L'Autore – valorizzando la componente “ludica” del processo – esamina i fenomeni, tra loro inscindibilmente connessi, che oggigiorno minacciano il principio della limitatezza dell’orizzonte cognitivo del giudice. In primo luogo, lo sviluppo dei sistemi informatici moltiplica esponenzialmente la circolazione di una smisurata quantità di informazioni, che divengono così più facilmente accessibili. In secondo luogo, si assiste al c.d. impoverimento del diritto delle prove, a favore della più affidabile prova scientifica (o consulenza tecnica), la quale ha largamente sostituito i poteri istruttorii e decisionali del giudice. Un procedimento – quello di “erosione” della discrezionalità del giudice – che, seppur volto alla ricerca della “verità” in sede processuale, non deve, per ciò stesso, essere visto con favore.
The author underlines how nowadays the judge has no longer a limited cognitive horizon: indeed, the development of informatic systems enhances the knowledge, available to everyone, even during a trial. Furthermore, the law of evidence is gradually fading, while the scientific evidence is replacing the role of the judge: nevertheless, this trend is not necessarily virtuous, since it decreases the importance of the judge during each trial.
1. Premessa - 2. L’orizzonte cognitivo del giudice - 3. Il sovraccarico informativo - 4. L’impoverimento del diritto delle prove - 5. Prova scientifica e consulenza tecnica
Secondo Guglielmo Durante (Speculum Judiciale, Proemium, § 24), il processo ha avuto origine nel Paradiso Terrestre: «iudiciorum ordo et placitandi usus in paradiso videtur exordium habuisse», con lo sfratto dei Progenitori, previo loro interrogatorio formale, con chiamata di correo del Serpente. Ma forse non ci possiamo più permettere di conservare a tempo indefinito questo bizzarro e costoso apparato ludico. E la sua scomparsa, della quale abbondano già oggi i segni premonitori, implicherebbe ovviamente anche quella del «diritto delle prove», che della sua disciplina costituisce parte integrante.
A questo riguardo, si possono configurare almeno due paesaggi, utopici o distopici. Nel primo, i contrasti di interessi e gli attentati alla pacifica convivenza sociale – posto che non siano stati preventivamente eliminati dall’avvento del Pensiero Unico – saranno risolti o sanzionati da una macchina, cioè dalle Intelligenze Artificiali, prescindendo dalla concreta ricostruzione storica dei fatti rilevanti o sostituendola con dati statistici e formule matematiche. Nel secondo, in nome della «giustizia consensuale», ogni conflitto potrà essere composto pacificamente grazie all’intervento di un saggio mediatore – psicoanalista o parroco più che giurista – come tale attento alla persona e all’anima delle parti più che alle loro contrapposte ragioni di fatto e di diritto.
Ciò malinconicamente premesso, mi limiterò qui a considerare alcuni fenomeni involutivi, relativi alla formazione del giudizio di fatto, già in atto nella prassi del nostro processo civile.
Ho definito il processo come un apparato ludico. E in effetti, come forse qualcuno di voi sa, l’accostamento del processo al gioco è una mia antica mania, coltivata da più di quarant’anni. Ora, una tra le caratteristiche proprie del gioco che possono essere attribuite con certezza anche al processo è quella della «separatezza». Il processo, come da sempre lo abbiamo conosciuto, è un «mondo altro», entrando nel quale si lasciano da parte le regole e i comportamenti della vita reale per adottare regole e comportamenti artificiali. Si cambia identità, assumendo i ruoli formali delle personae del giudizio; si procede assistiti da guide professionali, che – come i giudici – indossano divise o costumi di scena e parlano un astruso dialetto locale; ci si muove in uno spazio delimitato (il «cerchio sacro» raffigurato sullo scudo di Achille, il recinto di legno di nocciolo dell’iconografia medioevale, le aule dei palazzi di giustizia che talvolta riproducono o simulano assetti concavi «avvolgenti»); si computa diversamente il tempo, facendo retroagire al momento della domanda gli effetti del giudicato e dunque neutralizzando lo Zwischenzeit, peraltro rigorosamente scandito dal calendario dei termini.
A tutto ciò fa (o ha fatto, tradizionalmente) riscontro, per quanto attiene all’accertamento dei fatti controversi, la chiusura, o finitezza, dell’universo cognitivo del giudice, che non è circoscritto solo dai limiti della res in iudicium deducta, ma anche dalla qualità e quantità delle informazioni che possono essere utilizzate per la decisione, che sono soltanto quelle raccolte nei tempi e nei modi previsti, o almeno consentiti, dal regolamento del processo. A differenza dello storico e dello scienziato, il giudice non può andare liberamente per il mondo alla ricerca di tutto quanto possa interessare le sue indagini, ma deve necessariamente contentarsi di «quello che c’è». Come dicevano i maestri medioevali, nella cui produzione – contrariamente a quanto vorrebbero certi tralatizi preconcetti – si trovano i fondamenti insuperati della elaborazione teorica e pratica del diritto delle prove: quod non est in actis non est de hoc mundo. Di «questo» mondo, beninteso, lo small world del processo, che è l’unico in cui il giudice, come tale, possa legittimamente muoversi.
