Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Sulla natura del patto di famiglia: breve rassegna di dottrina alla luce di un recente arresto della cassazione (di Giancarlo Tantillo)


Lo studio analizza il dibattito formatosi intorno alla natura del patto di famiglia e del relativo rapporto con i rimedi successori. La lacunosa disciplina ha fatto sorgere non pochi dubbi in dottrina, la quale ne ha proposto le più svariate ricostruzioni dogmatiche. Scarna, invece, la giurisprudenza sul punto ad eccezione della recentissima pronuncia in commento la quale, sebbene tramite un lungo obiter dictum, parrebbe sciogliere non pochi dubbi circa gli aspetti più controversi dell’istituto.

On the nature of family Pact: brief review of doctrine after a recent judgement of the Cassazione Court

The study analyses the debate about the nature of the family pact and its relationship with the protection instruments of the heirs. The discipline is quite incomplete and that has generated a lot of different opinions between the thinkers. The judgements about the topic are almost completely absent except for the very fresh sentence object of this study. This judgement, although with a long obiter dictum, seem to resolve a lot of doubts about the controversial aspects of this legal arrangement.

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Giancarlo Tantillo - Sulla natura del patto di famiglia: breve rassegna di dottrina alla luce di un recente arresto della cassazione

SOMMARIO:

1. Introduzione. - 2. Il patto di famiglia: brevi cenni. - 3. La natura del patto di famiglia. - 3.1. Tesi della natura donativa. - 3.2. Tesi della natura divisoria. - 3.3. Tesi della tipicità. - 3.4. (segue) Talune conseguenze pratiche. - 3.4.1. Formalità. - 3.4.2. Autorizzazione in presenza di incapaci. - 3.4.3. Rapporto con la comunione legale. - 4. La struttura. - 4.1. Tesi della struttura variabile. - 4.2. Tesi del contratto in favore di terzo. - 4.3. Tesi del contratto “ad almeno tre parti”. - 4.4. Tesi della plurilateralità. - 5. Mancata partecipazione del legittimario non assegnatario. Conseguenze. - 6. Rapporti con i rimedi successori. - 7. Conclusioni.


1. Introduzione.

Con l’arresto in epigrafe la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi, dopo circa un biennio, in materia di patto di famiglia. Analogamente all’ultima pronuncia in materia, l’oggetto della controversia è rappresentato dal regime impositivo della liquidazione che il beneficiario dell’azienda è tenuto ad effettuare nei confronti degli altri legittimari non assegnatari. Al fine di rispondere al quesito postole, la Corte intraprende un lungo excursus in ordine alla natura e peculiarità del patto di famiglia, analizzandolo nei suoi aspetti più controversi. Ciò che desta stupore, ed è stato oggetto del nostro interesse, è che con un lunghissimo obiter dictum, la Cassazione effettua una serie di valutazioni non strettamente necessarie ai fini della statuizione, ma che rappresentano un interessantissimo spunto di riflessione. Infatti, con un grande inciso vengono sviscerati molti degli aspetti controversi del Patto di famiglia, fornendone autorevole lettura che può servire da guida a tutti gli operatori del diritto. Con una certa fermezza la Corte prende posizione in ordine alla natura e struttura del patto di famiglia, nonché del relativo rapporto con i rimedi successori. Tali ed altri aspetti, nell’ultimo quindicennio, sono stati oggetto di un vivacissimo dibattito dottrinario, che ha visto proliferare le più svariate tesi. In un tale contesto, col presente studio, si intende analizzare alcuni dei controversi aspetti del patto di famiglia, senza alcuna pretesa di esaurirne la trattazione, mediante un’analisi comparata delle tesi fino ad oggi prospettate dagli studiosi in raffronto con quanto affermato dall’arresto in commento.


