Diversificare le operazioni di investimento in attività reali o di consumo attira un numero sempre crescente di investitori, specie avendo riguardo ai cc.dd. passion investments, investimenti in beni reali con alto valore venale. Il presente lavoro, traendo spunto da molteplici recenti arresti giurisprudenziali in ordine alla valutazione di differenti manifestazioni del fenomeno in discorso (in particolare per quanto concerne i diamanti da investimento), pone in evidenza gli elementi discriminatori che consentono di qualificare l'operazione come investimento avente o meno natura finanziaria per poi concentrare l'attenzione sulla qualificazione dell'attività di intermediazione svolta dalla banca nel collocamento (rectius, vendita) di tali beni e sui relativi profili di responsabilità.
Diversification through tangible assets is an investment strategy that attracts an ever-increasing number of investors, especially the so-called passion investments, i.e. investments in non-traditional assets with high market value. This paper, drawing inspiration from several recent judgements regarding the evaluation of different displays of the phenomenon in question (in particular as regards investment diamonds), highlights the discriminatory elements that allow the operation to be qualified as an investment having or less financial nature, to then focus attention on the qualification of the intermediation activity carried out by the bank in the placement (rectius, sale) of these assets and on the related profiles of liability.
1. I passion investments: descrizione di un fenomeno - 2. La definizione di prodotto finanziario. La creazione di un “valore” - 3. Operazioni di investimento aventi natura finanziaria e operazioni di investimento in attività reali o di consumo - 4. Il rischio proprio dell’investimento avente natura finanziaria - 4.1. Segue. I casi vagliati dalla Suprema Corte: compravendita o investimenti di natura finanziaria? - 5. Le operazioni di vendita di diamanti tramite intermediazione di istituti di credito - 6. La gestione collettiva del patrimonio in beni d’arte: il caso degli art funds - 7. La responsabilità dell’ente creditizio - 7.1 – Segue. L’offerta al pubblico e il collocamento di prodotti finanziari - 7.2 – Segue. La commercializzazione di beni rifugio quale attività connessa della banca - 7.3. Segue. La natura della responsabilità della banca intermediaria - NOTE
Un’auto d’epoca, una bottiglia di vino pregiata, pietre preziose o una bella casa possono offrire un’emozione che quote di fondi di investimento, azioni e obbligazioni non potranno mai dare. Diversificare le operazioni di investimento in attività reali o di consumo attira un numero sempre crescente di investitori, specie avendo riguardo ai cc.dd. passion investments, investimenti in beni caratterizzati da un alto valore venale come gli oggetti di lusso da collezione, dalle auto d’epoca ai gioielli, dalle opere d’arte agli orologi, dai vini agli strumenti musicali e così via [1]. L’appetibilità di investimenti nelle varie asset class al fine di una diversificazione del portafoglio è resa allettante dalla correlazione bassa o negativa con i principali investimenti finanziari [2]. Sono beni, in una qualche misura, sottratti al consumo: il mercato dei beni di collezione è quasi un locus amoenus della teoria economica in cui vi sono una buona informazione ed una vera contrattazione [3]. Inoltre, l’investitore è spinto all’investimento dal suo certo rendimento “spirituale”, nel senso che un bene da collezione, essendo passione prima ancora che ricchezza, porta a far prevalere il lato emozionale su quello economico e il bene avrà sempre un valore immateriale per chi l’ha acquistato, indipendentemente da quello venale. I passion investment sono dunque visti come investimenti che in un certo qual modo sfuggono da considerazioni di carattere eminentemente finanziario, assumendo (in maniera parallela, se non prevalente rispetto a queste ultime) particolare rilevanza il fattore emotivo, per cui l’investimento in beni di lusso appare affascinante per la sicurezza conferita da quelli che, nella comune opinione, vengono considerati cc.dd. beni rifugio (o safe heaven), che alla caratteristica della difesa del valore del capitale investito sul lungo periodo uniscono quelle della facile trasportabilità e della soddisfazione estetica e collezionistica [4]. Allo stesso tempo, però, non va trascurato il fatto che sono investimenti che risentono delle mode o delle oscillazioni dei mercati finanziari e, pertanto, al fine di contenere i rischi propri di tali settori richiedono elevate competenze specifiche [5]. La crescente affermazione della rilevanza dei beni di lusso nei mercati finanziari in senso ampio è [continua ..]
