fatto da provare” [61].

Ebbene, quelle appena richiamate, che si attagliano perfettamente al nostro discorso, sono le definizioni che, rispettivamente, giurisprudenza e dottrina propongono per i requisiti della gravità, precisione e concordanza dell’elemento indiziario di cui all’art. 2729 cod. civ., quali requisiti di legittimità del ragionamento presuntivo [62].

In più precise parole, si può dire che le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza fondano, rispettivamente, gli aspetti logico-cognitivi della credenza, del libero convincimento del giudice: cosa credo in termini di probabilità di B dato A, perché lo credo e quanto lo credo.

E siccome il ragionamento presuntivo presenta la stessa identica struttura del ragionamento probatorio in generale, mi pare pienamente confermata l’ipotesi ricostruttiva che avevo abbozzato qualche anno fa, sostenendo che, a bene vedere, è la stessa legge che indica lo standard di prova necessario affinché possa ritenersi osservata la regola dell’onere della prova ed il giudice possa porre a fondamento della sua decisione un determinato fatto. Invero, se il giudice può fondare la presunzione – e quindi ritenere provato un fatto – sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, può tranquillamente affermarsi che la parte ha provato il fatto oggetto di prova quando ha offerto elementi di prova gravi, precisi e concordanti in merito alla verità di quel fatto [63].

In breve: il giudice, per portare legittimamente un fatto a fondamento della decisione assunta, deve argomentare nella motivazione, attraverso «buone ragioni» [64], che gli elementi di prova presenti agli atti sono gravi, precisi e concordanti, nei termini sul piano dogmatico qui chiariti, e che sul piano applicativo la giurisprudenza della Suprema Corte ha individuato, con le necessarie evoluzioni, nell’arco di più di sessant’anni [65].


10. Il controllo dell’attività decisoria sui fatti in sede d’impugnazione

Che affidabilità, che sicurezza danno queste «buone ragioni»? Certo è che queste «buone ragioni» possono essere messe in discussione solo attraverso altre «buone ragioni», senza che vi possa mai essere la garanzia, ad un certo punto, di raggiungere le «oggettivamente valide ragioni». Ed infatti la prevalenza delle «ragioni» della Suprema Corte, quale organo posto al vertice del sistema giurisdizionale, è di carattere formale-normativo, non già sostanziale-epistemico.

Ma vediamo con ordine. Mentre nel giudizio di appello la possibilità di revisionare il giudizio di fatto è generalmente ammessa – purché la parte appellante individui con precisione la parte di sentenza, da intendersi come “decisione di questione” [66], che intende censurare e formuli al riguardo specifici motivi di impugnazione –, diversamente secondo l’insegnamento della Suprema Corte richiamato all’inizio di questo lavoro, la valutazione delle prove costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, e non è sindacabile in sede di legittimità, se non per vizio di motivazione (ma non più per motivazione insufficiente, dopo la riforma del 2012) o per omesso esame circa un fatto decisivo, ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. [67].

Come abbiamo accennato [68], in realtà le cose stanno diversamente, ma prima di verificare in particolare l’ambito e le forme di sindacabilità del giudizio di fatto, per come in concreto ammesse dalla stessa Suprema Corte in molte pronunce che smentiscono il proprio orientamento appena richiamato, dobbiamo porci le seguenti domande: può essere riconosciuto alla Suprema Corte un effettivo e quindi penetrante controllo sulle «buone ragioni» del giudizio di fatto? E quanto questo controllo finisce per sconfinare nel giudizio di merito? E tale eventuale sconfinamento deve essere difeso o evitato?

Nonostante il contrario orientamento ora ricordato, a ben vedere, secondo la giurisprudenza della stessa Corte tutti i momenti strutturali della valutazione delle prove sono sindacabili, e la parte decisamente prevalente anche nel giudizio di cassazione. In particolare:

a) gli errori nell’attività di percezione dei segni e dei fatti con funzione probatoria, che integrano il travisamento del fatto, si fanno valere, ove il fatto è “non controverso”, con la revocazione di cui all’art. 395, comma 1, n. 4 [69];

b) l’omesso esame di un fatto con funzione probatoria, ove decisivo e controverso, è denunciabile a norma dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. [70];

c) gli errori di interpretazione di detti segni, quale attività volta alla identificazione dell’informazione probatoria che precede la valutazione in senso stretto, possono integrare il travisamento della prova (errore di percezione della informazione probatoria), ed in tal caso, ove incidano su un fatto decisivo e controverso, sono censurabili a norma dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ. [71];

d) per gli errori che riguardano la valutazione in senso stretto, le Sezioni Unite hanno precisato che è possibile il sindacato per violazione di legge anche quando il giudice “abbia fondato la presunzione su indizi privi di gravità, precisione e concordanza, sussumendo, cioè, sotto la previsione dell’art. 2729 cod. civ., fatti privi dei caratteri legali, e incorrendo, quindi, in una falsa applicazione della norma, esattamente assunta nella enunciazione della «fattispecie astratta», ma erroneamente applicata alla «fattispecie concreta» [72]”. Ed è chiaro, per ineludibili ragioni di coerenza dell’intero sistema, che lo stesso tipo di controllo non può essere diverso quando si tratti della gravità, precisione e concordanza di una prova vera e propria (anziché di un elemento indiziario), nel qual caso la norma di legge violata sarà quella che disciplina lo specifico mezzo di prova considerato, unitamente all’art. 116 cod. proc. civ., benché è proprio a questo riguardo che la Corte afferma continuamente – ma contraddittoriamente, per le ragioni appena viste – la non censurabilità in Cassazione dell’apprezzamento del giudice di merito [73];

e) a quest’ultimo riguardo, peraltro e per quanto concerne, in particolare, la posizione delle premesse, la scelta e l’applicazione delle massime d’esperienza, la Corte ha affermato che il controllo deve sussistere: “quanto alla verifica della correttezza del percorso logico tra premessa-massima di esperienza-conseguenza, cioè di esattezza della massima di esperienza poi applicata, come pure alla verifica della congruità – o accettabilità o plausibilità o, in senso lato, verità – della premessa in sé considerata; in mancanza di tale congruenza o plausibilità, la motivazione sul punto resterà soltanto apparente” [74].