2. Il patto di famiglia: brevi cenni.

Come evidenzia la Corte nella sua ampia motivazione, il patto di famiglia nasce dietro sollecitazioni da parte dell’Unione Europea, quale strumento per la tutela dell’interesse alla continuità dell’impresa a seguito della morte dell’imprenditore. Infatti già da tempo era stata segnalata[1] una certa inadeguatezza del sistema italiano in ordine agli istituti con i quali l’imprenditore potesse regolare il passaggio generazionale dell’impresa. Il sostanziale mutismo del legislatore italiano, accompagnato dal rigore del divieto dei patti successori (art. 458 c.c.), lasciava ai consociati il testamento e la donazione quali unici strumenti per poter regolare gli interessi in gioco. Una tale situazione, indubbiamente poco al passo coi tempi e con le esigenze di maggiore certezza, stabilità ed immediatezza nei rapporti d’impresa era frutto di una certa difficoltà a conciliare le esigenze successorie, ed in particolare i diritti dei legittimari, con quelle dell’economia di mercato che per converso non possono sottostare alle pastoie della rigida disciplina degli eredi necessari. In questo contesto, già nel 1994, l’Unione Europea interviene[2] sollecitando i paesi membri – ed in particolare Italia, Belgio, Francia, Portogallo, Spagna e Lussemburgo – ad abrogare o comunque riscrivere i confini del divieto dei patti successori. Si era infatti rilevato che nel territorio comunitario molte imprese erano costrette a chiudere non tanto per la loro incapacità a stare sul mercato, quanto per la difficoltà a regolare e pianificare il passaggio generazionale. In effetti si sentiva, e si sente tutt’oggi, la necessità di una riforma trasversale del diritto societario, successorio e fiscale che possa in modo armonico conciliare tutti gli interessi in gioco. Un modesto bilanciamento delle contrapposte esigenze si è cercato di creare mediante  la l. 14 febbraio 2006, n. 55, che ha introdotto nel codice civile un nuovo contratto, il patto di famiglia, che il legislatore stesso definisce come quel contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti. Tale [continua ..]


3. La natura del patto di famiglia.

Già all’indomani del suo inserimento nel codice civile è sorto un vivace dibattito circa l’inquadramento dogmatico del patto di famiglia. Diverse sono le tesi che si sono fronteggiate, ognuna delle quali implica una diversa struttura e disciplina, con notevoli e diverse ripercussioni sul piano tecnico ed operativo. Aderire ad una tesi piuttosto che un’altra, infatti, è scelta tutt’altro che priva di risvolti applicativi.


3.1. Tesi della natura donativa.

Un orientamento autorevolmente sostenuto[1] inquadra l’istituto in oggetto sotto lo schema della donazione modale. Tale intuizione ha l’indubbio pregio di cogliere nel congegno causale del patto di famiglia un irriducibile carattere di liberalità, il quale sicuramente ne rappresenta una importante componente, come conferma altresì la sentenza in commento[2]. Tale inquadramento dogmatico del patto di famiglia sembrerebbe confermato dalla collocazione sistematica dell’istituto, oltre che da uno dei principali effetti che la legge ne ricollega, ossia l’esenzione di quanto attribuito dal regime della collazione e dell’azione di riduzione per lesione. Infatti, come è stato correttamente osservato[3], se si ritenesse che tale negozio avesse carattere oneroso e non liberale, verrebbe meno ogni ontologico presupposto per l’operatività dei citati rimedi successori. L’elemento della liberalità, però, sembrerebbe non poterne esaurire né ricomprendere l’intero congegno causale[4]. Sul punto, la sentenza in epigrafe, accogliendo le critiche già mosse da parte della dottrina, evidenzia correttamente che l’obbligo di liquidazione sussistente in capo al beneficiario dell’azienda non costituisce elemento accidentale – quale è il modus – bensì sua necessaria componente che ne connota la causa. Infatti esso non trova fondamento nell’autonomia privata, bensì direttamente in una previsione legislativa. E si badi bene: tale elemento sarà sempre e comunque ontologicamente presente, anche qualora i beneficiari non assegnatari rinuncino al proprio diritto alla liquidazione della relativa quota di riserva. In tal caso, ancorché l’obbligo non abbia trovato attuazione, il suo rifiuto implicherà una liberalità indiretta in favore dell’obbligato[5]. Una voce critica[6], analizzando il negozio di cui si tratta sotto il profilo squisitamente formale, ha altresì osservato che se ci si trovasse in effettiva presenza di una donazione, non si spiegherebbe la richiesta dell’atto pubblico come espressamente contemplata all’art. 768-ter: una tale previsione apparrebbe palesemente ultronea. La tesi in oggetto è stata avallata da una recente sentenza di legittimità[7] avente oggetto anch’essa, come l’arresto in commento, l’inquadramento fiscale [continua ..]


