Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

La natura dei passion investments tra attività di consumo e prodotti finanziari (di Federico Onnis Cugia, Professore a contratto di Diritto delle assicurazioni – Università Telematica San Raffaele di Roma)


Diversificare le operazioni di investimento in attività reali o di consumo attira un numero sempre crescente di investitori, specie avendo riguardo ai cc.dd. passion investments, investimenti in beni reali con alto valore venale. Il presente lavoro, traendo spunto da molteplici recenti arresti giurisprudenziali in ordine alla valutazione di differenti manifestazioni del fenomeno in discorso (in particolare per quanto concerne i diamanti da investimento), pone in evidenza gli elementi discriminatori che consentono di qualificare l'operazione come investimento avente o meno natura finanziaria per poi concentrare l'attenzione sulla qualificazione dell'attività di intermediazione svolta dalla banca nel collocamento (rectius, vendita) di tali beni e sui relativi profili di responsabilità.

The nature of passion investments between tangible assets and financial products

Diversification through tangible assets is an investment strategy that attracts an ever-increasing number of investors, especially the so-called passion investments, i.e. investments in non-traditional assets with high market value. This paper, drawing inspiration from several recent judgements regarding the evaluation of different displays of the phenomenon in question (in particular as regards investment diamonds), highlights the discriminatory elements that allow the operation to be qualified as an investment having or less financial nature, to then focus attention on the qualification of the intermediation activity carried out by the bank in the placement (rectius, sale) of these assets and on the related profiles of liability.

SOMMARIO:

1. I passion investments: descrizione di un fenomeno - 2. La definizione di prodotto finanziario. La creazione di un “valore” - 3. Operazioni di investimento aventi natura finanziaria e operazioni di investimento in attività reali o di consumo - 4. Il rischio proprio dell’investimento avente natura finanziaria - 4.1. Segue. I casi vagliati dalla Suprema Corte: compravendita o investimenti di natura finanziaria? - 5. Le operazioni di vendita di diamanti tramite intermediazione di istituti di credito - 6. La gestione collettiva del patrimonio in beni d’arte: il caso degli art funds - 7. La responsabilità dell’ente creditizio - 7.1 – Segue. L’offerta al pubblico e il collocamento di prodotti finanziari - 7.2 – Segue. La commercializzazione di beni rifugio quale attività connessa della banca - 7.3. Segue. La natura della responsabilità della banca intermediaria - NOTE


1. I passion investments: descrizione di un fenomeno

Un’auto d’epoca, una bottiglia di vino pregiata, pietre preziose o una bella casa possono offrire un’emozione che quote di fondi di investimento, azioni e obbligazioni non potranno mai dare.

Diversificare le operazioni di investimento in attività reali o di consumo attira un numero sempre crescente di investitori, specie avendo riguardo ai cc.dd. passion investments, investimenti in beni caratterizzati da un alto valore venale come gli oggetti di lusso da collezione, dalle auto d’epoca ai gioielli, dalle opere d’arte agli orologi, dai vini agli strumenti musicali e così via [1].

L’appetibilità di investimenti nelle varie asset class al fine di una diversificazione del portafoglio è resa allettante dalla correlazione bassa o negativa con i principali investimenti finanziari [2]. Sono beni, in una qualche misura, sottratti al consumo: il mercato dei beni di collezione è quasi un locus amoenus della teoria economica in cui vi sono una buona informazione ed una vera contrattazione [3]. Inoltre, l’investitore è spinto all’investimento dal suo certo rendimento “spirituale”, nel senso che un bene da collezione, essendo passione prima ancora che ricchezza, porta a far prevalere il lato emozionale su quello economico e il bene avrà sempre un valore immateriale per chi l’ha acquistato, indipendentemente da quello venale. I passion investment sono dunque visti come investimenti che in un certo qual modo sfuggono da considerazioni di carattere eminentemente finanziario, assumendo (in maniera parallela, se non prevalente rispetto a queste ultime) particolare rilevanza il fattore emotivo, per cui l’investimento in beni di lusso appare affascinante per la sicurezza conferita da quelli che, nella comune opinione, vengono considerati cc.dd. beni rifugio (o safe heaven), che alla caratteristica della difesa del valore del capitale investito sul lungo periodo uniscono quelle della facile trasportabilità e della soddisfazione estetica e collezionistica [4]. Allo stesso tempo, però, non va trascurato il fatto che sono investimenti che risentono delle mode o delle oscillazioni dei mercati finanziari e, pertanto, al fine di contenere i rischi propri di tali settori richiedono elevate competenze specifiche [5].

La crescente affermazione della rilevanza dei beni di lusso nei mercati finanziari in senso ampio è ormai tangibile. In assenza di approfondimenti scientifici [6], si deve osservare come opere d’arte, orologi, auto d’epoca, gioielli rappresentino anche una garanzia sempre più appetibile per gli intermediari, fornendo un rinnovato stimolo alle operazioni di finanziamento su pegno [7]. Ciò consente, da un lato, all’investitore di ottenere liquidità in tempi rapidi e senza un’indagine sul merito creditizio; dall’altro, all’intermediario di poter contare su una garanzia di elevata qualità, per quanto caratterizzata da una particolare illiquidità e dalla complessità nella determinazione del valore di mercato del bene che ne forma oggetto (con la conseguenza che il rapporto dimensionale tra importo del finanziamento e valore della garanzia si attesta tra il cinquanta ed il settanta per cento di quest’ultima) [8].

Negli ultimi tempi si sono registrati molteplici arresti giurisprudenziali in ordine alla valutazione di differenti manifestazioni del fenomeno in discorso, in particolare per quanto attiene al diffuso fenomeno dell’offerta, da parte di alcune società e per il tramite del canale bancario, di diamanti presentati come “da investimento”) [9], con una pacifica adesione all’orientamento affermatosi nella giurisprudenza di legittimità [10], per cui un’operazione è qualificabile come investimento di natura finanziaria, come tale riconducibile nel novero dei prodotti finanziari (con la correlata applicazione della disciplina in materia di sollecitazione), quando caratterizzata dal conferimento di una somma di denaro da parte del risparmiatore con un’aspettativa di profitto o di remunerazione e con un rischio.

Appare dunque necessario concentrare preliminarmente l’indagine se e quando operazioni di tal genere siano configurabili come offerta al pubblico di prodotti finanziari, intendendosi per tale, come è noto, ogni comunicazione rivolta a persone, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, che presenti sufficienti informazioni sulle condizioni dell’offerta e dei prodotti finanziari offerti così da mettere un investitore in grado di decidere di acquistare o di sottoscrivere tali prodotti finanziari, incluso il collocamento tramite soggetti abilitati [art. 1, comma 1, lett. t), t.u.f.].


2. La definizione di prodotto finanziario. La creazione di un “valore”

In primo luogo, occorre prendere le mosse dalla nozione di prodotto finanziario offerta dal t.u.f.: come è noto, sono tali, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. u) «gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria; non costituiscono prodotti finanziari i depositi bancari o postali non rappresentati da strumenti finanziari”.

La formulazione della norma, connotata da una certa vaghezza [11], ha richiesto particolari sforzi esegetici da parte della dottrina [12], specie attorno alla formula «investimento di natura finanziaria» [13]. La natura finanziaria di un investimento e la conseguente sussunzione dello stesso nella fattispecie “prodotto finanziario” consente l’applicazione di molteplici norme di settore, sia in materia di offerta fuori sede (artt. 30, commi 5 e 9, 31, comma 2, e 32, comma 2, t.u.f.) e di offerta al pubblico di prodotti finanziari (artt. 94 ss. e, specialmente, l’art. 100-bis t.u.f.) [14].

Dalla definizione di prodotto finanziario emerge in primo luogo un rapporto di genus ad speciem tra prodotti finanziari e strumenti finanziari: tutti gli strumenti finanziari sono prodotti finanziari [15], ma non tutti i prodotti finanziari sono strumenti finanziari.

Se l’individuazione dei confini della categoria degli strumenti finanziari non comporta particolari problemi, data la puntuale e tassativa individuazione degli stessi contenuta nella sezione C di cui all’allegato 1 al t.u.f. (e l’individuazione di un perimetro «inferiore», escludendo dagli stessi gli strumenti di pagamento ex art. 1, comma 2, t.u.f., così come modificato dal d.lgs. 3 agosto 2017, n. 129) [16], appare meno agevole inquadrare la categoria aperta dei prodotti finanziari, che sicuramente ricomprende gli strumenti finanziari (e ne costituisce il limite “superiore”), ma anche le altre forme di impegno di capitali aventi natura finanziaria, presentando così – sotto il profilo contenutistico – un’estrema diversificazione. Come attentamente evidenziato in dottrina, si ha un’operazione finanziaria quando le parti programmano un’operazione che inizi e termini con il denaro, “essendo l’oggetto dell’interesse che le parti mirano a realizzare con l’operazione, oggetto che consiste nel, e si concentra sul, danaro” [17].

Ma tale specificazione non è di per sé sufficiente a consentire di individuare un prodotto finanziario che non sia strumento finanziario e a permettere che esso soggiaccia alla disciplina di settore. Così fosse, entrerebbe nella nozione di prodotto finanziario qualsiasi attività speculativa. Né appare soddisfacente l’im­postazione secondo cui i prodotti finanziari debbano rispondere a caratteristiche economico-giuridiche che, seppur non tali da far sì che la riconduzione alla gamma delle fattispecie tipiche degli strumenti finanziari, siano quanto meno oggettivamente analoghe a quelle [18].

Ulteriore peculiarità è la natura aperta ed atecnica del prodotto finanziario che non è strumento finanziario [19]: ciò risponde ad una voluta scelta del legislatore, il quale non solo là dove lo ha ritenuto opportuno ha individuato precisamente cosa rientrasse in una determinata categoria (id est gli strumenti finanziari), lasciando così aperta una finestra alla creatività del mercato, alla sua evoluzione e alla molteplicità di prodotti offerti dai suoi attori, ma ha voluto anche offrire una tutela agli investitori, consentendo di ricondurre nel­l’àmbito della disciplina di protezione dettata dal t.u.f. anche forme innominate di prodotti finanziari. Inoltre, la nozione prescinde anche dalla cartolarità del prodotto, potendosi tranquillamente ammettere che lo stesso non sia in alcun modo rappresentato da un documento [20].

Allora, il quid pluris va necessariamente individuato nell’operazione nel suo complesso: cosa distingue l’attività di un soggetto, che – ad esempio – acquista un immobile affinché con esso realizzi un guadagno (ad esempio, locandolo ovvero rivendendolo ad un prezzo più alto di quello di acquisto) da chi, invece (e altrettanto a titolo esemplificativo) sottoscrive quote di un fondo di investimento immobiliare? Un tale elemento connotante deve essere ravvisato in un fattore intermedio che si interpone tra il denaro iniziale investito e il denaro finale guadagnato con l’investimento [21].

In un prodotto finanziario, questo fattore intermedio è sicuramente da ravvisare nel riferimento ad un dato oggettivo della realtà economica, che ha funzione di costituire lo strumento o il parametro di calcolo, per la determinazione del denaro finale [22]. Tra denaro iniziale e denaro finale si inserisce il riferimento ad un dato della realtà (beni, titoli, denaro assunto come nominale, etc.) e qualunque ne sia la disciplina giuridica privatistica, ha una sua particolare rilevanza perché svolge nel rapporto una funzione diversa da quella normalmente riconosciutagli e tutelata negli istituti giuridici tradizionali. Effetto del contratto è così il creare un valore finanziario, che assume rilevanza proprio nell’ottica del risultato che il contratto stesso intende perseguire. Tra il denaro iniziale e il denaro finale c’è il fattore intermedio caratterizzato da un nesso stabilito dal contratto tra un fatto consistente in una dinamica dei dati della realtà economica di riferimento e il diritto soggettivo di credito/debito tra le parti, periodico, ma soprattutto al termine del rapporto [23].


3. Operazioni di investimento aventi natura finanziaria e operazioni di investimento in attività reali o di consumo

Per quanto finora esposto, emerge come vi sia una fondamentale distinzione tra le operazioni di investimento aventi natura finanziaria e quelle di investimento in attività reali o di consumo, cioè le operazioni di acquisto di beni e di prestazioni di servizi che, anche se concluse con l’intento di investire il proprio patrimonio, sono essenzialmente dirette a procurare all’investitore il godimento del bene, a trasformare le proprie disponibilità in beni reali idonei a soddisfare in via diretta bisogni non finanziari del risparmiatore stesso [24].

Per meglio evidenziare la distinzione tra un investimento avente natura finanziaria e uno che non la ha, è possibile operare un confronto un investimento effettuato acquistando un lingotto d’oro e un investimento in uno strumento finanziario parametrato al valore dell’oro.

A tal uopo, il confronto può essere fatto con un ETC (Exchange Traded Commodities) sull’oro. Gli ETC sono strumenti finanziari oggetto di un’operazione di cartolarizzazione emessi da una società veicolo o special purpose vehicle – società costituita ad hoc per effettuare esclusivamente una o più operazioni di emissione di strumenti finanziari – a fronte dell’investimento diretto dell’emittente in materie prime o in contratti derivati su materie prime [25]. Gli ETC replicano direttamente o indirettamente il sottostante attraverso una gestione passiva e sono negoziati in borsa come un’azione. Il Regolamento Borsa Italiana [26] (art. 2.2.22, comma 2) detta la previsione, specificamente per gli ETC, secondo cui: a) le attività acquistate con i proventi derivanti dalla sottoscrizione dei titoli devono costituire patrimonio separato a tutti gli effetti da quello dell’emittente; b) le attività acquistate con i proventi derivanti dalla sottoscrizione, nonché i proventi generati dalle stesse attività, devono essere destinati in via esclusiva al soddisfacimento dei diritti incorporati negli strumenti finanziari ed eventualmente alla copertura dei costi dell’operazione; c) sulle attività acquistate con i proventi derivanti dalla sottoscrizione non devono essere ammesse azioni da parte di creditori diversi dai portatori dei relativi strumenti finanziari. Può inoltre essere prevista la sottoscrizione o il rimborso, in via continuativa, attraverso la consegna degli strumenti finanziari o delle merci (o di un ammontare di danaro equivalente) su cui ha investito la società emittente.

I titoli emessi vengono poi immessi in un mercato primario, accessibile esclusivamente agli operatori specialisti, ove è consentita la sottoscrizione e il rimborso di lotti di titoli su base giornaliera al valore ufficiale dell’ETC, verso un pagamento in denaro ovvero in una corrispondente quantità della materia prima (per gli ETC physically-based) sottostante al titolo. Successivamente, i titoli vengono immessi nel mercato regolamentato, accessibile a qualsiasi investitore tramite un intermediario.

Tra le principali caratteristiche di tali strumenti finanziari emerge che questi, al pari delle cc.dd. obbligazioni zero coupon, non sono fruttiferi di interessi e che conferiscono all’investitore il diritto a richiedere il riscatto del titolo e di ricevere nella data di liquidazione una quantità di denaro pari al valore dell’ETC ovvero, in caso di ETC su metalli preziosi, una quantità della commodity sottostante pari al titolo su metallo in tale data. La gestione passiva dell’investimento, replicando l’andamento di un determinato indice, permette un forte contenimento dei costi di gestione e, di conseguenza, delle commissioni in capo al cliente.

Gli ETC permettono all’investitore di esporsi sui mercati delle commodities o dei derivati senza dover acquistare il bene fisico oggetto dell’investimento o dover stipulare direttamente contratti derivati. Proprietario del sottostante è unicamente la società emittente: in ragione di ciò e in virtù del principio res perit domino, in caso di perimento, danneggiamento o furto dei beni l’emittente non sarebbe in grado di far fronte alle proprie obbligazioni in relazione ai titoli emessi e nessun diritto potrà vantare l’investitore. Infatti, costui è titolare solo dei titoli che derivano il loro valore da quel sottostante e non del sottostante stesso e niente potrà vantare in relazione a vicende riguardanti quest’ultimo. Il bene, qui, è dunque il parametro di riferimento che determina la variazione del denaro iniziale investito e il denaro finale risultante dall’andamento del sottostante.

Se, invece, l’investitore acquista direttamente l’oro [27], l’elemento effettuale del contratto (la creazione di un valore finanziario) è assente e ciò anche in assenza di una consegna materiale del bene, sostituita da quella di un certificato.

In tal caso, l’acquisto dell’oro appare diretto al conseguimento del bene. Non viene prospettata alcuna forma di rendimento da parte del preponente diversa o collegata al valore del bene acquistato, né può qualificarsi come rendimento di natura finanziaria l’eventuale apprezzamento (o deprezzamento) della res materiale oggetto della vendita (oro) e dovendosi, nella fattispecie, escludersi l’assunzione di un rischio di perdita del capitale.

Come posto in luce dalla Consob [28], nel caso di acquisto della res non sussistono i caratteri minimi e necessari per ricondurre la fattispecie in esame all’interno della nozione di offerta al pubblico di prodotti finanziari. Secondo la Commissione, infatti, non rientrano nella nozione di sollecitazione le operazioni di investimento in attività reali o di consumo, cioè le operazioni di acquisto di beni e di prestazioni di servizi che, anche se concluse con l’intento di investire il proprio patrimonio [29], sono essenzialmente dirette a procurare all’investitore il godimento del bene, a trasformare le proprie disponibilità in beni reali idonei a soddisfare in via diretta i bisogni non finanziari del risparmiatore stesso e che si è in presenza di un investimento finanziario, come contrapposto ad un investimento di consumo, tutte le volte in cui il risparmiatore conferisce il proprio denaro con un’aspettativa di profitto, vale a dire di accrescimento delle disponibilità investite [30].


4. Il rischio proprio dell’investimento avente natura finanziaria

Giunti a questo punto della nostra indagine, occorre soffermarci sull’elemento del “rischio” richiamato dal principio di diritto affermato dalla Cassazione nell’inquadrare i caratteri dell’investimento avente natura finanziaria.