In primo luogo, occorre prendere le mosse dalla nozione di prodotto finanziario offerta dal t.u.f.: come è noto, sono tali, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. u) «gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria; non costituiscono prodotti finanziari i depositi bancari o postali non rappresentati da strumenti finanziari”. La formulazione della norma, connotata da una certa vaghezza [11], ha richiesto particolari sforzi esegetici da parte della dottrina [12], specie attorno alla formula «investimento di natura finanziaria» [13]. La natura finanziaria di un investimento e la conseguente sussunzione dello stesso nella fattispecie “prodotto finanziario” consente l’applicazione di molteplici norme di settore, sia in materia di offerta fuori sede (artt. 30, commi 5 e 9, 31, comma 2, e 32, comma 2, t.u.f.) e di offerta al pubblico di prodotti finanziari (artt. 94 ss. e, specialmente, l’art. 100-bis t.u.f.) [14]. Dalla definizione di prodotto finanziario emerge in primo luogo un rapporto di genus ad speciem tra prodotti finanziari e strumenti finanziari: tutti gli strumenti finanziari sono prodotti finanziari [15], ma non tutti i prodotti finanziari sono strumenti finanziari. Se l’individuazione dei confini della categoria degli strumenti finanziari non comporta particolari problemi, data la puntuale e tassativa individuazione degli stessi contenuta nella sezione C di cui all’allegato 1 al t.u.f. (e l’individuazione di un perimetro «inferiore», escludendo dagli stessi gli strumenti di pagamento ex art. 1, comma 2, t.u.f., così come modificato dal d.lgs. 3 agosto 2017, n. 129) [16], appare meno agevole inquadrare la categoria aperta dei prodotti finanziari, che sicuramente ricomprende gli strumenti finanziari (e ne costituisce il limite “superiore”), ma anche le altre forme di impegno di capitali aventi natura finanziaria, presentando così – sotto il profilo contenutistico – un’estrema diversificazione. Come attentamente evidenziato in dottrina, si ha un’operazione finanziaria quando le parti programmano un’operazione che inizi e termini con il denaro, “essendo l’oggetto dell’interesse che le parti mirano a realizzare con l’operazione, oggetto che consiste nel, e si concentra sul, danaro” [17]. Ma tale specificazione [continua ..]
Per quanto finora esposto, emerge come vi sia una fondamentale distinzione tra le operazioni di investimento aventi natura finanziaria e quelle di investimento in attività reali o di consumo, cioè le operazioni di acquisto di beni e di prestazioni di servizi che, anche se concluse con l’intento di investire il proprio patrimonio, sono essenzialmente dirette a procurare all’investitore il godimento del bene, a trasformare le proprie disponibilità in beni reali idonei a soddisfare in via diretta bisogni non finanziari del risparmiatore stesso [24]. Per meglio evidenziare la distinzione tra un investimento avente natura finanziaria e uno che non la ha, è possibile operare un confronto un investimento effettuato acquistando un lingotto d’oro e un investimento in uno strumento finanziario parametrato al valore dell’oro. A tal uopo, il confronto può essere fatto con un ETC (Exchange Traded Commodities) sull’oro. Gli ETC sono strumenti finanziari oggetto di un’operazione di cartolarizzazione emessi da una società veicolo o special purpose vehicle – società costituita ad hoc per effettuare esclusivamente una o più operazioni di emissione di strumenti finanziari – a fronte dell’investimento diretto dell’emittente in materie prime o in contratti derivati su materie prime [25]. Gli ETC replicano direttamente o indirettamente il sottostante attraverso una gestione passiva e sono negoziati in borsa come un’azione. Il Regolamento Borsa Italiana [26] (art. 2.2.22, comma 2) detta la previsione, specificamente per gli ETC, secondo cui: a) le attività acquistate con i proventi derivanti dalla sottoscrizione dei titoli devono costituire patrimonio separato a tutti gli effetti da quello dell’emittente; b) le attività acquistate con i proventi derivanti dalla sottoscrizione, nonché i proventi generati dalle stesse attività, devono essere destinati in via esclusiva al soddisfacimento dei diritti incorporati negli strumenti finanziari ed eventualmente alla copertura dei costi dell’operazione; c) sulle attività acquistate con i proventi derivanti dalla sottoscrizione non devono essere ammesse azioni da parte di creditori diversi dai portatori dei relativi strumenti finanziari. Può inoltre essere prevista la sottoscrizione o il rimborso, in via continuativa, attraverso la consegna degli [continua ..]