1. Conclusioni: la Corte di cassazione giudice delle leggi giuridiche ma anche delle leggi di strutturazione, organizzazione e funzionamento del mondo (LSOFM)

Alla luce delle considerazioni svolte in questo studio, l’ora descritto stato di cose comporta le seguenti conseguenze:

α) all’interno della motivazione si dovrebbe distinguere tra elementi di prova oggettivi e controllabili direttamente da chiunque (si pensi ad una fotografia, allegata al fascicolo, che può essere percepita direttamente anche dal giudice dell’impugnazione) e fonti di prova controllabili non direttamente, ma solo attraverso la loro descrizione (si pensi al verbale della ispezione di un luogo compiuta dal giudice di primo grado; o di una dichiarazione testimoniale assunta in primo grado), per le quali non dovrebbe mai mancare una dettagliata indicazione delle caratteristiche morfologiche apprezzabili, altrimenti il giudizio resterebbe eccessivamente soggettivo e non adeguatamente controllabile (a causa della relativa traducibilità delle rappresentazioni mentali, di cui abbiamo detto) [75]. Come già aveva osservato Guido Calogero, il giudice dell’impugnazione, ed in particolare la Suprema Corte, conosce sempre del fatto non dal punto di vista del giudice che lo ricostruì, ma da quello di un lettore che ne esamini l’esposizione e documentazione storiografica; e ciò vale anche se questo punto di vista potrà coincidere per qualche aspetto con la situazione visuale originaria, in quanto anch’essa sia stata determinata in certa misura da documenti che abbia poi presenti anche il giudice dell’im­pugnazione [76].

β) A parte la portata «costruttiva» della stessa attività percettiva (semplice ma soprattutto proposizionale), di cui abbiamo detto, nel passaggio dalla percezione diretta dei segni con funzione probatoria alla percezione indiretta, attraverso la loro descrizione, è inevitabile uno scarto semantico tra portata oggettiva e possibilità di comprensione del significato probatorio dello stesso segno; ed in disparte pure il discorso, ineccepibile ma del tutto diverso, che per qualcuno quel segno potrà apparire «grave» e per altri no [77].

γ) Pur con le indicate conseguenze di scarto semantico tra la percezione diretta e la percezione solo indiretta degli elementi di prova, e quindi in presenza di un controllo di regola su base essenzialmente proposizionale – ex actis avrebbe detto ancora Guido Calogero [78] – il sindacato sulla valutazione delle prove, dal punto di vista della congruenza e plausibilità della ricostruzione del fatto, può essere effettivamente svolto solo ed esclusivamente attraverso un pieno riesame nel merito delle «buone ragioni» poste dal giudice a fondamento delle sue decisioni sopra i fatti della causa [79]. In breve: o ci si accontenta di un sindacato che si arresti alla constatazione della mera presenza grafica della motivazione, pure ove questa contenga affermazioni in pieno contrasto con le LSOFM generalmente condivise; oppure si consente al giudice dell’impugnazione, anche ove si tratti della Suprema Corte, di controllare, con pienezza di sindacato, che il giudice della sentenza impugnata ha rispettato ciò che la comunità di riferimento pensa sul modo di essere del mondo e sull’id quod plerumque accidit [80]. Si tratta di conclusioni che, per quanto apparentemente paradossali ed in contrasto con quello che normalmente si ritiene il compito della Suprema Corte, debbono essere assolutamente difese, poiché diversamente si finirebbe per lasciare interamente il giudizio di fatto, anche ove implausibile ed inverosimile, privo di qualsiasi possibilità di controllo [81]. Ciò che dovrebbe essere ritenuto insindacabile nel giudizio d’impugnazione, ed in particolare nel giudizio di cassazione, è solo ciò che non è oggettivamente sindacabile, vale a dire le valutazioni, e le conseguenti rappresentazioni mentali, che scaturiscono e dipendono dalla percezione diretta degli elementi di prova, ove in sede di controllo dell’operato del giudice della sentenza impugnata non sia possibile compiere nuovamente e direttamente quella percezione diretta; quindi in tutti i casi in cui il controllo stesso avviene non: ipotesi a), potendo riesaminare direttamente l’elemento di prova; bensì: ipotesi b), solo attraverso la descrizione che di tale elemento ha riportato nella motivazione il giudice il cui operato è sottoposto a censura. Ed in questi ultimi casi, come detto, il sindacato, anche ad opera della Suprema Corte, deve essere pieno nel merito delle ragioni poste dal giudice a fondamento delle sue decisioni sopra i fatti della causa.

δ) La verità processuale è una verità normativa e costitutiva, perché regolata nella formazione (e quindi risultante), oltre che dall’attività di conoscenza ricostruttiva del giudice, da molteplici norme e perché definita e fissata da schemi normativi (in particolare il giudicato, anche interno), e finisce per identificarsi con la legittimità (della formazione) della decisione sopra il fatto. La verità processuale, oltre a scontare i limiti gnoseologici che incontra la scienza, ed in genere l’attività percettiva e cognitiva dell’uomo [82], è fortemente condizionata dalle norme che regolano il processo [83]. Verità nel e del processo, quindi, non come corrispondenza, non come coerenza, non come verità pragmatica, bensì come legittimità della decisione [84].

ε) Poiché è la Corte di cassazione a dire l’ultima parola sulla credibilità razionale del discorso sui fatti, sulla plausibilità delle leggi di esperienza utilizzate dal giudice del merito, attraverso il richiamato controllo di logicità della motivazione, a ben vedere è la stessa Corte a rappresentare il più potente e pervasivo «giudice del fatto»: è lei, in concreto, che fissa giuridicamente cosa è razionale (o ragionevole, se si preferisce) e cosa non lo è, determinando, per tale via, le leggi di fatto, ed in particolare le leggi di strutturazione, organizzazione e funzionamento del mondo (LSOFM) giuridicamente viventi [85]. Peraltro, poiché anche la individuazione di ciò che può essere considerato l’id quod plerumque accidit è soggettiva, non sussistendo parametri oggettivi in proposito, la Suprema Corte è giudice ultimo anche della “regolarità” dei fatti del mondo [86]. È questo un importante e sorprendente collegamento tra ragionamento probatorio ed ermeneutica giuridica in senso stretto: la Suprema Corte è giudice ultimo tanto delle leggi giuridiche quanto delle leggi di strutturazione, organizzazione e funzionamento del mondo (LSOFM); e svolge un sindacato di legittimità pieno e penetrante tanto sulle prime quanto sulle seconde.