Come visto, per “ogni altra forma di investimento di natura finanziaria” debbono intendersi le proposte di investimento che implichino la compresenza dei tre seguenti elementi: i) impiego di capitale; ii) aspettativa di rendimento di natura finanziaria; iii) assunzione di un rischio direttamente correlato all’impiego di capitale. La Suprema Corte, infatti, ha precisamente rilevato come l’investimento di natura finanziaria comprenda ogni conferimento di una somma di denaro da parte del risparmiatore, indipendentemente dalla tipologia del bene oggetto dell’investimento [31] con un’aspettativa di profitto o di remunerazione, vale a dire di attesa di utilità a fronte delle disponibilità investite nell’intervallo determinato da un orizzonte temporale, e con un rischio [32]. La ragione giustificativa del contratto di investimento in prodotti finanziari, e non il suo semplice motivo interno privo di rilevanza qualificante, consiste proprio nell’investimento del capitale (il denaro iniziale) con la prospettiva dell’accrescimento delle disponibilità investite (il denaro finale all’esito degli effetti del valore finanziario), senza l’apporto di prestazioni da parte dell’investitore diverse da quella di dare – come detto – una somma di denaro.

Nondimeno, ai fini della configurabilità della presenza di un prodotto finanziario la Suprema Corte ha incluso tra i rischi assumibili dall’investitore anche il c.d. rischio emittente, ossia la capacità stessa del­l’emittente di restituire il tantundem, con la maggiorazione promessa.

Sulla scorta di ciò, se ci si concentrasse sulla sola struttura dell’operazione, allora anche un conto deposito rientrerebbe, in astratto, tra i prodotti finanziari: il depositante “blocca” per un determinato periodo di tempo un capitale, nell’ottica di un rendimento (il tasso di interesse), assumendosi – almeno per il deposito di somme eccedenti i 100.000 euro, ai sensi dell’art. 96-bis.1, comma 3, t.u.b. e fatte salve le eccezioni di cui al successivo comma 4° ovvero le altre limitazioni previste per i sistemi di garanzia dei depositanti dagli artt. 96 ss. t.u.b. – il “rischio emittente” della solvibilità della banca depositaria. Il legislatore, specificando l’esclusione dei depositi bancari o postali, sempre che non siano a loro volta rappresentati da strumenti finanziari, ha voluto escludere dal non attrarre la racconta del risparmio tramite alcune forme di deposito nella disciplina dell’offerta al pubblico [33]. Se poi si approfondisce la materia indagando anche sul contenuto delle disposizioni di cui alla disciplina secondaria, l’estromissione dei depositi non rappresentati da strumenti finanziari arriva a ricomprendere anche i buoni fruttiferi e i certificati di deposito consistenti in titoli individuali non negoziati nel mercato monetario [34]. L’esclusione di queste forme di investimento finanziario dipende dunque dalla assenza dell’ulteriore requisito della negoziabilità (che, quindi, sia in grado di dar vita a un sistema di scambi in un mercato secondario) [35], di cui siamo dunque indotti a ritenerne l’essenzialità nella struttura propria dei prodotti finanziari [36].

Sul punto, occorre rilevare come sia stato affermato che il contratto di investimento in prodotti finanziari non ha ad oggetto tanto il prodotto finanziario in sé e per sé considerato, quanto il rischio finanziario che il prodotto porta intrinsecamente nell’operazione [37].

Di talché, è evidente come nell’impostazione dell’Autorità di vigilanza e della Suprema Corte secondo cui nel complesso l’operazione deve prevedere che il risparmiatore impieghi il proprio capitale a fronte di un rendimento predeterminato o predeterminabile in base a parametri predefiniti con conseguente assunzione di un rischio correlato all’impiego del capitale affidato, arrivando sotto quest’ultimo profilo a includere anche il “rischio emittente” (risultando così sufficiente che sussista l’incertezza in merito non all’entità della prestazione dovuta o al momento in cui questa sarà erogata, bensì alla capacità stessa dell’emittente di restituire il tantundem, con il promesso rendimento) [38], l’alea qui presa in considerazione può essere tanto l’alea c.d. giuridica quanto quella c.d. economica [39]. Riprendendo i confini limpidamente tracciati da autorevole dottrina, se quest’ultima si limita alla possibilità dell’oscillazione del valore della prestazione in dipendenza delle fluttuazioni dei mercati, l’alea giuridica concerne la previsione, nell’àmbito del meccanismo contrattuale, “del collegamento tra la nascita e/o la consistenza della prestazione di una od entrambe le parti e l’accadimento di un evento incerto” [40].

E ben può configurare ciò il semplice rischio emittente (o di controparte), il quale è un rischio specifico dipendente dalle caratteristiche peculiari dell’emittente medesimo, in quanto rischio che si caratterizza in quanto nel mercato e dal medesimo mercato valutabile e valutato [41] e che può essere diminuito sostanzialmente attraverso la diversificazione del portafoglio, contrariamente a un rischio generico, rappresentato da quella parte di variabilità del prezzo di ciascun prodotto che dipende dalle fluttuazioni del mercato e non può essere eliminato per il tramite della diversificazione [42].

L’essenzialità del rischio finanziario quale elemento connotante i prodotti finanziari emerge oggi anche dalla normativa europea che esprime efficacia diretta nel nostro ordinamento e, in particolare, dal Regolamento (UE) n. 1286/2014 (c.d. regolamento PRIIPs) [43]. Per i contratti riconducibili alla nozione di “prodotto di investimento al dettaglio preassemblato” (PRIP), consistenti in un investimento nel quale, indipendentemente dalla forma giuridica dell’investimento stesso, l’importo dovuto all’investitore al dettaglio è soggetto a fluttuazioni a causa dell’esposizione ai valori di riferimento o al rendimento di uno o più attivi che non siano direttamente acquistati dall’investitore al dettaglio, è richiesta la redazione del Key Information Document (KID) secondo i precetti di contenuto e forma rinvenibili all’interno degli artt. 6 ss. reg. PRIIPs [44].

In particolare, il KID deve contenere in una sezione intitolata “Quali sono i rischi e qual è il potenziale rendimento?”, una breve descrizione del profilo di rischio/rendimento che comprenda i) un indicatore sintetico di rischio, integrato da una spiegazione testuale di quest’ultimo, dei suoi principali limiti e da una spiegazione testuale dei rischi che sono particolarmente rilevanti per i PRIIP e che non sono adeguatamente rilevati dall’indicatore sintetico di rischio; ii) la perdita massima possibile del capitale investito [45]; iii) scenari di performance adeguati e le ipotesi formulate per realizzarli; iv) ove applicabile, informazioni sulle condizioni dei rendimenti agli investitori al dettaglio e limiti massimi delle prestazioni incorporate; v) una precisazione che la legislazione fiscale dello Stato membro di origine dell’investitore al dettaglio può incidere sui versamenti effettivi [46].

Oggi, dunque, il rischio finanziario assunto dall’investitore (rectius, la conoscenza del rischio) assurge a elemento centrale nella conclusione del contratto di investimento [47], inducendo finanche un Autore ad affermare la nullità per indeterminatezza dell’oggetto là dove il cliente non sia portato a conoscenza del rischio con i prèsidi prescritti [48].

Al fine di connotare la distinzione tra le operazioni aventi natura finanziaria e quelle di investimento in attività reali o di consumo, l’incertezza non va ravvisata tanto nel mero scopo di incrementare il proprio patrimonio auspicando che una situazione di incertezza meramente economica si risolva a proprio favore, ma in un rischio che si riflette nella produzione del (rectius, variazione di un) valore [49] proprio del momento intermedio tra denaro iniziale e denaro finale [50].


4.1. Segue. I casi vagliati dalla Suprema Corte: compravendita o investimenti di natura finanziaria?

Assunta la definizione di prodotto finanziario, non poche perplessità nascono nell’osservare l’applicazione pratica di tale principio offerta dalla giurisprudenza di legittimità che ha qualificato come prodotto finanziario due particolari operazioni di impegno di capitale – una in diamanti [51], l’altra in opere d’arte [52] – che prevedevano l’acquisto dei beni cui si aggiungeva l’aspettativa di un rendimento, per quanto di importo predeterminato, in caso di esercizio del diritto di recesso da parte dell’investitore con la restituzione del bene nel termine previsto.

Nello specifico, nel caso dell’investimento in diamanti l’operazione prevedeva il trasferimento in proprietà del diamante verso il corrispettivo di un prezzo, attribuendo all’acquirente la facoltà alternativa del godimento del bene o di pretendere l’esecuzione del contratto preliminare unilaterale concluso dalla società, con la conseguenza che, mentre nel primo caso l’acquirente non avrebbe avuto diritto al compenso per la custodia, nell’ipotesi di restituzione del diamante in plico sigillato tale compenso sarebbe spettato.

Detto altrimenti, l’offerta al pubblico consisteva nell’immobilizzare del denaro per un determinato periodo di tempo, con la prospettiva del guadagno in conseguenza di ciò. Il meccanismo negoziale attraverso cui si perveniva a questo risultato veniva descritto come la consegna in affidamento di un diamante del valore ipotetico di 1.000 euro, chiuso in un involucro sigillato, contro il versamento in denaro della stessa somma e l’impegno della società, dopo dodici mesi, di riacquistare il diamante, restituendo il capitale di 1.000 euro e corrispondendo altresì l’importo di 80 euro “a titolo di custodia”.

A giudizio della Cassazione, in tal caso, sussiste una causa negoziale finanziaria, in quanto l’investimento del capitale viene effettuato nella prospettiva dell’accrescimento delle disponibilità investite. Nella struttura negoziale prevalgono gli elementi del credito fruttifero e della garanzia, giacché il sottoscrittore finanzia la società e questa gli dà in garanzia il diamante, aggirando al contempo il divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c. con la previsione che la proprietà del diamante passerà al sottoscrittore se egli violerà il sigillo, così camuffando da sanzione per l’inadempimento all’obbligo di custodia ciò che non è altro che l’appropriazione del bene in caso di mancato soddisfacimento del credito per capitale ed interessi.

Ancora, per il Giudice di legittimità appare fuorviante qualificare l’importo di 80 euro come un “compenso per la custodia”.Nel quadro di un contratto di custodia, infatti, l’anticipazione di 1.000 euro dal custode al proprietario della cosa custodita sarebbe evidentemente priva di causa e perciò nulla. Viceversa, quel­l’anticipazione acquisterebbe un sicuro significato se ricondotta nell’àmbito di un contratto di investimento, rappresentando il capitale impiegato in vista di un’aspettativa di rendimento.

Fattispecie del tutto analoga è quella avente ad oggetto la compravendita di opere d’arte, in cui la Cassazione ha ugualmente ricondotto l’operazione nel novero dei prodotti finanziari. Trattavasi di un’operazione complessa che prevedeva la conclusione di un contratto di compravendita di opere d’arte a un prezzo scontato con una percentuale variabile tra il cinque ed il sette per cento del prezzo indicato in listino con la facoltà per gli acquirenti di risolvere il contratto e di ottenere, una volta scaduto il termine convenuto, la restituzione dell’importo superiore rispetto a quello versato al momento dell’acquisto e pari al prezzo di listino dell’opera d’arte.

Entrambe le pronunce pongono l’accento sul fatto che la predeterminazione dell’importo promesso quale remunerazione del capitale non è circostanza sufficiente a escludere il rischio e, con ciò, la possibilità stessa di riscontrare la presenza di un prodotto finanziario, in quanto, come visto, fa rientrare il rischio emittente è incluso nell’alea assunta dall’investitore mediante l’investimento.

A nostro giudizio, l’impostazione della Suprema Corte trascura l’oggetto della complessa operazione economica, allargando eccessivamente le maglie del “rischio” arrivando ad assorbire nell’alveo dell’in­vestimento avente natura finanziaria fattispecie estranee alla figura.

Equiparare il rischio emittente proprio di un titolo obbligazionario (la Suprema Corte fa esplicito riferimento all’obbligazione zero coupon[53] al fine di affermare che anche nelle operazioni in analisi l’investitore sia esposto al rischio emittente non tiene conto della natura dell’investimento in discorso. A tal fine, appare opportuno servirci delle scienze economiche, che offrono un importante spunto del quale ci si può servire per valutare l’operazione contrattuale nel suo complesso. Ci riferiamo alla differenza tra le attività reali – beni aventi un valore intrinseco, in quanto producono una utilità reale e immediata al proprietario – e attività finanziarie, nelle quali l’investitore vanta un diritto nei confronti dell’emittente dell’attività finanziaria (per il quale, al contempo, lo strumento è una passività finanziaria). La sovrapponibilità funzionale tra investimento in un’opera d’arte e in un’obbligazione operata dalla Suprema Corte, vista soprattutto nell’ottica del rischio di controparte, non tiene conto del fatto che, nonostante l’inadempimento dell’emittente, a differenza del­l’investimento in attività finanziarie all’investitore, in ogni caso, rimarrà nella sua sfera patrimoniale il bene avente un proprio, autonomo ed intrinseco valore.

Nel valutare, invece, se sussiste una qualche altra forma di incertezza economica (ossia concernente il valore di una prestazione), si deve condividere l’impostazione della giurisprudenza di merito che per prima è stata adita a vagliare l’operazione dell’investimento in diamanti [54], secondo cui nella complessa operazione contrattuale manca il rischio, in quanto il prezzo ed il compenso per la custodia erano convenzionalmente predeterminati e non potevano in alcun caso subire variazione in conseguenza di fattori di incertezza. Non sussiste qui, infatti, alcuna incertezza del risultato economico dell’operazione [55], essendo prefissata nella fase genetica del contratto (ossia al momento della sua conclusione) la misura delle prestazioni delle parti.

Diverso è, invece, il più recente caso vagliato dalla Cassazione penale [56] che ha correttamente sussunto l’operazione di investimento in bitcoin nell’esercizio di una attività finanziaria, in quanto i soggetti interessati all’investimento hanno erogato capitali sotto la forma di bitcoin con l’aspettativa di ottenere un rendimento, costituito dalla corresponsione di altre monete virtuali che avrebbero permesso la partecipazione alla piattaforma, dal valore variabile a seconda del momento dell’acquisto e che avrebbe acquistato maggior valore se il progetto relativo alla piattaforma avesse avuto successo, con ciò assumendo su di sé un rischio connesso al capitale investito [57].

Tanto più, nelle predette operazioni di investimento in diamanti ed opere d’arte deve sicuramente escludersi la sussistenza di un’alea giuridica nella struttura dell’operazione, in quanto l’evento dedotto in contratto non incide né nel sorgere dell’obbligazione né nella determinazione della misura della prestazione [58].

Nel caso in cui l’investitore decida di volersi avvalere della facoltà di restituire il bene al prezzo concordato, la giurisprudenza che ha escluso la natura finanziaria dell’operazione ha ritenuto che ci si trovi di fronte ad un contratto preliminare unilaterale del quale l’acquirente medesimo può pretendere l’esecuzione da parte della società offerente [59].

La qualificazione del patto di “riacquisto” come contratto preliminare unilaterale, però, non persuade, anche e soprattutto in ragione della coesistenza con la alternativa facoltà dell’acquirente di mantenere il bene nel proprio patrimonio. Da un punto di vista strutturale, le operazioni in discorso vengono a creare un rapporto tra le parti di diritto potestativo contro soggezione, che indirizza maggiormente ad un loro inquadramento nel patto di opzione, che secondo l’impostazione della giurisprudenza ha sì in comune con il preliminare unilaterale l’assunzione dell’obbligazione da parte di un solo contraente, ma se ne distingue per l’eventuale successivo iter della vicenda negoziale, in quanto, a differenza del preliminare unilaterale – che è un contratto perfetto e autonomo rispetto al definitivo – l’opzione non è che uno degli elementi di una fattispecie a formazione successiva, costituita inizialmente da un accordo avente ad oggetto l’irrevocabilità della proposta e poi dall’accettazione del promissario che, saldandosi con la prima, perfeziona il contratto [60].

Va altresì esclusa la riconduzione dell’operazione negoziale alla vendita con patto di riscatto di cui all’art. 1500 c.c. [61], in quanto a mezzo della clausola di riscatto è il venditore a riservarsi il diritto di risolvere il contratto entro un tempo determinato [62], così automaticamente riacquistando la proprietà del bene, oltretutto contro la restituzione dello stesso prezzo per il quale era stata venduta, sanzionando con la nullità qualsiasi pattuizione che comporti per il venditore un esborso superiore al prezzo stipulato per la vendita [63]. La previsione di un corrispettivo superiore in caso di riacquisto induce, infine, ad escludere che nelle ipotesi in esame ci si trovi di fronte ad una vendita conclusa sotto condizione risolutiva potestativa [64] a mezzo della quale l’acqui­rente si riserva il diritto di risolvere il contratto entro un tempo determinato, così automaticamente riacquistando il venditore la proprietà del bene contro restituzione del prezzo e rimborso delle spese.


5. Le operazioni di vendita di diamanti tramite intermediazione di istituti di credito

In tempi recenti, come accennato [65], nella giurisprudenza di merito si registrano numerosi arresti sul tema della vendita di diamanti tramite intermediazione di istituti di credito [66].

Le operazioni di vendita di diamanti che venivano effettuate da alcune società per il tramite del canale bancario, determinavano il trasferimento di un pieno diritto di proprietà della res materiale in capo all’acqui­rente, atteso che quest’ultimo era immediatamente immesso nel pieno ed esclusivo diritto di disporre e godere del bene, non essendoci peraltro vincoli o limitazioni al godimento dello stesso. Non si ravvisa inoltre la sussistenza di certificati rappresentativi dei diritti dei titolari, destinati eventualmente a circolare nell’àmbito di un “mercato secondario”, appositamente organizzato. Ancora, non era previsto un patto di riacquisto da parte delle società. In particolare sussisteva esclusivamente di un mero impegno assunto dalle società in discorso a far sì che, nel caso in cui un acquirente intendesse rivendere i diamanti, un terzo (per la precisione, una società controllata) avrebbe assunto l’incarico di ricollocarli entro una certa data, al prezzo di mercato [67].

Con l’operazione non era nemmeno prospettata, a favore dell’acquirente che decidesse di dismettere i diamanti, una specifica forma di rendimento diversa, collegata e/o ulteriore rispetto al valore del bene acquistato.