3.2. Tesi della natura divisoria.

Altra corrente di pensiero[1], invece, riporta il patto di famiglia all’alveo della divisione. Diversi sarebbero in effetti gli argomenti a favore di questa tesi. In primo luogo la collocazione sistematica sembrerebbe poter prestare fianco a questa ricostruzione, trovandosi collocati gli art. 768-bis e ss c.c. nel nuovo capo V-bis, del Titolo V c.c., che idealmente chiude la disciplina dedicata alla divisione ereditaria. Altro argomento si è rinvenuto nel dato letterale dell’art. 768-bis, il quale, analogamente a quanto previsto in sede di divisione, richiede la necessaria compresenza di tutti gli interessati, facendo conseguire l’affermazione della sua struttura inevitabilmente plurilaterale[2]. Anche sotto un profilo funzionale, questa tesi si presta a ben spiegare le logiche sottese a tale contratto. Infatti, ed in effetti, con il patto di famiglia è come se si eseguisse una operazione divisoria avente oggetto il cespite assegnato, con contestuale liquidazione dei diritti dei non assegnatari mediante “conguaglio” in danaro od in natura. Sul punto, obiezione assai diffusa rileva che, diversamente dalla divisione di diritto comune, il patto di famiglia opererebbe sulla base di una successione non ancora aperta, e pertanto non scioglierebbe alcuna comunione non essendosi la stessa ancora instaurata. Si sostiene[3] altresì che non sarebbe nemmeno fondata l’eccezione secondo cui il nostro ordinamento, in effetti, conosce forme di divisione in assenza di comunione, e precisamente la divisione del testatore ex art. 734 c.c.. Infatti, come sostenuto da parte della dottrina[4], tale gap di titolarità sarebbe risolto mediante l’affermazione secondo cui in sede successoria sussisterebbe sempre un “momento” di comunione (derivante dalla precedente disposizione istitutiva ex lege o testamentaria), sia esso ideale o mero logico presupposto; elemento qui evidentemente assente. In senso opposto si muove la dottrina maggioritaria[5], arrivandosi altresì a sostenere[6] che l’elemento caratterizzante ogni operazione divisoria non sarebbe quello di dar luogo allo scioglimento di una comunione – la quale può anche non sussistere, come in caso di divisione testamentaria – quanto quello di eseguire operazioni di allocazione ed apporzionamento di cespiti patrimoniali in proporzione ad astratte quote.  L’assenza di un “momento”, sia anche [continua ..]


3.3. Tesi della tipicità.

Gli orientamenti come sopra riportati sembrerebbero permeati da quella che autorevole dottrina[1] ha definito “mentalità conservatrice che permea ogni giurista”, espressione di una inerzia che si manifesta nel desiderio di staccarsi il meno possibile dal terreno consolidato e che porta ad affrontare i problemi nuovi utilizzando gli schemi già noti e familiari. Sembrerebbe dunque più ragionevole allontanarsi da queste correnti di pensiero, non essendovi necessità alcuna di inserire forzatamente il patto di famiglia entro schemi dogmatici che non gli si addicono o che comunque non lo rappresentano in ogni sua sfaccettatura. Appare infatti ben più sostenibile la tesi in effetti sposata dalla stragrande maggioranza degli studiosi[2] secondo cui il patto di famiglia è, semplicemente, un nuovo tipo contrattuale. Abbandonata la strada che cerca di comprimere il patto di famiglia entro altri schemi negoziali, e preso atto dell’assoluta originalità del suo congegno causale, si può dunque tentare di analizzarne le singole componenti della complessa causa. Nella causa del patto di famiglia possono dunque intravedersi[3]: una funzione liberale, rappresentata dall’attribuzione dell’azienda o partecipazione sociale; una funzione divisoria, rappresentata dall’apporzionamento e liquidazione in favore dei legittimari non assegnatari; una corrispondente e conseguente funzione solutoria[4], rappresentata dalla soddisfazione dei diritti di riserva di questi ultimi; ed infine una funzione transattiva, volta a prevenire eventuali e future liti successorie e divisorie. Si ricorda inoltre che, secondo un autore[5], il patto di famiglia avrebbe una funzione prevalentemente successoria, con la conseguente applicazione nei limiti della compatibilità della disciplina ex art. 456 e ss c.c. A consacrare l’assoluta originalità del patto di famiglia interviene la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza in commento, sottolineandolo espressamente in più passaggi. Una tale conclusione, ben lungi dal rimanere entro i confini di un vagheggiamento dottrinario, è foriera di non poche conseguenze pratiche.   [1] G. De Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, 1.; T. Ascarelli, Il negozio indiretto e le società commerciali, in Studi di diritto commerciale in onore di Cesare Vivante, Roma, 1931, 25-26. Sul punto, un interessante spunto sul [continua ..]


