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G. Giappichelli Editore

Sulla natura del patto di famiglia: breve rassegna di dottrina alla luce di un recente arresto della cassazione (di Giancarlo Tantillo)


Lo studio analizza il dibattito formatosi intorno alla natura del patto di famiglia e del relativo rapporto con i rimedi successori. La lacunosa disciplina ha fatto sorgere non pochi dubbi in dottrina, la quale ne ha proposto le più svariate ricostruzioni dogmatiche. Scarna, invece, la giurisprudenza sul punto ad eccezione della recentissima pronuncia in commento la quale, sebbene tramite un lungo obiter dictum, parrebbe sciogliere non pochi dubbi circa gli aspetti più controversi dell’istituto.

On the nature of family Pact: brief review of doctrine after a recent judgement of the Cassazione Court

The study analyses the debate about the nature of the family pact and its relationship with the protection instruments of the heirs. The discipline is quite incomplete and that has generated a lot of different opinions between the thinkers. The judgements about the topic are almost completely absent except for the very fresh sentence object of this study. This judgement, although with a long obiter dictum, seem to resolve a lot of doubts about the controversial aspects of this legal arrangement.

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Giancarlo Tantillo - Sulla natura del patto di famiglia: breve rassegna di dottrina alla luce di un recente arresto della cassazione

SOMMARIO:

1. Introduzione. - 2. Il patto di famiglia: brevi cenni. - 3. La natura del patto di famiglia. - 3.1. Tesi della natura donativa. - 3.2. Tesi della natura divisoria. - 3.3. Tesi della tipicità. - 3.4. (segue) Talune conseguenze pratiche. - 3.4.1. Formalità. - 3.4.2. Autorizzazione in presenza di incapaci. - 3.4.3. Rapporto con la comunione legale. - 4. La struttura. - 4.1. Tesi della struttura variabile. - 4.2. Tesi del contratto in favore di terzo. - 4.3. Tesi del contratto “ad almeno tre parti”. - 4.4. Tesi della plurilateralità. - 5. Mancata partecipazione del legittimario non assegnatario. Conseguenze. - 6. Rapporti con i rimedi successori. - 7. Conclusioni.


1. Introduzione.

Con l’arresto in epigrafe la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi, dopo circa un biennio, in materia di patto di famiglia.

Analogamente all’ultima pronuncia in materia, l’oggetto della controversia è rappresentato dal regime impositivo della liquidazione che il beneficiario dell’azienda è tenuto ad effettuare nei confronti degli altri legittimari non assegnatari.

Al fine di rispondere al quesito postole, la Corte intraprende un lungo excursus in ordine alla natura e peculiarità del patto di famiglia, analizzandolo nei suoi aspetti più controversi.

Ciò che desta stupore, ed è stato oggetto del nostro interesse, è che con un lunghissimo obiter dictum, la Cassazione effettua una serie di valutazioni non strettamente necessarie ai fini della statuizione, ma che rappresentano un interessantissimo spunto di riflessione.

Infatti, con un grande inciso vengono sviscerati molti degli aspetti controversi del Patto di famiglia, fornendone autorevole lettura che può servire da guida a tutti gli operatori del diritto.

Con una certa fermezza la Corte prende posizione in ordine alla natura e struttura del patto di famiglia, nonché del relativo rapporto con i rimedi successori. Tali ed altri aspetti, nell’ultimo quindicennio, sono stati oggetto di un vivacissimo dibattito dottrinario, che ha visto proliferare le più svariate tesi.

In un tale contesto, col presente studio, si intende analizzare alcuni dei controversi aspetti del patto di famiglia, senza alcuna pretesa di esaurirne la trattazione, mediante un’analisi comparata delle tesi fino ad oggi prospettate dagli studiosi in raffronto con quanto affermato dall’arresto in commento.


2. Il patto di famiglia: brevi cenni.

Come evidenzia la Corte nella sua ampia motivazione, il patto di famiglia nasce dietro sollecitazioni da parte dell’Unione Europea, quale strumento per la tutela dell’interesse alla continuità dell’impresa a seguito della morte dell’imprenditore.

Infatti già da tempo era stata segnalata[1] una certa inadeguatezza del sistema italiano in ordine agli istituti con i quali l’imprenditore potesse regolare il passaggio generazionale dell’impresa. Il sostanziale mutismo del legislatore italiano, accompagnato dal rigore del divieto dei patti successori (art. 458 c.c.), lasciava ai consociati il testamento e la donazione quali unici strumenti per poter regolare gli interessi in gioco.

Una tale situazione, indubbiamente poco al passo coi tempi e con le esigenze di maggiore certezza, stabilità ed immediatezza nei rapporti d’impresa era frutto di una certa difficoltà a conciliare le esigenze successorie, ed in particolare i diritti dei legittimari, con quelle dell’economia di mercato che per converso non possono sottostare alle pastoie della rigida disciplina degli eredi necessari.

In questo contesto, già nel 1994, l’Unione Europea interviene[2] sollecitando i paesi membri – ed in particolare Italia, Belgio, Francia, Portogallo, Spagna e Lussemburgo – ad abrogare o comunque riscrivere i confini del divieto dei patti successori. Si era infatti rilevato che nel territorio comunitario molte imprese erano costrette a chiudere non tanto per la loro incapacità a stare sul mercato, quanto per la difficoltà a regolare e pianificare il passaggio generazionale.

In effetti si sentiva, e si sente tutt’oggi, la necessità di una riforma trasversale del diritto societario, successorio e fiscale che possa in modo armonico conciliare tutti gli interessi in gioco.

Un modesto bilanciamento delle contrapposte esigenze si è cercato di creare mediante  la l. 14 febbraio 2006, n. 55, che ha introdotto nel codice civile un nuovo contratto, il patto di famiglia, che il legislatore stesso definisce come quel contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti.

Tale disciplina sin da subito è stata percepita come lacunosa e spesso accompagnata da un linguaggio incerto; e per tali ragioni il relativo utilizzo ne è stato ampiamente sconsigliato. Anzi, il ceto notarile, direttamente investito del compito di ricevere questo nuovo contratto, non ha mancato di definirlo espressamente un naufragio[3].

 

[1] Sul punto si veda: M. Ieva, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto di impresa. Profili generali di revisione dei patti successori, in Riv. not., 1997, 6, 1371 ss; G. A. M. Trimarchi, Il patto di famiglia, in Successioni e donazioni a cura di G. Iaccarino, Milano, 2017, 1938.

[2] Raccomandazione della Commissione CE 7 dicembre 1994, n.1069.

[3] G. Laurini, Insuccesso dell’istituto e prospettive di rivitalizzazione nella prassi negoziale, in Successioni e donazioni, a cura di G. Iaccarino, Milano, 2017,1994 e ss.


3. La natura del patto di famiglia.

Già all’indomani del suo inserimento nel codice civile è sorto un vivace dibattito circa l’inquadramento dogmatico del patto di famiglia. Diverse sono le tesi che si sono fronteggiate, ognuna delle quali implica una diversa struttura e disciplina, con notevoli e diverse ripercussioni sul piano tecnico ed operativo. Aderire ad una tesi piuttosto che un’altra, infatti, è scelta tutt’altro che priva di risvolti applicativi.


3.1. Tesi della natura donativa.

Un orientamento autorevolmente sostenuto[1] inquadra l’istituto in oggetto sotto lo schema della donazione modale. Tale intuizione ha l’indubbio pregio di cogliere nel congegno causale del patto di famiglia un irriducibile carattere di liberalità, il quale sicuramente ne rappresenta una importante componente, come conferma altresì la sentenza in commento[2].

Tale inquadramento dogmatico del patto di famiglia sembrerebbe confermato dalla collocazione sistematica dell’istituto, oltre che da uno dei principali effetti che la legge ne ricollega, ossia l’esenzione di quanto attribuito dal regime della collazione e dell’azione di riduzione per lesione. Infatti, come è stato correttamente osservato[3], se si ritenesse che tale negozio avesse carattere oneroso e non liberale, verrebbe meno ogni ontologico presupposto per l’operatività dei citati rimedi successori.

L’elemento della liberalità, però, sembrerebbe non poterne esaurire né ricomprendere l’intero congegno causale[4].

Sul punto, la sentenza in epigrafe, accogliendo le critiche già mosse da parte della dottrina, evidenzia correttamente che l’obbligo di liquidazione sussistente in capo al beneficiario dell’azienda non costituisce elemento accidentale – quale è il modus – bensì sua necessaria componente che ne connota la causa. Infatti esso non trova fondamento nell’autonomia privata, bensì direttamente in una previsione legislativa. E si badi bene: tale elemento sarà sempre e comunque ontologicamente presente, anche qualora i beneficiari non assegnatari rinuncino al proprio diritto alla liquidazione della relativa quota di riserva. In tal caso, ancorché l’obbligo non abbia trovato attuazione, il suo rifiuto implicherà una liberalità indiretta in favore dell’obbligato[5].