In buona sostanza, l’acquirente del diamante aveva il pieno diritto di godere e disporre del bene e, dunque, la facoltà di alienarlo o utilizzarlo altrimenti. L’eventuale provento percepito con la (proficua) rivendita del bene rappresentava, dunque, solo una delle possibili modalità di godimento del bene stesso da parte del proprietario [68].

Non si riscontra, come sopra accennato, la prospettazione, da parte delle società fautrici dell’iniziativa, di uno specifico rendimento. Difatti, sebbene la res materiale possa apprezzarsi (o anche deprezzarsi) per effetto dell’andamento delle quotazioni del bene nel tempo, tale circostanza non è di per sé sufficiente per affermare che l’eventuale apprezzamento del bene in parola possa de facto costituire una forma di rendimento di natura finanziaria. Ciò che rileva (ai fini dell’individuazione dell’investimento di natura finanziaria) è piuttosto l’effettiva e predeterminata promessa, all’atto dell’instaurazione del rapporto contrattuale, di un rendimento collegato alla res. Detta caratteristica non è però rinvenibile nel caso di specie.

Dunque, per configurare un investimento di natura finanziaria, non è sufficiente che vi sia accrescimento delle disponibilità patrimoniali dell’acquirente (cosa che potrebbe realizzarsi attraverso talune modalità di godimento del bene, come ad esempio con la rivendita del diamante) ma è necessario che l’atteso incremento di valore del capitale impiegato (ed il rischio ad esso correlato) sia elemento intrinseco all’operazione stessa.


6. La gestione collettiva del patrimonio in beni d’arte: il caso degli art funds

Finora s’è analizzata la sola ipotesi dell’acquisto di (o, se vogliamo, investimento in) beni rifugio da parte dell’investitore uti singulis, ponendo in evidenza gli elementi discriminatori che consentono di qualificare l’operazione come investimento in prodotti finanziari o meno.

Vi è, però, un’altra manifestazione del connubio tra beni rifugio e finanza, che trova il proprio terreno elettivo nel settore dell’arte: i fondi di investimento in opere d’arte o art funds [69].

Diversamente dal caso di investimento in opere d’arte vagliato dalla Suprema Corte [70], nel quale l’in­vestitore sottoscriveva un contratto di compravendita di opere d’arte a un prezzo scontato rispetto al prezzo indicato in listino, con la facoltà per gli acquirenti di risolvere il contratto e di ottenere, una volta scaduto il termine convenuto, la restituzione dell’importo superiore rispetto a quello versato al momento dell’acquisto e pari al prezzo di listino dell’opera d’arte, nel caso degli art funds il gestore del fondo di investimento compravende opere d’arte, determinando così il valore delle relative quote.

Nella gestione collettiva del risparmio, infatti – come è noto – l’attività gestoria si svolge a monte, nell’in­teresse della collettività degli investitori. Dunque, l’investitore, a differenza di quanto avviene nella gestione individuale, acquisisce una quota di un patrimonio indiviso al quale partecipano pro quota anche altri investitori e il gestore del fondo svolge secondo una politica predeterminata la propria attività di investimento e disinvestimento dei beni in cui è investito il patrimonio, per la finalità della sua valorizzazione, nell’interesse collettivo dei partecipanti.

La finalità della gestione collettiva è appunto quella, attraverso la gestione del suo patrimonio e dei relativi rischi, di generare un rendimento per gli investitori derivante dall’acquisto, dalla detenzione o dalla vendita delle attività in cui è investito il patrimonio stesso e dalle operazioni volte a ottimizzare o incrementare il valore delle suddette attività [71]. L’attività di gestione collettiva è svolta dal gestore in maniera standardizzata e spersonalizzata, in tendenziale totale autonomia dagli investitori, i quali – pertanto – non dispongono di poteri connessi alla gestione operativa delle attività in portafoglio. L’investitore non ha alcun interesse alla proprietà del bene, avendo un interesse meramente finanziario ad un investimento il cui risultato è – nel caso in discorso – correlato al mercato dell’arte [72].

La materia è stata sensibilmente innovata dal recepimento, nel nostro ordinamento, della direttiva 2011/61/UE sui gestori di fondi di investimento alternativi (con la novellazione del t.u.f. ad opera del d.lgs. 4 marzo 2014, n. 44) [73]. Per quanto in questa sede interessa, bisogna dunque volgere lo sguardo non solo alla definizione di organismo di investimento collettivo del risparmio (OICR) di cui all’art. 1, comma 1, lett. k), t.u.f. (“l’organismo istituito per la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio, il cui patrimonio è raccolto tra una pluralità di investitori mediante l’emissione e l’offerta di quote o azioni, gestito in monte nell’interesse degli investitori e in autonomia dai medesimi nonché investito in strumenti finanziari, crediti, inclusi quelli erogati, a favore di soggetti diversi da consumatori, a valere sul patrimonio dell’OICR, partecipazioni o altri beni mobili o immobili, in base a una politica di investimento predeterminata”), ma anche a quella di OICR alternativo (o FIA, fondo di investimento alternativo) italiano ex art. 1, comma 1, lett. m-ter), t.u.f.

Un FIA italiano è un fondo comune di investimento rientrante nell’àmbito di applicazione della direttiva 2011/61/UE, ossia un OICR che raccoglie capitali da una pluralità di investitori al fine di investirli in conformità di una politica di investimento definita a beneficio di tali investitori [cfr. l’art. 4, comma 1, lett. a), direttiva 2011/61/UE] [74].

La disciplina è poi arricchita dalla normativa secondaria di cui al d.m. Economia e finanze 5 marzo 2015 n. 30 [75], implementato dalla disciplina di vigilanza di cui al Regolamento Banca d’Italia sulla gestione collettiva del risparmio [76].

Il d.m. Economia e finanze 30/2015, all’art. 4, prevede che il patrimonio dell’OICR possa essere investito in strumenti finanziari negoziati o meno in un mercato regolamentato, depositi bancari di denaro, beni immobili, diritti reali immobiliari, partecipazioni in società immobiliari, crediti e titoli rappresentativi di crediti, nonché altri beni per i quali esiste un mercato e che abbiano un valore determinabile con certezza con una periodicità almeno semestrale. Formula, questa, ribadita dal Regolamento Banca d’Italia sulla gestione collettiva del risparmio (cfr. Par. 1, Tit. V, Cap. III, Sez. V,) per la composizione del portafoglio dei FIA istituiti in forma chiusa, unica tipologia di OICR che, come opportunamente rilevato in dottrina, possono investire in opere d’arte [77].

L’utilizzo del medium OICR consente di dare concretezza alla finanziarizzazione del settore o, meglio, dell’investimento in arte [78], optando per uno strumento che consente all’investitore di fruire al contempo dell’immediata rivalutazione dei beni d’arte e della pronta liquidazione del loro incremento di valore [79].

Per l’investimento negli “altri beni” mobili, il gestore indica nel regolamento del fondo limiti di frazionamento che, tenuto conto della natura dei beni e delle caratteristiche dei mercati di riferimento, assicurino il rispetto delle norme prudenziali di contenimento e di frazionamento del rischio. Tali beni debbono essere valutati in base al prezzo più recente rilevato sul mercato di riferimento, eventualmente rettificato anche sulla base di altri elementi oggettivi di giudizio disponibili, compresa l’eventuale valutazione degli stessi effettuata da esperti indipendenti.

Il fatto che debba trattarsi di beni per cui esista un mercato e che abbiano un valore determinabile con certezza con una periodicità almeno semestrale suggerisce di soffermarsi sulla ricomprendibilità delle opere d’arte tra detti beni e sulla compatibilità del mercato dell’arte con il contesto della gestione collettiva del risparmio. Per quanto non possa mettersi in discussione che esista un mercato dei beni artistici (intendendosi per mercato l’unità giuridica delle relazioni di scambio, riguardanti un dato bene o date categorie di beni, il locus artificialis degli scambi, “cioè delle relazioni in cui ciascuna parte dà all’altra e riceve dall’altra, o, meglio, dà in quanto e perché riceve”) [80], il settore presenta delle peculiarità dipendenti dalla natura stessa dei beni, pacificamente rientranti tra gli Hard-To-Value-Asset (HTVA) [81]: trattasi di beni i quali, inter alios, richiedono un’attività valutativa complessa che richiede di norma il ricorso ad uno specialista.

Per soddisfare le esigenze di stimare il valore con periodicità almeno semestrale richieste dalla normativa secondaria, è stato molto correttamente evidenziato come il regolamento di un fondo chiuso di beni d’arte debba prevedere un’attività di valutazione di periti indipendenti, con cui si identifichino i dati qualitativi e il prezzo di stima di un determinato bene, accompagnata dalla redazione con periodicità almeno semestrale di un catalogo di tutti i beni di proprietà del fondo contenente la puntale indicazione delle valutazioni dei succitati periti. Ciò appare coerente con la prescrizione della cadenza semestrale dell’attività valutativa, che tiene conto della connaturata variabilità del giudizio degli specialisti coinvolti (che è determinato da numerosi parametri) [82] ed evidenzia inoltre come non vi sia identità tra i concetti di “certezza” – soddisfatta con la menzionata attività peritale e di trasparenza sulle informazioni relative alle opere d’arte – ed “univocità” del valore [83].

Non da ultimo, la forma chiusa consente di fissare il termine di durata dell’OICR in un massimo di cinquant’anni (art. 6, comma 2, d.m. Economia e finanza 30/2015): ciò risulta particolarmente congeniale ad investimenti a lungo termine, quali quelli in arte [84].

L’esempio degli art funds risulta emblematico su come la gestione collettiva del risparmio, in questo caso, possa far acquisire natura finanziaria ad una attività (sebbene svolta in via indiretta) che, per quanto visto, se effettuata direttamente dall’investitore non avrebbe tale carattere [85]. L’investimento e disinvestimento in (rectius, l’acquisto e la vendita di) beni d’arte da parte dell’investitore non avrebbe natura finanziaria, ma se la stessa attività avviene nell’àmbito della gestione in monte dell’OICR nell’interesse degli investitori e in autonomia dai medesimi in base a una politica d’investimento predeterminata, tale attività assume per l’investitore – indirettamente, con la sottoscrizione delle quote del fondo – natura finanziaria.

Paradossalmente, nel caso di un fondo chiuso riservato, l’investitore professionale potrebbe addirittura partecipare conferendo un’opera d’arte a tal uopo acquistata [86], avvalendosi di un investimento non avente natura finanziaria per investire in strumenti finanziari la cui performance è determinata proprio dalla gestione operativa del patrimonio raccolto dall’OICR.


7. La responsabilità dell’ente creditizio

L’intermediazione di istituti di credito nelle operazioni di passion investments, sia che configurino o meno un’operazione avente natura finanziaria, invita a soffermarsi sia su un’indagine circa la natura sia dell’attività svolta che della responsabilità nascente nel caso di un danno all’investitore.

Innanzitutto, deve in ogni caso escludersi che tale attività rientri tra i servizi di investimento, in quanto gli stessi – che la banca è legittimata a svolgere ex art. 18 t.u.f. – hanno per oggetto strumenti finanziari (cfr. art. 1, comma 5, t.u.f.).


7.1 – Segue. L’offerta al pubblico e il collocamento di prodotti finanziari

Se l’investimento ha natura finanziaria ed è pertanto qualificabile come prodotto finanziario, andrà esaminata l’attività della banca sia in ordine all’offerta al pubblico (id est l’attività di sollecitazione con la quale propone al mercato di sottoscrivere o acquistare prodotti finanziari) che al collocamento (ossia l’attività affinché i prodotti siano collocati presso gli investitori finali).

Queste attività, per quanto strettamente interdipendenti [87], in una via quantomeno teorica non sono essenzialmente collegate e ciò emerge altresì dalla previsione di diversi regimi di responsabilità per l’interme­diario offerente e quello collocatore (art. 94, commi 8 e 9 t.u.f.) [88].

Società emittente e banca offerente e/o collocatrice sono soggette alla disciplina dell’offerta al pubblico di prodotti finanziari di cui agli artt. 94 ss. t.u.f. e al rispetto delle norme di correttezza di cui alla disciplina secondaria emanata dalla Consob ai sensi dell’art. 95, comma 2, t.u.f. [89].

Tali norme, oggi contenute nell’art. 34-sexies Regolamento Emittenti, prescrivono all’emittente, all’of­ferente e al collocatore di prodotti finanziari (nonché a coloro che si trovano in rapporto di controllo o di collegamento con tali soggetti) di attenersi a princìpi di correttezza, trasparenza e parità di trattamento dei destinatari dell’offerta al pubblico che si trovino in identiche condizioni e di astenersi dal diffondere notizie non coerenti con il prospetto o idonee ad influenzare l’andamento delle adesioni.

Ai sensi dell’art. 94, comma 8, t.u.f. l’emittente, l’offerente e l’eventuale garante, a seconda dei casi, nonché le persone responsabili delle informazioni contenute nel prospetto rispondono, ciascuno in relazione alle parti di propria competenza, dei danni subiti dall’investitore che abbia fatto ragionevole affidamento sulla veridicità e completezza delle informazioni contenute nel prospetto.

Dalla formulazione della norma emergono dubbi in ordine alla natura solidale della responsabilità dei vari soggetti coinvolti nell’offerta al pubblico: se, facendo leva sul tenore letterale, parte della dottrina esclude la solidarietà dalla regola dell’art. 94, comma 8, t.u.f. [90], altra (con argomentazioni maggiormente persuasive), sottolineando come la fattispecie presenti una pluralità di debitori, un’eadem res debita e un’eadem causa obligandi, ritiene sussistano i requisiti di cui all’art. 1294 c.c. [91]. Ciò appare inoltre coerente, in un’ottica sistemica, con le esigenze di tutela dell’investitore [92].

Simile incertezza non si presenta in relazione alla regola di cui all’art. 94, comma 9, t.u.f., il quale prevede una responsabilità per informazioni false o per omissioni idonee ad influenzare le decisioni di un investitore ragionevole in capo all’intermediario responsabile del collocamento così accrescendo la tutela dell’investitore [93], in quanto l’emittente affianca, sulla base di un meccanismo improprio di responsabilità solidale, un soggetto che accompagna quest’ultimo nell’attività di raccolta, impegnando la propria reputazione [94].

È possibile qualificare le responsabilità descritte come responsabilità per colpa oggettiva [95], in quanto entrambe le disposizioni introducono una presunzione iuris tantum di responsabilità, dalla quale i soggetti indicati possono essere esonerati dimostrando di aver adottato ogni diligenza allo scopo di assicurare che le informazioni in questione fossero conformi ai fatti e non presentassero omissioni tali da alterarne il senso.

Ciò sarebbe inoltre elemento corroborante la natura aquiliana della responsabilità da prospetto [96]: se si fosse trattato di responsabilità contrattuale, non sarebbe stato necessario introdurre una presunzione semplice di colpevolezza [97]. Inoltre, in presenza di offerte al pubblico di prodotti finanziari l’aderente all’offerta è in grado di determinare la propria scelta contrattuale non già sulla base di un’interlocuzione diretta con la controparte, bensì unicamente alla luce delle informazioni reperibili sul mercato. Ove, quindi, vi sia stata violazione delle regole destinate a disciplinare il prospetto informativo che correda l’offerta, trattandosi di regole volte a tutelare un insieme ancora indeterminato di soggetti per consentire a ciascuno di essi la corretta percezione dei dati occorrenti al compimento di scelte consapevoli, si configura un’ipotesi di violazione del dovere di neminem laedere e, per ciò stesso, la possibilità che colui al quale tale violazione è imputabile sia chiamato a rispondere del danno da altri subito secondo i princìpi della responsabilità aquiliana [98].

Inoltre, il termine di prescrizione quinquennale previsto dal comma 11 dell’art. 94 t.u.f. appare come un ulteriore elemento utile a suffragare la tesi della natura extracontrattuale della responsabilità in discorso.

Il richiamo delle norme di correttezza di cui all’art. 36-sexies Regolamento Emittenti al rispetto dei princìpi di correttezza, trasparenza e parità di trattamento dei destinatari dell’offerta al pubblico non è di per sé sufficiente a qualificare come contrattuale o precontrattuale la responsabilità della banca offerente o collocatrice, in quanto si tratta di un obbligo diverso da quello cui più specificamente allude l’art. 1337 c.c., al cui disposto, pertanto, è lecito fare riferimento – in situazioni come quella in esame – solo nella misura in cui si rinviene in esso un’applicazione del generale dovere di buona fede, che senza alcun dubbio deve improntare anche il comportamento di chi propone un’offerta al pubblico di prodotti finanziari.

Volgendo il discorso alla quantificazione del danno risarcibile, non può essere trascurato il riferimento alla “ragionevolezza” dell’investitore e dell’affidamento che costui abbia fatto delle informazioni – incomplete o non veritiere – diffuse, ex art. 94, commi 8 e 9, t.u.f. [99]. Ciò implica che il discorso sia pervaso dall’inci­denza del concorso di colpa ai sensi del combinato disposto degli artt. 2056, comma 1, e 1227 c.c.

Se una giurisprudenza di legittimità ha ravvisato che l’investitore non abbia alcun dovere di compiere un’attività di verifica e di controllo della veridicità delle informazioni contenute nel prospetto, essendo detta attività espressamente demandata alla Consob [100], per cui – contando solo i documenti ufficiali – l’affi­da­mento fondato su dati inveridici esula dall’alea insita nell’investimento avente natura finanziaria e, conseguentemente, l’errata valutazione del rischio, proprio perché non calcolabile non può essere imputata all’in­vestitore, neppure ai fini del suo concorso di colpa ai sensi dell’art. 1227 c.c. (salvo che si provi che questi conosceva comunque e nella sua effettiva entità e natura il rischio), altra giurisprudenza ha ravvisato che la colpa possa essere imputata all’investitore nel caso in cui la contezza della mendacia delle informazioni venga appresa attraverso una fonte “esterna” quale gli organi di stampa [101].

D’altra parte, il valore di un prodotto finanziario è influenzato da una molteplicità di fattori, quindi il danno risarcibile non può sic et simpliciter coincidere con la differenza fra il prezzo pagato dall’investitore e la quotazione attribuita dal mercato al titolo successivamente alla scoperta della falsità del prospetto.