3.4. (segue) Talune conseguenze pratiche.

Senza alcuna pretesa di trattare tutte le implicazioni derivanti dall’inquadramento di cui sopra, di seguito si tenterà di analizzare taluni risvolti pratici di non modesto rilievo soprattutto per l’attività notarile.


3.4.1. Formalità.

In primo luogo, da un punto di vista squisitamente formale, una volta qualificato il patto di famiglia quale negozio sui generis, l’unico vincolo che dovranno rispettare le parti è quello dell’atto pubblico, come espressamente richiesto dall’art. 768-ter[1] c.c.. Superata dunque la tesi che qualifica il patto quale donazione[2], ne consegue che viene definitivamente superata la necessità della presenza di due testimoni, come richiesta dall’art. 48 della legge notarile; nonché l’obbligo di specificare il valore di ogni bene mobile che compone l’azienda, richiesto dall’art. 782 c.c.. Tra l’altro, con riferimento a tale ultima prescrizione, già in sede di donazione di azienda, la dottrina[3] dubita in ordine alla sua necessaria applicazione.   [1] In tal senso già: C. M. Bianca, op. cit., 55. [2] Si rileva che S. Delle Monache, Spunti, cit., 786. pur parlando di liberalità non donativa, ritiene comunque applicabili le formalità proprie della donazione. [3] A tale conclusione perviene la dottrina sulla base dell’osservazione che l’azienda, quale universitas iuris, sia un bene unitario. Sul punto si vedano, ex multis: G. Capozzi, op. cit., 1524 -1525; A. Torrente, La donazione, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu-Messineo, Milano, 2006, 289; B. Biondi, Le donazioni, in Tratt. Vassalli, Torino, 1961, 458 ss.


3.4.2. Autorizzazione in presenza di incapaci.

In secondo luogo dalla pronuncia in commento potrebbero trarsi argomenti in ordine all’autorizzazione da richiedere ogni qual volta intervenga in atto un minore, sull’assunto che il negozio de qua integri atto di straordinaria amministrazione[1]. Sul punto bisogna preliminarmente rilevare come l’intera discussione ruoti sugli artt. 374 e 375 c.c., non potendo mai trovare applicazione l’art. 320 c.c.. Infatti, ogni qual volta ci si troverà in presenza di un minore in potestate sorgerà un inevitabile conflitto di interesse col genitore, con la conseguenza che il primo sarà sempre rappresentato dal curatore speciale nominato ai sensi dell’art. 320, comma sesto, c.c., il quale agirà dietro autorizzazione ai sensi delle citate norme[2]. Tanto premesso, è indubbio che per coloro che inquadrano il patto entro la donazione, il legale rappresentante dell’incapace si dovrebbe premunire di autorizzazione del giudice tutelare ai sensi dell’art. 374 c.c. Di contro, secondo i sostenitori della natura divisoria, l’autorizzazione si dovrebbe richiedere al tribunale ordinario ai sensi dell’art. 375, comma primo, n. 3), c.c., che espressamente contempla la divisione. Sul punto si è pronunciato il Tribunale di Reggio Emilia[3], il quale ha chiarito che il patto di famiglia integra sempre e comunque un atto di straordinaria amministrazione per il quale ci si dovrà premunire di autorizzazione ex art. 375, comma primo, c.c.. Si è infatti osservato che ad una applicazione analogica di tale articolo si può pervenire su almeno due ragioni. In primis, qualora il minore assuma le vesti di legittimario tacitato, come nel caso oggetto della pronuncia citata, egli compie un atto dispositivo di un proprio diritto ottenendo in cambio una utilità, compiendo un negozio che rientra nei confini dell’onerosità[4]. In secundis il Tribunale rileva che ad una tale conclusione si perviene altresì sulla base dell’indubbia componente divisoria facente parte del congegno causale del patto. Come è stato osservato[5] ciò non rappresenta alcun assist alla tesi della natura divisionale, in quanto il giudice ritiene applicabile l’art. 375 c.c., ma il numero uno, che riguarda l’alienazione di beni, e non il numero tre, che invece si riferisce espressamente alla divisione. Argomenti in favore di una tale ricostruzione possono [continua ..]