Una voce critica[6], analizzando il negozio di cui si tratta sotto il profilo squisitamente formale, ha altresì osservato che se ci si trovasse in effettiva presenza di una donazione, non si spiegherebbe la richiesta dell’atto pubblico come espressamente contemplata all’art. 768-ter: una tale previsione apparrebbe palesemente ultronea.

La tesi in oggetto è stata avallata da una recente sentenza di legittimità[7] avente oggetto anch’essa, come l’arresto in commento, l’inquadramento fiscale dell’atto di liquidazione dell’assegnatario, che viene espressamente qualificato come un modus con fonte legale.

La sentenza in epigrafe, mutando orientamento, afferma invece che l’assimilazione del patto di famiglia ad una donazione modale non può reggere se non in termini puramente didascalici per spiegare le generali dinamiche che muovono l’operazione; ma le due figure sono da intendersi geneticamente ed ontologicamente distinte.

Per ragioni di completezza si ricorda altresì un’isolata corrente di pensiero sostenuta da un Autore[8] secondo cui il patto di famiglia rappresenterebbe una “liberalità diretta a carattere non donativo”.

Sicuramente corretto è l’inquadramento del patto di famiglia entro le liberalità non donative ex art. 809 c.c., nella misura in cui si definiscono queste ultime come ogni negozio diverso dalla donazione “tipica” e dal quale promana un elemento liberale[9]. Però, nel caso in esame, una volta preso atto che la funzione del patto di famiglia non si esaurisce in un mero profilo liberale, come tra l’altro ha ben presente detto Autore, ed in un’ottica di definirne ed inquadrarne nel complesso il relativo congegno causale, sembrerebbero doversi privilegiare altre prospettive qualificatorie.

In vero, ciò che sembrerebbe voler dire tale corrente di pensiero, non è tanto di creare una definizione esauriente del patto di famiglia, quanto di coglierne un aspetto al fine di determinarne la disciplina da applicare. In particolare, sull’assunto che alle liberalità ex art. 809 c.c. si applichino anche le norme “materiali” della donazione, si tenta di completare il regime normativo del patto di famiglia integrandolo con quello previsto agli artt. 769 e ss. c.c..

Ma anche una tale affermazione sembrerebbe non esente da critiche. Infatti, tutt’altro che pacifico è se alle liberalità atipiche si applichino o meno talune norme sulla donazione, dipendendo il tutto dalla natura che si vuol accogliere in ordine alle prime.

Senza voler entrare nell’articolato dibattito dottrinario sul punto[10], qui si ricorda che la giurisprudenza di legittimità[11] tende ad interpretare il richiamo alle norme della donazione contenute nell’art. 809 c.c. in modo tassativo, nel senso che alle liberalità non donative non si applichino tutte le norme non espressamente richiamate.

Ne consegue che può ragionevolmente sostenersi che al patto di famiglia non troveranno applicazione, a prescindere da una astratta compatibilità, le norme contenute agli articoli 769 e ss c.c..

Si ricorda infine che secondo taluna giurisprudenza tributaria[12] mancherebbe nel patto di famiglia una componente strictu sensu liberale. Si ritiene che tale arresto possa non assumere rilievo per più ragioni. In primo luogo perché le valutazioni fiscali non assumono rilievo al fine della qualificazione civilistica dell’istituto. Inoltre il giudice parrebbe aver aderito ad una concezione “soggettiva” del concetto di liberalità, già ampiamente criticato da autorevole dottrina[13]. In ultimo la Cassazione, con la sentenza in epigrafe, chiarisce come, dal punto di vista fiscale, non rileva comunque alcun animus donandi, essendo applicabile il medesimo regime impositivo ad ogni negozio gratuito che implichi un incremento patrimoniale.

 

[1] A. Merlo, Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati. Profili civilistici del Patto di famiglia, e C. Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili funzionali e strutturali della fattispecie, in AA.VV., Patti di famiglia per l’impresa, in I quaderni della fondazione nazionale del notariato, Milano, 2006, in www.fondazionenotariato.it; A. Palazzo, Il patto di famiglia tra tradizione e rinnovamento del diritto privato, in Riv. dir., civ., 2007, II, 267;

[2] La sentenza, rileva infatti che “non solo è operata una liberalità in favore degli assegnatari dell’azienda o delle quote sociali (…) ma viene anche soddisfatto il diritto alla quota di riserva del coniuge e dei discendenti, mediante conguaglio in denaro (o eventualmente in natura”. Infatti al segmento liberale si affianca un’altra componente, avente natura di patto successorio, col quale si dispone dei propri futuri diritti di legittima.

[3] G. Petrelli, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. not., 2006, 1, 407; L. Genghini, C. Carbone, Le successioni per causa di morte, Padova, 2015, 1561.

[4] G. A. M. Trimarchi, op. cit., 1952.

[5] A. Cataudella, Parti e terzi nel patto di famiglia, in Riv. dir. civ., 2008, 2, 180.

[6] op. ult. cit., 1562.

[7] Cass. 19 dicembre 2018, n. 32823, con note di D. Damiano, Novità fiscali in tema di patto di famiglia, in Notariato, 2019, 4, 458 e ss; di A. Benni de Sena, Patto di famiglia e rilevanza fiscale dell’atto di liquidazione a favore dei letittmari non assegnatari, in Nuova. Giur. civ., 2019, 3, 474 ss; e N. A. Cimmino, Il regime fiscale del patto di famiglia con attribuzione in favore del legittimario non assegnatario, in ilfamiliarista.it, 29 febbraio 2019.  In senso analogo, pur parlando di negozio gratuito cum modus, Comm. Trib. II grado Trentino - A. Adige Bolzano, 22 febbraio 2013, con nota di A. Ferrari, Patto di famiglia, trattamento fiscale e oneri a favore del disponente, in Fam. dir., 2013, 12, 1126 ss.

[8] S. Delle Monache, Spunti ricostruttivi e qualche spigolatura in tema di patto di famiglia, in Riv. Not., 2006, 4, 893 ss.

[9]  In dottrina sembra ormai del tutto prevalente il superamento e l'abbandono della configurabilità di liberalità non negoziali, ancorché non sempre sulla base della medesima ricostruzione. Cfr A. Torrente, La donazione, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu-Messineo, 2. Ed., Milano, 2006, 50; G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2015, 1670 -1671; A. Palazzo, Le donazioni, Artt. 769 – 809, in Il codice civile Commentato, diretto da P. Schlesingher, Milano, 2000, 708 - 709; V. Caredda, Le liberalità diverse dalla donazione, Torino, 1996, 195 e ss; G. A. M. Trimarchi, op. cit., 2593 e ss.. Contra: B. Biondi, Le donazioni, in Tratt. Vassalli, 1961, Torino, 909 e ss; F. Tassinari, Ipotesi dubbie di liberalità non donative, in Liberalità non donative e attività notarile. I quaderni della fondazione italiana per il notariato, Milano, 2008, 30; E. Del Prato, Le donazioni, in Comm. cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna, 2019, 587 ss.

[10] Per una recente analisi sul punto si veda: G. Tantillo, L'oggetto delle liberalità indirette, della collazione e delle azioni di riduzione. Profili di ammissibilità di una tutela reale del legittimario leso da una liberalità ex art. 809 c.c., in Dir. pers. fam., 2020, 3, 995 ss.

[11] Cass. 5 febbraio 1975 n. 423 in Mass. Giur. it., 1975; Cass. 28 novembre 1988 n. 6416, in Mass. Giust. civ., 1988; Cass. 12 novembre 1992 n. 12181, in Giur. it., 1994, 114 ss.

[12] Comm. Trib. Prov. Basilicata Matera, 5 dicembre 2017, con nota di M. Tortorelli, L’azienda acquistata con patto di famiglia non genera una sopravveniena attiva, in Fisco, 2018, 4, 390 ss.

[13] L. Gatt, Le liberalità I, Torino, 2006.


3.2. Tesi della natura divisoria.

Altra corrente di pensiero[1], invece, riporta il patto di famiglia all’alveo della divisione. Diversi sarebbero in effetti gli argomenti a favore di questa tesi. In primo luogo la collocazione sistematica sembrerebbe poter prestare fianco a questa ricostruzione, trovandosi collocati gli art. 768-bis e ss c.c. nel nuovo capo V-bis, del Titolo V c.c., che idealmente chiude la disciplina dedicata alla divisione ereditaria. Altro argomento si è rinvenuto nel dato letterale dell’art. 768-bis, il quale, analogamente a quanto previsto in sede di divisione, richiede la necessaria compresenza di tutti gli interessati, facendo conseguire l’affermazione della sua struttura inevitabilmente plurilaterale[2].