In sintonia con questo antico insegnamento, un quasi dimenticato maestro americano di Evidence, John M. Maguire, definiva giustamente la propria disciplina come un sistema di «principles which impede freedom of proof», e il relativo studio come «a study of calculated and supposedly helpful obstructionism». Ed infatti, se è innegabile – in termini generici, o empirici – che ogni decisione giudiziaria dovrebbe fondarsi su fatti «veri», è altrettanto evidente che qualunque regola normativa, inerente alla formazione del giudizio di fatto, non può che limitare o pregiudicare i risultati di «verità» (quali che ne siano i parametri) perseguibili con una libera indagine storiografica o scientifica.
Né il problema potrebbe risolversi, semplicisticamente, sostituendo quelle regole con l’attribuzione – esplicita o implicita – alle parti e al giudice del potere di fare tutto ciò che ritengono opportuno ai fini del suddetto accertamento (come in sostanza avrebbe voluto Jeremy Bentham con il suo famoso dictum secondo cui «all relevant evidence is admissible»).
Anche in quel caso, la formazione del giudizio di fatto, nel processo, rimarrebbe condizionata, non solo dai principii, etici o economici o politici, che non possono essere sacrificati alla «ricerca della verità» (le c.d. rules of extrinsic policy, come il ripudio della tortura, o la constatazione che l’amministrazione della giustizia non può avere tempi e costi illimitati), ma anche dal regolamento di ogni altro aspetto della disciplina di ciascun processo.
La forma e il contenuto degli atti introduttivi; la partecipazione necessaria o facoltativa degli avvocati; la costituzione dell’organo giudicante (monocratico o collegiale, professionale o laico o misto); l’attribuzione a un medesimo giudice, o a soggetti diversi, del giudizio di fatto e del giudizio di diritto; la forma scritta o orale della trattazione; la scansione del procedimento in fasi consecutive, separate da meccanismi e termini preclusivi; la previsione che la sentenza debba essere pronunciata immediatamente dopo la conclusione dell’attività istruttoria, oppure a distanza di tempo, sulla base di un fascicolo progressivamente riempito di atti e documenti; la presenza o l’assenza di un obbligo di motivare la decisione sul fatto; la disciplina delle impugnazioni della sentenza, anche per motivi di fatto o solo per motivi di diritto e/o di rito: sono tutte regole che condizionano la cognizione giudiziale del fatto, e la rendono specifica rispetto alle indagini dello storico o dello scienziato, non meno di quelle che compongono il «diritto delle prove» in senso stretto.
Ecco: questo principio della limitatezza dell’orizzonte cognitivo del giudice sembra essere ai nostri giorni minacciato da fenomeni di diversa natura, tra loro inevitabilmente connessi. Ne parlo, per ragioni di competenza, relativamente al processo civile, anche se alcune almeno delle medesime considerazioni potrebbero rivolgersi anche al processo penale.
Il primo fenomeno, in ordine logico, si può individuare nel «sovraccarico informativo» che sta avvolgendo il pianeta con modalità non meno invasive di quelle del riscaldamento globale.
L’informatica moltiplica esponenzialmente la circolazione di una smisurata quantità di informazioni facilmente accessibili, anche casualmente, per chiunque. Pensiamo alle informazioni, anche di carattere privato, reperibili nei «siti» di persone fisiche, enti e aziende; alle caratteristiche tecniche e al valore di mercato di prodotti e servizi; alle risultanze di registri pubblici (anagrafici, immobiliari, delle imprese, etc.), un tempo solo laboriosamente reperibili, ed oggi alla portata di una rapida visura telematica; alla collocazione topografica e all’aspetto di strade e fabbricati; a fatti di cronaca remoti e recenti; a dati storici, culturali, scientifici, statistici, economici di ogni genere, ciascuno dei quali virtualmente idoneo a fungere da factum probans rilevante per la decisione di una controversia.