3.4.3. Rapporto con la comunione legale.

Qualificare il patto di famiglia quale negozio in parte liberale implica altresì sciogliere ogni dubbio circa il rapporto tra quanto assegnato e la comunione legale dei beni. Sul punto l’art. 179, lettera b), c.c. espressamente contempla tra i beni esclusi dal regime della comunione legale tra i coniugi gli acquisti con provenienza donativa. Una volta esclusa la natura di donazione, sembrerebbe in un primo momento dover concludere per la caduta in comunione di quanto attribuito col patto di famiglia; sebbene una tale affermazione appaia precipitosa. Infatti nella misura in cui il patto di famiglia integra una liberalità, essa ricadrà nella categoria residuale delle liberalità non donative ex art. 809 c.c.. Sul punto la dottrina[1], con l’avallo della giurisprudenza[2], ha precisato che anche le fattispecie contemplate da tale norma sono da ritenersi ricomprese nel perimetro dell’art 179, lettera b), c.c.. Quindi può ragionevolmente concludersi che l’azienda o partecipazione sociale attribuite col patto di famiglia sono da ritenersi escluse dal regime della comunione legale. Più problematico, invece, si pone il problema circa il regime da applicare alla somma liquidata in favore dei legittimari non assegnatari. Parte della dottrina[3] ha osservato che il pagamento di tale somma non potrebbe qualificarsi come liberalità, essendo adempimento di un obbligo imposto per legge. In senso contrario si muove la giurisprudenza, che invece ha espressamente qualificato questa attribuzione quale liberalità, mancando qualsiasi rapporto di corrispettività tra i soggetti interessati. Il problema si pone però nell’andare a verificare chi sia l’effettivo disponente di tale elargizione liberale. Sul punto, parte della giurisprudenza[4] ha ritenuto che donante indiretto è da ritenersi lo stesso soggetto che procede alla liquidazione. In senso contrario si muove la sentenza in epigrafe[5] la quale, come già espresso da taluna dottrina[6], afferma che tale attribuzione è da intendersi proveniente direttamente dal disponente in quanto preordinata alla soddisfazione di pretese successorie. Bisogna però precisare che una tale conclusione è finalizzata al sol fine di determinare il corretto regime impositivo dell’atto di liquidazione, sebbene non si esclude che possa essere spunto di riflessione altresì ai fini di una [continua ..]


4. La struttura.

Altro aspetto del patto di famiglia che è stato oggetto di grandi discussioni è rappresentato dalla relativa struttura. Si è ritenuto di dover affrontare l’argomento in modo separato rispetto al precedente in quanto si ritiene che questo assuma un carattere trasversale. Infatti, all’interno delle diverse teorie circa la natura del patto di famiglia si annidano diverse ed opposte correnti di pensiero in ordine alla sua struttura.