Anche sotto un profilo funzionale, questa tesi si presta a ben spiegare le logiche sottese a tale contratto. Infatti, ed in effetti, con il patto di famiglia è come se si eseguisse una operazione divisoria avente oggetto il cespite assegnato, con contestuale liquidazione dei diritti dei non assegnatari mediante “conguaglio” in danaro od in natura.

Sul punto, obiezione assai diffusa rileva che, diversamente dalla divisione di diritto comune, il patto di famiglia opererebbe sulla base di una successione non ancora aperta, e pertanto non scioglierebbe alcuna comunione non essendosi la stessa ancora instaurata. Si sostiene[3] altresì che non sarebbe nemmeno fondata l’eccezione secondo cui il nostro ordinamento, in effetti, conosce forme di divisione in assenza di comunione, e precisamente la divisione del testatore ex art. 734 c.c.. Infatti, come sostenuto da parte della dottrina[4], tale gap di titolarità sarebbe risolto mediante l’affermazione secondo cui in sede successoria sussisterebbe sempre un “momento” di comunione (derivante dalla precedente disposizione istitutiva ex lege o testamentaria), sia esso ideale o mero logico presupposto; elemento qui evidentemente assente.

In senso opposto si muove la dottrina maggioritaria[5], arrivandosi altresì a sostenere[6] che l’elemento caratterizzante ogni operazione divisoria non sarebbe quello di dar luogo allo scioglimento di una comunione – la quale può anche non sussistere, come in caso di divisione testamentaria – quanto quello di eseguire operazioni di allocazione ed apporzionamento di cespiti patrimoniali in proporzione ad astratte quote.  L’assenza di un “momento”, sia anche solamente logico di comunione, non sembrerebbe ostativo alla configurazione della divisione nella misura in cui se ne ridefinisce come sopra il congegno causale. Indici in tal senso, tra l’altro, sembrerebbero potersi altresì trarre dalla giurisprudenza[7].

Potrebbe anche rilevarsi, come tra l’altro afferma la sentenza in commento, che in effetti con il negozio in oggetto è come se si aprisse una breve “successione anticipata” limitatamente al cespite aziendale/societario che si vuole assegnare, con conseguente sua estromissione dalla “generale” vicenda successoria dell’assegnatario.

Da quanto esposto non appare peregrino riportare il patto di famiglia all’alveo di una divisione, salvo trovarsi di fronte all’insuperabile obiezione[8] secondo cui la presenza di un interesse liberale ne escluderebbe di per sé la natura strictu sensu divisoria.

Ciò non significa che non possa comunque riconoscersi una funzione latu sensu divisoria, come tra l’altro sostenuto da autorevole dottrina[9], facendo emergere a contrario la sostanziale autonomia causale del patto di famiglia, quale nuovo contratto tipico. Indici in tal senso sembrerebbero potersi trarre anche dalla giurisprudenza di merito[10].

 

[1] N. Di Mauro, I necessari partecipanti al patto di famiglia, in Fam. pers. succ., 2006, 6, 539 ss; A. Zoppini, L’emersione della categoria della successione anticipata, in I quaderni della fondazione italiana per il notariato, cit., in www.fondazionenotariato.it; A. Torroni, Il patto di famiglia: aspetti di interesse notarile, in Riv. not., 2008, 2, 470; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2016, 208 ss. Parlano di natura divisionale in senso lato: G. Amadio, Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati e F. Tassinari, op.cit., cit.; F. Gazzoni, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, in Giust. civ., 2006, 219.

[2] Le parti, secondo questa ricostruzione, non potranno essere meno di tre: l’assegnante, l’assegnatario dell’azienda o della partecipazione sociale, ed il legittimario liquidato.

[3] Cfr. L. Genghini, C. Carbone, op. cit., 1564.

[4] F.S. Azzariti, G. Martinez, G. Azzariti, Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 1979, 636 ss.; G. Azzariti, La divisione, in Tratt. dir. civ., diretto da P. Rescigno, Torino, 1982, VI, 375 – 376; G. Cattaneo, La vocazione necessaria e la vocazione legittima, in Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 5, Torino, 1982., 376 ss.; G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2015, 1428 – 1429; L. Genghini – C. Carbone, op. cit, 1297.

[5] G. Burdese, La divisione ereditaria, in Tratt. Vass., 1980, Torino, 4 -5; 251 ss.; L. Ferri, Dei legittimari, in Comm. cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1971, 82; G. Amadio, La divisione del testatore, in Successioni e Donazioni, a cura di P. Rescigno, II, Padova, 1994; V. Lenoci, La divisione, Torino, 2006, 248; V. Barba, Istituzione ex re certa e divisione fatta dal testatore, in Riv. dir. civ., 2012, I, 85 ss.; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2016, 529; A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2017, 1451; D. Barone, La divisione predisposta o fatta dal testatore, in Successioni e donazioni, a cura di G. Iaccarino, Milano, 2017, 1559

[6] G. Burdese, op. cit., 255; C. Romano, L’autonomia testamentaria, cit.. Per una recente panoramica sul punto si veda: G. Tantillo, L’intangibilità della legittima, tra azione di riduzione e divieto di pesi e condizioni. Verso una riserva esclusivamente in valore (?), in corso di pubblicazione su Vita not., 1, 2021.

[7] Cass. 14 luglio 2011, n. 155101, in www.leggiditaliaprofessionale.it; Cass. 25 maggio 2013, n. 12830, con nota di D. Achille, La divisione del testatore esclude l’operatività della collazione, in dir. giust., 24 maggio; Cass. 14 luglio 1983 n. 4826, in www.leggiditaliaprofessionale.it; Cass. 10 novembre 1981, n. 5955, in Giust. civ. Mass., 1981, 11; Cass. 18 novembre 1981, n. 6110, in Giust. civ. Mass., 1981, 11; App. Firenze, 14 settembre 2011, in www.leggiditaliaprofessionale.it;  App. Roma, 15 marzo 2011, in www.leggiditaliaprofessionale.it; Trib. Verona, 26 luglio 2011, in giur. mer., 2002, 4-5, 973 ss.

[8] F. Tassinari, op. cit..

[9] Si veda la nota 14.

[10] Si veda la nota 38.


3.3. Tesi della tipicità.

Gli orientamenti come sopra riportati sembrerebbero permeati da quella che autorevole dottrina[1] ha definito “mentalità conservatrice che permea ogni giurista”, espressione di una inerzia che si manifesta nel desiderio di staccarsi il meno possibile dal terreno consolidato e che porta ad affrontare i problemi nuovi utilizzando gli schemi già noti e familiari.

Sembrerebbe dunque più ragionevole allontanarsi da queste correnti di pensiero, non essendovi necessità alcuna di inserire forzatamente il patto di famiglia entro schemi dogmatici che non gli si addicono o che comunque non lo rappresentano in ogni sua sfaccettatura.

Appare infatti ben più sostenibile la tesi in effetti sposata dalla stragrande maggioranza degli studiosi[2] secondo cui il patto di famiglia è, semplicemente, un nuovo tipo contrattuale.

Abbandonata la strada che cerca di comprimere il patto di famiglia entro altri schemi negoziali, e preso atto dell’assoluta originalità del suo congegno causale, si può dunque tentare di analizzarne le singole componenti della complessa causa.

Nella causa del patto di famiglia possono dunque intravedersi[3]: una funzione liberale, rappresentata dall’attribuzione dell’azienda o partecipazione sociale; una funzione divisoria, rappresentata dall’apporzionamento e liquidazione in favore dei legittimari non assegnatari; una corrispondente e conseguente funzione solutoria[4], rappresentata dalla soddisfazione dei diritti di riserva di questi ultimi; ed infine una funzione transattiva, volta a prevenire eventuali e future liti successorie e divisorie.

Si ricorda inoltre che, secondo un autore[5], il patto di famiglia avrebbe una funzione prevalentemente successoria, con la conseguente applicazione nei limiti della compatibilità della disciplina ex art. 456 e ss c.c.

A consacrare l’assoluta originalità del patto di famiglia interviene la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza in commento, sottolineandolo espressamente in più passaggi. Una tale conclusione, ben lungi dal rimanere entro i confini di un vagheggiamento dottrinario, è foriera di non poche conseguenze pratiche.

 

[1] G. De Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, 1.; T. Ascarelli, Il negozio indiretto e le società commerciali, in Studi di diritto commerciale in onore di Cesare Vivante, Roma, 1931, 25-26. Sul punto, un interessante spunto sul “conservatorismo” dei legisti si trae da A. De Tocqueville, La Democrazia in America, Torino, 2014, 64-65; 310 ss.