Si potrà discutere, e si discute, se e come tutto ciò – salva la verifica, talvolta problematica, dell’attendibilità delle fonti – possa rientrare nell’ambito di quel notorio, o di quelle regole di esperienza, dei quali il giudice può tenere conto senza bisogno di prove; o più in generale di quella evidentia rei con la quale la decisione sul fatto non può porsi in contrasto senza perdere credibilità (o addirittura, secondo i dottori medioevali, l’attitudine stessa al giudicato). Ma, in ogni caso, ci si potrà chiedere se abbia ancora senso costringere il giudice a muoversi esclusivamente nello small world dei suoi fascicoli, ignorando – poiché non sono, o finché non siano, in actis – quelle fonti di conoscenza virtualmente illimitata, con le quali si trova inevitabilmente in contatto. Potrebbe trattarsi, d’altra parte, di un aspetto particolare o collaterale di quella che è stata definita la «despazializzazione della giustizia». Come lo «spazio giudiziario» in senso fisico (e simbolico) si dissolve nella digitalizzazione del processo e nelle c.d. udienze «da remoto», e i nostri palazzi di giustizia rischiano di trasformarsi in «siti» dei quali sarà impossibile e inutile cercare (come lo sciagurato protagonista del romanzo di Kafka) la localizzazione in questo o quel quartiere della città, così potranno svanire anche i confini dell’orizzonte cognitivo del giudice.
Un secondo fenomeno potrebbe definirsi come il progressivo impoverimento del diritto delle prove. A questo riguardo, si potrebbero ricordare prima di tutto i grandi trattati De probationibus o De praesumptionibus del cd. Medioevo del diritto (pensiamo per esempio alle monumentali summae tardocinquecentesche di Mascardo e di Menochio), dove la elaborazione ampiamente creativa, da parte dei «dottori» più autorevoli, di sparsi frammenti della compilazione giustinianea, del Corpus iuris canonici e delle Sacre Scritture costituiva allo stesso tempo la fonte normativa e la dottrina della formazione del giudizio di fatto, dando vita non a quel monstrum che è l’immaginario «sistema della prova legale» di cui parlano solitamente, con disarmante superficialità, gli studiosi del processo civile; bensì a repertori inesauribili di sapienza analitica e casistica.
Al confronto, le sezioni dei moderni codici di procedura dedicati all’istruzione probatoria sono ben povera e rustica cosa, e lo sono diventate sempre più nel corso del tempo. Mi è accaduto per esempio di ricordare, in altra sede, che gli articoli dedicati alla prova testimoniale, cumulativamente, dal codice civile e dal codice di procedura civile oggi vigenti sono in tutto diciannove, mentre erano trentuno in quelli del 1865 e cinquantuno in quelli napoleonici.
Mentre la dottrina, dal canto suo, non solo non si oppone a questo trend discendente, ma lo approva e lo asseconda. Basti dire che un grande e rinomato studioso della materia come il compianto Michele Taruffo non esitava, in uno dei suoi ultimi libri, a deprecare che malgrado il «chiaro fondamento epistemico» del ricordato principio benthamiano secondo il quale all relevant evidence is admissible, molti ordinamenti processuali «non ne hanno fatto un’applicazione rigorosa ed hanno invece introdotto discipline giuridiche delle prove spesso assai complesse ed articolate in numerose previsioni normative». In sostanza, dunque, il voler conservare una disciplina, quale che essa sia, dell’istruzione probatoria costituisce, per il legislatore del processo, una grave colpa (!), e identica censura meritano gli studiosi che condividono questo retrivo programma.
Un terzo fenomeno consiste nella inarrestabile proliferazione della c.d. prova scientifica: espressione che, come si sa, non designa un certo tipo di thema probandum, né una certa fonte o un certo mezzo di prova (eventualmente «atipico»), bensì si riferisce, empiricamente, al sempre più diffuso impiego, sia nella raccolta che nella valutazione del materiale istruttorio, di nozioni e metodi cognitivi estranei, oltre che al sapere professionale del giudice, anche alla comune esperienza e alla cultura media della collettività alla quale il giudice appartiene, e nel cui nome dovrà pronunciare la sua decisione.
Beninteso: che il giudice, per comprendere nei suoi aspetti rilevanti il contenuto della controversia o del «caso» che gli sono affidati, e per pronunciarvisi razionalmente, possa avere bisogno dell’aiuto di un esperto di scienze, tecniche o arti diverse dal diritto, è sempre accaduto da che esiste il processo, e le leggi processuali ne hanno sempre allestito una disciplina, coerente con i principii regolatori dell’istruzione probatoria in ciascun ordinamento storico.
Ai nostri giorni si assiste però a un rovesciamento di prospettiva: nel senso che l’apporto scientifico o tecnologico dell’esperto – che da noi ha abitualmente la veste del consulente tecnico d’ufficio – ha una funzione che non è più integrativa, bensì largamente sostitutiva dei poteri istruttorii e decisionali del giudice.
