Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Il tramonto del diritto delle prove (di Bruno Cavallone, Professore emerito di Diritto processuale civile – Università Statale di Milano)


L'Autore – valorizzando la componente “ludica” del processo – esamina i fenomeni, tra loro inscindibilmente connessi, che oggigiorno minacciano il principio della limitatezza dell’orizzonte cognitivo del giudice. In primo luogo, lo sviluppo dei sistemi informatici moltiplica esponenzialmente la circolazione di una smisurata quantità di informazioni, che divengono così più facilmente accessibili. In secondo luogo, si assiste al c.d. impoverimento del diritto delle prove, a favore della più affidabile prova scientifica (o consulenza tecnica), la quale ha largamente sostituito i poteri istruttorii e decisionali del giudice. Un procedimento – quello di “erosione” della discrezionalità del giudice – che, seppur volto alla ricerca della “verità” in sede processuale, non deve, per ciò stesso, essere visto con favore.

The sunset of the law of evidence

The author underlines how nowadays the judge has no longer a limited cognitive horizon: indeed, the development of informatic systems enhances the knowledge, available to everyone, even during a trial. Furthermore, the law of evidence is gradually fading, while the scientific evidence is replacing the role of the judge: nevertheless, this trend is not necessarily virtuous, since it decreases the importance of the judge during each trial.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. L’orizzonte cognitivo del giudice - 3. Il sovraccarico informativo - 4. L’impoverimento del diritto delle prove - 5. Prova scientifica e consulenza tecnica


1. Premessa

Secondo Guglielmo Durante (Speculum Judiciale, Proemium, § 24), il processo ha avuto origine nel Paradiso Terrestre: «iudiciorum ordo et placitandi usus in paradiso videtur exordium habuisse», con lo sfratto dei Progenitori, previo loro interrogatorio formale, con chiamata di correo del Serpente. Ma forse non ci possiamo più permettere di conservare a tempo indefinito questo bizzarro e costoso apparato ludico. E la sua scomparsa, della quale abbondano già oggi i segni premonitori, implicherebbe ovviamente anche quella del «diritto delle prove», che della sua disciplina costituisce parte integrante. A questo riguardo, si possono configurare almeno due paesaggi, utopici o distopici. Nel primo, i contrasti di interessi e gli attentati alla pacifica convivenza sociale – posto che non siano stati preventivamente eliminati dall’avvento del Pensiero Unico – saranno risolti o sanzionati da una macchina, cioè dalle Intelligenze Artificiali, prescindendo dalla concreta ricostruzione storica dei fatti rilevanti o sostituendola con dati statistici e formule matematiche. Nel secondo, in nome della «giustizia consensuale», ogni conflitto potrà essere composto pacificamente grazie all’intervento di un saggio mediatore – psicoanalista o parroco più che giurista – come tale attento alla persona e all’anima delle parti più che alle loro contrapposte ragioni di fatto e di diritto. Ciò malinconicamente premesso, mi limiterò qui a considerare alcuni fenomeni involutivi, relativi alla formazione del giudizio di fatto, già in atto nella prassi del nostro processo civile.


2. L’orizzonte cognitivo del giudice

Ho definito il processo come un apparato ludico. E in effetti, come forse qualcuno di voi sa, l’accostamento del processo al gioco è una mia antica mania, coltivata da più di quarant’anni. Ora, una tra le caratteristiche proprie del gioco che possono essere attribuite con certezza anche al processo è quella della «separatezza». Il processo, come da sempre lo abbiamo conosciuto, è un «mondo altro», entrando nel quale si lasciano da parte le regole e i comportamenti della vita reale per adottare regole e comportamenti artificiali. Si cambia identità, assumendo i ruoli formali delle personae del giudizio; si procede assistiti da guide professionali, che – come i giudici – indossano divise o costumi di scena e parlano un astruso dialetto locale; ci si muove in uno spazio delimitato (il «cerchio sacro» raffigurato sullo scudo di Achille, il recinto di legno di nocciolo dell’iconografia medioevale, le aule dei palazzi di giustizia che talvolta riproducono o simulano assetti concavi «avvolgenti»); si computa diversamente il tempo, facendo retroagire al momento della domanda gli effetti del giudicato e dunque neutralizzando lo Zwischenzeit, peraltro rigorosamente scandito dal calendario dei termini. A tutto ciò fa (o ha fatto, tradizionalmente) riscontro, per quanto attiene all’accertamento dei fatti controversi, la chiusura, o finitezza, dell’universo cognitivo del giudice, che non è circoscritto solo dai limiti della res in iudicium deducta, ma anche dalla qualità e quantità delle informazioni che possono essere utilizzate per la decisione, che sono soltanto quelle raccolte nei tempi e nei modi previsti, o almeno consentiti, dal regolamento del processo. A differenza dello storico e dello scienziato, il giudice non può andare liberamente per il mondo alla ricerca di tutto quanto possa interessare le sue indagini, ma deve necessariamente contentarsi di «quello che c’è». Come dicevano i maestri medioevali, nella cui produzione – contrariamente a quanto vorrebbero certi tralatizi preconcetti – si trovano i fondamenti insuperati della elaborazione teorica e pratica del diritto delle prove: quod non est in actis non est de hoc mundo. Di «questo» mondo, beninteso, lo small world del processo, che è l’unico in cui il giudice, come tale, possa [continua ..]