[2] G. Petrelli, op. cit., 406 ss.; G. Capozzi, op. cit., 1455; C. M. Bianca, Diritto civile, 2.2., Le successioni, Milano, 2015, 53 ss.; L. Genghini, C. Carbone, op. cit., 1564, 1565; L. Genghini, S. Pertoldi, I Singoli contratti, Padova, 2020, 1139 e ss; G. Di Giandomenico, Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati Il Patto di famiglia nella sistematica del codice, F. Magliulo L'apertura della successione: imputazione, collazione e riduzione, G. Casu, Il patto di famiglia. Rassegna ordinata di dottrina nella sua prima interpretazione, A. Mascheroni, Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati. L'ordinamento successorio italiano dopo la legge 14 febbraio 2006 n. 55, U. La Porta, La posizione dei legittimari sopravvenuti, e G. Amadio, Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati, M.C. Lupetti, Il finanziamento dell’operazione: family buy out, in AA.VV., Patti di famiglia per l’impresa, cit..; A. Cataudella, Parti e terzi nel patto di famiglia, in Riv. dir. civ., 2008, 2, 180; G. Oberto, Il patto di famiglia, testo della relazione presentata alla Giornata di studio sul tema «Patti di famiglia», organizzata dal Consiglio Notarile dei distretti riuniti di Torino e Pinerolo e dalla Scuola di Notariato «Franco Lobetti Bodoni» di Torino, svoltasi a Torino il 13 maggio 2006, in Le monografie di Contratto e impresa, diretto da F. Galgano, Padova, 2006, in https://www.giacomooberto.com/pattodifamiglia/pattodifamiglia.htm; A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2017, 1414 e ss.; G. Rizzi, Il Patto di famiglia. Analisi di un contratto per il trasferimento dell’azienda, in Notariato, 4, 2006, 429 ss.

[3] Sul punto di veda: G. Capozzi, op. cit., 1454.

[4] Tale funzione solutoria non è incompatibile con la natura liberale dell’atto di liquidazione. Sul punto si veda il par. 3.4.3.

[5] G. Sicchiero, La causa del patto di famiglia, in Contr.  Impr., 2006, 4-5, 1261 ss.


3.4. (segue) Talune conseguenze pratiche.

Senza alcuna pretesa di trattare tutte le implicazioni derivanti dall’inquadramento di cui sopra, di seguito si tenterà di analizzare taluni risvolti pratici di non modesto rilievo soprattutto per l’attività notarile.


3.4.1. Formalità.

In primo luogo, da un punto di vista squisitamente formale, una volta qualificato il patto di famiglia quale negozio sui generis, l’unico vincolo che dovranno rispettare le parti è quello dell’atto pubblico, come espressamente richiesto dall’art. 768-ter[1] c.c..

Superata dunque la tesi che qualifica il patto quale donazione[2], ne consegue che viene definitivamente superata la necessità della presenza di due testimoni, come richiesta dall’art. 48 della legge notarile; nonché l’obbligo di specificare il valore di ogni bene mobile che compone l’azienda, richiesto dall’art. 782 c.c.. Tra l’altro, con riferimento a tale ultima prescrizione, già in sede di donazione di azienda, la dottrina[3] dubita in ordine alla sua necessaria applicazione.

 

[1] In tal senso già: C. M. Bianca, op. cit., 55.

[2] Si rileva che S. Delle Monache, Spunti, cit., 786. pur parlando di liberalità non donativa, ritiene comunque applicabili le formalità proprie della donazione.

[3] A tale conclusione perviene la dottrina sulla base dell’osservazione che l’azienda, quale universitas iuris, sia un bene unitario. Sul punto si vedano, ex multis: G. Capozzi, op. cit., 1524 -1525; A. Torrente, La donazione, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu-Messineo, Milano, 2006, 289; B. Biondi, Le donazioni, in Tratt. Vassalli, Torino, 1961, 458 ss.


3.4.2. Autorizzazione in presenza di incapaci.

In secondo luogo dalla pronuncia in commento potrebbero trarsi argomenti in ordine all’autorizzazione da richiedere ogni qual volta intervenga in atto un minore, sull’assunto che il negozio de qua integri atto di straordinaria amministrazione[1].

Sul punto bisogna preliminarmente rilevare come l’intera discussione ruoti sugli artt. 374 e 375 c.c., non potendo mai trovare applicazione l’art. 320 c.c.. Infatti, ogni qual volta ci si troverà in presenza di un minore in potestate sorgerà un inevitabile conflitto di interesse col genitore, con la conseguenza che il primo sarà sempre rappresentato dal curatore speciale nominato ai sensi dell’art. 320, comma sesto, c.c., il quale agirà dietro autorizzazione ai sensi delle citate norme[2].

Tanto premesso, è indubbio che per coloro che inquadrano il patto entro la donazione, il legale rappresentante dell’incapace si dovrebbe premunire di autorizzazione del giudice tutelare ai sensi dell’art. 374 c.c.

Di contro, secondo i sostenitori della natura divisoria, l’autorizzazione si dovrebbe richiedere al tribunale ordinario ai sensi dell’art. 375, comma primo, n. 3), c.c., che espressamente contempla la divisione.

Sul punto si è pronunciato il Tribunale di Reggio Emilia[3], il quale ha chiarito che il patto di famiglia integra sempre e comunque un atto di straordinaria amministrazione per il quale ci si dovrà premunire di autorizzazione ex art. 375, comma primo, c.c.. Si è infatti osservato che ad una applicazione analogica di tale articolo si può pervenire su almeno due ragioni. In primis, qualora il minore assuma le vesti di legittimario tacitato, come nel caso oggetto della pronuncia citata, egli compie un atto dispositivo di un proprio diritto ottenendo in cambio una utilità, compiendo un negozio che rientra nei confini dell’onerosità[4]. In secundis il Tribunale rileva che ad una tale conclusione si perviene altresì sulla base dell’indubbia componente divisoria facente parte del congegno causale del patto. Come è stato osservato[5] ciò non rappresenta alcun assist alla tesi della natura divisionale, in quanto il giudice ritiene applicabile l’art. 375 c.c., ma il numero uno, che riguarda l’alienazione di beni, e non il numero tre, che invece si riferisce espressamente alla divisione.

Argomenti in favore di una tale ricostruzione possono trarsi dalla pronuncia in commento, la quale afferma che col patto i legittimari non assegnatari ottengono una conversione del proprio diritto di legittima, implicando ciò atto dispositivo latu sensu assimilabile ad un’alienazione. Potrebbe altresì osservarsi che la Corte sottolinea che, tra le funzioni del patto, vi sarebbe anche quella di prevenire future liti successorie e divisorie. Sotto questo profilo infatti, come già osservato, il patto assume una funzione transattiva, così ricadendo ancora una volta nei confini dell’art. 375, ma questa volta nella fattispecie contemplata al numero quattro.

 

[1] G. Capozzi, op. cit., 1464; G. Rizzi, op. cit., 435; E. L. Guastalla, Minori, va evitato il conflitto, in Sole 24 Ore, n. 50 del 20 febbraio 2006.

[2] Del tutto minoritaria è la tesi che definisce il curatore ex art. 320 c.c., comma sesto, sostituto del genitore ed in quanto tale la relativa attività dovrebbe essere accompagnata dalle medesime autorizzazioni previste per i genitori. Sul punto di veda: L. Genghini, La volontaria giurisdizione e il regime patrimoniale della famiglia, Padova, 2013, 603.

[3] Trib. Reggio Emilia 19 luglio 2019, con note di F. Volpe, G. Annunziata Arcangelo, Patto di famiglia e partecipazione dell’incapace, in Corr. mer., 2013, 2, 160 ss, e A. Ferrari, Patto di famiglia, non assegnatario interdetto e conflitto di interessi, in Fam. dir., 2013, 4, 356 ss.

[4] Cfr. G. Santarcangelo, La volontaria Giurisdizione, I, Milano, 2003, 350 e ss.

[5] A. Ferrari, Patto di famiglia, non assegnatario interdetto e conflitto di interessi, cit., 359.


3.4.3. Rapporto con la comunione legale.

Qualificare il patto di famiglia quale negozio in parte liberale implica altresì sciogliere ogni dubbio circa il rapporto tra quanto assegnato e la comunione legale dei beni.

Sul punto l’art. 179, lettera b), c.c. espressamente contempla tra i beni esclusi dal regime della comunione legale tra i coniugi gli acquisti con provenienza donativa.

Una volta esclusa la natura di donazione, sembrerebbe in un primo momento dover concludere per la caduta in comunione di quanto attribuito col patto di famiglia; sebbene una tale affermazione appaia precipitosa.