4.1. Tesi della struttura variabile.

Secondo l’orientamento più diffuso in dottrina[1], il patto di famiglia sarebbe un contratto a struttura variabile. Con tale locuzione si vuole intendere che le uniche parti strettamente necessarie ai fini della valida stipula di tale negozio sono il disponente e l’assegnatario dell’azienda o della partecipazione sociale. I legittimari non assegnatari, di contro, avrebbero solo la mera possibilità di partecipare o meno al negozio per ottenere la liquidazione di quanto loro spettante. Invece, per il caso in cui questi non si ritenessero soddisfatti dell’ammontare della somma da liquidarsi, sorge il problema di individuare il rimedio a tutela dei relativi diritti; problema a cui sono state date risposte assai diverse, riflesso della diversa costruzione dogmatica cui ogni singolo autore ha ritenuto di dover aderire e che saranno esaminate in un apposito paragrafo. A fondamento della tesi in commento vengono posti una pluralità di argomenti. In primo luogo si afferma che il dato letterale dell’art 768-bis c.c. non sarebbe pregnante. Infatti spesso accade che il legislatore utilizzi una parola in un significato atecnico o lato. Altro argomento assai diffuso è rinvenuto nel testo dell’art. 768-sexies c.c., il quale parla in modo generico di legittimari che non abbiano partecipato al patto, e non di legittimari “sopravvenuti”. Ciò lascia trapelare che non vi sia, in effetti, la necessità che tutti tali soggetti debbano necessariamente partecipare alla stipula. Un autore[2], con originalità, ha osservato che nel nostro ordinamento ha già conosciuto istituti che legittimassero la tacitazione in denaro anche contro la volontà del legittimario interessato: ci si riferisce all’abrogato istituto della commutazione, contemplato dal vecchio testo nell’art. 537, comma terzo, c.c.. Ne consegue che una tale interpretazione della struttura del patto di famiglia è foriera di una logica tutt’altro che sconosciuta tanto al ceto dei giuristi quanto al sistema positivo. Si è altresì ritenuto eccessivo[3] il ricorso alla nullità ex art. 1418 c.c. a fronte della mancata presenza di tutti i legittimari interessati. Infatti tale istituto opererebbe solo ove il legislatore non disponga diversamente; ed in tal caso in effetti, il legislatore “dispone diversamente” avendo contemplato i rimedi cui all’art. [continua ..]


4.2. Tesi del contratto in favore di terzo.

Un’isolata corrente di pensiero[1] ritiene che il patto di famiglia rientri nello schema del contratto in favore di terzo. Più precisamente tale contratto sarebbe esclusivamente bilaterale, vedendo come parti necessarie solo il disponente ed il beneficiario. L’obbligo, in capo a quest’ultimo, di liquidare i legittimari non assegnatari sarebbe espressione della deviazione in loro favore di una sorta di corrispettivo che l’assegnatario dovrebbe versare al disponente. Gli argomenti portati a fondamento di questa tesi sarebbero non pochi. In primo luogo anche questa tesi fa leva sulla non vincolatività del dato letterale di cui all’art. 768-quater c.c.. La mancata partecipazione del legittimario non assegnatario darebbe luogo a mera inopponibilità del patto nei suoi confronti. Si è pure osservato che un contrario assunto non potrebbe dedursi dall’inquadramento del patto entro la divisione, essendo tale ultima ricostruzione del tutto errata. Infatti, se così fosse, non si riuscirebbe a comprendere come l’art. 768-quater, comma quarto, esenti quanto attribuito dalla collazione, la quale è un passaggio logico antecedente all’operazione divisoria. Questa motivazione, invero, appare assai più debole. Infatti, come sopra evidenziato, la divisione di cui al patto di famiglia opererebbe con riferimento ad una sorta di “patrimonio separato” del disponente rappresentato da quanto assegnato, quale vicenda ben distinta dalla sua successione. Si evidenzia altresì che una tale ricostruzione avrebbe l’ulteriore pregio di attribuire sistematicità alla disciplina del patto, in vero assai criticata anche sul punto. La ricostruzione del patto di famiglia quale negozio tipico, ma con parziale deviazione degli effetti in favore di terzo avrebbe il pregio di spiegare il come ed il perché quanto liquidato ai legittimari non assegnatari si imputi al patrimonio del disponente. Infatti la somma con la quale si liquida è come se fosse un corrispettivo[2] che l’assegnatario dovrebbe pagare al disponente e che questi devia in favore degli altri legittimari, così integrando una donazione indiretta in loro favore. In buona sostanza, in tal modo i legittimari tacitati sarebbero aventi causa del disponente, così riconoscendo una coerenza col sistema dell’art. 768-quater, comma terzo, c.c.. Una tale ricostruzione non [continua ..]