Giunti a questo punto della nostra indagine, occorre soffermarci sull’elemento del “rischio” richiamato dal principio di diritto affermato dalla Cassazione nell’inquadrare i caratteri dell’investimento avente natura finanziaria. Come visto, per “ogni altra forma di investimento di natura finanziaria” debbono intendersi le proposte di investimento che implichino la compresenza dei tre seguenti elementi: i) impiego di capitale; ii) aspettativa di rendimento di natura finanziaria; iii) assunzione di un rischio direttamente correlato all’impiego di capitale. La Suprema Corte, infatti, ha precisamente rilevato come l’investimento di natura finanziaria comprenda ogni conferimento di una somma di denaro da parte del risparmiatore, indipendentemente dalla tipologia del bene oggetto dell’investimento [31] con un’aspettativa di profitto o di remunerazione, vale a dire di attesa di utilità a fronte delle disponibilità investite nell’intervallo determinato da un orizzonte temporale, e con un rischio [32]. La ragione giustificativa del contratto di investimento in prodotti finanziari, e non il suo semplice motivo interno privo di rilevanza qualificante, consiste proprio nell’investimento del capitale (il denaro iniziale) con la prospettiva dell’accrescimento delle disponibilità investite (il denaro finale all’esito degli effetti del valore finanziario), senza l’apporto di prestazioni da parte dell’investitore diverse da quella di dare – come detto – una somma di denaro. Nondimeno, ai fini della configurabilità della presenza di un prodotto finanziario la Suprema Corte ha incluso tra i rischi assumibili dall’investitore anche il c.d. rischio emittente, ossia la capacità stessa dell’emittente di restituire il tantundem, con la maggiorazione promessa. Sulla scorta di ciò, se ci si concentrasse sulla sola struttura dell’operazione, allora anche un conto deposito rientrerebbe, in astratto, tra i prodotti finanziari: il depositante “blocca” per un determinato periodo di tempo un capitale, nell’ottica di un rendimento (il tasso di interesse), assumendosi – almeno per il deposito di somme eccedenti i 100.000 euro, ai sensi dell’art. 96-bis.1, comma 3, t.u.b. e fatte salve le eccezioni di cui al successivo comma 4° ovvero le altre limitazioni previste per [continua ..]
Assunta la definizione di prodotto finanziario, non poche perplessità nascono nell’osservare l’applicazione pratica di tale principio offerta dalla giurisprudenza di legittimità che ha qualificato come prodotto finanziario due particolari operazioni di impegno di capitale – una in diamanti [51], l’altra in opere d’arte [52] – che prevedevano l’acquisto dei beni cui si aggiungeva l’aspettativa di un rendimento, per quanto di importo predeterminato, in caso di esercizio del diritto di recesso da parte dell’investitore con la restituzione del bene nel termine previsto. Nello specifico, nel caso dell’investimento in diamanti l’operazione prevedeva il trasferimento in proprietà del diamante verso il corrispettivo di un prezzo, attribuendo all’acquirente la facoltà alternativa del godimento del bene o di pretendere l’esecuzione del contratto preliminare unilaterale concluso dalla società, con la conseguenza che, mentre nel primo caso l’acquirente non avrebbe avuto diritto al compenso per la custodia, nell’ipotesi di restituzione del diamante in plico sigillato tale compenso sarebbe spettato. Detto altrimenti, l’offerta al pubblico consisteva nell’immobilizzare del denaro per un determinato periodo di tempo, con la prospettiva del guadagno in conseguenza di ciò. Il meccanismo negoziale attraverso cui si perveniva a questo risultato veniva descritto come la consegna in affidamento di un diamante del valore ipotetico di 1.000 euro, chiuso in un involucro sigillato, contro il versamento in denaro della stessa somma e l’impegno della società, dopo dodici mesi, di riacquistare il diamante, restituendo il capitale di 1.000 euro e corrispondendo altresì l’importo di 80 euro “a titolo di custodia”. A giudizio della Cassazione, in tal caso, sussiste una causa negoziale finanziaria, in quanto l’investimento del capitale viene effettuato nella prospettiva dell’accrescimento delle disponibilità investite. Nella struttura negoziale prevalgono gli elementi del credito fruttifero e della garanzia, giacché il sottoscrittore finanzia la società e questa gli dà in garanzia il diamante, aggirando al contempo il divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c. con la previsione che la proprietà del diamante passerà al sottoscrittore se [continua ..]