In conclusione sembra pertanto, come ho già avuto modo di rimarcare in altra occasione, che si possa contare ancora oggi su di un sistema complessivamente coerente e garantista, che ben armonizza il diritto dei litiganti ad un effettivo controllo del giudizio di fatto, anche in sede di legittimità, con i compiti della “nuova” Corte di cassazione [87], la quale non solo può, ma deve riesaminare la plausibilità delle LSOFM selezionate dal giudice di merito, come la correttezza della loro interpretazione e applicazione al caso concreto; anche perché, come abbiamo appena visto, spetta alla stessa Corte dire l’ultima parola, in quanto organo di vertice della giurisdizione esercitata in nome del popolo italiano, circa l’attendibilità di una determinata LSOFM all’interno della comunità di cui facciamo parte.


NOTE

[1] Cfr. M. Taruffo, Verso la decisione giusta, Torino, 2020, passim; S. Patti, Le prove, in Trattato di Diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2021, 299 ss.

[2] Per il presente lavoro mi sono avvalso di idee e di considerazioni che ho espresso in miei precedenti studi sull’argomento: R. Poli, La valutazione delle prove: tra cognitivismo ed ermeneutica, in Riv. dir. proc., 2022, 881 ss.; Id., La ricostruzione dei fatti nel ragionamento giudiziale, in Studi in memoria di Giuseppe Terranova, in corso di pubblicazione.

[3] Tra le più recenti ed eloquenti in proposito, v. Cass., 2 febbraio 2022, n. 3119, ove i seguenti cinque principi di diritto affermati dalla Corte che definiscono nel dettaglio la disciplina nella materia in esame: a) La valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione se non per il vizio, nel caso in esame neppure invocato come tale, consistito, come stabilito dall’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, nell’avere del tutto omesso, in sede di accertamento della fattispecie concreta, l’esame di uno o più fatti storici, principali o secondari, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbiano costituito oggetto di discussione tra le parti e abbiano carattere decisivo, vale a dire che, se esaminati, avrebbero determinato un esito diverso della controversia. b) La valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti. c) Il compito della Corte non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudici di merito, anche se il ricorrente prospetta un migliore e più appagante (ma pur sempre soggettivo) coordinamento dei dati fattuali acquisiti in giudizio, dovendo, invece, solo controllare, a norma dell’art. 132 cod. proc. civ., n. 4, e dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 4, se costoro abbiano dato effettivamente conto delle ragioni in fatto della loro decisione e se la motivazione al riguardo fornita sia solo apparente ovvero perplessa o contraddittoria (ma non più se sia sufficiente), e cioè, in definitiva, se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto, com’è in effetti accaduto nel caso in esame, nei limiti del ragionevole e del plausibile. d) La violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ., del resto, si configura solo nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma: non anche quando, come invece pretende il ricorrente, la censura abbia avuto ad oggetto la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, lì dove ha ritenuto (in ipotesi erroneamente) assolto (o non assolto) tale onere ad opera della parte che ne era gravata in forza della predetta norma, che è sindacabile, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti previsti dall’art. 360 cod. proc. civ., n. 5. e) L’apprezzamento delle prove svolta dalla corte d’appello si sottrae alle censure svolte dal ricorrente anche sotto il profilo della violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., deducibile in cassazione, a norma dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 4, solo se ed in quanto si alleghi, rispettivamente, che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, o contraddicendola espressamente, e cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, e cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio, ovvero che il giudice, nel valutare una prova ovvero una risultanza probatoria, o non abbia operato, pur in assenza di una diversa indicazione normativa, secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), o che abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento laddove la prova era soggetta ad una specifica regola di valutazione: resta, dunque, fermo che tali violazioni non possono essere ravvisate, come invece il ricorrente pretende, nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre. V. altresì, sostanzialmente negli stessi termini, Cass., 25 marzo 2022, n. 9786; Cass., 2 marzo 2022, n. 6799; Cass., 24 febbraio 2022, n. 6103; Cass., 14 febbraio 2022, n. 4727.

[4] Sulla differenza tra enunciato e proposizione, nel testo utilizzati come sinonimi, v. P. Garbolino, Probabilità e logica della prova, Milano, 2014, 20 ss.

[5] Sugli elementi oggettivi e soggettivi del ragionamento probatorio rinvio a R. Poli, Gli elementi strutturali del ragionamento presuntivo, in Il ragionamento presuntivo, a cura di S. Patti, R. Poli, Torino, 2022, p. 26 ss. Per un ampio quadro d’insieme del ragionamento probatorio, di recente, F. Schauer, The Proof. Uses of Evidence in Law, Politics, and Everything Else, London, 2022; J. Ferrer Beltran, Prueba sin convicción, Madrid, 2021. In generale sul ragionamento umano, v. ora D. Kahneman, O, Sibony, C. R. Sunstein, Rumore, Milano, 2021.

[6] Cfr. R. Audi, Epistemologia. Un’introduzione alla teoria della conoscenza, Macerata, 2016, 39 ss.

[7] Cfr. R. Audi, op. cit., 27-28.

[8] Cfr. R. Audi, op. cit., 41-42.

[9] R. Audi, op. cit., 42-43.

[10] R. Audi, op. cit., 42-44.

[11] V., al riguardo, R. Audi, op. cit., 42 ss.