Infatti nella misura in cui il patto di famiglia integra una liberalità, essa ricadrà nella categoria residuale delle liberalità non donative ex art. 809 c.c..

Sul punto la dottrina[1], con l’avallo della giurisprudenza[2], ha precisato che anche le fattispecie contemplate da tale norma sono da ritenersi ricomprese nel perimetro dell’art 179, lettera b), c.c.. Quindi può ragionevolmente concludersi che l’azienda o partecipazione sociale attribuite col patto di famiglia sono da ritenersi escluse dal regime della comunione legale.

Più problematico, invece, si pone il problema circa il regime da applicare alla somma liquidata in favore dei legittimari non assegnatari.

Parte della dottrina[3] ha osservato che il pagamento di tale somma non potrebbe qualificarsi come liberalità, essendo adempimento di un obbligo imposto per legge.

In senso contrario si muove la giurisprudenza, che invece ha espressamente qualificato questa attribuzione quale liberalità, mancando qualsiasi rapporto di corrispettività tra i soggetti interessati. Il problema si pone però nell’andare a verificare chi sia l’effettivo disponente di tale elargizione liberale.

Sul punto, parte della giurisprudenza[4] ha ritenuto che donante indiretto è da ritenersi lo stesso soggetto che procede alla liquidazione.

In senso contrario si muove la sentenza in epigrafe[5] la quale, come già espresso da taluna dottrina[6], afferma che tale attribuzione è da intendersi proveniente direttamente dal disponente in quanto preordinata alla soddisfazione di pretese successorie. Bisogna però precisare che una tale conclusione è finalizzata al sol fine di determinare il corretto regime impositivo dell’atto di liquidazione, sebbene non si esclude che possa essere spunto di riflessione altresì ai fini di una valutazione civilistica dell’operazione.

Ad ogni buon conto, quale sia la tesi che si voglia adottare in ordine all’individuazione del patrimonio da cui proviene la liberalità, è indubbio che anche la liquidazione è ricompresa nell’ambito applicativo dell’art. 179, lettera b), c.c. ed è pertanto esclusa dalla caduta in comunione.

 

[1] L. Genghini, op. cit., 386.

[2] Cass. 14 dicembre 2000, n. 15778, con nota di F. Curti, Alloggi in cooperativa, donazioni indirette e comunione legale: fattispecie insolite tra principi consolidati ed eccezioni configurabili, in Dir. fam., 2001, 938 ss; Cass. 15 novembre 1997, n. 11327, in Foro it., 1999, 994 ss.

[3] G. Oberto, op. cit.;

[4] Si veda la nota 10.

[5] Si precisa che detta sentenza si pronuncia ai soli fini fiscali, ma ciò non toglie che una tale conclusione non possa essere utilizzata al di fuori dell’alveo suo proprio.

[6] A. Benni de Sena, Family buy-out e prospettiva ereditaria, in Vita not., 3, 2020, 1576; M. Cecci, Patto di famiglia e imposte dirette. I profili fiscali alla luce dell’analisi civilistica, in Giur. comm., 2020, 5, 1151; G. Rizzi, op. cit., 432.x


4. La struttura.

Altro aspetto del patto di famiglia che è stato oggetto di grandi discussioni è rappresentato dalla relativa struttura.

Si è ritenuto di dover affrontare l’argomento in modo separato rispetto al precedente in quanto si ritiene che questo assuma un carattere trasversale. Infatti, all’interno delle diverse teorie circa la natura del patto di famiglia si annidano diverse ed opposte correnti di pensiero in ordine alla sua struttura.


4.1. Tesi della struttura variabile.

Secondo l’orientamento più diffuso in dottrina[1], il patto di famiglia sarebbe un contratto a struttura variabile. Con tale locuzione si vuole intendere che le uniche parti strettamente necessarie ai fini della valida stipula di tale negozio sono il disponente e l’assegnatario dell’azienda o della partecipazione sociale. I legittimari non assegnatari, di contro, avrebbero solo la mera possibilità di partecipare o meno al negozio per ottenere la liquidazione di quanto loro spettante. Invece, per il caso in cui questi non si ritenessero soddisfatti dell’ammontare della somma da liquidarsi, sorge il problema di individuare il rimedio a tutela dei relativi diritti; problema a cui sono state date risposte assai diverse, riflesso della diversa costruzione dogmatica cui ogni singolo autore ha ritenuto di dover aderire e che saranno esaminate in un apposito paragrafo.

A fondamento della tesi in commento vengono posti una pluralità di argomenti. In primo luogo si afferma che il dato letterale dell’art 768-bis c.c. non sarebbe pregnante. Infatti spesso accade che il legislatore utilizzi una parola in un significato atecnico o lato.

Altro argomento assai diffuso è rinvenuto nel testo dell’art. 768-sexies c.c., il quale parla in modo generico di legittimari che non abbiano partecipato al patto, e non di legittimari “sopravvenuti”. Ciò lascia trapelare che non vi sia, in effetti, la necessità che tutti tali soggetti debbano necessariamente partecipare alla stipula.

Un autore[2], con originalità, ha osservato che nel nostro ordinamento ha già conosciuto istituti che legittimassero la tacitazione in denaro anche contro la volontà del legittimario interessato: ci si riferisce all’abrogato istituto della commutazione, contemplato dal vecchio testo nell’art. 537, comma terzo, c.c.. Ne consegue che una tale interpretazione della struttura del patto di famiglia è foriera di una logica tutt’altro che sconosciuta tanto al ceto dei giuristi quanto al sistema positivo.

Si è altresì ritenuto eccessivo[3] il ricorso alla nullità ex art. 1418 c.c. a fronte della mancata presenza di tutti i legittimari interessati. Infatti tale istituto opererebbe solo ove il legislatore non disponga diversamente; ed in tal caso in effetti, il legislatore “dispone diversamente” avendo contemplato i rimedi cui all’art. 768-sexies c.c..

Sostengono la tesi in oggetto buona parte di coloro che hanno ritenuto di dover qualificare il patto quale nuovo tipo contrattuale. Si muovono altresì in questa direzione parte di coloro[4] che, invece, ritengono che il patto abbia natura di donazione modale. A tale conclusione può giungersi sulla scorta dell’evidenza che ai fini del perfezionamento dell’atto donativo è richiesta la presenza del donante e del donatario, essendo “affare” di quest’ultimo adempiere al modus.

Si è dunque affermato[5] che la “minima unità effettuale” del patto di famiglia si rinviene nell’accordo tra disponente ed assegnatario, il quale si compone di tre elementi: il trasferimento dell’azienda, la determinazione delle quote da liquidare ai non assegnatari e l’obbligo in capo all’assegnatario di eseguire dette liquidazioni.

In buona sostanza la partecipazione del legittimario non assegnatario consente a quest’ultimo di concorrere alla determinazione della somma da liquidarsi ed è concepita nell’esclusivo interesse di quest’ultimo. Nel caso di un suo comportamento ostruzionistico, questi, avendo perduto l’opportunità di determinare quanto dovutogli, avrà solamente il diritto a pretendere quanto dagli altri determinato[6].  Una tale ricostruzione, se posta in questi termini, stimolerebbe il legittimario non assegnatario a non assumere comportamenti ostruzionistici.

Coloro che sostengono questa tesi sono mossi dalla comune intenzione di non rendere vana la riforma, e cercare di individuare un ampio spazio di utilizzabilità del patto di famiglia. Infatti la necessaria presenza di tutti i legittimari non assegnatari avrebbe la logica conseguenza di attribuire a questi ultimi un potere di veto sull’intera operazione.

 

[1] L. Genghini, C. Carbone, op. cit., p. 1581; C. Caccavale, op. cit.; G. Sicchiero, op. cit.; C.M. Bianca, op. cit., 49; G. Perlingieri, Il patto di famiglia tra bilanciamento dei principi e valutazione comparativa degli interessi, in www.fondazionenotariato.it; G. Petrelli, op. cit., 428; G. Oberto, op. cit.; A. Checchini, Patto di famiglia e principio di relatività del contratto, in Riv. Dir. civ., 2007, 3, 297 ss.

[2] G. Sicchiero, op. cit., 1233.

[3] Op. ult. cit., 1234.

[4] C. Caccavale, op. cit..

[5] G. Perlingieri, op. cit..

[6] G. A. M. Trimarchi, op. cit., 1950.