In tempi recenti, come accennato [65], nella giurisprudenza di merito si registrano numerosi arresti sul tema della vendita di diamanti tramite intermediazione di istituti di credito [66]. Le operazioni di vendita di diamanti che venivano effettuate da alcune società per il tramite del canale bancario, determinavano il trasferimento di un pieno diritto di proprietà della res materiale in capo all’acquirente, atteso che quest’ultimo era immediatamente immesso nel pieno ed esclusivo diritto di disporre e godere del bene, non essendoci peraltro vincoli o limitazioni al godimento dello stesso. Non si ravvisa inoltre la sussistenza di certificati rappresentativi dei diritti dei titolari, destinati eventualmente a circolare nell’àmbito di un “mercato secondario”, appositamente organizzato. Ancora, non era previsto un patto di riacquisto da parte delle società. In particolare sussisteva esclusivamente di un mero impegno assunto dalle società in discorso a far sì che, nel caso in cui un acquirente intendesse rivendere i diamanti, un terzo (per la precisione, una società controllata) avrebbe assunto l’incarico di ricollocarli entro una certa data, al prezzo di mercato [67]. Con l’operazione non era nemmeno prospettata, a favore dell’acquirente che decidesse di dismettere i diamanti, una specifica forma di rendimento diversa, collegata e/o ulteriore rispetto al valore del bene acquistato. In buona sostanza, l’acquirente del diamante aveva il pieno diritto di godere e disporre del bene e, dunque, la facoltà di alienarlo o utilizzarlo altrimenti. L’eventuale provento percepito con la (proficua) rivendita del bene rappresentava, dunque, solo una delle possibili modalità di godimento del bene stesso da parte del proprietario [68]. Non si riscontra, come sopra accennato, la prospettazione, da parte delle società fautrici dell’iniziativa, di uno specifico rendimento. Difatti, sebbene la res materiale possa apprezzarsi (o anche deprezzarsi) per effetto dell’andamento delle quotazioni del bene nel tempo, tale circostanza non è di per sé sufficiente per affermare che l’eventuale apprezzamento del bene in parola possa de facto costituire una forma di rendimento di natura finanziaria. Ciò che rileva (ai fini dell’individuazione dell’investimento di natura finanziaria) [continua ..]