[12] R. Audi, op. cit., 42-44, ove l’Autore ricorda la “lezione generale” che emerge dalle precedenti considerazioni, secondo cui un “modo di base per imparare delle cose riguardo a degli oggetti è quello di scovare delle verità su di essi procedendo in questo modo elementare: riceviamo una prima impressione su di essi discriminandone percettivamente alcune proprietà; formiamo delle credenze oggettuali (e di altro tipo) riguardo ad essi da prospettive diverse e (spesso) formuliamo infine un concetto adeguato di ciò che sono. Dalle proprietà che credo abbia quella luce in lontananza arrivo infine a realizzare che si tratta di una luce di segnalazione che possiede proprio quella proprietà. Questo ci suggerisce, fra l’altro, che vi è almeno un senso in cui la nostra conoscenza delle proprietà (percepibili) è una conoscenza più di base rispetto a quella delle sostanze che le possiedono”.

[13] Così K.R. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica, vol. I: Il realismo e lo scopo della scienza, Milano, 1984, 72.

[14] D. Antiseri, Introduzione alla metodologia della ricerca, Soveria Mannelli, 2005, 29.

[15] G. Boniolo, P. Vidali, Introduzione alla filosofia della scienza, Milano, 2003, 40. Sul punto v., anche per l’accostamento tra osservazione scientifica e percezione quotidiana, P.F. Pieri, La visione e le cose, in “Atque”, n. 4/1991, 11 ss.

[16] Per questa distinzione, riconducibile a C.S. Peirce, v. G. Tuzet, La pratica dei valori. Nodi fra conoscenza e azione, Macerata, 2012, 41 ss.

[17] G. Bateson, Mente e natura, Milano, 1984, 48-49.

[18] V. Cass., 10 maggio 2018, n. 11272.

[19] V. Cass., 31 agosto 2021, n. 23650.

[20] Per questi concetti v. R. Audi, op. cit., 39 ss.

[21] V. retro, in questo stesso paragrafo, nel testo all’altezza delle note 10 e 11.

[22] Così R. Nicoletti, R. Rumiati, I processi cognitivi, Bologna, 2011, 131 ss., spec. 143.

[23] R. Nicoletti, R. Rumiati, op. cit., 143.

[24] R. Nicoletti, R. Rumiati, op. cit., 145.

[25] R. Nicoletti, R. Rumiati, op. cit., 131.

[26] R. Nicoletti, R. Rumiati, op. cit., 132.

[27] Così R. Nicoletti, R. Rumiati, op. cit., 146.

[28] R. Nicoletti, R. Rumiati, op. cit., 151.

[29] R. Nicoletti, R. Rumiati, op. cit., 143.

[30] Sui concetti v. E. Lalumera, Cosa sono i concetti?, Roma-Bari, 2009.

[31] Per questo esempio, v. R. Nicoletti, R. Rumiati, op. cit., 152.

[32] In questi termini U. Manzo, Le decisioni giuridiche: dalla ragione all’emozione, in AA.VV., Ragioni ed emozioni nella decisione giudiziale, a cura di M. Manzin, F. Puppo, S. Tomasi, in Studies on Argumentation & Legal Philosophy/4, Quaderni della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, Trento, 2021, 261 ss., spec. 262-263. Sui rapporti tra pensiero e decisione, ed in particolare sul ruolo delle emozioni, v. in particolare A. Forza, La psicologia nel processo penale, Milano, 2018, 301 ss., ove si osserva, con dovizia di dati, come “le decisioni dei giudici sono spesso influenzate da fattori indipendenti dall’esercizio della razionalità”, giacché “operano di fatto processi automatici, innescati dall’ambiente, dalle situazioni personali e sociali nelle quali siamo immersi” (si parla, al riguardo, di disrazionalità); nonché 331 ss., per il rilievo secondo cui sono le emozioni stesse a svolgere il compito primario di vera e propria guida cognitiva. Gli studi di psicologia evoluzionistica hanno fatto comprendere che le emozioni operano come da innesco quando si tratta di qualificare le situazioni nuove che ci si presentano di volta in volta; ed in particolare ci consentono di classificare le cose, gli individui, gli esseri animati e gli eventi nei quali ci imbattiamo ed attribuiamo agli stessi un significato – anche positivo o negativo, buono o cattivo –, sulla base di precedenti esperienze (A. Forza, op. cit., 338). A questo proposito viene in evidenza la c.d. euristica affettiva, giusta la quale i giudizi e le decisioni sono condizionati dalla cifra affettiva che viene associata al presentarsi dello stimolo (cfr. A. Forza, op. cit., 361 ss.). V. altresì A. Forza, G. Menegon, R. Rumiati, Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozione, Bologna, 2017, 21 ss. e passim.

[33] A questo proposito occorre ricordare che i termini “prova” e “provare” presentano diverse accezioni. Per quanto qui interessa, “provare” vuol dire sia (i) sperimentare, fare esperienza di qualcosa, sia (ii) presentare [nel duplice senso, distinto, di “avere, possedere, disporre di” e di “offrire, mostrare alla vista, alla conoscenza d’altri”] elementi di convincimento in ordine alla esistenza di qualcosa, come: a) alla verità delle allegazioni delle parti sui fatti controversi; b) alla realtà, alla esistenza dei fatti passati e controversi. Pertanto, mentre i fatti passati non possono essere oggetto di prova nel primo senso, possono esserlo nel secondo, nel quale le “prove” rappresentano le fonti da cui trarre elementi di convincimento. In proposito, cfr. A. Incampo, Metafisica del processo, Bari, 2016, 176 ss., secondo il quale “a rigore non si provano i fatti, bensì i giudizi sui fatti”. Al riguardo preferisco dire che si motivano i giudizi sulla base delle prove (nel secondo senso indicato) dei fatti.

[34] Quando si verifica un passaggio categoriale – dalla rappresentazione mentale determinata da uno stimolo visivo diretto alla comunicazione proposizionale ad altri di quella rappresentazione mentale: si pensi, ad es., ad una foto, prima vista e poi descritta ad altri – si perde l’essenza dell’informazione probatoria. Nel passaggio dalla visione diretta di un’immagine al piano proposizionale, colui che percepisce solo quest’ultimo non accede al valore intrinseco della fonte di prova (anche nella prova testimoniale si passa dalla percezione diretta di un fatto alla sua descrizione/comunicazione in termini proposizionali). Se invece si passa da un piano proposizionale ad un altro piano proposizionale (il comunicante percepisce una descrizione, che a sua volta descrive, comunica ad altri), il trasferimento dell’informazione è probabilmente meno difettoso, anche se ciascuna descrizione, nella misura in cui aumenti di complessità, rischia una maggiore perdita di contenuti specifici rispetto alla rappresentazione mentale originaria.