Si potrebbe dire, metaforicamente, che un tempo l’esperto entrava nel «recinto» del processo per illustrare al giudice le nozioni e le regole della propria scienza, tecnica o arte, pertinenti al caso in esame, o ne usciva con lui per assisterlo e coadiuvarlo nell’esame di elementi della realtà extra-processuale (o tutt’al più lo sostituiva in quell’esame per poi sottoporgliene l’esito in forma documentale). Oggi, ricevuti i quesiti, il consulente «si porta via» il processo, o una sua componente essenziale, per gestirli autonomamente. Con il che la consulenza tecnica si trasforma, da singolo mezzo istruttorio, in un intero «procedimento di istruzione probatoria» (secondo la felice intitolazione di una monografia di Ferruccio Auletta) capace di contenere – in forma semplificata – anche gli altri mezzi di prova, che appaiano di volta in volta utili: l’esame di luoghi e cose, la raccolta di informazioni dalle parti, o da terzi che però non hanno lo status processuale di testimoni, l’acquisizione di documentazione anche diversa da quella già prodotta o esibita in giudizio.
D’altra parte, il consulente, non essendo un giurista e non avendo pertanto, nei confronti dei limiti e degli «ostruzionismi» proprii del contesto processuale dell’indagine, la stessa istintiva attenzione dei giudici e degli avvocati, ritiene – ragionevolmente, dal suo punto di vista – di poter acquisire da qualsiasi fonte tutte le informazioni utili per rispondere ai quesiti assegnatigli.
Il rapporto che così si istituisce tra il giudice e l’esperto, insomma, non è più di collaborazione ma, potremmo dire, di outsourcing, con la correlativa «de-localizzazione» (un’altra forma di «despazializzazione della giustizia») dell’accertamento dei fatti: dal separato «mondo altro» del processo al mondo «reale», o a qualche sua provincia scientificamente più «progredita», dove non vigono le medesime regole restrittive.
Ma la stessa metamorfosi investe anche la decisione della quaestio facti se – come spesso avviene – il giudice si limita a ricalcarne il contenuto sulle conclusioni della relazione peritale.
Si realizzano dunque in questo modo, la coesistenza, nel nostro ordinamento processuale, di due modelli di istruzione probatoria e la sovrapposizione di due modelli di «verità». Da un lato, quella che deve essere «detta» interamente, e non «nascosta», dal testimone ai sensi dell’art. 251 c.p.c., o ricavata dalla lettura e dall’interpretazione dei documenti prodotti dalle parti, che è una verità probabile, o pratica, inevitabilmente approssimativa, soggetta al filtro del «prudente apprezzamento» del giudice; dall’altro, quella oggettiva e necessaria, «esatta» o quanto meno sperimentale, che il consulente tecnico si impegna, con il giuramento previsto dall’art. 193 c.p.c., a far conoscere al giudice: il quale – benché tradizionalmente definito peritus peritorum – non deve, di fatto, apprezzarla, bensì prenderla «così com’è».
Un esito di questa involuzione è dunque il rischio, ben presente agli operatori pratici del processo, che la prova scientifica, acquisita mediante la consulenza tecnica, un tempo e talvolta ancora oggi acclamata come la più nitida e coerente manifestazione del trionfo dei metodi empirici e razionali di «accertamento della verità», si risolva in realtà in una sorta di esperimento ordalico nel quale il responso dello scienziato prende il posto dell’intervento divino che un tempo avviava alla salvezza o alla perdizione l’accusato sottoposto alla prova dell’acqua o del fuoco: condividendone, peraltro, solo la imperscrutabilità, non anche l’infallibilità.
Ora, anche un impenitente «verifobico» e laudator temporis acti non può spingersi fino a sperare che qualcuna delle prossime riforme del processo proibisca la prova scientifica, come fu sostanzialmente proibita l’ordalia nel 1215 dal Concilio Laterano IV. Può dire però che il processo – quanto all’accertamento dei fatti – non è e non può essere l’applicazione pedissequa di regole e prassi gnoseologiche provenienti «dalla scienza», né un giudizio universale dinanzi a un Giudice onnisciente, ma è una costruzione artificiale, affidata alla responsabilità di un giudice terreno (chiamato a giudicare «in nome del popolo»), che ha per oggetto la ricostruzione di una tranche della realtà, delimitata e selezionata da una determinata fattispecie legale, nonché ben circoscritta nel tempo e nello spazio, con un armamentario limitato di strumenti inevitabilmente imperfetti. Pensare che, per andare in cerca della «verità», si possa e si debba cancellare il confine tra questo «mondo altro» e il «mondo reale» è una pericolosa illusione razionalistica o illuministica o scientistica, che non merita di essere incoraggiata.