Dottrina [102] e giurisprudenza [103] hanno affermato la risarcibilità dell’intera tipologia di danni da informazione e, cioè, dei danni da investimento o mancato disinvestimento (se le informazioni rappresentano una situazione più rosea di quella reale) ovvero da disinvestimento o mancato investimento (se le informazioni dipingono, invece, una situazione peggiore).

Appare oggi prevalente l’applicazione di una liquidazione del danno che tenga conto del valore che i prodotti finanziari avrebbero avuto sul mercato a fronte di una corretta informazione, risarcendo la differenza fra il prezzo corrisposto al momento dell’operazione per acquistare o sottoscrivere i prodotti oggetto dell’ope­razione e il loro effettivo valore economico, non emerso al momento dell’operazione [104].

Questa impostazione appare essere eccessivamente ancorata a fattispecie astratte, non tenendo debitamente in conto il richiamo alla ragionevolezza operato dall’art. 94, commi 8 e 9, t.u.f.

Di talché appaiono sistematicamente più coerenti le argomentazioni della giurisprudenza di merito che, pur partendo dalla differenza tra il complessivo esborso sostenuto per l’investimento e il valore residuo dei prodotti finanziari sottoscritti, sottraggono poi l’ulteriore somma conseguibile liquidando tempestivamente l’investimento, così limitando l’importo da riconoscere a titolo risarcitorio in favore dell’investitore in ragione del minor danno che lo stesso avrebbe potuto conseguire qualora avesse provveduto alla cessione dei prodotti in portafoglio in un ragionevole arco di tempo, specie là dove si possa configurare un preciso interesse al disinvestimento una volta emersa la falsità delle comunicazioni sociali. Pur così riconoscendo che l’inve­stitore debba mitigare il danno liquidando l’investimento [105], risulta arduo – se non impossibile – fissare con precisione il momento in cui sorge in capo all’investitore tale onere e deve in ogni caso essere assicurato a costui un adeguato spatium deliberandi che elimini le distorsioni sul prezzo che sarebbero causate da un panic selling. Per cui, viene adottata una liquidazione del danno in via equitativa facendo ricorso a una valutazione secondo il prezzo medio di mercato in un determinato periodo successivo al momento di svelamento del vero [106].

Deve però registrarsi un recente affinamento di tale impostazione, che – nel caso di investitore retail – fa un ulteriore ricorso alla tecnica statistica dell’event case, ravvisando l’opportunità di ridurre il danno in via equitativa attraverso la depurazione della perdita patrimoniale subita dall’investitore (sempre pari all’am­montare dell’investimento al netto del suo minor valore al momento della scoperta della falsità delle informazioni) tenendo conto dell’andamento complessivo del mercato, in quanto si deve verosimilmente presumere che costui, fuorviato dalle false informazioni al momento della decisione di effettuare un dato investimento, in ogni caso avrebbe impegnato il proprio capitale con operazioni di analoga natura [107].


7.2 – Segue. La commercializzazione di beni rifugio quale attività connessa della banca

Là dove, invece, si sia di fronte ad una operazione qualificabile come compravendita di beni mobili, va valutato se l’attività di intermediazione della banca sia consentita, rientrando tra le “attività connesse o strumentali” che ex art. 10, comma 3, t.u.b. le banche possono esercitare assieme all’attività bancaria ed ogni altra attività finanziaria [108].

Se le attività strumentali sono di facile individuazione, intendendosi per tali le attività in funzione servente del migliore esercizio dell’attività della banca [109], non altrettanto intuitivo è cosa costituisca attività connessa.

Illuminante, a tal proposito, è l’impostazione che autorevole dottrina ha adottato ai fini della individuazione dei confini delle attività connesse, sfruttando la ratio sottesa alla formulazione dell’art. 2135 c.c. (sebbene ante modifiche apportate dal d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228) per le attività connesse all’impresa agricola, per cui determinate attività, di per sé considerate ontologicamente estranee all’attività agricola, quando rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura sfuggono alla qualifica (e alla disciplina) dell’impresa commerciale per essere assorbita da quella dell’attività principale [110]. Il medesimo discorso vale anche nella vigente formulazione dell’art. 2135, comma 3, c.c., in quanto accentua il rilievo dell’utilizzo di attrezzature e risorse aziendali in funzione di connessione [111].

Riassumendo, sono dunque attività connesse le attività di impresa che di per sé prese sono ontologicamente estranee all’attività bancaria, finanziaria [112] o ad attività ad esse strumentali [113], esercitate in via non principale dalla banca, ma per le quali sussista un legame che fa sì che la banca stessa, nello svolgimento del suo ciclo economico, utilizzi i propri fattori della produzione per svolgere in via marginale [114] anche tali altre attività [115].

Ciò fa sì che quella delle attività connesse sia una categoria i cui confini sono talmente ampi che risulta impossibile determinare a priori quali attività la banca possa svolgere in via accessoria [116]. L’unico limite è che si tratti di attività i cui rischi non devono poter pregiudicare la sana e prudente gestione della banca ex art. 5, comma 1, t.u.b., specialmente in relazione ai rischi operativi e reputazionali [117].

E così, l’attività della banca concretantesi nell’intermediazione nella commercializzazione di diamanti così come, in generale, di passion investments è attività connessa all’attività bancaria ex art. 10 t.u.b. [118].

Quanto alla condotta che la banca deve osservare nell’esercizio di attività di tal guisa, la Banca d’Italia [119] ha ammonito gli enti creditizi a prestare la massima attenzione alle esigenze conoscitive dei clienti. In particolare, nel caso della commercializzazione di diamanti, le banche, oltre a considerare le caratteristiche finanziarie dei clienti cui è rivolta la proposta di acquisto, devono assicurare adeguate verifiche sulla congruità dei prezzi e predisporre procedure volte a garantire la massima trasparenza informativa sulle caratteristiche delle operazioni segnalate, quali le commissioni applicate, l’effettivo valore commerciale e le possibilità di rivendita delle pietre preziose. La Banca d’Italia sottolinea l’importanza del fatto che i potenziali clienti ricevano dalle banche che propongono la vendita di diamanti le informazioni necessarie a effettuare le operazioni in modo consapevole e che alle banche spetta di porre in essere tutti i controlli necessari ad assicurare che questa attività venga svolta nel pieno rispetto delle regole [120].

Nel caso in cui da tale attività il cliente subisca nocumento, potrebbero presentarsi dubbi sulla qualificazione della natura della responsabilità dell’ente creditizio. Solitamente, infatti, questi contratti vengono conclusi dalla banca con propri clienti, i quali – però – sono clienti della banca non in virtù della conclusione del contratto di compravendita del bene rifugio, bensì ad altro titolo (ad esempio, in ragione di un rapporto di conto corrente bancario). La banca, infatti, svolge una mera attività di mediazione e il contratto di compravendita viene concluso tra il risparmiatore e la società proponente l’investimento in attività reali o di consumo.

Come è noto, l’art. 1754 c.c. non contiene la definizione della mediazione, bensì individua il mediatore in colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza. Il mediatore, interponendosi in maniera neutrale e imparziale tra due contraenti, ha soltanto l’onere di metterli in relazione, appianarne le divergenze e farli pervenire alla conclusione dell’affare, alla quale è subordinato il diritto al compenso, senza che l’indipendenza del mediatore possa venir meno per la unilateralità del conferimento dell’incarico, ovvero per il fatto che il compenso sia previsto a carico di una sola parte o in maniera diseguale [121].

Accanto alla mediazione tipica, è però configurabile una mediazione c.d. atipica, in cui l’attività dell’in­termediario è prestata esclusivamente nell’interesse di una delle parti (c.d. mediazione unilaterale) [122], che ricorre nel caso in cui il mediatore abbia ricevuto l’incarico, da uno dei contraenti, di svolgere un’attività intesa alla ricerca di una persona interessata alla conclusione di uno specifico affare, a determinate e prestabilite condizioni [123].

Al di là del fatto che possa discutersi se l’attività di intermediazione della banca nella commercializzazione di diamanti possa essere qualificata come tipica o atipica, dal momento che, sebbene l’incarico sia conferito unilateralmente dalla società proponente, l’ente creditizio ben può svolgere tale attività in maniera imparziale, in quanto anche nei confronti del cliente ha tutto l’interesse – quantomeno di natura reputazionale – a fargli concludere un contratto che soddisfi le sue esigenze di investimento (anche se di carattere non finanziario), la migliore dottrina ha posto in evidenza come il fatto che trattasi di attività connessa consente di escludere l’applicabilità dei presìdi contemplati a protezione dell’attività del mediatore dalla l. 3 febbraio 1989, n. 39 [124].


7.3. Segue. La natura della responsabilità della banca intermediaria

L’utilizzo della categoria della mediazione atipica quale strumento interpretativo capace di racchiudere in sé le molteplici figure di intermediari nella promozione di affari che, pur non rientrando nella definizione codicistica di mediatore, svolgono attività assimilabili a quella esercitata da quest’ultimo, consente inoltre l’estensione della relativa disciplina, ivi compresa quella relativa agli obblighi di diligenza. Infatti, nel caso dell’attività mediatizia, l’art. 1759 c.c. prevede che il mediatore debba comunicare alle parti le circostanze a lui note relative alla valutazione ed alla sicurezza dell’affare, che possono influire sulla conclusione di esso [125], senza che, però, tale obbligo di informazione si debba spingere oltre la semplice trasmissione delle informazioni acquisite, verificandone la veridicità o fondatezza [126]. Il mediatore, anche se svolge un’at­tività giuridica in senso stretto, è comunque tenuto ad osservare il generale canone di correttezza ex art. 1175 c.c., con la violazione del quale, come osservato da autorevole dottrina, si lede il vincolo che si viene a creare tra informatore ed informato, da ciò scaturendo un obbligo di risarcimento che si individua nel momento in cui vengono meno le aspettative determinatesi sulla base di esso [127].

Tutto ciò, però, qui avviene nell’àmbito di un’attività che mette in relazione le parti al fine di far loro concludere un contratto, ragion per cui deve condividersi l’impostazione offerta dalla Suprema Corte, che ha ricondotto la responsabilità del mediatore nell’àmbito della responsabilità da contatto sociale [128].

Quest’ultima, anche in assenza di un contratto o di un’apposita norma di legge [129], ipotizza l’esistenza di un’obbligazione tra due soggetti in rapporto di interazione, occorrendo all’uopo che la relazione interpersonale instaurata tra essi sia socialmente adeguata (ex art. 1173 c.c.) e, pertanto, idonea ad ingenerare la ragionevole aspettativa che la persona con cui si intrattenga un rapporto si comporti secondo correttezza. Ai fini della qualificazione della responsabilità, rileva non tanto la fonte dell’obbligazione (rectius la sussistenza o meno di un contratto), bensì la configurabilità o meno di un’obbligazione, dovendosi ritenere sufficiente anche la esistenza di un contatto non occasionale e dal pregnante significato sociale al punto di poter giustificare la sussistenza di un rapporto qualificato e non meramente accidentale tra danneggiante e danneggiato.

La teoria del contatto sociale qualificato ha lo scopo di ridurre l’àmbito di operatività della responsabilità extracontrattuale per garantire al danneggiato la possibilità di accedere alla più favorevole disciplina della responsabilità ex art. 1218 c.c. [130]. L’obbligo violato, a differenza di quel che accade nella fattispecie della responsabilità aquiliana, preesiste al danno, insorge da uno specifico contatto qualificato dall’affidamento e, sempre a differenza dell’obbligazione nascente da fatto illecito – essendo il dovere del neminem laedere caratterizzato dall’indeterminatezza –, ha un carattere relativo in quanto si rivolge solo alla controparte di tale contatto [131].

A ciò consegue che il creditore che domanda il risarcimento del danno deve offrire la prova della fonte negoziale e deve limitarsi all’allegazione dell’inadempimento, mentre sul debitore grava l’onere di dimostrare il fatto estintivo rappresentato dall’avvenuto esatto adempimento [132].

Osservando le elaborazioni della giurisprudenza di merito in ordine alla qualificazione dell’attività di intermediazione nella commercializzazione di diamanti svolta dalla banca e in una sua eventuale responsabilità, si registra una congerie di impostazioni che si allontanano da quanto qui proposto.

Eccezion fatta per le pronunce che negano l’ammissibilità di un accertamento tecnico preventivo [133] e quella che ha trattato della prescrizione del diritto al risarcimento del danno [134], alcune pronunce rifiutano la configurabilità sia di una responsabilità extracontrattuale della banca [135] – non essendo mai stata provata l’illiceità della condotta della banca e la sua efficienza causale ai fini della produzione dell’evento lesivo – che contrattuale, in virtù del fatto che la banca esclusivamente metteva a disposizione della clientela il materiale divulgativo della società proponente i diamanti in caso di manifestazione di interesse da parte della clientela, astenendosi dal fornire informazioni specifiche sul prodotto offerto, indirizzando i clienti interessati alla proponente, con esclusione, quindi, di un’ipotesi di affidamento qualificato e, di conseguenza, di specifici obblighi informativi [136].

Le decisioni che hanno invece ravvisato una responsabilità della banca, per quanto pervengano a un risultato analogo a quello che è esito del ricorso alla figura del contatto sociale, appaiono tutt’altro che prive di sgrammaticature tecniche.

Innanzitutto, debbono essere svolte alcune annotazioni alla tesi che qualifica la prestazione della banca quale attività di consulenza al cliente ai fini dell’acquisto dei diamanti [137]. La prestazione del servizio di consulenza, nel nostro ordinamento, si riferisce a servizi svolti nell’àmbito di operazioni ben precise, concretantesi o nelle raccomandazioni personalizzate fornite al consumatore ai sensi dell’art. 120-terdecies t.u.b. in merito a una o più operazioni relative a contratti di credito ovvero, se prestato in materia di investimenti, quale prestazione di raccomandazioni personalizzate a un cliente, dietro sua richiesta o per iniziativa del prestatore del servizio, riguardo a una o più operazioni relative ai soli strumenti finanziari (artt. 1, comma 5°-septies, e 24-bis t.u.f.), eccezion fatta per lo specifico caso della consulenza avente ad oggetto depositi strutturati e prodotti finanziari diversi dagli strumenti finanziari emessi da banche (art. 25-bis t.u.f.) [138].

Altrettanto inconferente è la riconduzione dell’attività svolta dalla banca nel novero delle attività accessorie di cui all’art. 8, comma 3, d.m. Tesoro 6 luglio 1994 [139], ossia quelle che consentono di sviluppare l’attività esercitata dall’intermediario finanziario: infatti, tale disciplina – oltretutto, abrogata [140] – è (rectius, era) riferita ai soli enti di cui all’art. 106 t.u.b.

Se la banca, dunque, non è parte del contratto di compravendita di diamanti, in relazione al quale ha svolto solo un’attività mediatizia, eseguendo un’attività di mero orientamento dei clienti interessata, mediante la segnalazione di costoro alla società proponente le pietre preziose e di mero tramite del materiale informativo di quest’ultima, il rapporto con il cliente nascente da altre fonti contrattuali (ad esempio, di conto corrente) non è certo irrilevante, atteggiandosi a presupposto “storico” idoneo a produrre un diverso rapporto obbligatorio [141] da contatto sociale qualificato.

La formula di chiusura dell’art. 1173 c.c., “che racchiude potenzialità non riconducibili a una conformità legalistica” [142], attribuisce rilevanza a quei rapporti che non hanno la loro scaturigine nel contratto e nel fatto illecito, ma che sono comunque idonei – in quanto conformi all’ordinamento giuridico – a produrre vincoli giuridici obbligatori.

Appaiono sicuramente condivisibili, a tal proposito, le osservazioni di chi è giunto alla conclusione del­l’identità sul piano ontologico e normativo del “contatto” e dell’interferenza tra danneggiante e danneggiato propria delle fattispecie aquiliane [143], spostando l’àmbito della ricerca sui confini tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sul piano funzionale e circoscrivendo la responsabilità contrattuale alle fattispecie ove il risarcimento ha una funzione surrogatoria del mancato risultato a favore della sfera patrimoniale o personale consistente nella prestazione, mentre la responsabilità aquiliana risponde ad esigenze di salvaguardia della ricchezza, andando a ricostruirla ogni qual volta subisca un danno ingiusto [144].

Ciò nondimeno, quale che sia la ricostruzione che si ritenga preferibile – attività di consulenza, altre attività accessorie, mediazione – in tutti i casi valgono le regole di riparto dell’onere probatorio in materia contrattuale, cosicché, a fronte dell’allegazione dell’inadempimento di un onere informativo, derivante da contratto o da contatto sociale, deve essere il soggetto su cui grava quest’obbligo a dimostrare di aver correttamente adempiuto.

Inoltre, attenta giurisprudenza di merito [145] ha rilevato come l’operazione di acquisto di diamanti pregiudizievole per il cliente faccia sì che la banca sia tenuta a rispondere in via solidale del risarcimento del danno con la società proponente i diamanti ex art. 2055, comma 1, c.c., norma che – come è noto – positivizza la regola della solidarietà per i casi in cui più condotte contribuiscano causalmente al medesimo fatto dannoso [146] e ciò indipendentemente dalla fonte dell’obbligo risarcitorio [147].

Infatti, per giurisprudenza consolidata della Suprema Corte di Cassazione, quando un medesimo danno è provocato da più soggetti, sia che il medesimo danno derivi da diverse condotte di illecito aquiliano, ovvero dal concorso tra illecito contrattuale ed extracontrattuale, ovvero ancora per inadempimenti di contratti diversi, intercorsi rispettivamente tra ciascuno di essi ed il danneggiato, sussistono tutte le condizioni necessarie perché i predetti soggetti siano corresponsabili in solido.

Sia in tema di responsabilità contrattuale che extracontrattuale, se l’unico evento dannoso è imputabile a più persone, è sufficiente, al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell’obbligo di risarcimento, che le azioni o omissioni di ciascuna abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento [148].