4.2. Tesi del contratto in favore di terzo.

Un’isolata corrente di pensiero[1] ritiene che il patto di famiglia rientri nello schema del contratto in favore di terzo. Più precisamente tale contratto sarebbe esclusivamente bilaterale, vedendo come parti necessarie solo il disponente ed il beneficiario. L’obbligo, in capo a quest’ultimo, di liquidare i legittimari non assegnatari sarebbe espressione della deviazione in loro favore di una sorta di corrispettivo che l’assegnatario dovrebbe versare al disponente.

Gli argomenti portati a fondamento di questa tesi sarebbero non pochi. In primo luogo anche questa tesi fa leva sulla non vincolatività del dato letterale di cui all’art. 768-quater c.c.. La mancata partecipazione del legittimario non assegnatario darebbe luogo a mera inopponibilità del patto nei suoi confronti.

Si è pure osservato che un contrario assunto non potrebbe dedursi dall’inquadramento del patto entro la divisione, essendo tale ultima ricostruzione del tutto errata. Infatti, se così fosse, non si riuscirebbe a comprendere come l’art. 768-quater, comma quarto, esenti quanto attribuito dalla collazione, la quale è un passaggio logico antecedente all’operazione divisoria. Questa motivazione, invero, appare assai più debole. Infatti, come sopra evidenziato, la divisione di cui al patto di famiglia opererebbe con riferimento ad una sorta di “patrimonio separato” del disponente rappresentato da quanto assegnato, quale vicenda ben distinta dalla sua successione.

Si evidenzia altresì che una tale ricostruzione avrebbe l’ulteriore pregio di attribuire sistematicità alla disciplina del patto, in vero assai criticata anche sul punto.

La ricostruzione del patto di famiglia quale negozio tipico, ma con parziale deviazione degli effetti in favore di terzo avrebbe il pregio di spiegare il come ed il perché quanto liquidato ai legittimari non assegnatari si imputi al patrimonio del disponente. Infatti la somma con la quale si liquida è come se fosse un corrispettivo[2] che l’assegnatario dovrebbe pagare al disponente e che questi devia in favore degli altri legittimari, così integrando una donazione indiretta in loro favore. In buona sostanza, in tal modo i legittimari tacitati sarebbero aventi causa del disponente, così riconoscendo una coerenza col sistema dell’art. 768-quater, comma terzo, c.c..

Una tale ricostruzione non farebbe comunque venir meno la natura liberale dell’attribuzione dell’azienda o della partecipazione: il corrispettivo “deviato” in favore dei legittimari non assegnatari, sarebbe comunque parametrato con riferimento alle quote di questi ultimi. Pertanto risulta a contrario una liberalità pari “al netto” del valore complessivo dell’azienda a cui si sottrae quanto liquidato ai non assegnatari.

Tale argomento, sicuramente raffinato e logicamente coerente, non appare comunque determinante in quanto, comunque si voglia ricostruire il patto, l’obbligo di imputare quanto ricevuto alla successione del disponente trova comunque fondamento nella legge, a prescindere dalla ricostruzione che si voglia fare dell’istituto, e si spiega entro le logiche di composizione degli interessi in gioco che opera il patto di famiglia.

Infine, ultimo argomento si potrebbe rinvenire nella natura dell’azione di annullamento ex art. 768-sexies, comma secondo, c.c.. Essa, ben lungi dal rappresentare una azione di risoluzione per inadempimento[3], è invece strumento di tutela dei legittimari non assegnatari – e non partecipanti – al patto. Questi, qualora non ritenessero soddisfacente il quantum da liquidarsi in loro favore, potrebbero dunque chiedere ed ottenere l’annullamento del contratto con conseguente “ripristino” delle ordinarie logiche successorie.

L’insieme di questi elementi, cui si aggiunge il dato letterale dell’art. 768-sexies c.c. che parla genericamente di legittimari non partecipanti, contribuirebbero a conferme la struttura di negozio bilaterale con parziale deviazione degli effetti in favore di terzi.

Tale tesi, indubbiamente suggestiva e ben argomentata è rimasta isolata, senza l’avallo di altri sostenitori né della giurisprudenza. Anzi, proprio l’arresto in epigrafe, ne prende espressamente le distanze prediligendo una diversa ricostruzione meglio analizzata nei successivi paragrafi.

 

[1] U. La Porta, op. cit..

[2] Parla di “corrispettivo” anche F. Gazzoni, op. cit., 221.

[3] U. La Porta, op. cit., afferma senza indicare la fonte che sarebbe tesi sostenuta dal Prof. R. Sacco quella secondo cui l’azione in oggetto si inquadrerebbe in una azione di risoluzione sui generis. Tale affermazione sarebbe contraddetta dall’assenza di un sinallagma tra i soggetti che essa coinvolge. Sul punto si veda anche G. Sicchiero, op. cit., 1261 ss.


4.3. Tesi del contratto “ad almeno tre parti”.

Sulla scia di argomenti simili a quelli di cui al precedente paragrafo, un autore[1] ha ritenuto di definire il patto di famiglia come contratto ad almeno tre parti.

Punto di partenza di questo pensiero è quello di ricercare una concreta utilizzabilità di tale istituto alla luce degli intenti che ne hanno spinto l’introduzione. In particolare, si cerca una via atta ad evitare che un atteggiamento ostruzionista o vessatorio di uno dei legittimari possa in concreto bloccare un’operazione dal rilievo pubblicistico quale il passaggio generazionale di azienda.

Pertanto, ancora una volta si fa leva sul carattere non vincolante del dato letterale utilizzato dal legislatore (“devono partecipare”) nonché sulla generica formulazione dell’art. 768-sexies c.c., che non parla espressamente di legittimari sopravvenuti. Sul punto si osserva altresì che, anche a voler ritenere quest’ultimo articolo limitato solo ai legittimari sopravvenuti, in ogni caso non verrebbe garantita l’esigenza di stabilità del patto, il quale potrebbe comunque esser caducato mediante l’azione di annullamento contemplata all’art. 768-sexies c.c. da parte di taluno di essi.

Altro singolare argomento sarebbe rinvenuto nell’ammissibilità di un recesso, che confermerebbe la non stretta necessità di tutti gli interessati ai fini della validità del patto.

Tale corrente di pensiero critica altresì la tesi della struttura variabile, limitatamente all’ipotesi in cui si ammette la sola partecipazione del disponente e dell’assegnatario. Infatti, in tale caso, l’operazione dovrebbe essere qualificata come mera donazione, sulla scorta dell’osservazione che mancherebbe una regolamentazione per la liquidazione, che richiede il necessario “contraddittorio” con gli interessati. Sulla scorta di tale assunto si ritiene che debba partecipare alla stipula “almeno un” legittimario non assegnatario, quale esponente della categoria dei controinteressati.

       Bisogna però osservare che un tale argomento appare assai debole, in quanto l’assenza del legittimario non assegnatario in effetti non implicherebbe la necessaria mancata regolamentazione dei profili evidenziati, quanto il fatto che vi si proceda in assenza di contraddittorio con coloro che nei fatti dovrebbero “subirne” gli effetti.

Tale tesi, indubbiamente originale ed autorevolmente sostenuta, è rimasta isolata e priva di alcun supporto giurisprudenziale.

 

[1] A. Cataudella, Parti e terzi nel patto di famiglia, in Riv. dir. civ., 2008, 2, 179 ss.


4.4. Tesi della plurilateralità.

Secondo un orientamento assai diffuso, il patto di famiglia richiederebbe la necessaria partecipazione del disponente, del beneficiario dell’assegnazione e di tutti i potenziali legittimari, assumendo la struttura di contratto trilaterale[1] in quanto espressione e strumento di composizione di tre distinti poli di interessi.

A tale conclusione si può pervenire in primo luogo sulla base dell’analisi del dato positivo. Infatti, l’art. 768-quater, comma primo, c.c. afferma in chiare lettere che al “contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore”.

È stato altresì ritenuto[2] che il medesimo articolo, al comma secondo, nell’utilizzare la parola “contraenti” sembrerebbe riferirsi a tutti i soggetti di cui sopra, dando ulteriore conferma della loro necessaria presenza.

Altro argomento sarebbe rinvenibile nella funzione del patto, la quale è quella di mediare tra le diverse e contrapposte esigenze di continuità d’impresa e di tutela dei legittimari, non potendosi dare assoluta preminenza alle prime.

Ulteriori indici in tal senso si trarrebbero anche dai lavori preparatori e dalla relazione di accompagnamento alla legge[3]; oltre che da una proposta di emendamento in sede di approvazione in Senato[4], poi bocciata, che espressamente prevedeva la vincolatività per i legittimari non sottoscriventi.

Si è pure osservato[5] che la disciplina del patto di famiglia contiene una rilevantissima deroga al divieto dei patti successori. Ciò implicherebbe un necessario contraddittorio di tutti i soggetti coinvolti, onde evitare che taluni possano subire decisioni altrui aventi oggetto così delicate posizioni patrimoniali.