Finora s’è analizzata la sola ipotesi dell’acquisto di (o, se vogliamo, investimento in) beni rifugio da parte dell’investitore uti singulis, ponendo in evidenza gli elementi discriminatori che consentono di qualificare l’operazione come investimento in prodotti finanziari o meno. Vi è, però, un’altra manifestazione del connubio tra beni rifugio e finanza, che trova il proprio terreno elettivo nel settore dell’arte: i fondi di investimento in opere d’arte o art funds [69]. Diversamente dal caso di investimento in opere d’arte vagliato dalla Suprema Corte [70], nel quale l’investitore sottoscriveva un contratto di compravendita di opere d’arte a un prezzo scontato rispetto al prezzo indicato in listino, con la facoltà per gli acquirenti di risolvere il contratto e di ottenere, una volta scaduto il termine convenuto, la restituzione dell’importo superiore rispetto a quello versato al momento dell’acquisto e pari al prezzo di listino dell’opera d’arte, nel caso degli art funds il gestore del fondo di investimento compravende opere d’arte, determinando così il valore delle relative quote. Nella gestione collettiva del risparmio, infatti – come è noto – l’attività gestoria si svolge a monte, nell’interesse della collettività degli investitori. Dunque, l’investitore, a differenza di quanto avviene nella gestione individuale, acquisisce una quota di un patrimonio indiviso al quale partecipano pro quota anche altri investitori e il gestore del fondo svolge secondo una politica predeterminata la propria attività di investimento e disinvestimento dei beni in cui è investito il patrimonio, per la finalità della sua valorizzazione, nell’interesse collettivo dei partecipanti. La finalità della gestione collettiva è appunto quella, attraverso la gestione del suo patrimonio e dei relativi rischi, di generare un rendimento per gli investitori derivante dall’acquisto, dalla detenzione o dalla vendita delle attività in cui è investito il patrimonio stesso e dalle operazioni volte a ottimizzare o incrementare il valore delle suddette attività [71]. L’attività di gestione collettiva è svolta dal gestore in maniera standardizzata e spersonalizzata, in tendenziale totale autonomia dagli [continua ..]
L’intermediazione di istituti di credito nelle operazioni di passion investments, sia che configurino o meno un’operazione avente natura finanziaria, invita a soffermarsi sia su un’indagine circa la natura sia dell’attività svolta che della responsabilità nascente nel caso di un danno all’investitore. Innanzitutto, deve in ogni caso escludersi che tale attività rientri tra i servizi di investimento, in quanto gli stessi – che la banca è legittimata a svolgere ex art. 18 t.u.f. – hanno per oggetto strumenti finanziari (cfr. art. 1, comma 5, t.u.f.).
Se l’investimento ha natura finanziaria ed è pertanto qualificabile come prodotto finanziario, andrà esaminata l’attività della banca sia in ordine all’offerta al pubblico (id est l’attività di sollecitazione con la quale propone al mercato di sottoscrivere o acquistare prodotti finanziari) che al collocamento (ossia l’attività affinché i prodotti siano collocati presso gli investitori finali). Queste attività, per quanto strettamente interdipendenti [87], in una via quantomeno teorica non sono essenzialmente collegate e ciò emerge altresì dalla previsione di diversi regimi di responsabilità per l’intermediario offerente e quello collocatore (art. 94, commi 8 e 9 t.u.f.) [88]. Società emittente e banca offerente e/o collocatrice sono soggette alla disciplina dell’offerta al pubblico di prodotti finanziari di cui agli artt. 94 ss. t.u.f. e al rispetto delle norme di correttezza di cui alla disciplina secondaria emanata dalla Consob ai sensi dell’art. 95, comma 2, t.u.f. [89]. Tali norme, oggi contenute nell’art. 34-sexies Regolamento Emittenti, prescrivono all’emittente, all’offerente e al collocatore di prodotti finanziari (nonché a coloro che si trovano in rapporto di controllo o di collegamento con tali soggetti) di attenersi a princìpi di correttezza, trasparenza e parità di trattamento dei destinatari dell’offerta al pubblico che si trovino in identiche condizioni e di astenersi dal diffondere notizie non coerenti con il prospetto o idonee ad influenzare l’andamento delle adesioni. Ai sensi dell’art. 94, comma 8, t.u.f. l’emittente, l’offerente e l’eventuale garante, a seconda dei casi, nonché le persone responsabili delle informazioni contenute nel prospetto rispondono, ciascuno in relazione alle parti di propria competenza, dei danni subiti dall’investitore che abbia fatto ragionevole affidamento sulla veridicità e completezza delle informazioni contenute nel prospetto. Dalla formulazione della norma emergono dubbi in ordine alla natura solidale della responsabilità dei vari soggetti coinvolti nell’offerta al pubblico: se, facendo leva sul tenore letterale, parte della dottrina esclude la solidarietà dalla regola dell’art. 94, comma 8, t.u.f. [90], altra (con argomentazioni [continua ..]