4.3. Tesi del contratto “ad almeno tre parti”.

Sulla scia di argomenti simili a quelli di cui al precedente paragrafo, un autore[1] ha ritenuto di definire il patto di famiglia come contratto ad almeno tre parti. Punto di partenza di questo pensiero è quello di ricercare una concreta utilizzabilità di tale istituto alla luce degli intenti che ne hanno spinto l’introduzione. In particolare, si cerca una via atta ad evitare che un atteggiamento ostruzionista o vessatorio di uno dei legittimari possa in concreto bloccare un’operazione dal rilievo pubblicistico quale il passaggio generazionale di azienda. Pertanto, ancora una volta si fa leva sul carattere non vincolante del dato letterale utilizzato dal legislatore (“devono partecipare”) nonché sulla generica formulazione dell’art. 768-sexies c.c., che non parla espressamente di legittimari sopravvenuti. Sul punto si osserva altresì che, anche a voler ritenere quest’ultimo articolo limitato solo ai legittimari sopravvenuti, in ogni caso non verrebbe garantita l’esigenza di stabilità del patto, il quale potrebbe comunque esser caducato mediante l’azione di annullamento contemplata all’art. 768-sexies c.c. da parte di taluno di essi. Altro singolare argomento sarebbe rinvenuto nell’ammissibilità di un recesso, che confermerebbe la non stretta necessità di tutti gli interessati ai fini della validità del patto. Tale corrente di pensiero critica altresì la tesi della struttura variabile, limitatamente all’ipotesi in cui si ammette la sola partecipazione del disponente e dell’assegnatario. Infatti, in tale caso, l’operazione dovrebbe essere qualificata come mera donazione, sulla scorta dell’osservazione che mancherebbe una regolamentazione per la liquidazione, che richiede il necessario “contraddittorio” con gli interessati. Sulla scorta di tale assunto si ritiene che debba partecipare alla stipula “almeno un” legittimario non assegnatario, quale esponente della categoria dei controinteressati.        Bisogna però osservare che un tale argomento appare assai debole, in quanto l’assenza del legittimario non assegnatario in effetti non implicherebbe la necessaria mancata regolamentazione dei profili evidenziati, quanto il fatto che vi si proceda in assenza di contraddittorio con coloro che nei fatti dovrebbero “subirne” gli [continua ..]


4.4. Tesi della plurilateralità.

Secondo un orientamento assai diffuso, il patto di famiglia richiederebbe la necessaria partecipazione del disponente, del beneficiario dell’assegnazione e di tutti i potenziali legittimari, assumendo la struttura di contratto trilaterale[1] in quanto espressione e strumento di composizione di tre distinti poli di interessi. A tale conclusione si può pervenire in primo luogo sulla base dell’analisi del dato positivo. Infatti, l’art. 768-quater, comma primo, c.c. afferma in chiare lettere che al “contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore”. È stato altresì ritenuto[2] che il medesimo articolo, al comma secondo, nell’utilizzare la parola “contraenti” sembrerebbe riferirsi a tutti i soggetti di cui sopra, dando ulteriore conferma della loro necessaria presenza. Altro argomento sarebbe rinvenibile nella funzione del patto, la quale è quella di mediare tra le diverse e contrapposte esigenze di continuità d’impresa e di tutela dei legittimari, non potendosi dare assoluta preminenza alle prime. Ulteriori indici in tal senso si trarrebbero anche dai lavori preparatori e dalla relazione di accompagnamento alla legge[3]; oltre che da una proposta di emendamento in sede di approvazione in Senato[4], poi bocciata, che espressamente prevedeva la vincolatività per i legittimari non sottoscriventi. Si è pure osservato[5] che la disciplina del patto di famiglia contiene una rilevantissima deroga al divieto dei patti successori. Ciò implicherebbe un necessario contraddittorio di tutti i soggetti coinvolti, onde evitare che taluni possano subire decisioni altrui aventi oggetto così delicate posizioni patrimoniali. L’insieme di questi elementi contribuirebbe a dare una lettura restrittiva dell’art. 768-sexies, c.c che risulterebbe trovare applicazione solo con riferimento ai legittimari sopravvenuti, ossia coloro che non esistendo al momento di stipula del patto, non hanno giocoforza potuto parteciparvi. Sulla base di tali argomenti, aderiscono alla tesi in oggetto anche taluni degli autori[6] che qualificano il patto quale donazione modale. Invece, coloro[7] che ritengono che il patto di famiglia abbia natura di divisione in senso tecnico arrivano a tale soluzione non solo e non tanto sulla base di quanto [continua ..]