L’insieme di questi elementi contribuirebbe a dare una lettura restrittiva dell’art. 768-sexies, c.c che risulterebbe trovare applicazione solo con riferimento ai legittimari sopravvenuti, ossia coloro che non esistendo al momento di stipula del patto, non hanno giocoforza potuto parteciparvi.

Sulla base di tali argomenti, aderiscono alla tesi in oggetto anche taluni degli autori[6] che qualificano il patto quale donazione modale.

Invece, coloro[7] che ritengono che il patto di famiglia abbia natura di divisione in senso tecnico arrivano a tale soluzione non solo e non tanto sulla base di quanto esposto, ma applicando le ordinarie logiche proprie del contratto di divisione.

Infine si ricorda che, oltre ai soggetti che devono partecipare al patto, la dottrina[8] ha individuato altri che “possono” parteciparvi, ferma restando la loro non stretta necessità. Ci si riferisce agli ascendenti ed i discendenti di secondo grado, ossia coloro che secondo le ordinarie regole successorie verrebbero subordinatamente ai figli del disponente.

In ordine alla natura plurilaterale del patto si è pronunciata, sebbene con un obiter dictum, la giurisprudenza tributaria[9]. In tale ordine di idee si colloca altresì la Corte di Cassazione con la pronuncia in commento, la quale, con maggiore autorevolezza, ancorché sempre tramite obiter dictum, osserva che la necessaria presenza dei legittimari non assegnatari è funzionale ai fini di poter ottenere la conversione della loro quota di riserva in mero diritto di credito immediatamente esigibile. Infatti ci si trova in presenza di un atto dispositivo dei diritti di legittima, che richiede il necessario consenso dell’interessato. Ciò rende così loro opponibile il patto e, soprattutto, permette di poter immediatamente ottenere la soddisfazione della propria posizione evitando ostruzionismi da parte dell’assegnatario.

Dalla sentenza citata, in conclusione, emerge l’idea che l’esigenza di dare continuità dell’impresa e quella di tutela dei legittimari abbiano peso equivalente, essendo espressione di interessi di analogo rilievo senza che uno possa predominare sull’altro.

 

[1] F. Gazzoni, op. cit., 219 ss.

[2] L. Genghini, S. Pertoldi, op. cit., 1137.

[3] Relazione Buemi al progetto di legge 08.04.2003, n. 3870; Relazione Buemi alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati del 23.09.2003; Relazione Buemi in aula nella seduta del 25.07.2005, n. 661 alla Camera; Relazione Semeraro Commissione Giustizia del Senato in sede referente dell’08.11.2005 in riferimento al d.d.l. n. 3567 e n 1353. Sul punto si veda: N. Di Mauro, op. cit., 534 ss.

[4] Emendamento 2.1. (Fassone).

[5] G. Capozzi, op. cit., 1457-1458.

[6] A. Palazzo, op. cit., 267 ss. In tal senso anche: S. Delle Monache, Spunti, cit., 893 ss.

[7] Si veda la nota 17.

[8] A. Torroni, op. cit., 481.

[9] Comm. Trib. II grado Trentino - A. Adige Bolzano, 22 febbraio 2013, cit..


5. Mancata partecipazione del legittimario non assegnatario. Conseguenze.

In relazione alla tesi cui si aderisce in ordine alla struttura del patto, ne consegue una diversa ricostruzione dell’effetto che si ricollega all’assenza di uno dei legittimari non assegnatari in sede di stipula del patto.

Quale premessa si ricorda che, tra coloro che non ne ritengono necessaria la partecipazione, non vi è assolutamente alcuna unità di vedute, essendo state prospettate le tesi, e relative varianti, più disparate.

Secondo una tesi assai autorevole[1], i legittimari che non abbiano partecipato al patto si trovano di fronte ad un’alternativa: possono aderire a tale negozio in un secondo momento, mediante la stipula di un “contratto successivo” ex art. 768-quater, comma terzo, c.c.; o agire in riduzione e chiedere la collazione dell’azienda o partecipazione sociale assegnata.

Una tale prospettiva implica riattivare i rimedi successori della collazione e riduzione che la disciplina del patto sembrerebbe voler disinnescare. Detta soluzione si pone però in armonia col principio di relatività degli effetti del contratto, in quanto, come è stato correttamente osservato[2], la preclusione ex art. 768-quater, comma quarto, c.c. non può che operare esclusivamente tra le parti.

Il regime come sopra descritto opererebbe solo con riferimento ai legittimari non partecipanti ma già esistenti al momento della stipula, dovendosi di contro ritenere applicabile il rimedio cui all’art. 768-sexies c.c. ai soli legittimari sopravvenuti[3].  

Secondo una diversa ricostruzione[4] che non distingue tra i legittimari sopravvenuti o esistenti al momento della stipula del patto, questi potrebbero o “profittarne”, aderendovi ma ai sensi dell’art. 768-sexies c.c. o, qualora non lo ritengano conforme ai loro interessi, agire in riduzione.

Altra problematica poi sorge in ordine al “come” debba operare l’azione di riduzione. Infatti secondo una isolata ancorché autorevole ricostruzione[5], tenuto conto della specifica funzione di conservare la stabilità dell’impresa propria del patto, si giustificherebbe una interpretazione che riconosca al legittimario una mera tutela per equivalente.

Altri studiosi[6], ritenendo che tra gli scopi del patto vi sia quello di escludere in toto l’operatività di ogni rimedio successorio, ritiene applicabile quale unico rimedio in favore dei legittimari (senza distinguere tra sopravvenuti e non) la pretesa ex art. 768-sexies c.c..

Una tale ricostruzione risulta però non tenere conto del fatto che in questo modo tali legittimari dovrebbero “subire” la determinazione del valore dell’azienda o partecipazione sociale come effettuata da terzi.

Per tale ragione c’è chi ha ipotizzato che sarebbe legittima una rideterminazione giudiziale a richiesta dell’interessato[7]. Altri[8], invece, proponendo una singolare interpretazione dell’azione di annullamento contemplata all’art. 768-sexies c.c., affermano che i legittimari non partecipanti che abbiano ritenuto non conveniente l’adesione al patto possano ottenerne la caducazione ai sensi della citata norma.

Un altro orientamento distingue tra legittimari invitati a partecipare alla stipula e non. Quanto ai primi, essendo stata loro libera scelta non partecipare alla determinazione del valore di quanto attribuito, il patto sarà loro sicuramente opponibile, potendo dunque ottenere solo la liquidazione come dagli altri determinata. Per quanto attiene ai soggetti non convocati, si dovrebbe ritenere applicabile analogicamente l’art. 1113 c.c., con la conseguenza di rendere il patto loro inopponibile. Si badi bene: sebbene anche in tal caso si parli di inefficacia relativa, essa discende direttamente dall’applicazione analogica della citata norma e non dall’applicazione dei rimedi successori[9].

Nell’ottica di escludere l’operatività dei rimedi successori, una tesi[10] assai originale ritiene che l’assenza di uno dei legittimari non assegnatari farebbe si che il patto debba essere riqualificato come donazione modale, in armonia con il principio di conservazione degli effetti giuridici ex art. 1367 c.c. e con l’art. 1424 c.c.. Sarebbe comunque sempre ammessa una adesione successiva da parte degli interessati che implicherebbe una convezione del negozio in patto di famiglia.

Infine, maggiore coerenza vi è tra coloro che ritengono che al patto debbano necessariamente partecipare tutti i legittimari non assegnatari.

L’unica soluzione cui si può pervenire per il caso dell’assenza di uno di tali soggetti, è quello della radicale nullità del negozio.

A questa conclusione può pervenirsi affermando la violazione di una norma imperativa, quale è il dato letterale dell’art. 768-quater c.c. Tale conclusione è rafforzata da coloro che affermano la natura divisoria del patto, sull’osservazione che detto negozio richiede a pena di nullità la presenza di tutti gli interessati (argomentando dall’art. 784 c.p.c.). Altri ancora hanno ritenuto che la nullità deriverebbe dalla mancanza di causa[11] per impossibilità di raggiungimento dello scopo del patto.

Si è altresì[12] rilevato che tale soluzione ben potrebbe essere uno strumento di protezione verso accordi fraudolenti o strumentali a danno dei non partecipanti.

Verso quest’ultima soluzione si pone anche la Cassazione, con la pronuncia in commento, facendo leva sostanzialmente sul dato letterale dell’art. 768-quater c.c..