Ciò discende non tanto, come pure si è sostenuto, dal fatto che l’art. 2055 c.c. costituisca un principio di carattere generale estensibile anche per il caso di inadempimento [149], ma dai princìpi stessi che regolano il nesso di causalità ed il concorso di cause tutte egualmente efficienti della produzione di un determinato danno, di cui l’art. 2055 c.c. è un’esplicitazione in tema di responsabilità extracontrattuale [150].

Pertanto, poiché il danno subito dal cliente trova causa efficiente sia nell’inadempimento contrattuale della società proponente, sia in quello da contatto sociale ascrivibile esclusivamente alla banca, entrambi detti soggetti sono responsabili solidalmente nei confronti dell’attrice del risarcimento dell’intero danno ex art. 1292 c.c.

La misura del danno risarcibile, in applicazione dell’art. 1223 c.c., deve tenere conto degli effetti pregiudizievoli al netto degli eventuali vantaggi collegati all’illecito. Per cui, il quantum sarà determinato dalla differenza tra la somma pagata per l’acquisto dei diamanti e il loro effettivo valore di mercato al momento della conclusione del contratto [151].


NOTE

[1] Risulta emblematica l’attenzione della Soprintendenza dei Beni Culturali (in particolare, per opere d’arte e veicoli di interesse storico e collezionistico) che, in prossimità della vendita di detti beni presso case d’asta comunica di aver avviato il procedimento di dichiarazione di interesse culturale ex artt. 12 ss. d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), coi conseguenti limiti alla circolazione dei beni in àmbito nazionale (artt. 53 ss. Codice dei beni culturali) e, soprattutto, internazionale (col divieto di uscita definitiva dal territorio della Repubblica ex art. 65 Codice dei beni culturali). Su queste tematiche cfr., ex multis, Cimmino, Alienazione di beni culturali: autorizzazione ex post
e prelazione, in Not., 2020, 261 ss.; Loi Mojtehadi, La dichiarazione di interesse culturale: il sindacato del giudice amministrativo tra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica, in Riv. giur. sarda, 2017, 526 ss.; Mastropietro, La dichiarazione di interesse culturale tra opponibilità e notizia, in Rass. dir. civ., 2015, 860 ss.; Mignozzi, La prelazione quale strumento di fruizione dei beni culturalialla collettività, in Obbl. contr., 2009, 162 ss.; Bercelli, Notifica e trascrizione del provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale tra esigenze di tutela dei beni culturali e principio di certezza dei rapporti sociali, in Aedon, 2006; Sciullo, La verifica dell’interesse culturale (art. 12), ivi, 2004; Celeste, Beni culturali: prelazione e circolazione, in Riv. not., 2000, 1071 ss.; R. Perchinunno, Profili privatistici e sistema di circolazione dei beni culturali: il problema della prelazione artistica, in La cultura e i suoi beni giuridici, a cura di Caputi Jambrenghi, Milano, 1999, 173 ss.; Caracciolo La Grotteria, I trasferimenti onerosi dei beni culturali nell’ordinamento italiano e comunitario, Milano, 1998, passim. In giurisprudenza, cfr. Cons. Stato, 22 settembre 2008, n. 4569, in Urb. app., 2009, 54 ss., con commento di Damiano, La prelazione sui beni culturali. Sui veicoli di interesse storico e collezionistico sia consentito un rinvio a Onnis Cugia, Le criticità concorrenziali nell’organizzazione di competizioni sportive automobilistiche di regolarità, in Riv. dir. econ. sport, 2018, 212, nt. 7.

[2] Cfr. Renneboog, The Returns on Investment Grade Diamonds, CentER Discussion Paper Series No. 2013-025, reperibile on-line nel sito internet https://ssrn.com/abstract=2251791.

[3] Il tema è ampiamente approfondito, in una chiave sociologico-economica, da Boltanski e Esquerre, Enrichessement. Une critique de la marchandise, Paris, 2017, tr. it. di De Ritis, Arricchimento: una critica della merce, Bologna, 2019, passim.

[4] Così, precisamente, Capriglione, I fondi chiusi di beni d’arte, in Banca, borsa, tit. cred., I, 2007, 413.

[5] Ancora, Capriglione, op. cit., 413.

[6] Ad eccezione, con specifico riferimento al fenomeno del c.d. art lending, del contributo di Bonato, Art-lending: osservazioni sparse, in Ilcaso.it, 2018.

[7] Nel nostro ordinamento regolato, come è noto, dall’art. 48 t.u.b.: su tale particolare operazione di credito, senza pretesa di completezza, v. Russo, Credito su pegno, in Commentario Bonfatti, Pisa, 2021, 236 ss.; Tardivo, Il credito su pegno, in Le operazioni di finanziamento bancario, societario, sull’estero, al consumatore, strutturato, a mezzo garanzia, pubblico, a cura di Panzarini-Dolmetta-Patriarca, Bologna, 2016, 553 ss.; Id., Il credito su pegno, in Vita not., 2001, 620 ss.; Falcone, Protezione del credito bancario e “particolari operazioni di credito”, Napoli, 2012, 211 ss.; Marano, Operazioni di credito su pegno, soggetti abilitati ed esenzione alla revocatoria fallimentare, in Banca, borsa, tit. cred., 2000, II, 102 ss.; Pipitone, Il credito su pegno nella legge fallimentare e nel testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, in Dir. banca merc. fin., 1994, 374 ss.

[8] Per una analisi della struttura e dimensione del mercato internazionale dei finanziamenti garantiti da beni di lusso v. l’articolo di Marchesoni e Pirrelli, Più ricorso all’arte a garanzia dei prestiti, in Plus24-Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2020, 21.

[9] V. Trib. Modena, 11 luglio 2018, in ExParteCreditoris.it; Trib. Parma, 26 novembre 2018 e Trib. Milano, 8 gennaio 2019, entrambe in Dirittobancario.it; Trib. Parma, 21 gennaio 2019, in Riv. trim. dir. econ., 2019, II, 160 ss., con nota di Bonaccorsi di Patti, Note minime sulla pretesa responsabilità della banca nella vendita di diamanti c.d. “da investimento”; Trib. Modena, 2 aprile 2019, Trib. Genova, 11 aprile 2019 e Trib. Roma, 1° settembre 2019, tutte e tre in ExParteCreditoris.it; Trib. Milano, 29 ottobre 2019, in DeJure; Trib. Lucca, 11 novembre 2019; Trib. Modena, 19 novembre 2019, in Dirittobancario.it; Trib. Asti, 24 febbraio 2020, in ExParteCreditoris.it; Trib. Modena, 10 marzo 2020, in IlCaso.it; Trib. Bologna, 16 luglio 2020, in ExParteCreditoris.it; Trib. Lucca, 4 settembre 2020, in Resp. civ. prev., 2021, con nota di Verri, Diamanti da (non) investimento: profili giuridici dell’operazione e responsabilità della banca che segnala l’acquisto; Trib. Genova, 29 marzo 2021, in Giur. comm., 2022, II, 1240 ss., con nota di Marino, Contratto di commercializzazione di diamanti: responsabilità contrattuale dell’intermediario bancario tra contatto sociale qualificato e contratto di mediazione; Trib. Milano, 8 giugno 2021, in Banca, borsa, tit. cred., 2022, II, 90 ss., con nota di Girardi, Un diamante è per sempre? Collocamento di pietre preziose e responsabilità della banca; Trib. Lucca, 26 luglio 2022, in IlCaso.it.

[10] Oltre alla recente Cass. pen., 26 ottobre 2022, n. 44378, v. Cass., 12 marzo 2018, n. 5911 e, prima ancora, Cass., 5 febbraio 2013, n. 2736, in Contr., 2013, 1205 ss., con commento di Savasta, Natura finanziaria dei diamanti e ruolo della Consob.

[11] V. Guizzi, voce Mercato finanziario, in Enc. dir., V Agg., Milano, 2001, 747. In tal senso anche Cass., 17 aprile 2009, n. 9316, in Giur. comm., 2010, II, 103 ss., con nota critica di Pomelli, I confini della fattispecie “prodotto finanziario” nel Testo Unico della Finanza, il quale sottolinea la eccessiva genericità della formula.

[12] Finanche a ritenere evidente come sia “impossibile precisare il contenuto, il significato, la portata di una nozione generale di ‘prodotto finanziario’ ed il suo rapporto con la categoria degli ‘strumenti finanziari’” così Ferro-Luzzi, Attività e “prodotti finanziari”, in Riv. dir. civ., 2010, 145.

[13] Ineccepibili le osservazioni di Ferro-Luzzi, L’assetto e la disciplina del risparmio gestito, in Riv. dir. comm., 1998, I, 193, secondo cui «l’essenza, la definizione della finanziarietà, sarà chiara agli economisti, certo non lo è ai giuristi».

[14] Cfr. Chionna, Strumenti finanziari e prodotti finanziari nel diritto italiano, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, I, 3; Costi, Il mercato mobiliare11, 2018, 11. Anzi, secondo A. Lupoi, I prodotti finanziari nella realtà del diritto: rilevanza del rischio finanziario quale oggetto dell’operazione d’investimento, in Riv. trim. dir. econ., 2017, 77, il prodotto finanziario appare come fattispecie regolata in funzione di altro: non sono l’oggetto di per sé di una specifica disciplina, bensì principalmente lo strumento della disciplina di altro e cioè dell’attività di raccolta di risparmio e dei servizi di investimento e dell’offerta al pubblico.

[15] Anzi, ad esser ancor più precisi una species tipizzata: così Cera (e Di Valentin), Il diritto degli investimenti, Bologna, 2015, 24.

[16] Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare10, Torino, 2020, 100, 357.

[17] Ferro-Luzzi, op. cit., 134.

[18] Cass., 17 aprile 2009, n. 9316, cit. Contra v. Pomelli, op. cit., 117.

[19] Il che si riflette sull’atipicità del contratto di investimento: oltre a Cass., 12 marzo 2018, n. 5911, così anche Cass. 5 febbraio 2013, n. 2736, cit. In dottrina v. Chionna, op. cit., 1.

[20] Cfr. Costi, op. cit., 11 s.; Righini, Commento all’art. 1, in Commentario Vella, I, Torino, 2012, 32; Capriglione, I “prodotti” di un sistema finanziario evoluto. Quali regole per le banche? (Riflessioni a margine della crisi causata dai mutui sub-prime), in Banca, borsa, tit. cred., 2008, I, 34. Chionna, op. cit., 5 ss., oltre a porre in evidenza il superamento dell’identità tra investimento finanziario e titolo di credito in massa, sottolinea come le due nozioni di prodotto e strumento finanziario rispondano a vocazioni di tutela che si riflettono su due differenti piani di tutela: la nozione di prodotto finanziario mira a consentire l’applicazione di disposizioni poste direttamente a tutela dell’investitore e solamente in via mediata del mercato e dell’attività degli intermediari; la nozione di strumento finanziario è invece volta a fornire diretta garanzia del corretto funzionamento del mercato e dell’attività degli intermediari e, indirettamente, a tutela dell’investitore. In argomento v. anche Pomelli, op. cit., 117 s.

[21] Ferro-Luzzi, op. cit., 137.

[22] Ferro-Luzzi, op. cit., 137. Cfr. anche Chionna, op. cit., 3.

[23] Ferro-Luzzi, op. cit., 138 ss., spec. 140.

[24] Sul punto cfr. Barcellona, Strumenti finanziari derivati: significato normativo di una “definizione”, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, I, 561 s., il quale evidenzia come la differenza risulti fondamentale anche per la tutela degli investitori: “Là dove, infatti, un certo contratto ha ad oggetto un “bene reale”, e cioè un bene che dispone, oltre che di un valore di scambio, anche di un valore d’uso – che è potenzialmente rilevabile anche dal quisque de populo –, la disciplina legale di diritto comune (ivi inclusa, quella, decisiva, della garanzia per vizi, che presuppone, per l’appunto, la distinzione fra valore di scambio e valore d’uso) è, in linea di massima, adeguatamente protettiva del consumatore: sicché non v’è alcun motivo per “riservare” a soggetti pubblicisticamente controllati l’attività di offerta al pubblico, ad es., di biciclette o di capi di abbigliamento (beni reali che hanno un valore d’uso “facilmente” apprezzabile). Là dove, al contrario, un certo contratto ha ad oggetto un “bene finanziario”, e cioè un bene la cui unica “utilità” consiste nella chance di un apprezzamento monetario – che, al contrario, non è affatto rilevabile dal quisque de populo, postulando conoscenze ed expertise professionali –, la disciplina legale di diritto comune risulta insufficiente, e diviene pertanto necessario, per assicurare la funzionalità del mercato, istituire presidi di diritto speciale a tutela degli utenti (risparmiatori/investitori). Da questa specifica esigenza di tutela del pubblico avvertita dal legislatore (comunitario e nazionale) consegue pertanto: (i) la riserva dell’attività a soggetti pubblicisticamente controllati (imprese di investimento e banche); (ii) la soggezione dei connessi contratti a un preciso regime imperativo ispirato alla tutela dell’investitore”.

[25] Sugli ETC, sia consentito un rinvio a Onnis Cugia, Gli strumenti finanziari derivati cartolarizzati nel quadro normativo comunitario: la natura giuridica degli Exchange Traded Commodities, in Contr. impr. Europa, 2016, 667 ss.

[26] Regolamento dei mercati organizzati e gestiti da Borsa Italiana S.p.A. deliberato dal Consiglio di amministrazione del 21 luglio 2022 e approvato dalla Consob con delibera n. 22455 del 21 settembre 2022.

[27] La definizione dell’oro da investimento è fornita dall’art. 1, comma 1, lett. a), l. 17 gennaio 2000, n. 7, recante “Nuova disciplina del mercato dell’oro”. È tale “l’oro in forma di lingotti o placchette di peso accettato dal mercato dell’oro, ma comunque superiore ad 1 grammo, di purezza pari o superiore a 995 millesimi, rappresentato o meno da titoli; le monete d’oro di purezza pari o superiore a 900 millesimi, coniate dopo il 1800, che hanno o hanno avuto corso legale nel Paese di origine, normalmente vendute a un prezzo che non supera dell’80 per cento il valore sul mercato libero dell’oro in esse contenuto, incluse nell’elenco predisposto dalla Commissione delle Comunità europee ed annualmente pubblicato nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee, serie C, nonché le monete aventi le medesime caratteristiche, anche se non ricomprese nel suddetto elenco; con decreto del Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica sono stabilite le modalità di trasmissione alla Commissione delle Comunità europee delle informazioni in merito alle monete negoziate nello Stato italiano che soddisfano i suddetti criteri”. In argomento, v. Martis, Attività dei “compro-oro” e regime IVA: la giurisprudenza conferma l’applicabilità del reverse charge, in Riv. giur. sarda, 2014, 571.

[28] Comunicazione Consob n. DIN/12079227 del 4 ottobre 2012, avente ad oggetto Richiesta di parere sulla compliance alla vigente normativa di specifici prodotti rientranti nell’ambito del commercio professionale di oro. Nel caso di specie, il quesito verteva sulla qualificabilità di un piano di acquisto di oro a cadenza predeterminata come offerta al pubblico di prodotti finanziari. Il programma di acquisto di oro prevedeva una serie, temporalmente scadenzata, di acquisti di una determinata quantità di oro sino al raggiungimento di una prefissata quantità finale, utile alla trasformazione in lingotti certificati; a fronte di tali acquisti, contabilmente annotati in appositi "conti metallo" intestati a ciascun cliente al cliente viene riconosciuto un corrispondente diritto di comproprietà su un lingotto specificamente identificato di proprietà della società proponente, attraverso la consegna di una "ricevuta (certificato/attestato)", non trasferibile. L’acquirente è immesso nel godimento dell’oro fisico, ricevendo in contropartita dei singoli acquisti frazionati il diritto di comproprietà – per la quota di oro acquistato – di uno specifico lingotto della società proponente ovvero, alla fine del programma di acquisto frazionato ovvero nel caso di uscita anticipata dal piano – sempre possibile senza condizioni – la proprietà esclusiva di un diverso lingotto appositamente prodotto per il cliente e a lui materialmente consegnato.

[29] Con riferimento ai passion investments il discorso potrebbe essere, invero, ulteriormente articolato, almeno dalla prospettiva sociologico-economica cui si è fatto riferimento in apertura del presente lavoro, che distinguerebbe il mercato delle attività di consumo da quello delle attività che potremmo definire più voluttuarie o passionali. Boltanski-Esquerre, op. cit., passim, infatti, operano una quadripartizione dei mercati distinguendo tra: i) mercato standard (o di consumo); ii) di mercato delle collezioni (con merci relativamente sottratte al consumo); iii) il mercato di tendenza (la moda in particolare); iv) il “mercato attivo” nel quale si compra o si vende per immediatamente vendere o comprare (tipicamente i mercati mobiliari, ma più in genere la filiera commerciale fra produttore e consumatore finale). Il mercato dei beni da collezione è un mercato in cui vengono scambiati beni arricchiti di “memoria” e caratterizzati da una sorta di pretesa alla durata e alla non usurabilità, che nello stesso tempo sono normalmente (ma non sempre) arricchenti nella misura in cui valgono come investimenti.