[35] Scrive G. Carlizzi, Morfologia della prova giudiziaria nell’ordinamento italiano, in Intorno al ragionamento giuridico, a cura di A. Carratta, M. De Caro, G. Pino, Roma, 2022, 72-73, che “le prove empiriche si basano sull’idea, maturata riflettendo sull’esperienza, che tra fatti di un certo tipo e fatti di un altro tipo esiste una correlazione non casuale, bensì causale, con la conseguenza che, quando si ignora se i primi siano accaduti e si sa che i secondi sono accaduti, tale conoscenza può consentire di confermare che anche i primi lo sono. […] poggiano tutte su criteri probatori, ossia su proposizioni affermanti che, quando accadono certi fatti, necessariamente o probabilmente altri ne sono accaduti prima o ne accadranno dopo. Più in particolare, essi sono stabiliti riflettendo sulle esperienze comuni, cioè rilevando che, poiché in passato certi fatti si sono accompagnati sempre o con una certa frequenza ad altri fatti e vi sono ragioni per ritenere che tale correlazione costituisca una regolarità, essa deve valere anche in futuri casi simili”.

[36] L’esempio in discorso è intenzionalmente semplificato, nel senso che è evidente che ai fini della prova della consapevolezza della dannosità del fumo in Italia in un determinato periodo storico sarà necessario produrre un gran numero di notizie di stampa, e non già un solo articolo di giornale: v. App. Milano, 13 aprile 2016, n. 1432, inedita. Tuttavia, anche in questa forma semplificata, l’esempio riportato nel testo consente di comprendere l’attività ermeneutica svolta dal giudice in sede di valutazione degli elementi di prova.

[37] Cfr. in tali termini, sia pure con riguardo all’attività ermeneutica che caratterizza il ragionamento giuridico in generale, B. Pastore, F. Viola, G. Zaccaria, Le ragioni del diritto, Bologna, 2017, 235-236, ove si aggiunge che l’attività interpretativa costruisce infatti congiuntamente, per tentativi successivi, la reciproca corrispondenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta (tra legge generale sulla determinazione della consapevolezza ed articolo di giornale, nel mio esempio). La scelta, tramite riflessione e argomentazione, tra le diverse possibilità interpretative non dipende soltanto da una pre-valutazione relativa all’adeguatezza del metodo a fornire una soluzione appropriata; essa non può dirsi libera da vincoli contestuali, poiché sono all’opera vincoli di natura culturale, linguistica, situazionale, ordinamentale, tutti concorrenti, nell’attività con cui i testi (i segni, nel caso del ragionamento probatorio) sono interpellati, a ridurne ma non ad eliminarne la polisemia. Con riguardo al giudizio di fatto, v. S. Patti, Le prove, cit., 323 ss. In tema, ed in particolare sulla unicità del metodo della indagine e della ricostruzione che caratterizzano ogni tipo di ricerca, scientifica o storica, o l’analisi di una norma giuridica, v. D. Antiseri, Epistemologia ed ermeneutica. Il metodo della scienza dopo Popper e Gadamer, Brescia, 2017. Per i rapporti tra ermeneutica giuridica e ermeneutica filosofica v. D. Canale, La precomprensione dell’interprete è arbitraria?, in Ars interpretandi, 2006, 11, 327 ss.

[38] L’«andare di qua e di là» con lo sguardo dal fatto alla norma e viceversa richiede molteplici occhiate, sicché a ogni nuova occhiata si presenta una fattispecie meglio compresa (attraverso il fatto), ma anche un fatto meglio compreso (attraverso la norma) (così B. Pastore, Costruzioni e ricostruzioni. I fatti nel ragionamento giuridico, in Ars interpretandi, II/2013, 1, 78, con riguardo al ragionamento giuridico).

[39] Anche a questo proposito si può dire quanto si dice a proposito dell’ermeneutica nel ragionamento giuridico in generale. In proposito cfr. B. Pastore, F. Viola, G. Zaccaria, Le ragioni del diritto, cit., 259 ss., ove si afferma che “La ragione pratica è radicalmente ermeneutica e si sviluppa entro un flusso continuo di interpretazioni. In questo esercizio di ragionevolezza pesano non solo le presupposizioni esistenziali, ma anche le circostanze storiche e le «evidenze culturali» in cui l’interprete si trova implicato. Occorre infatti riconoscere che dietro all’interpretazione c’è sempre un fondo inesauribile e non del tutto penetrabile di elementi culturali e di motivazioni personali […]. L’appartenenza dell’interprete alla tradizione e al linguaggio, che non sono elementi immobili del passato, ma fattori che vivono, crescono e si trasformano all’interno di comunità vitali in continuo atto di farsi, fa sì che nel comprendere un testo, un enunciato linguistico, un fatto concreto che emergono dalla tradizione e in essa si iscrivono, comprendiamo al tempo stesso noi stessi e gli altri. Così ci inseriamo nel vivo di un processo di trasmissione storica, contribuendo a nostra volta a costruire e a arricchire di significati il mondo della vita in quanto mondo comune. Il comprendere altro non è che un progettarsi in vista di un poter essere, di una possibilità della propria esistenza”.

[40] G. Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova, 1964, 101-102 (la prima edizione, come è noto, risale al 1937). Di recente, in analoga prospettiva, v. M. Orlandi, Introduzione alla logica giuridica, Bologna, 2021, 63 ss.