Là dove, invece, si sia di fronte ad una operazione qualificabile come compravendita di beni mobili, va valutato se l’attività di intermediazione della banca sia consentita, rientrando tra le “attività connesse o strumentali” che ex art. 10, comma 3, t.u.b. le banche possono esercitare assieme all’attività bancaria ed ogni altra attività finanziaria [108]. Se le attività strumentali sono di facile individuazione, intendendosi per tali le attività in funzione servente del migliore esercizio dell’attività della banca [109], non altrettanto intuitivo è cosa costituisca attività connessa. Illuminante, a tal proposito, è l’impostazione che autorevole dottrina ha adottato ai fini della individuazione dei confini delle attività connesse, sfruttando la ratio sottesa alla formulazione dell’art. 2135 c.c. (sebbene ante modifiche apportate dal d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228) per le attività connesse all’impresa agricola, per cui determinate attività, di per sé considerate ontologicamente estranee all’attività agricola, quando rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura sfuggono alla qualifica (e alla disciplina) dell’impresa commerciale per essere assorbita da quella dell’attività principale [110]. Il medesimo discorso vale anche nella vigente formulazione dell’art. 2135, comma 3, c.c., in quanto accentua il rilievo dell’utilizzo di attrezzature e risorse aziendali in funzione di connessione [111]. Riassumendo, sono dunque attività connesse le attività di impresa che di per sé prese sono ontologicamente estranee all’attività bancaria, finanziaria [112] o ad attività ad esse strumentali [113], esercitate in via non principale dalla banca, ma per le quali sussista un legame che fa sì che la banca stessa, nello svolgimento del suo ciclo economico, utilizzi i propri fattori della produzione per svolgere in via marginale [114] anche tali altre attività [115]. Ciò fa sì che quella delle attività connesse sia una categoria i cui confini sono talmente ampi che risulta impossibile determinare a priori quali attività la banca possa svolgere in via accessoria [116]. L’unico limite è che si tratti di attività i cui [continua ..]
L’utilizzo della categoria della mediazione atipica quale strumento interpretativo capace di racchiudere in sé le molteplici figure di intermediari nella promozione di affari che, pur non rientrando nella definizione codicistica di mediatore, svolgono attività assimilabili a quella esercitata da quest’ultimo, consente inoltre l’estensione della relativa disciplina, ivi compresa quella relativa agli obblighi di diligenza. Infatti, nel caso dell’attività mediatizia, l’art. 1759 c.c. prevede che il mediatore debba comunicare alle parti le circostanze a lui note relative alla valutazione ed alla sicurezza dell’affare, che possono influire sulla conclusione di esso [125], senza che, però, tale obbligo di informazione si debba spingere oltre la semplice trasmissione delle informazioni acquisite, verificandone la veridicità o fondatezza [126]. Il mediatore, anche se svolge un’attività giuridica in senso stretto, è comunque tenuto ad osservare il generale canone di correttezza ex art. 1175 c.c., con la violazione del quale, come osservato da autorevole dottrina, si lede il vincolo che si viene a creare tra informatore ed informato, da ciò scaturendo un obbligo di risarcimento che si individua nel momento in cui vengono meno le aspettative determinatesi sulla base di esso [127]. Tutto ciò, però, qui avviene nell’àmbito di un’attività che mette in relazione le parti al fine di far loro concludere un contratto, ragion per cui deve condividersi l’impostazione offerta dalla Suprema Corte, che ha ricondotto la responsabilità del mediatore nell’àmbito della responsabilità da contatto sociale [128]. Quest’ultima, anche in assenza di un contratto o di un’apposita norma di legge [129], ipotizza l’esistenza di un’obbligazione tra due soggetti in rapporto di interazione, occorrendo all’uopo che la relazione interpersonale instaurata tra essi sia socialmente adeguata (ex art. 1173 c.c.) e, pertanto, idonea ad ingenerare la ragionevole aspettativa che la persona con cui si intrattenga un rapporto si comporti secondo correttezza. Ai fini della qualificazione della responsabilità, rileva non tanto la fonte dell’obbligazione (rectius la sussistenza o meno di un contratto), bensì la configurabilità o meno di [continua ..]