[30] La casistica è davvero multiforme. In tal senso, oltre alla Comunicazione Consob n. DIN/12079227 del 4 ottobre 2012, cit., cfr. le Comunicazioni Consob n. DTC/13038246 del 6 maggio 2013 avente ad oggetto Vendita di diamanti tramite intermediazione di istituti di credito – richiesta di chiarimenti e formulazione di quesiti; n. DCL/DEM/3033709 del 22 maggio 2005 in merito alla vendita di quote di multiproprietà e n. DAL/RM/96009868 del 4 novembre 1996 avente ad oggetto Quesito in materia di collocamento di certificati di godimento o di associazione inerenti a porzioni determinate di bene immobile. È stata ravvisata natura finanziaria altresì ai prodotti vagliati con le Comunicazioni Consob n. 0385340 del 28 aprile 2020 avente ad oggetto Risposta al quesito avente ad oggetto "Richiesta di parere preventivo per la corretta classificazione di un’operazione immobiliare attinente alla compravendita di nuda proprietà"; n. DEM/10101143 del 10 dicembre 2010 sulla promozione su internet di iniziative finalizzate alla raccolta di denaro a favore di progetti a valenza sociale di organizzazioni del c.d. Terzo Settore; n. DEM/8035334 del 16 aprile 2008 sulla offerta al pubblico di coupon finalizzati al godimento di pacchetti-vacanza; nn. DEM/1043775 del 1° giugno 2001 e DIS/36167 del 12 maggio 2000 in materia di sottoscrizione di certificati azionari rappresentativi del diritto di utilizzo di posti ormeggio. Peculiare è il caso dell’emissione di certificati en primeur relativi alla vendita di vino e nell’attività secondaria di mediazione di certificati stessi: se con le Comunicazioni CONSOB nn. DIS/98082979 del 22 ottobre 1998 e DIS/99006197 del 28 gennaio 1999 aventi ad oggetto Vendita di vino mediante emissione di certificati “en primeur è stato messo in risalto che, sebbene di primo acchito la fattispecie delineata potrebbe apparire – dal punto di vista del sottoscrittore iniziale – finalizzata al godimento di un bene di consumo, rappresentato dal diritto ad ottenere la consegna del vino alla scadenza prefissata, la struttura dell’operazione nella sua complessità fa emergere la sua natura finanziaria, in quanto la presenza di un intermediario bancario nella commercializzazione dei certificati in discorso (che assumono caratteristiche tipiche degli strumenti finanziari) e l’esistenza di un potenziale mercato secondario nel quale si effettuano scambi e si formano prezzi che prescindono dal valore facciale del titolo, ma sono il frutto dell’incrocio della domanda e dell’offerta dei certificati stessi (e ciò indipendentemente dal motivo che ispira il singolo investitore all’operazione, il quale potrebbe essere interessato anche alla semplice consegna del vino), con la Comunicazione Consob n. DEM/10016056 del 26 febbraio 2010, pur prendendosi atto della sempre più crescente affermazione di un mercato lato sensu inteso avente ad oggetto etichette di vino pregiate (e dunque non potendosi escludere che tra le ragioni che determinano l’investitore ad acquistare un certificato en primeur si possano annoverare oltre alle finalità di consumo anche la prospettiva di un lucro derivante dalla successiva rivendita a prezzi superiori del bene ricevuto in consegna), l’acquisto del certificato conferisce infatti al titolare il mero diritto a ricevere una determinata quantità di vino a scadenza senza che la banca collocatrice dei certificati garantisca una forma di rendimento finanziario ovvero fornisca la possibilità di rivendere i certificati. Il ruolo della banca si limita infatti a garantire il valore facciale del certificato, ma solo nel caso in cui si verifichi un inadempimento dell’azienda vinicola a consegnare la merce alla scadenza, neutralizzando in tal modo il rischio di credito connesso all’operazione. D’altro canto non è stata riscontrata l’organizzazione di un mercato secondario dei certificati en primeur liberamente accessibile, rimanendo pertanto del tutto eventuale e comunque estranea all’operazione in esame, l’opportunità di un collocamento dei certificati o dei beni acquistati. In discorso, cfr. Girino, I contratti derivati2, Milano, 2011, 165 ss.; Onnis Cugia, op. cit., 682 s. I termini della differenza tra investimento avente natura finanziaria e quello in beni reali sono limpidamente tracciati anche nella Comunicazione n. DEM/9057728 del 19 giugno 2009 in riferimento a contratti atipici aventi ad oggetto la prestazione di servizi commerciali turistico-immobiliari.

[31] Cfr. Pomelli, op. cit., 109. Contra, Cass., 17 aprile 2009, n. 9316, cit.

[32] Cass., 5 febbraio 2013, n. 2736, cit.

[33] In argomento v. A. Lupoi, op. cit., 84.

[34] Nota 1, par. 1, Provvedimento Banca d’Italia del 29 luglio 2009 recante Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti. Cfr., inoltre, a contrario, l’art. 1, comma 1-ter, t.u.f.

[35] Cfr. Guizzi, op. cit., 749, a giudizio del quale il prodotto finanziario consiste in un’operazione economica che offre a chi investe «prospettive di reddito, ma senza elevare l’aspettativa a tale redditività a contenuto di una situazione giuridicamente perfetta» oppure, là dove sia identificabile un vero e proprio diritto soggettivo alla remunerazione dell’investimento, una operazione in cui la posizione soggettiva da essa nascente “assuma la connotazione di bene oggettivamente negoziabile e sia dunque in grado di dar vita a un sistema di scambi per contanti (il cosiddetto mercato secondario)”.

[36] Così anche A. Lupoi, Trasparenza e correttezza delle operazioni bancarie e di investimento (note alle Nuove Istruzioni di Banca d’Italia sulla trasparenza), in Contr. impr., 2009, 1277.

[37] Così, esattamente, A. Lupoi, I prodotti finanziari, cit., 76, 97, 99.

[38] Come accade anche nella disciplina archetipica dell’assicurazione, ove il legislatore ha puntualmente previsto misure volte a garantire la solvibilità dell’assicuratore: cfr. Corrias, Garanzia pura e contratti di rischio, Milano, 2006, 78 ss.

[39] È stato precisamente evidenziato da Corrias, I contratti aleatori: rivisitazione di una categoria, in Banca, borsa, tit. cred., 2022, I, 685, nt. 66, che alea giuridica ed economica sono tipologie autonome e disgiunte, potendosi avere: i) contratti aleatori non caratterizzati dall’alea economica (come l’assicurazione e la rendita vitalizia), nei quali il meccanismo dell’alea giuridica appare idoneo ad eliminare rischi di tipo economico; ii) contratti aleatori in cui alea giuridica ed economica coesistono (giuoco e scommessa ed emptio spei), in cui la prima è lo strumento attraverso il quale la seconda si determina; iii) contratti non aleatori connotati dalla sola alea economica.

[40] V. Corrias, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, in Swap tra banche e clienti. I contratti e le condotte, a cura di Maffeis, Milano, 2014, 177. Da ultimo, dello stesso Autore, I contratti aleatori, cit., 666 ss. Per cui, al fine di qualificare il contratto come aleatorio, è necessario verificare se, al momento della conclusione del contratto, vi sia una situazione di obiettiva incertezza circa i vantaggi o lo svantaggio economico che potrà derivare dal regolamento negoziale ovvero che, per la struttura del contratto posto in essere dalle parti, è a carico di una delle parti il rischio di un evento casuale che potrà incidere sul contenuto del suo diritto o della sua prestazione: in sostanza l’alea opera sin dall’inizio come elemento essenziale del sinallagma: così Cass., 28 febbraio 2013, n. 5050, ma v. già Ascarelli, Aleatorietà e contratti di borsa, in Banca, borsa, tit. cred., 1958, I, 439 ss.

[41] Precisamente, con riferimento ai contratti derivati, Angelici, Alla ricerca del “derivato”, Milano, 2016, 63. Questo profilo viene massimamente esaltato nei credit default swap, nei quali il credit event viene considerato per il suo significato di incidere su una quotazione nel mercato e, quindi, sul valore del credito. In argomento, v. in luogo di altri, Caputo Nassetti, I contratti derivati di credito. Il credit default swap, in Dir. comm. int., 1997, 103 ss.; Tarolli, Trasferimento del rischio di credito e trasparenza del mercato: i credit derivatives, in Giur. comm., 2008, I, 1169 ss.; Rucellai, Cartolarizzazione sintetica e Credit Default Swap, ivi, 2012, I, 371 ss.; Scipione, Le distorsioni strutturali dei credit default swap e il rischio di controparte. Ripercussioni sulla stabilità dei mercati e spunti per una revisione della normativa, in Dir. banca merc. fin., 2016, I, 279 ss.

[42] Sulla rilevanza del rischio emittente sulla valutazione dell’inadeguatezza di un investimento v. Trib. Napoli, 13 febbraio 2013, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, II, 299 ss., con nota di Renzulli, Osservazioni in tema di obblighi informativi degli intermediari nella valutazione di adeguatezza e rilevanza del giudizio di rating; Trib. Milano, 15 luglio 2009. Con specifico riferimento agli strumenti finanziari, v. anche l’art. 169, comma 3, lett. a), Regolamento Intermediari, adottato con delibera Consob 15 febbraio 2018, n. 20307, secondo cui la descrizione dei rischi include i rischi associati all’insolvenza dell’emittente.

[43] Regolamento (UE) n. 1286/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 novembre 2014 relativo ai documenti contenenti le informazioni chiave per i prodotti d’investimento al dettaglio e assicurativi preassemblati. Sul Regolamento PRIIPs v. Piras, Le polizze rivalutabili collegate alle gestioni separate, in Nuovo dir. soc., 2015, 14, p. 41 ss.; Sciarrone Alibrandi, Prodotti “misti” e norme a tutela del cliente, in Società, banche e crisi di impresa, in Liber Amicorum Pietro Abbadessa, Torino, 2014, p. 2413 ss.; Siri, I prodotti finanziari assicurativi, Roma, 2013, p. 165 ss.; Bruno e Franza, Prodotti finanziari emessi dalle imprese di assicurazione e poteri della CONSOB in tema di vigilanza e trasparenza, in Ass., 2014, p. 20 ss.

[44] Ai quali si aggiungono le norme di attuazione contenute nel Regolamento delegato (UE) n. 2017/653 della Commissione, dell’8 marzo 2017, che integra il regolamento (UE) n. 1286/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo ai documenti contenenti le informazioni chiave per i prodotti d’investimento al dettaglio e assicurativi preassemblati stabilendo norme tecniche di regolamentazione per quanto riguarda la presentazione, il contenuto, il riesame e la revisione dei documenti contenenti le informazioni chiave e le condizioni per adempiere l’obbligo di fornire tali documenti.

[45] Comprese informazioni su: i) se l’investitore al dettaglio può perdere tutto il capitale investito; o ii) se l’investitore al dettaglio si assume il rischio di sostenere impegni o obblighi finanziari aggiuntivi, comprese passività potenziali ulteriori rispetto al capitale investito nel PRIIP; e iii) ove applicabile, se il PRIIP include una protezione del capitale contro il rischio di mercato, nonché i dettagli sull’ampiezza di tale copertura e i suoi limiti, in particolare per quanto riguarda i tempi di applicazione.

[46] Sul punto, v. anche gli artt. 3 e 12 regolamento delegato (UE) n. 2017/653, nonché gli Allegati (I-VII) al medesimo regolamento.

[47] Così A. Lupoi, I prodotti finanziari, cit., 76, il quale sottolinea come in tale dinamica la conoscenza del prodotto in sé (così come di tutte le informazioni sintetizzate in un indice) divenga superflua, al contrario della rilevanza dell’indice di rischio o rendimento, degli scenari probabilistici e dell’incidenza dei costi. V. anche Maffeis, Alea giuridica e calcolo del rischio nella scommessa legalmente autorizzata di swap, in Riv. dir. civ., 2016, 1104 e la pronuncia Cass., 26 gennaio 2016, n. 1376 ivi richiamata (nt. 14), secondo cui “ogni investitore razionale è avverso al rischio, sicché il medesimo, a parità di rendimento, sceglierà l’investimento meno aleatorio ed, a parità di alea, quello più redditizio, se non si asterrà perfino dal compiere l’operazione, ove l’alea dovesse superare la sua propensione al rischio. La scelta tra differenti opportunità di investimento è, quindi, essenzialmente un problema di raccolta e di valutazione di informazioni, ovvero di ogni dato sulla natura dello strumento finanziario, sui suo emittente, sul suo rendimento e sull’economia nel suo complesso, compresa l’informativa circa l’eventuale sussistenza, con riferimento alla singola operazione da porre in essere, di una situazione di c.d. grey market, ovverosia di carenza di informazioni circa le caratteristiche concrete del titolo ed il rating del prodotto finanziario nel periodo in considerazione, o – addirittura – di una situazione di imminente default economico dell’ente o dello Stato emittente. Ed è evidente che, essendo le informazioni finanziarie complesse e costose, nei rapporti di intermediazione finanziaria le imprese di investimento posseggono frammenti informativi diversi e superiori rispetto a quelli a disposizione degli investitori, o da essi acquisibili”. In giurisprudenza di merito v., da ultimo, Trib. Firenze, 11 maggio 2020; Trib. Pisa, 30 ottobre 2019; Trib. Prato, 29 gennaio 2018.

[48] A. Lupoi, I prodotti finanziari, cit., 99 s. L’assenza del rischio, inoltre, ex art. 1895 c.c. determina la nullità del contratto di assicurazione, modello paradigmatico dei contratti aleatori. Tale disposizione, avente una valenza transtipica, rappresenta il fondamento normativo della necessità dell’alea bilaterale effettiva in tutte le figure aleatorie e venendo a mancare un apprezzabile rischio di perdite, l’alea sarebbe ritenuta inesistente e mancherebbe la causa di scambio, nella particolare connotazione che essa assume nei contratti aleatori: così Corrias, I contratti derivati finanziari, cit., 191, 208. In tema di contratti derivati, è significativa l’impostazione della Suprema Corte (Cass., sez. un., 12 maggio 2020, n. 8770, in Banca, borsa, tit. cred., 2021, II, 45 ss., con nota di Patroni Griffi, Noterelle a margine di Cass., sez. un., 12 maggio 2020, n. 8770: asimmetrie informative e meritevolezza dei contratti IRS e, a p. 768 ss., di Lener e Cipriani, I derivati, le Sezioni Unite, l’Europa; in Resp. civ. prev., 2020, 1515 ss., con nota di Bonaccorsi di Patti, La legittimazione a stipulare un contratto di swap e le regole di finanza locale: un’occasione (o un pretesto) per un’indagine nel mondo dei contratti derivati; Cass., 29 luglio 2021, n. 21830), secondo cui l’alea razionale che caratterizza tali contratti ai fini del giudizio di meritevolezza è ravvisabile, in concreto, laddove siano esplicitati e condivisi gli elementi che consentono di conoscere la misura qualitativa e quantitativa dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti e oggettivamente condivisi, tramite l’esplicitazione dei costi impliciti, del mark to market e, soprattutto, dei cc.dd. scenari probabilistici. In argomento v. anche la più recente App. Milano, 20 settembre 2022.

[49] Cfr. Angelici, op. cit., 50.

[50] Corrias, I contratti derivati finanziari, cit., 202 ss. esclude l’identità dell’alea giuridica con la speculazione, sebbene i due caratteri possano coesistere. Angelici, op. cit., 52 osserva come alla centralità del rischio corrisponda la rilevanza del profilo temporale: se nella speculazione finanziaria è predefinito il momento nel quale potrà realizzarsi il guadagno o la perdita, potendo assegnare al prodotto finanziario un valore attuale del parametro di riferimento, sulla base di una previsione fondata sui profili del rischio e del tempo, nella speculazione commerciale (nt. 93) “gli elementi prognostici svolgono il loro ruolo esclusivamente ai fini del calcolo individuale del singolo operatore, e ciò al fine della sua scelta del momento in cui compiere l’operazione inversa da cui deriverà il suo guadagno o la sua perdita».

[51] Con la più volte richiamata Cass., 5 febbraio 2013, n. 2736.

[52] Cass., 12 marzo 2018, n. 5911, cit.

[53] Le obbligazioni zero coupon sono titoli di credito emessi ad un prezzo inferiore al valore nominale, che non producono cedole nel corso della loro vita. Il rendimento percepito dall’investitore scaturisce dal c.d. scarto di emissione, ossia dalla differenza tra il valore di rimborso e il prezzo di emissione. In Italia le obbligazioni zero coupon più diffuse sono i Buoni Ordinari del Tesoro (BOT) e i Certificati del Tesoro Zero Coupon (CTZ). Questo tipo di obbligazione garantisce ai sottoscrittori un investimento effettivo in tutto il periodo di impegno del capitale, senza il problema del reinvestimento degli interessi periodici. Gli interessi sono sottratti al valore nominale al momento dell’emissione. Il calcolo avviene sottraendo al valore nominale il valore attuale degli interessi figurativi, attualizzato sulla base di un tasso fisso predefinito.

[54] App. Napoli, 26 gennaio 2006, inedita.

[55] Detto altrimenti, il rischio «in termini normali (e perciò prevedibili), di oscillazioni di costi e valori delle prestazioni (originate dalle ordinarie fluttuazioni di mercato), alle quali i contraenti si sottopongono stipulando un dato contratto, per effetto del differimento dell’esecuzione»: così Nicolo, Alea, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 1026.

[56] Cass. pen., 26 ottobre 2022m n. 44378, cit.

[57] Già Trib. Verona, 24 gennaio 2017, in Banca, borsa, tit. cred., 2017, II, 467 ss., con nota di Passaretta, Bitcoin: il leading case italiano, evidenziava il rischio di cambio dell’operazione, dovuto al cambio di valuta reale con moneta virtuale. Sulla qualificazione dell’operazione come prodotto finanziario, oltre alla giurisprudenza e alla dottrina da ultimo citata, v. le delibere Consob riferite all’acquisto di “pacchetti di estrazione di criptovalute” e Initial Coin Offering 1° febbraio 2017, n. 19866 e 31 ottobre 2018, n. 20660, nonché D. Fauceglia, Il deposito e la restituzione delle criptovalute, in Contr., 2019, 669 ss.

[58] Sulla definizione di alea giuridica cfr. Corrias, I contratti aleatori, cit., 668 s.

[59] L’originario acquirente potrebbe con ciò domandare l’esecuzione specifica del contratto ex art. 2932 c.c., potendosi esperire il rimedio in qualsiasi ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto: così Cass., 30 marzo 2012, n. 5160; Trib. Milano, 7 maggio 2019; Trib. Venezia, 28 aprile 2021.

[60] Cfr. Cass., 30 novembre 2017, n. 28762.

[61] Su cui, per tutti, Luminoso, La vendita, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 2014, 707 ss.

[62] Configurando, secondo l’opinione prevalente (tra le altre, v. Cass., sez. un., 3 aprile 1989, n. 1611, in Foro it., 1989, I, 1428 ss., con note di Mariconda, Trasferimenti commissori e principio di causalità e Realmonte, Stipulazioni commissorie, vendita con patto di riscatto e distribuzione dei rischi; Cass., 18 novembre 2011, n. 24252; Cass., 30 marzo 2016, n. 6144), una vendita conclusa sotto condizione risolutiva potestativa.