5. Mancata partecipazione del legittimario non assegnatario. Conseguenze.

In relazione alla tesi cui si aderisce in ordine alla struttura del patto, ne consegue una diversa ricostruzione dell’effetto che si ricollega all’assenza di uno dei legittimari non assegnatari in sede di stipula del patto. Quale premessa si ricorda che, tra coloro che non ne ritengono necessaria la partecipazione, non vi è assolutamente alcuna unità di vedute, essendo state prospettate le tesi, e relative varianti, più disparate. Secondo una tesi assai autorevole[1], i legittimari che non abbiano partecipato al patto si trovano di fronte ad un’alternativa: possono aderire a tale negozio in un secondo momento, mediante la stipula di un “contratto successivo” ex art. 768-quater, comma terzo, c.c.; o agire in riduzione e chiedere la collazione dell’azienda o partecipazione sociale assegnata. Una tale prospettiva implica riattivare i rimedi successori della collazione e riduzione che la disciplina del patto sembrerebbe voler disinnescare. Detta soluzione si pone però in armonia col principio di relatività degli effetti del contratto, in quanto, come è stato correttamente osservato[2], la preclusione ex art. 768-quater, comma quarto, c.c. non può che operare esclusivamente tra le parti. Il regime come sopra descritto opererebbe solo con riferimento ai legittimari non partecipanti ma già esistenti al momento della stipula, dovendosi di contro ritenere applicabile il rimedio cui all’art. 768-sexies c.c. ai soli legittimari sopravvenuti[3].   Secondo una diversa ricostruzione[4] che non distingue tra i legittimari sopravvenuti o esistenti al momento della stipula del patto, questi potrebbero o “profittarne”, aderendovi ma ai sensi dell’art. 768-sexies c.c. o, qualora non lo ritengano conforme ai loro interessi, agire in riduzione. Altra problematica poi sorge in ordine al “come” debba operare l’azione di riduzione. Infatti secondo una isolata ancorché autorevole ricostruzione[5], tenuto conto della specifica funzione di conservare la stabilità dell’impresa propria del patto, si giustificherebbe una interpretazione che riconosca al legittimario una mera tutela per equivalente. Altri studiosi[6], ritenendo che tra gli scopi del patto vi sia quello di escludere in toto l’operatività di ogni rimedio successorio, ritiene applicabile quale unico rimedio in favore dei legittimari (senza [continua ..]


6. Rapporti con i rimedi successori.

Altro nodo da sciogliere è rappresentato dal rapporto tra il patto ed i rimedi successori. Tale argomento è indubbiamente connesso con quanto trattato nel paragrafo precedente. Tutto ruota sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 768-quater c.c., che esclude l’operatività dell’azione di riduzione e dell’obbligo di collazione con riferimento a quanto attribuito col patto. Come visto, buona parte di coloro che ritengono ammissibile la stipula in assenza dei legittimari non assegnatari, ammettono quale strumento a tutela dei rispettivi diritti il ricorso alla riduzione e collazione. In tal modo la disposizione citata verrebbe “depotenziata”, trovandosi ad operare con esclusivo riferimento alle parti del patto. Massima espansione a tale disposizione è invece riconosciuta da coloro che, ancorché ammettono la non necessaria partecipazione di tutti detti legittimari, ricostruiscono la tutela dei relativi diritti o mediante una applicazione, non sempre con la medesima interpretazione, dell’art. 768-sexies c.c.; o mediante l’applicazione analogica dell’art. 1113 c.c.. A conclusioni analoghe, ancorché con esclusivo riferimento al citato art. 768-quater c.c., pervengono tutti coloro che ritengono necessaria la partecipazione di tutti i legittimari. Infatti per costoro non si pone alcun problema di individuare mezzi di tutela dei legittimari non partecipanti al patto, non potendosi nemmeno configurare tale ipotesi. In quest’ultima direzione si muove la sentenza in commento, la quale chiarisce espressamente che quanto oggetto del patto non entra a far parte del relictum e neppure viene considerato ai fini della ricostruzione del donatum. In buona sostanza, quanto attribuito è definitivamente estromesso dalla vicenda successoria, in coerenza con lo scopo proprio del patto di famiglia. Rimane però da capire se quanto attribuito col patto sia oggetto di imputazione ex se, ai sensi dell’art. 564 c.c.. Al riguardo un’autorevole tesi[1] dà risposta positiva, sulla base dell’art. 768-quater, comma terzo, c.c.. Tale norma prevede che i legittimari non assegnatari dell’azienda debbano imputare quanto loro liquidato al patrimonio del disponente. La necessità di una tale norma si spiega nel fatto che, in assenza, tale attribuzione, in quanto proveniente dall’assegnatario, figurerebbe quale [continua ..]


7. Conclusioni.