[41] Il giudizio ha: (a) natura intuitiva, perché l’intuizione è alla base di qualunque attività valutativa e decisoria; (b) natura ricostruttiva, perché all’intuizione deve seguire l’attenta, razionale interpretazione, comprensione e ponderazione di tutte le tracce di passatità, di tutti gli argomenti pro e contra l’ipotesi di partenza, sì da consentire al giudice di apporre via via, col maturare delle relative credenze, le singole voci del cruciverba, le varie tessere del mosaico, il quale alla fine mostrerà il disegno della storia, dell’esperienza che fu, della vicenda passata, unitariamente e complessivamente considerata (cfr. B. Pastore, Giudizio, prova, ragion pratica, Milano, 1996, 153: “L’argomentazione probatoria riempie la rappresentazione, rendendo possibile la produzione di discorsi dotati di asseribilità garantita. In tal modo si ri-costruisce la «realtà»”); (c) natura costitutiva, e non dichiarativa, perché costituisce attraverso una complessa attività ermeneutica il ‘fatto’ accertato nel processo e secondo le regole e le procedure processuali: questo ‘fatto’, ricostruito nel processo, è altro rispetto al fatto del mondo reale esterno ed è qualcosa che non esiste prima della decisione del giudice, ove si rinvengono solo le contrapposte (totalmente o parzialmente) allegazioni delle parti e le relative istanze istruttorie (B. Pastore, op. ult. cit., 221: le parti, “propriamente, non presentano fatti, ma enunciano ipotesi tra le quali il giudice dovrà scegliere”).

[42] Il giudice non inventa né tantomeno crea il fatto, ma, valutando tracce ed ipotesi del passato ricostruisce, ritaglia ed infine sceglie una rappresentazione dell’esperienza di vita, fra le tante possibili, ed esattamente quella che ritiene possa spiegare meglio e che appare più pertinente con l’insieme dei dati probatori a sua disposizione, alla luce delle conoscenze di sfondo della comunità di riferimento (Cfr. B. Pastore, op. ult. cit., 146, ove si osserva che l’indagine processuale “vede come momenti costitutivi la posizione di un problema, la formulazione di ipotesi di soluzione, l’attività esperita per il loro controllo, la decisione che risolve il problema, eliminando l’incertezza, e che richiede la scelta dell’ipotesi che risulta giustificata in base alla sua congruenza con le prove assunte”; nonché ivi, pp. 221 e 253 ss.; v. anche M. Taruffo, Certezza e probabilità nelle presunzioni, in Foro it., 1974, V, 83 ss., spec. 98, nota 58: “Il giudizio finisce allora col consistere nella scelta della ipotesi che risulta corredata da un grado comparativamente maggiore di probabilità, e che appare dunque più attendibile”).

[43] Sui plurimi elementi soggettivi ed oggettivi che operano simultaneamente nel giudizio di fatto rinvio di nuovo a R. Poli, Gli elementi strutturali, cit., 26 ss. Peraltro, richiamando il pensiero di Quine e la sua concezione olistica della conoscenza, occorre ricordare che l’unità minima di significanza empirica è sempre l’intera rete delle nostre credenze nella sua globalità (cfr. E. Castellani, M. Morganti, La filosofia della scienza, Bologna, 2019, 114), per cui la modifica di anche una sola delle credenze che entrano in gioco nell’accertamento di un determinato fatto potrebbe ripercuotersi istantaneamente sulle altre, in un moto circolare o a rete continua ove diventa praticamente impossibile separare e distinguere tra loro per influenza i vari profili (di capacità cognitive, culturali, assiologici ed emotivi) coinvolti in quella specifica attività cognitiva.

[44] Cfr. R. Nicoletti, R. Rumiati, I processi cognitivi, cit., 131 ss., 231 ss.

[45] Scrive B. Pastore, Giudizio, prova, ragion pratica, cit., 193, richiamando M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, 418, che il “ragionamento probatorio si realizza in una «dinamica combinata» di scoperta e di controllo”. In realtà a me pare che nell’attività del giudice non vi sia spazio per «scoperte», salvo un uso del termine affatto generico: si tratta piuttosto di sistemare adeguatamente e mettere a fuoco progressivamente, attraverso una ripetuta, circolare analisi di raffronto tra ipotetiche leggi generali applicabili ed evidenza disponibile, le varie tessere del mosaico, o del puzzle se si preferisce; vale a dire, fuor di metafora, i vari fatti che unitariamente considerati compongono la ri-costruzione del passato che consente di spiegare meglio l’andamento degli eventi sulla base di quella stessa evidenza. Il giudice non scopre il passato come lo scienziato scopre un nuovo farmaco, oppure una nuova legge fisica o biologica, l’archeologo un sito, lo storico un documento (a meno che per scoprire non intendiamo, metaforicamente, togliere il velo di oscurità posatosi sul passato con il trascorrere del tempo), ma ricostruisce il passato interpretando le sue tracce alla luce della conoscenza di sfondo della comunità di riferimento. V. ancora B. Pastore, op. ult. cit., 253, ove si osserva che il procedimento probatorio consente una ricostruzione che è il risultato di illazioni a partire da quegli elementi raccolti attraverso l’utilizzo e la valutazione dei mezzi di prova. Tali illazioni prendono la forma di inferenze, di varia natura, la cui conclusione costituisce una ipotesi esplicativa, volta a ricostruire la vicenda da giudicare riguardante comportamenti umani individuali puntuali ed irripetibili. Tale ipotesi va confermata sulla base del rapporto di compatibilità che essa intrattiene con il complesso dei materiali probatori raccolti e della sua accettabilità giustificata entro il contesto di vincoli operazionali e teorici rappresentato dai criteri di rilevanza giuridica, dalle garanzie processuali (in primo luogo, il contraddittorio e la pubblicità delle prove), da giudizi di valore implicati nell’in­terpretazione, dalla valutazione degli esiti della decisione.

[46] Per qualche cenno in tal senso v. ora G. Carlizzi, Morfologia della prova giudiziaria nell’ordinamento italiano, cit., 78-79.