3. Il sovraccarico informativo

Il primo fenomeno, in ordine logico, si può individuare nel «sovraccarico informativo» che sta avvolgendo il pianeta con modalità non meno invasive di quelle del riscaldamento globale. L’informatica moltiplica esponenzialmente la circolazione di una smisurata quantità di informazioni facilmente accessibili, anche casualmente, per chiunque. Pensiamo alle informazioni, anche di carattere privato, reperibili nei «siti» di persone fisiche, enti e aziende; alle caratteristiche tecniche e al valore di mercato di prodotti e servizi; alle risultanze di registri pubblici (anagrafici, immobiliari, delle imprese, etc.), un tempo solo laboriosamente reperibili, ed oggi alla portata di una rapida visura telematica; alla collocazione topografica e all’aspetto di strade e fabbricati; a fatti di cronaca remoti e recenti; a dati storici, culturali, scientifici, statistici, economici di ogni genere, ciascuno dei quali virtualmente idoneo a fungere da factum probans rilevante per la decisione di una controversia. Si potrà discutere, e si discute, se e come tutto ciò – salva la verifica, talvolta problematica, dell’atten­dibilità delle fonti – possa rientrare nell’ambito di quel notorio, o di quelle regole di esperienza, dei quali il giudice può tenere conto senza bisogno di prove; o più in generale di quella evidentia rei con la quale la decisione sul fatto non può porsi in contrasto senza perdere credibilità (o addirittura, secondo i dottori medioevali, l’attitudine stessa al giudicato). Ma, in ogni caso, ci si potrà chiedere se abbia ancora senso costringere il giudice a muoversi esclusivamente nello small world dei suoi fascicoli, ignorando – poiché non sono, o finché non siano, in actis – quelle fonti di conoscenza virtualmente illimitata, con le quali si trova inevitabilmente in contatto. Potrebbe trattarsi, d’altra parte, di un aspetto particolare o collaterale di quella che è stata definita la «despazializzazione della giustizia». Come lo «spazio giudiziario» in senso fisico (e simbolico) si dissolve nella digitalizzazione del processo e nelle c.d. udienze «da remoto», e i nostri palazzi di giustizia rischiano di trasformarsi in «siti» dei quali sarà impossibile e inutile cercare (come lo sciagurato protagonista del romanzo di [continua ..]


4. L’impoverimento del diritto delle prove

Un secondo fenomeno potrebbe definirsi come il progressivo impoverimento del diritto delle prove. A questo riguardo, si potrebbero ricordare prima di tutto i grandi trattati De probationibus o De praesumptionibus del cd. Medioevo del diritto (pensiamo per esempio alle monumentali summae tardocinquecentesche di Mascardo e di Menochio), dove la elaborazione ampiamente creativa, da parte dei «dottori» più autorevoli, di sparsi frammenti della compilazione giustinianea, del Corpus iuris canonici e delle Sacre Scritture costituiva allo stesso tempo la fonte normativa e la dottrina della formazione del giudizio di fatto, dando vita non a quel monstrum che è l’immaginario «sistema della prova legale» di cui parlano solitamente, con disarmante superficialità, gli studiosi del processo civile; bensì a repertori inesauribili di sapienza analitica e casistica. Al confronto, le sezioni dei moderni codici di procedura dedicati all’istruzione probatoria sono ben povera e rustica cosa, e lo sono diventate sempre più nel corso del tempo. Mi è accaduto per esempio di ricordare, in altra sede, che gli articoli dedicati alla prova testimoniale, cumulativamente, dal codice civile e dal codice di procedura civile oggi vigenti sono in tutto diciannove, mentre erano trentuno in quelli del 1865 e cinquantuno in quelli napoleonici. Mentre la dottrina, dal canto suo, non solo non si oppone a questo trend discendente, ma lo approva e lo asseconda. Basti dire che un grande e rinomato studioso della materia come il compianto Michele Taruffo non esitava, in uno dei suoi ultimi libri, a deprecare che malgrado il «chiaro fondamento epistemico» del ricordato principio benthamiano secondo il quale all relevant evidence is admissible, molti ordinamenti processuali «non ne hanno fatto un’applicazione rigorosa ed hanno invece introdotto discipline giuridiche delle prove spesso assai complesse ed articolate in numerose previsioni normative». In sostanza, dunque, il voler conservare una disciplina, quale che essa sia, dell’istruzione probatoria costituisce, per il legislatore del processo, una grave colpa (!), e identica censura meritano gli studiosi che condividono questo retrivo programma.


5. Prova scientifica e consulenza tecnica