[63] Sul tema, v. Cass., 30 marzo 2016, n. 6144, cit.

[64] Nelle fattispecie in esame è pienamente soddisfatta coi princìpi pacificamente affermati dalla Suprema Corte nel distinguere tra condizione "meramente potestativa" e “potestativa”, in quanto il fatto volontario dedotto in condizione è collegato a valutazioni di interesse e convenienza e si presenta come alternativa capace di soddisfare anche l’interesse proprio del contraente: da ultimo, sul punto, cfr. Cass., 30 settembre 2021, n. 26590.

[65] Cfr. supra, nt. 9.

[66] V. a tal proposito anche la Comunicazione Consob n. DTC/13038246 del 6 maggio 2013, cit. (nt. 30) nonché la Comunicazione Banca d’Italia 14 maggio 2018 avente ad oggetto Operazioni di compravendita di diamanti effettuate attraverso gli sportelli bancari. Non appare opportuno, ai fini dell’economia del presente lavoro, indagare sui profili relativi all’inquadramento della vicenda come pratica commerciale scorretta. Sul punto, v. i Provvedimenti AGCM nn. 26757 e 26758 del 20 settembre 2017 (in Bollettino AGCM 30 ottobre 2017, n. 41), 27233 del 13 giugno 2018 (in Bollettino AGCM 2 luglio 2018, n. 25), nonché le sentenze TAR Lazio 14 novembre 2018, nn. 10965, 10966, 10967, 10968 e 10969, con cui è stata rigettata la domanda di annullamento dei succitati provvedimenti e delle decisioni con cui l’Autorità ha irrogato le sanzioni amministrative pecuniarie per pratiche commerciali scorrette. In dottrina, cfr. Campitiello, Esposito e Bronzini, Making the Italian Market for ‘Investment Diamonds’ More Transparent: the IDB and DPI Cases, in Riv. it. antitrust, 2017, 198 ss.

[67] Nella réclame veniva rappresentato un grafico nel quale era confrontato l’andamento delle quotazioni dei diamanti – rectius, i prezzi liberamente fissati dalla società offerente per i propri diamanti – con l’andamento della quotazione ufficiale dell’oro e con l’andamento del tasso di inflazione, che induceva a credere – contrariamente al vero – che anche per i diamanti si trattasse di quotazioni di mercato alle quali era possibile acquistarli e venderli e che l’andamento dei loro prezzi effettivi fosse continuamente crescente e che il loro acquisto potesse garantire rendimenti medi ben superiori all’inflazione.

[68] A tal proposito, appaiono rilevanti i comunicati stampa delle associazioni di tutela dei consumatori a seguito della sentenza Trib. Milano, 10-15 gennaio 2019, con cui è stato dichiarato il fallimento di una delle società proponenti l’acquisto dei diamanti, volti a promuovere la proposizione della domanda di insinuazione al passivo ex art. 92 l. fall. per ottenere la restituzione dei diamanti ed evitare, così, oltre al danno, la beffa che essi andassero a costituire l’attivo fallimentare. Si veda anche la pronuncia che ha respinto i reclami proposti ex art. 18 l. fall. (App. Milano, 23 aprile 2020), che evidenzia come, di fronte al caso di specie, “è innegabilmente difficile imbattersi in un insieme di riscontri dello stato d’insolvenza più eloquente” di quello testimoniato “dalla sospensione della vendita dei diamanti di investimento (attività principale) a partire dall’ottobre 2016 a seguito dell’inchiesta del programma Report; dalla sanzione comminata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per 2.000.000 confermata dalla sentenza del tar del Lazio del 14/11/2018 per soddisfare la quale la società non ha allo stato mezzi; dal panic selling ingenerato nei clienti proprietari dei diamanti acquistati dalla (Omissis) s.p.a. e custoditi presso i caveaux societari con ingenti costi e il venir meno della fiducia degli acquirenti nuovi che ha determinato il crollo del valore dell’attività sul mercato; dall’impossibilità di far fronte con il proprio patrimonio sociale alle centinaia di mediazioni e al crescente contenzioso con la clientela riguardante l’annullamento e/o la nullità e/o la risoluzione dei contratti di vendita e conseguentemente la restituzione delle somme pagate per l’acquisto dei diamanti e/o il risarcimento dei danni (stimato per circa Euro 30.007.874,52); dall’impossibilità di addivenire ad una soluzione concordata della crisi ex art. 182 bis L.F.; dall’indisponibilità della compagine sociale alla sottoscrizione di un prestito obbligazionario per Euro 4.500.000”.

[69] Il primo fondo di investimento in opere d’arte è ritenuto essere La peau de l’Ours, costituito nel 1904 da André Level, uomo d’affari e collezionista d’arte moderna francese. In materia, oltre alla citata opera di Capriglione, op. cit., 395 ss., spec. 402 ss., v. anche Zampetti, "Arts funds". Benefici e difficoltà, in Analisi giur. econ., 2007, 187 ss.; Iannacone, Fondi comuni di investimento in opere d’arte: opportunità tra problematiche valutative e conflitti di interesse, ivi, 199 ss.; Segnalini, Art funds e gestione collettiva del risparmio, Torino, 2016, passim; Carrière, L’opera d’arte nell’ordinamento finanziario italiano, in Banca impr. soc., 2017, 515 ss.

[70] Cass., 12 marzo 2018, n. 5911, cit.

[71] L’attività si distingue così dalla mera amministrazione finalizzata alla mera esecuzione di atti conservativi e all’esercizio dei diritti connessi ai beni facenti parte del patrimonio. Cfr. Carrière, op. cit., 523.

[72] Ferro-Luzzi, op. cit., 143, evidenzia come di fronte ai prodotti finanziari che si riferiscono ad un dato dell’economia reale si sia in presenza di un valore diverso da quello rappresentato dalla proprietà del bene, ma non certo autonomo e distaccato.

[73] Sulla direttiva 2011/61/UE (nota anche come Alternative Investment Fund Managers Directive o AIFMD) e il suo recepimento nell’ordinamento italiano cfr. Spolaore, La gestione collettiva del risparmio, in Il Testo Unico Finanziario. I – Prodotti e intermediari, diretto da Cera e Presti, Bologna, 2020, 561 ss.; Passador, La mano “visibile” del legislatore europeo: il risparmio gestito dalla AIFMD al TUF, in Contr. impr. Europa, 2016, 99 ss.; Lamberti, La disciplina comunitaria dei gestori di fondi di investimento alternativi, in Riv. trim. dir. econ., 2015, suppl. al f. 1, 85 ss.; Renzulli, La disciplina sui gestori di fondi di investimento alternativi, in Nuove leggi civ. comm., 2015, 346 ss.; Guffanti, La Direttiva sui fondi alternativi: prime considerazioni, in Soc., 2011, 1181 ss. Tra le finalità della direttiva AIFMD v’è quello di prevenire ogni possibile rischio di conflitti di interesse, circostanza fisiologicamente in agguato nella gestione collettiva, specie se hanno ad oggetto beni con una natura (e un mercato) peculiari quali le opere d’arte.

[74] Dobbiamo fin d’ora rilevare come in Italia i fondi d’investimento nazionali in opere d’arte non abbiano avuto particolare appeal tra i risparmiatori, riscontrandosi un unico fondo che abbia ottenuto l’autorizzazione dalla Banca d’Italia (il fondo Pinacotheca, nel maggio 2007): per un approfondimento v. Segnalini, op. cit., 68 ss. Ciò nondimeno, deve segnalarsi che sono numerose le esperienze – sia in àmbito eurounitario che non – di art funds che potrebbero essere commercializzati in Italia dopo la procedura prevista dagli artt. 43 (per i FIA riservati) e 44 (per i FIA non riservati) t.u.f. e dalla normativa secondaria vertente sull’iter autorizzativo della commercializzazione in Italia (artt. 28-octies ss. Regolamento Emittenti, adottato con delibera Consob 14 maggio 1999, n. 11971) e sulle norme in materia di trasparenza e correttezza nella commercializzazione di OICR (artt. 107 ss. Regolamento Intermediari). Sul punto cfr. Carrière, op. cit., 532.

[75] Regolamento attuativo dell’articolo 39 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF) concernente la determinazione dei criteri generali cui devono uniformarsi gli Organismi di investimento collettivo del risparmio (OICR) italiani.

[76] Provvedimento Banca d’Italia del 19 gennaio 2015 e ss.mm.ii.

[77] Meglio ancora se la partecipazione è riservata a investitori professionali e alle categorie di investitori individuate dal d.m. Economia e finanze 30/2015 [cfr. l’art. 1, comma 1, lett. m-quater), t.u.f.], data anche la possibilità del conferimento di beni in natura (in tal caso, i beni d’arte) ex art. 10, comma 6, d.m. Economia e finanze 30/2015: così Capriglione, op. cit., 410, 421; Segnalini, op. cit., 71, 76 s. Sulla possibilità dei partecipanti di conferire beni per liberare i titoli di partecipazione al fondo v. anche Spolaore, op. cit., 586.

[78] Capriglione, op. cit., 404; Segnalini, op. cit., 3.

[79] Tale risultato sarebbe realizzabile in presenza di una regolamentazione del fondo che subordini l’acquisto delle opere d’arte ad una precisa analisi tecnica e permetta al fondo medesimo la possibilità di una immediata alienazione dei beni: così Capriglione, op. cit., 409.

[80] Per utilizzare la nota formula di Irti, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1998, passim, ma spec. 81 ss. Sull’esistenza di un mercato dei beni d’arte v. Capriglione, op. cit., 413 ss.

[81] Sugli HTVA v., da ultimo e per tutti, Bini, La stima del valore di mercato delle attività difficili da valutare (Hard-to-Value-Asset) in tempi di Covid-19, in Soc., 2020, 871 ss., il quale offre una interessante disamina sulle conseguenze della crisi pandemica nelle stime periodiche del valore di mercato per questa tipologia attività nell’àmbito dei fondi alternativi d’investimento.

[82] Uno dei quali è il c.d. effetto portafoglio: Bini, op. cit., 876 evidenzia come le HTVA siano normalmente possedute da soggetti che detengono un portafoglio di attività della stessa specie (id est il caso dei fondi di investimento in beni d’arte). Un portafoglio di attività simili può caratterizzarsi per un valore di mercato superiore (c.d. portfolio premium) o inferiore (c.d. portfolio discount) rispetto alla somma dei valori di mercato delle singole attività considerate singolarmente. Il premio di portafoglio è legato alla qualità con cui il portafoglio è stato costruito. In una collezione di opere d’arte, ciò si concreta nelle modalità di costruzione della collezione stessa: se è stata ben costruita il suo valore può essere superiore a quello delle opere singolarmente considerate, perché la ricostruzione di una simile collezione richiederebbe tempi e costi aggiuntivi rispetto al semplice investimento nei singoli beni d’arte; se invece la collezione non segue criteri riconosciuti validi da altri collezionisti, vale l’opposto.

[83] Così, precisamente, Capriglione, op. cit., 421 ss. V. anche Carrière, op. cit., 531 s., il quale – richiamando Segnalini, op. cit., 91 ss. – ritiene che la peculiarità degli art funds richieda l’adozione di presidi organizzativi e modelli operativi peculiari.

[84] Così Segnalini, op. cit., 72.

[85] Contra Segnalini, op. cit., 21, che ritiene che possa parlarsi dei beni d’arte “se non in termini di strumenti finanziari, perlomeno di prodotti finanziari, nell’accezione (…) sicuramente applicabile ai beni d’arte una volta che può ormai essere data per accertata la loro finanziarizzazione”. Circostanza, questa, smentita dalla pacifica classificazione dei prodotti finanziari esposta supra ai §§ 3, 4, 4.1 e 5.

[86] Cfr. supra nt. 77.

[87] L’offerta avrà maggiori probabilità di successo grazie all’intervento dell’intermediario-collocatore normalmente in grado di avvicinare una platea ampia di investitori: così Mosca, Collocamento e offerta al pubblico. Riflessioni su una relazione non strettamente necessaria, in Riv. soc., 2016, 649.

[88] In argomento, non si può prescindere dalla lettura di Accettella, Il collocamento di strumenti finanziari, Milano, 2013, 161 ss.

[89] Alvaro, Il quadro normativo italiano in tema di commercializzazione di pietre preziose presso lo sportello bancario, in Banca impr. soc., 2017, 166 s.

[90] Cfr. Anelli, La responsabilità da prospetto fra novità legislative e sentenze della Suprema Corte, in Soc., 2011, 416; Giudici, La responsabilità civile nel diritto dei mercati finanziari, Milano, 2008, 226 ss., spec. 227, il quale evidenzia come nella prassi la parziarietà della responsabilità sia superata mediante una assunzione volontaria di responsabilità imposta all’emittente dal responsabile del collocamento.

[91] Belotti, La responsabilità solidale nel collocamento di prodotti finanziari, in Resp. civ. prev., 2019, 683 ss. trae spunti per corroborare tale tesi applicando analogicamente l’art. 2339, comma 2, c.c. V. anche Bruno, La (nuova?) responsabilità da prospetto verso il pubblico, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, I, 787.

[92] Belotti, op. cit., 685; Bruno, op. cit., 787.

[93] Mosca, op. cit., 673 s. V. anche Belotti, op. cit., 686 ss.

[94] V. Ferrarini, L’ammissione a quotazione: natura, funzione, responsabilità e “self-listing”, in Analisi giur. econ., 2002, 193 s.

[95] Così Bruno, op. cit., 787.

[96] Per una ricostruzione dell’ampio dibattito sulla natura della responsabilità da prospetto prima del recepimento nel nostro ordinamento della direttiva 2003/71/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, relativa al prospetto da pubblicare per l’offerta pubblica o l’ammissione alla negoziazione di strumenti finanziari v. Anelli, op. cit., 418 ss., nonché D’Alfonso, Responsabilità da prospetto informativo, Napoli, 2002, passim.

[97] Ancora, Bruno, op. cit., 789.

[98] Così, esattamente, Cass., 11 giugno 2010, n. 14056, in Soc., 2011, 411 ss., con nota di Anelli, op. cit., e in Resp. civ., 2012, 801 ss., con nota di Zanardo, La Suprema Corte si pronuncia sulla responsabilità “da prospetto”; v. anche Cass., sez. un., 8 aprile 2011, n. 8034, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, 698 ss., con nota di Gardella, La frode Madoff non sfugge alla giurisdizione italiana: responsabilità transfrontaliera da prospetto ed interpretazione del PRIMA. In giurisprudenza di merito cfr. Trib. Milano, 18 maggio 2017, in Soc., 2017, 1361 ss., con commento di Arrigoni, Nesso di causalità e quantum del risarcimento nella responsabilità da prospetto.

[99] Per Bruno, op. cit., 794, l’affidamento è presunto (iuris tantum) nel sistema: i mercati finanziari sono congegnati per garantire l’attendibilità delle informazioni che incide sulla determinazione dei prezzi e sulla volontà degli investitori.

[100] Cfr. Cass., 17 novembre 2016, n. 23418; Cass., 25 febbraio 2009, n. 4587, in Foro it., 2009, I, 3355 ss.; Cass., 3 marzo 2001, n. 3132.

[101] Cass., 27 aprile 2016, n. 8394.

[102] Bruno, op. cit., 794. Precedentemente, v. Pinardi, La responsabilità per danni da informazione nel mercato finanziario, in Nuova giur. civ. comm., 2002, II, 363.

[103] Sul danno da investimento cfr. Trib. Milano, 22 settembre 1986, in Soc., 1987, 162. Sul danno da mancato investimento v. Trib. Napoli, 16 giugno 1986, per cui una omessa o insufficiente informazione in occasione dell’aumento del capitale sociale può essere causa di una mancata formazione della volontà di sottoscrizione dello stesso e quindi, se la società è in buone condizioni patrimoniali, di una perdita di c.d. chance economica, mentre se la falsità del bilancio occulta uno stato patrimoniale insufficiente, la mancata sottoscrizione dell’aumento del capitale non produce alcun danno. Sul danno per mancato disinvestimento, invece, v. Trib. Milano, 21 ottobre 1999, in Giur. it., 2000, I, 554 in cui il danno risarcibile è consistito nel mantenimento dell’investimento dovuto alla falsa rappresentazione della situazione patrimoniale nella documentazione sociale; Trib. Milano, 29 settembre 1983, in Giur. comm., 1984, II, 42 ss., in cui i soci, di fronte a bilanci costantemente in attivo, ma in realtà falsi e sostanzialmente in perdita, si astennero dal negoziare i titoli in loro possesso prima del totale azzeramento del loro valore, proprio perché tratti in inganno da quelle comunicazioni sociali non veritiere. Per il danno da disinvestimento v. invece Trib. Chiavari, 18 gennaio 1993, in Soc., 1993, 823, riguardante un caso di cessione di azioni ad un prezzo inferiore al valore reale in quanto il bilancio sottovalutava il patrimonio sociale.

[104] Cass., 30 gennaio 2019, n. 2654; Cass., 11 giugno 2010, n. 14056, cit.; Trib. Milano, 25 luglio 2008. Specificamente sul danno da mancato disinvestimento v. Trib. Milano, 30 giugno 2009, che afferma che possono essere oggetto di possibile valutazione ai fini del decidere anche gli atti compiuti e le sentenze emesse in altro processo, come i comunicati Consob ed i provvedimenti del­l’AGCM, in quanto rappresentativi di fatti.

[105] Arrigoni, op. cit., 1374 critica tale impostazione evidenziando come vi siano in concreto situazioni nelle quali risulta maggiormente ragionevole mantenere l’investimento anziché procedere alla sua immediata liquidazione. Per cui, l’eventuale incremento del pregiudizio patrimoniale da addossare all’investitore a titolo di concorso di colpa è quello che consegue al momento in cui il mercato ha “assorbito” l’informazione non corretta. Sarà solo da tale successivo momento che l’investitore sarà in grado di decidere se mantenere o liquidare l’investimento, così rientrando nella sua sfera di rischio il successivo deprezzamento del prodotto finanziario.

[106] Trib. Milano, 18 maggio 2017, cit.