[47] In base ad un ragionamento del tipo: quell’impronta digitale significa il passaggio di N, che ha la stessa impronta (cfr. Ferrua, La prova nel processo penale, I. Struttura e procedimento, Torino, 2017, 50). Per un più approfondito discorso al riguardo, rinvio a R. Poli, Gli standard di prova in Italia, in Giur. it., 2018, 2524 e ss.; Id., Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in Cassazione, in AA. VV., Lo statuto del giudice e l’accertamento dei fatti, Atti del XXXII Convegno Nazionale dell’Associazione Italiana fra gli Studiosi del Processo Civile, Bologna, 2020, 373 ss., spec. 415 ss. V. anche S. Patti, Le prove, cit., 827: “le presunzioni semplici suppongono un ragionamento, alla stregua del quale è possibile affermare che il fatto probabilmente è accaduto. In altri termini, chi si serve della presunzione si riferisce alla probabilità per prendere la sua decisione in modo conforme al corso «normale» degli avvenimenti”.

[48] V., in proposito, B. Tassone, Lo standard probatorio del “più probabile che non” e il ragionamento presuntivo, in Il ragionamento presuntivo, cit., 323 ss.

[49] Nel senso che nel contesto giudiziario “non è possibile trasformare la forza del pensiero in dati numerici”, L. Lombardo, La prova giudiziale. Contributo alla teoria del giudizio di fatto nel processo, Milano, 1999, 507.

[50] Su tale criterio, v. R.J. Allen, A. Stein, Evidence, Probability, and Burden of Proof, Arizona Law Review 55, 2013, 558-559.

[51] Con riguardo al processo penale, per il rilievo che il canone Bard va inteso nel senso che è consentita la condanna solo quando sia certa l’esclusione di ipotesi fattuali alternative (rilevando a tal fine il dubbio su ipotesi fattuali alternative a quella accolta nella sentenza, mentre nel processo civile il dubbio sui fatti estintivi, modificativi ed impeditivi non esclude l’accoglimento della domanda), v. R. Poli, Gli standard di prova in Italia, cit., 2536 ss.; in termini analoghi v. già C. Zaza, Il ragionevole dubbio nella logica della prova penale, Milano, 2008, 146-147.

[52] Cfr. M. Cruciani, Il ruolo della conoscenza fattuale nella determinazione del significato, Roma, 2017, 15 ss.; G. Giorgio, La via del comprendere, Torino, 2015, pp. 169 ss.; L. Lombardo, La prova giudiziale, cit., 90 ss.

[53] Cass., 28 ottobre 2020, n. 23737.

[54] Così M. Taruffo, Le prove per induzione, in La prova nel processo civile, a cura di M. Taruffo, Milano 2012, 1107 ss. In giurisprudenza, v., tra le molte, Cass., 28 ottobre 2020, n. 23737; Cass., 21 gennaio 2020, n. 1163; Cass., 15 marzo 2018, n. 6387.

[55] Così L.P. Comoglio, Le prove civili, Milano, 2010, 670 ss.

[56] M. Taruffo, op. ult. cit., 1107.

[57] Cass., 28 ottobre 2020, n. 23737; Cass., 3 ottobre 2019, n. 24744; Cass., 6 dicembre 2018, n. 31233.

[58] Così L. Lombardo, La prova giudiziale, cit., 512.

[59] Cass., 28 ottobre 2020, n. 23737.

[60] L. Lombardo, La prova giudiziale, cit., 512-513.

[61] M. Taruffo, la prova dei fatti giuridici, cit., 449. In giurisprudenza, v. Cass., 29 gennaio 2019, n. 2482, ove si osserva che, in presenza di una serie di fatti che si palesavano obbiettivamente connotati dai requisiti della gravità e della precisione, i quali non erano minimamente contrastati da elementi di segno contrario, si rendeva superflua la necessità di fare anche menzione del requisito della concordanza, la quale emergeva in maniera obbiettiva.

[62] Cfr. C. Pagliari, Gravità, precisione e concordanza nella prova per presunzioni ex art. 2729 c.c., in Riv. dir. proc., 2021, 756 ss.

[63] R. Poli, Gli standard di prova in Italia, cit., 2533.

[64] Cfr. B. Pastore, F. Viola, G. Zaccaria, Le ragioni del diritto, cit., 237, nonché 261-266.

[65] In proposito, per una recente sintesi, v. C. Pagliari, Gravità, cit., 756 ss.

[66] Cfr. R. Poli, “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno, in Judicium, n. 2/2021, 115 ss.

[67] V. retro, § 1.

[68] V. retro, § 1.

[69] Tra le molte, v. Cass., 15 giugno 2022, n. 19329; Cass., 7 giugno 2022, n. 18254; Cass., 15 febbraio 2022, n. 4808; Cass., 3 febbraio 2022, n. 3295; Cass., 27 gennaio 2022, n. 2474; Cass., 4 dicembre 2020, n. 27821.

[70] Cass., 3 maggio 2022, n. 13918; Cass., 15 febbraio 2022, n. 4808; Cass., 20 maggio 2021, n. 13862.

[71] Al riguardo v. l’importante Cass., 3 maggio 2022, n. 13918, in consapevole contrasto con la restrittiva Cass., 3 novembre 2020, n. 24395; v. altresì Cass., 7 giugno 2022, n. 18326; Cass., 19 maggio 2022, n. 16190; Cass., 24 marzo 2022, n. 9673; Cass., 6 dicembre 2021, n. 38499; Cass., 18 agosto 2021, n. 23079; Cass., 10 giugno 2021, n. 16382.

[72] Cass., sez. un., 7 aprile 2014, nn. 8053-8054.

[73] V. le pronunce richiamate retro, all’interno della nota 31.

[74] Cass., 5 luglio 2017, n. 16502, in Riv. dir. proc., 2018, 889 ss., con nota di L. Ruggiero, La Cassazione riapre al sindacato sul vizio logico di motivazione, i cui principi sono poi stati ripresi, sia pure talvolta a contario, nelle motivazioni di Cass., 6 luglio 2020, n. 13872; Cass., 11 febbraio 2020, n. 3298; Cass., 24 gennaio 2020, n. 1688; Cass., 17 dicembre 2019, n. 33444; Cass., 18 luglio 2019, n. 19449; Cass., 19 giugno 2019, n. 16443; Cass., sez. un., 28 marzo 2019, n. 8675; Cass., 7 dicembre 2018, n. 31765; Cass., 8 ottobre 2018, n. 24743; Cass., 27 luglio 2018, n. 20010; Cass., 20 aprile 2018, n. 9906; Cass., 25 gennaio 2018, n. 1854. V. anche Cass., 9 febbraio 2021, n. 3128.