Questa rappresenta la prima autorevole pronuncia sul punto, la quale sicuramente segnerà una svolta nell’interpretazione dell’istituto. Indubbio pregio è semplificare notevolmente le questioni interpretative connesse al patto che, come visto, portano al proliferare delle tesi più disparate in spregio ad ogni esigenza di certezza del diritto. Dall’altro depotenzia di non poco l’operatività dell’istituto, ancorché una tale affermazione finisca per avere portata più teorica che pratica. La prudente prassi notarile, a prescindere dall’adesione o meno a questa tesi, era già orientata in tal senso.

 

[1] G. Petrelli, op. cit., 427 ss.; L. Genghini, S. Pertoldi, op. cit., 1160; L. Genghini, C. Carbone, op. cit., 1582;

[2] A. Checchini, op. cit., 297 ss.

[3] G. Pertrelli, op. cit., 432.

[4] C. M. Bianca, op. cit., 51.

[5] G. Perlingieri, op. cit..

[6] G. Oberto, op. cit.; C. Caccavale, op. cit.; A. Cataudella, op. cit., 182.

[7] G. Sicchiero, op. cit., 267.

[8] U. La Porta, op. cit..

[9] Infatti è pacifico che all’azione di riduzione consegua una declaratoria di inefficacia relativa del negozio lesivo nei confronti del legittimario-attore, dando luogo dunque ad un fenomeno di inopponibilità. In tal caso, però, le norme sulla riduzione non si riterrebbero applicabili ai sensi dell’art. 768-quater, ultimo comma, c.c.

[10] G. Rizzi, op. cit., 434.

[11] F. Magliulo, op. cit..

[12] F. Gazzoni, op. cit., 219.


6. Rapporti con i rimedi successori.

Altro nodo da sciogliere è rappresentato dal rapporto tra il patto ed i rimedi successori. Tale argomento è indubbiamente connesso con quanto trattato nel paragrafo precedente.

Tutto ruota sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 768-quater c.c., che esclude l’operatività dell’azione di riduzione e dell’obbligo di collazione con riferimento a quanto attribuito col patto.

Come visto, buona parte di coloro che ritengono ammissibile la stipula in assenza dei legittimari non assegnatari, ammettono quale strumento a tutela dei rispettivi diritti il ricorso alla riduzione e collazione. In tal modo la disposizione citata verrebbe “depotenziata”, trovandosi ad operare con esclusivo riferimento alle parti del patto.

Massima espansione a tale disposizione è invece riconosciuta da coloro che, ancorché ammettono la non necessaria partecipazione di tutti detti legittimari, ricostruiscono la tutela dei relativi diritti o mediante una applicazione, non sempre con la medesima interpretazione, dell’art. 768-sexies c.c.; o mediante l’applicazione analogica dell’art. 1113 c.c..

A conclusioni analoghe, ancorché con esclusivo riferimento al citato art. 768-quater c.c., pervengono tutti coloro che ritengono necessaria la partecipazione di tutti i legittimari. Infatti per costoro non si pone alcun problema di individuare mezzi di tutela dei legittimari non partecipanti al patto, non potendosi nemmeno configurare tale ipotesi.

In quest’ultima direzione si muove la sentenza in commento, la quale chiarisce espressamente che quanto oggetto del patto non entra a far parte del relictum e neppure viene considerato ai fini della ricostruzione del donatum. In buona sostanza, quanto attribuito è definitivamente estromesso dalla vicenda successoria, in coerenza con lo scopo proprio del patto di famiglia.

Rimane però da capire se quanto attribuito col patto sia oggetto di imputazione ex se, ai sensi dell’art. 564 c.c..

Al riguardo un’autorevole tesi[1] dà risposta positiva, sulla base dell’art. 768-quater, comma terzo, c.c.. Tale norma prevede che i legittimari non assegnatari dell’azienda debbano imputare quanto loro liquidato al patrimonio del disponente. La necessità di una tale norma si spiega nel fatto che, in assenza, tale attribuzione, in quanto proveniente dall’assegnatario, figurerebbe quale liberalità a carico di quest’ultimo.

Di contro, il legislatore nulla dice circa la posizione del beneficiario dell’azienda o partecipazione sociale. Tale silenzio è stato spiegato in quanto non essendovi necessità di alcuna norma speciale, l’obbligo di imputazione deriverebbe dalla regola generale ex art. 564 c.c., in quanto tale attribuzione sarebbe una liberalità che giocoforza dovrebbe imputarsi alla successione del disponente.

Entro tale corrente di pensiero si discute poi se l’imputazione debba effettuarsi secondo il valore attribuito nel contratto ovvero secondo quello risultante all’apertura della successione[2].

In senso contrario si muovono altri studiosi[3], i quali ritengono che non sussista alcun obbligo di imputazione. Gli argomenti portati a sostegno di una tale affermazione sono non pochi.

In primo luogo, si afferma che lo scopo del patto di famiglia è quello di creare una netta separazione tra il patrimonio generale del disponente e quanto con esso attribuito, così estromettendo taluni beni dalla vicenda successoria.

Inoltre il legislatore, se esclude che le attribuzioni del patto possano essere oggetto di collazione e riduzione, manifesterebbe la volontà di separare nettamente tale vicenda da quella ereditaria.

È stato altresì autorevolmente[4] osservato che la parola “imputazione” cui fa riferimento l’art. 768-quater, comma terzo, c.c. è stata utilizzata in senso atecnico. Infatti essa dovrebbe riferirsi non già all’imputazione ex se quanto alla massa patrimoniale “separata” oggetto del patto di famiglia (e dunque non quella ereditaria).

Un dato positivo è altresì stato rinvenuto nell’art. 564, ultimo comma, c.c., secondo cui tutto quanto è esente da collazione, è esente altresì da imputazione.

Quest’ultimo è l’argomento espressamente utilizzato dalla Corte di Cassazione nella pronuncia in commento, che in più passaggi dimostra di aver aderito all’idea che la funzione del patto sia proprio quella di creare una sorta di patrimonio separato ed autonomo rispetto a quello generale, così prevenendo a monte ogni sua relazione con la successione del disponente.

 

[1] G. Di Giandomenico, op. cit.; M.C. Lupetti, op. cit.; C.M. Bianca, op. cit., 53; G. Petrelli, op. cit., 450 ss.

[2] Per una panoramica sul punto si veda: G. Capozzi, op. cit., 547 ss.

[3] C. Caccavale, op. cit.; F. Magliulo, op. cit.; F. Tassinari, op. cit.;

[4] F. Magliulo, op. cit.; G. A. M. Trimarchi, op. cit., 1988.


7. Conclusioni.

Dopo aver tentato di effettuare un raffronto tra le diverse opinioni degli studiosi con quanto statuito dalla Corte, possiamo dunque concludere che con l’arresto in epigrafe si è affermato che il patto di famiglia

  1. è un nuovo contratto tipico non sussumibile entro altri schemi negoziali;
  2. ha un’indubbia componente di liberalità, rappresentata tanto dall’attribuzione dell’azienda o della partecipazione sociale, quanto dalla liquidazione in favore dei legittimari non assegnatari. Pertanto ne abbiamo tratto che dette attribuzioni sono estranee al regime della comunione legale dei coniugi;
  3. quale contratto tipico, non è soggetto al regime formale della donazione, come la presenza dei testimoni ex 48 della legge notarile e la stima ex art. 782 c.c.;
  4. è un contratto con struttura plurilaterale, in quanto richiede la necessaria partecipazione del disponente, dell’assegnatario e di tutti i potenziali legittimari esistenti al momento della stipula. In conseguenza, l’art. 768-sexiesc. è da applicarsi con esclusivo riferimento ai legittimari sopravvenuti;
  5. non è compatibile con i rimedi successori dell’azione di riduzione, della collazione nonché dell’imputazione ex se.

Tali conclusioni rappresentano affermazioni di non poco peso e costituiscono sicuramente una prima guida “ufficiale” per gli operatori del diritto ed in ispecie il ceto notarile.

Di contro, il principale limite di una tale pronuncia è rappresentato dal fatto che tali affermazioni sono comunque estranee al decisum, mere affermazioni incidentali. Ciò non ne toglie la rilevanza, soprattutto alla luce del fatto che la giurisprudenza è quasi del tutto assente in questo settore e quelle pochissime volte che è stata chiamata a pronunciarsi lo ha fatto in ambito tributario.

Questo silenzio giurisprudenziale è riflesso del poco successo che ha avuto il patto, essendone stati stipulati in numero assai esiguo su tutto il territorio nazionale, e pertanto la Corte non ha avuto nemmeno molte occasioni di pronunciarsi sul punto.

Ne consegue che possiamo sicuramente affermare che, allo stato di fatto, questo lungo obiter dictum è da ritenersi di enorme valore, essendo l’unico materiale a nostra disposizione, in attesa di qualche altra pronuncia che in modo più pertinente prenda posizione sul punto.