[107] V. Trib. Milano, 25 maggio 2019, pronunciandosi sul danno da prospetto per l’acquisto di un pacchetto azionario quotato in borsa, tiene conto dell’andamento complessivo del mercato azionario italiano nel periodo di riferimento, essendo ampiamente presumibile che l’investitore, fuorviato dalle false informazioni al momento della decisione di investire acquistando quel dato titolo in luogo di un altro, in ogni caso si sarebbe rivolto al mercato borsistico per i propri investimenti e dunque avrebbe pur sempre acquistato titoli quotati in borsa.

[108] Trattasi di attività che potrebbero costituire autonoma attività di impresa: così Ferro-Luzzi, La “connessione” delle attività connesse delle banche, in Banca, borsa, tit. cred., 2001, I, 148; Morera e Marchisio, Sulle attività connesse ex art. 10, comma 3°, T.U.B., ivi, 2016, I, 718 s.; G. Desiderio, Le attività connesse e strumentali esercitate dalle banche, in Le attività delle banche2, a cura di Urbani, Padova, 2020, 494.

[109] Per tutti, ancora Ferro-Luzzi, La “connessione” delle attività connesse, cit., 148.

[110] Lucidamente, Ferro-Luzzi, La “connessione” delle attività connesse, cit., 149 s., nonché Morera e Marchisio, op. cit., 720.

[111] Circostanza sulla quale, invece, G. Desiderio, op. cit., 499, fonda la critica alla tesi del Ferro-Luzzi, citata nella nota precedente.

[112] Tra queste, la banca potrebbe addirittura svolgere un ruolo attivo nell’operazione, effettuando attività di gestione o consulenza nella gestione di patrimoni [cfr. l’art. 1, comma 2, lett. f), n. 11, t.u.b. per le attività ammesse al mutuo riconoscimento]. Sul punto v. G. Fauceglia, Commento all’art. 10 t.u.b., in Commentario Costa, I, Torino, 2013, 78.

[113] Morera e Marchisio, op. cit., 719.

[114] Che le attività connesse debbano essere svolte non in via principale è messo in evidenza da Brescia Morra, Commento all’art. 10, in Testo unico bancario. Commentario, a cura di Belli, Losappio, Porzio, Rispoli Farina e Santoro, Milano, 2010, 106, nonché da Morera e Marchisio, op. cit., 720.

[115] Cfr. Ferro-Luzzi, La “connessione” delle attività connesse, cit., 151; Morera e Marchisio, op. cit., 721 s.

[116] Ferro Luzzi, La “connessione” delle attività connesse, cit., 152. V. anche Urbani, Banca, attività bancaria, attività delle banche, in Le attività delle banche, cit., 18.

[117] Cfr. Ferro-Luzzi, La “connessione” delle attività connesse, cit., 153; Morera e Marchisio, op. cit., 724; Alvaro, op. cit., 175; G. Desiderio, op. cit., 496.

[118] Morera e Marchisio, op. cit., 723; Alvaro, op. cit., 152. Sulla vendita di diamanti e oro da investimento quale attività connessa v. G. Desiderio, op. cit., 499. Si registrano inoltre diverse decisioni dell’Arbitro Bancario-Finanziario che hanno dichiarato l’inammissibilità ratione materiae del ricorso vertente sulla commercializzazione di diamanti presso gli intermediari in quanto attività connessa a quella tipicamente riservata a tali soggetti, come tale in alcun modo sussumibile nel paradigma delle operazioni relative a servizi bancari/finanziari che costituiscono l’àmbito cognitivo dell’ABF: v. le Decisioni ABF – Collegio di Bologna, 11 ottobre 2018, n, 21328, 29 ottobre 2018, n. 22690, 26 novembre 2018, n. 24902 e 22 marzo 2019, n. 8089; ABF – Collegio di Torino, 13 marzo 2019, n. 7302; ABF – Collegio di Palermo 10 dicembre 2019, nn. 26089 e 26090. Ha invece escluso l’applicabilità della disciplina sui servizi di investimento, pur essendo l’operazione avvenuta per il tramite del canale bancario, con conseguente esclusione dal suo àmbito di operatività l’Arbitro per le Controversie Finanziarie con la Dichiarazione prot. 86134/17 del 5 luglio 2017.

[119] Comunicazione Banca d’Italia 14 maggio 2018 avente ad oggetto Operazioni di compravendita di diamanti effettuate attraverso gli sportelli bancari, cit.

[120] Tale obbligo di condotta delle banche non si spinge però a un vaglio del contenuto del contratto: Morera e Marchisio, op. cit., 725, nt. 51, pongono in luce come ogni qualvolta la banca svolga attività di vendita sulla scorta di contratti standard predisposti da imprese terze, quali polizze assicurative o contratti d’altro tipo, essa non è tenuta a effettuare una dettagliata analisi tecnico-giuridica dei contenuti dei singoli regolamenti negoziali costituenti la base contrattuale dei prodotti promossi, collocati o venduti nel­l’àmbito dell’attività connessa.

[121] V. Cass. 27 giugno 2002, n. 9380; Cass. 7 aprile 2005, n. 7252.

[122] Cfr. Cass., 24 febbraio 2009, n. 4422.

[123] Così Cass., sez. un., 2 agosto 2017, n. 19161, in Giur. comm., 2018, II, 923 ss., con nota di Ippoliti, Il diritto del mediatore atipico alla provvigione e l’obbligo di iscrizione al ruolo nella decisione delle Sezioni Unite; Cass., 4 novembre 2019, n. 28269.

[124] Così Luminoso, La mediazione2, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo e continuato da Mengoni e Schlesinger, Milano, 2006, 8; Galgano, Mediazione di cortesia, mediazione accessoria e prestazioni accessorie del mediatore, in La mediazione, a cura di Zaccaria, Padova, 1992, 146.

[125] Cfr. Trib. Genova, 29 marzo 2021, cit.

[126] Sul punto v. Sesti, Responsabilità aquiliana del mediatore-mandatario nei confronti del soggetto promissario acquirente del bene, in Resp. civ. prev., 2009, 2293 s., ove ampi richiami bibliografici e giurisprudenziali.

[127] È notevole l’attualità delle parole di Alpa, Il danno da informazione economica, in Riv. not., 1977, 1103.

[128] Cass., 14 luglio 2009, n. 16382, in Resp. civ. prev., 2009, 2281 ss., con nota di Sesti, op. cit. V. anche Trib. Grosseto, 3 agosto 2017.

[129] Che, qualora risultassero violati, genererebbero responsabilità ex se, rendendo il contatto sociale qualificato un requisito inutile: così Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, 147.

[130] Cfr., ex multis, Cass., 21 giugno 2004, n. 11488, in Giust. civ., 2005, I, 121 ss., con nota di Giacobbe, Wrongful life e problematiche connesse; Cass., 29 settembre 2004, n. 19564; Cass., 19 aprile 2006, n. 9085, in Ragiusan, 2007, 279 s.; Cass., 24 maggio 2006, n. 12362; Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577, in Resp. civ. prev., 2008, 849, con nota di Gorgoni, Dalla matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale e professionale al superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzo/di risultato e in Resp. civ., 2008, 397, con nota di Calvo, Diritti del paziente, onus probandi e responsabilità della struttura sanitaria.

[131] Cfr. Castronovo, La nuova responsabilità civile3, Milano, 2006, 451 ss.; Id., Eclissi, cit., 128 ss.

[132] Così Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533.

[133] In quanto la consulenza richiesta nel procedimento ex art. 696 c.p.c. ben potrebbe essere richiesta, senza pregiudizio, nell’àmbito di un ordinario giudizio di merito o di risarcimento del danno e non sussistendo nemmeno la prova della necessaria acquisizione del mezzo istruttorio prima del giudizio di merito, in correlazione al pericolo di dispersione della prova, atteso, peraltro, che, nell’ipotesi in cui i diamanti siano custoditi dalla società venditrice, ne sarà pienamente possibile la valutazione e la stima nell’àmbito di un ordinario giudizio di merito, mentre, nell’ipotesi in cui i diamanti non sussistano in natura né siano nella custodia dei resistenti o di taluno di essi, già si sarebbe verificata la dispersione delle pietre, con conseguente inammissibilità di una CTU preventiva di stima e di valutazione di oggetti ormai dispersi: così Trib. Roma, 1° settembre 2019, cit. Altrettanto, Trib. Modena, 11 luglio 2018, cit., ha dichiarato inammissibile la a.t.p. in quanto non appariva strumentale alla successiva azione di merito e non aveva alcun rilievo stabilire il valore dei preziosi posto che la ricorrente intendeva richiedere l’integrale restituzione della somma investita.

[134] Trib. Asti, 24 febbraio 2020, cit., la quale, richiamando Cass., 9 novembre 2012, n. 19509, in Foro it., 2013, I, 937 (avente ad oggetto la vendita di un quadro successivamente scopertosi essere falso), ha rilevato che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno decorre dalla consegna del bene, non potendo ricondurre i danni patiti dall’acquirente dei diamanti alla categoria dei danni lungolatenti poiché l’illecito lamentato presenta le caratteristiche di un illecito istantaneo cui è seguita una immediata verificazione del danno.
Non vi è dubbio, infatti, che il danno si sia verificato al momento dell’acquisto, atteso che, sin da quel momento, l’acquirente divenne proprietario di un bene di valore inferiore rispetto a quanto atteso. Il danno, inoltre, sarebbe in tal caso immediatamente percepibile tenuto conto che il minor valore delle pietre sarebbe verificabile consultando i listini specificamente riferiti ai beni acquistati o rivolgendosi ad uno stimatore. Contra, v. Trib. Verona, 15 gennaio 2021, in Dirittobancario.it secondo cui il termine prescrizionale decennale decorre solamente dal momento della conoscibilità del dolo della società venditrice e della banca da parte dell’investitore, coincidente con la pubblicazione del citato provvedimento AGCM 20 settembre 2017 (avvenuta il 30 ottobre 2017), poiché è con esso che è stata svelata e resa pubblica la natura decettiva ed ingannevole dei predetti soggetti nei confronti dei clienti che acquistavano i diamanti da investimento.

[135] Allegando la sola attività mediatizia della banca e i citati provvedimenti dell’AGCM e le successive pronunzie del TAR Lazio (cfr. supra, nt. 66), elementi privi di efficacia probatoria in relazione al caso di specie e senza alcuna riferibilità specifica alle parti del giudizio: così Trib. Modena, 2 aprile 2019 e Trib. Genova, 11 aprile 2019, citt.

[136] Così Trib. Bologna, 16 luglio 2020, cit. V. anche le già citate Trib. Parma, 26 novembre 2018; Trib. Parma, 21 gennaio 2019; Trib. Milano, 8 gennaio 2019 (che ritiene infondate le azioni di natura restitutoria e risarcitoria in quanto le stesse sono inequivocabilmente correlate alle azioni di natura contrattuale, e non sono state invece sviluppate in via autonoma, ossia dando risalto al ruolo autonomo della banca); nonché Trib. Milano, 29 ottobre 2019, la quale ha respinto la domanda di parte attrice sull’annullamento del contratto ex artt. 1427 e 1439 c.c. e non ha ritenuto possibile analizzare la responsabilità della banca ad altro titolo, quale per esempio il suo status professionale e l’affidamento che la stessa induce sui terzi in merito ai prodotti collocabili ex artt. 1183 e 1218 c.c.

[137] Così Trib. Lucca, 22 novembre 2019 e 4 settembre 2020, cit.

[138] In argomento cfr. per tutti Giorgini, Consulenza finanziaria e sua adeguatezza, Napoli, 2017, passim.

[139] Oltre a Trib. Verona, 23 maggio 2019 e Trib. Lucca, 26 luglio 2022, citt., anche se in termini dubitativi v. Trib. Modena, 10 marzo 2020, cit.

[140] Ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett. a), d.m. Economia e Finanze 17 febbraio 2009, n. 29 – sebbene questo, all’art. 8, comma 3°, riproponeva una norma del medesimo tenore letterale –, decreto a sua volta abrogato ex art. 10, comma 1, lett. b), d.m. Economia e Finanze 2 aprile 2015, n. 53. Quest’ultimo decreto fornisce esclusivamente la definizione di servizi connessi all’attività di garanzia collettiva dei fidi, individuando delle attività coerenti alla peculiare natura dei confidi. Oggi, coerentemente a quanto previsto dall’art. 106, comma 2, lett. c), t.u.b., le attività connesse rispetto all’attività finanziaria esercitata dall’intermediario sono dettate dalla Banca d’Italia (Tit. I, Cap. 3, Sez. III, Disposizioni di vigilanza per gli intermediari finanziari – Circolare 3 aprile 2015, n. 288) che le individua nelle attività di natura commerciale ovvero finanziaria, non soggette a riserva, che consentono di sviluppare l’attività finanziaria esercitata e che sono svolte in via accessoria rispetto all’attività principale. Sono connesse attività quali la prestazione di servizi di informazione commerciale, consulenza in materia di finanza d’impresa (ad esempio, in materia di struttura finanziaria e di strategia industriale), recupero crediti di terzi e leasing operativo.

[141] V. Trib. Modena, 10 marzo 2020, cit.; recentemente, v. anche Trib. Lucca, 26 luglio 2022, cit.

[142] Breccia, Le fonti delle obbligazioni nel diritto privato in trasformazione, in Diritto e crisi, a cura di Luminoso, Milano, 2016, 124, il quale, però (p. 132), ammonisce sul fatto che la disciplina sulla responsabilità contrattuale fornisca una più efficace difesa a chi è meritevole di una tutela primaria, dovendosi evitare “generalizzazioni indiscriminate”, essendo la formula di cui all’art. 1173 c.c. incompatibile con l’espandersi di una rigidità che vada ad invadere àmbiti ragionevolmente presidiati, in primis, dalla responsabilità extracontrattuale.

[143] Così Barcellona, Trattato della responsabilità civile, Torino, 2011, 86 ss.

[144] Barcellona, op. cit., 97 ss. Tale precisa disamina è stata approfondita anche, con un’analisi della struttura dogmatica delle rispettive discipline, in Id., Responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale: dalle dogmatiche alle «rationes» dei rispettivi regimi, in Riv. crit. dir. priv., 2015, 335 ss.

[145] Trib. Verona, 23 maggio 2019, cit.

[146] Sul tema, per tutti D’Adda, La solidarietà risarcitoria nel diritto privato europeo e l’art. 2055 c.c. italiano: riflessioni critiche, in Riv. dir. civ., 2016, 279 ss.

[147] Nel senso che la solidarietà dell’obbligazione risarcitoria prevista dall’art. 2055, comma 1°, c.c. non venga messa in discussione in caso di pluralità di condotte tra loro autonome e derivanti da diverso titolo, che però siano state causalmente convergenti nella produzione di un medesimo danno v. Tassone, La ripartizione di responsabilità nell’illecito civile, Napoli, 2007, 387; Gnani, L’art. 2055 e il suo tempo, in Danno resp., 2001, 1031; Franzoni, Fatti illeciti, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma 1993, 715, 723; Busnelli, L’obbligazione soggettivamente complessa. Profili sistematici, Milano, 1974, 136 ss.

[148] Si vedano sul tema, tra le altre, Cass. 17 gennaio 2019, n. 1070; Cass., 30 marzo 2010, n. 7618, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, 445 ss., con nota (senza titolo) di Romualdi; Cass., sez. un., 15 luglio 2009, n. 16503, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 195 ss., con nota di Penuti, Limiti all’estensione ai condebitori del giudicato ex art. 1306, comma 2°, cod. civ., nell’obbliga­zione solidale risarcitoria fondata su diverso titolo (contrattuale ed extracontrattuale), Cass., 9 novembre 2006, n. 23918, in Resp. civ. prev., 2007, 276 ss., con nota di Cendon, Danno esistenziale e ossessioni negazioniste; Cass., 15 luglio 2005, n. 15030; Cass., 15 giugno 1999, n. 5946, in Riv. not., 2000, 136, con nota di Casu, Trasferimenti immobiliari e obbligo notarile di visure ipocatastali; Cass., 14 gennaio 1996, n. 418; Cass., 4 marzo 1993, n. 2605; Cass., 4 dicembre 1991, n. 13039, in Resp. civ. prev., 1992, 368 ss., con nota di Vacca, La responsabilità del progettista e quella dell’impresa appaltatrice per vizi del progetto; Cass., 28 gennaio 1985, n. 488, in Riv. giur. ed., 1985, I, 458 ss.; Cass., 8 luglio 1980, n. 4356; Cass., 5 gennaio 1976, n. 1, in Foro it., 1976, I, 44 ss.

[149] Cfr. Cass., 11 febbraio 2008, n. 3187; Cass., 16 dicembre 2005, n. 27713; Cass., 26 maggio 1995, n. 7231.

[150] V. Cass., 30 marzo 2010, n. 7618; Cass., 9 novembre 2006, n. 23918; Cass., 15 giugno 1999, n. 5946, citt.

[151] Così Trib. Verona, 23 maggio 2019 e Trib. Modena, 10 marzo 2020, citt. V. anche Trib. Genova, 29 marzo 2021 cit., che nel determinare il risarcimento comparando il valore capitale investito per acquistare i diamanti ed il valore di realizzo dei diamanti acquistati, così reintegrando ora per allora l’utilità che la banca, col suo comportamento ha negato al proprio cliente, esclude che alla banca stessa spettasse un obbligo di protezione dell’investimento, ancor meno duraturo. In più, detto valore è stato abbattuto dal Tribunale del venti per cento, in quanto il valore dei listini è espresso per operatori professionali, mentre «ceduta la gemma ad un consumatore, la sua isolata remissione nel circuito commerciale, sconta certamente una sorta di “prezzo del riacquisto” (gli operatori professionali non hanno infatti un pregnante interesse al riacquisto dovendo essere indotti ad agire in direzione contraria al loro ordinario commercio da una evidente convenienza”. Il valore così calcolato è stato infine depurato dell’IVA e del margine per il venditore, poste negative che per l’acquirente sussistono sempre indipendentemente dalla correttezza o meno del prezzo, sottraendo al primo valore monetario il trenta per cento.