[75] Si può dire che nel primo caso – elementi di prova oggettivi e controllabili direttamente – la premessa minore del c.d. sillogismo probatorio è percepita direttamente, perché l’elemento di prova si presenta come ostensione, nel secondo caso – elementi di prova non controllabili direttamente – la stessa premessa minore è percepita attraverso la sua rappresentazione linguistica, perché l’elemento di prova si presenta come oggetto di un enunciato descrittivo (sulla prova come oggetto di ostensione v. G. Tuzet, Filosofia della prova giuridica, III ed., Torino, 2022, 143-144).

[76] G. Calogero, La logica del giudice, cit., 290, 292, nonché 295, ove si aggiunge: “L’incongruenza della ricostruzione probatoria del fatto può invero manifestarsi già nell’esame del primo documento [la sentenza, n.d.r.], o risultare solo da quello di documenti ulteriori, o addirittura restare incerta anche dopo l’esame di tutti i documenti processuali, in quanto ultimamente fondata sulla diretta esperienza soggettiva del giudice di merito”.

[77] Cfr. F.M. Iacoviello, La Cassazione penale, Milano, 2013, 63.

[78] G. Calogero, La logica del giudice, cit., 290.

[79] Cfr. R. Poli, Logica del giudizio di fatto, cit., 441 ss.

[80] E così in effetti opera la nostra Suprema Corte, anche penale: cfr. F.M. Iacoviello, op. cit., 64 ss., e, in particolare, l’im­portante contributo contenuto nei capitoli 7 e 8, che a mio avviso rappresentano il più onesto e trasparente discorso sul funzionamento della Corte di cassazione, espresso peraltro da chi, oltre ad avere una profonda conoscenza teorica degli istituti qui coinvolti, la Suprema Corte la conosce davvero bene dal suo interno (ad es., ivi, 423: “per vedere se una motivazione è logica, occorre valutare il peso e la fondatezza degli argomenti usati”; ivi, 446: “il giudizio di logicità dell’ipotesi combacia perfettamente col giudizio sul merito della ipotesi. Possiamo aggirare le parole per paura di incontrarle. Ma alla fine le incontriamo. Logicità e merito coincidono”; ivi, 442: “Cosa sia fatto e cosa sia diritto lo decide la Cassazione”; ivi, 451: “La Cassazione – come al solito – schiva le definizioni precise, risolve i contrasti con formule ambigue. Così non mette ipoteche sul futuro e si lascia le mani libere. La ‘plausibile opinabilità di apprezzamento’ autorizza una valutazione caso per caso. Se la Cassazione trova plausibile l’argomento della sentenza, quell’argo­mento è merito. Se lo trova implausibile, quell’argomento è legittimità”. V. altresì E. Amodio, Persuasività dell’argomentazione giudiziale e limiti del controllo di legittimità, in AA.VV., L’argomentazione giudiziale e il suo controllo in Cassazione, Roma, 2012, 21 ss., spec. 30, ove il rilievo per cui l’“illogicità del giudizio di fatto censurabile ed effettivamente censurata dalla cassazione non ha un carattere formale, ma si incentra sulla persuasività del discorso del giudice”; ancora più chiaramente P. Ferrua, L’argo­men­tazione nel processo penale: paralogismi e fallacie, ivi, 60, ove si afferma che la Corte verifica la correttezza del tragitto dalle premesse probatorie alla proposizione da provare e, attraverso tale verifica “che implica un sindacato sulle massime d’esperienza e leggi scientifiche utilizzate dal giudice, entra a vele spiegate nel merito della ricostruzione dei fatti. Il tentativo di negare che attraverso il controllo sulla motivazione la Cassazione sia anche giudice di come è stato ricostruito il fatto si risolve in una sfida impossibile, votata all’insuccesso”.

[81] Al riguardo non pare risolutivo riconoscere il vizio sindacabile in Cassazione solo nei casi di “manifesta illogicità del ragionamento” o di “manifesta incoerenza o illogicità o implausibilità del giudizio di fatto” (così, rispettivamente, L. Lombardo, Il metodo del “prudente apprezzamento” nella valutazione degli indizi, in Il ragionamento presuntivo, cit., 102 ss., spec. 115-116; F. De Stefano, Coerenza e plausibilità del ragionamento presuntivo, ivi, p. 369 ss., spec. 393), sia perché non appare accettabile ritenere legittimo un ragionamento e/o una motivazione illogiche e/o implausibili e/o incoerenti (sia pure non manifestamente), sia, soprattutto, perché il criterio qui criticato, se da un lato autorizza una valutazione caso per caso (v. supra, all’interno della nota 45) – e ciò basterebbe a sconsigliarne l’adozione – dall’altro si presta ad evidenti disparità di trattamento, perché ciò che per un giudice è manifestamente illogico per un altro può essere semplicemente illogico, visto che non si dispone di alcun criterio per stabilire quando la implausibilità/incorenza/illogicità possono essere definite «manifeste».

[82] Di recente v. M. Orlandi, Introduzione alla logica giuridica, cit., 63 ss.

[83] Cfr. J.A. García Amado, Elementos para el análisis de la prueba y del razonamiento probatorio en derecho, in Id., La prueba judicial: sus reglas y argumentos, Sucre, 2019, 98 ss., nonché 108, ove di parla del carattere normativo e costitutivo della dichiarazione “Está probado H”.

[84] Sul punto rinvio a R. Poli, Gli elementi strutturali del ragionamento presuntivo, cit., 61 ss.

[85] V. ora, ad es., a proposito della sindrome da alienazione parentale (PAS), Cass., 24 marzo 2022, n. 9691.

[86] V. retro, nel testo, all’altezza della nota 47 e nella nota stessa.

[87] V. con grande chiarezza F.M. Iacoviello, op. cit., 46 ss., 457 ss.