Il saggio si occupa di approfondire la tematica della costituzione delle servitù coattive, a partire dal concetto di obbligatorietà che le contraddistingue rispetto alle servitù volontarie. Viene, in particolare, analizzata la funzione dell'indennità a favore del titolare del fondo servente e la possibilità di procedere alla costituzione contrattuale attraverso lo schema di cui all'art. 1333 c.c., che disciplina il contratto con obbligazioni del solo proponente. L'analisi si conclude con alcune riflessioni sull'applicabilità in sede giurisprudenziale dell'art. 1411 c.c. nella costituzione delle servitù volontarie e sugli elementi di distinzione tra tale fattispecie e l’art. 1333 c.c.
The essay examines the acquisition of compulsory easements and, in particular, the payment of compensation to the owner of servient land and the application of article 1333 c.c. (the offeror is the only party with a contractual obligation). It analyses also the jurisprudential application of 1411 c.c. (third party contract) in the acquisition of voluntary easements and the distinction between unilateral contracts and third party contracts.
1. La costituzione delle servitù coattive ex art. 1032 cod. civ. L’obbligo di costituzione della servitù in capo al proprietario del fondo servente: criticità - 2. La costituzione delle servitù coattive tra sentenza e contratto - 3. La corresponsione dell’indennità - 4. Servitù coattive su base contrattuale e art. 1333 c.c. - 5. L’applicabilità dell’art. 1411 cod. civ. alle servitù volontarie - NOTE
È opinione diffusa che la distinzione tra servitù volontarie e servitù coattive [1] debba essere identificata nella obbligatorietà o non obbligatorietà rispetto alla costituzione del diritto di servitù. La servitù coattiva, infatti, si costituisce in adempimento di un preciso obbligo di legge [2]. Non rilevano, ai fini di tale distinzione, i mezzi scelti dalle parti per la costituzione dei diritti. Infatti, come previsto dall’art. 1032 cod. civ. [3], le servitù coattive possono costituirsi, sia mediante contratto, dunque, attraverso un atto costitutivo di natura negoziale, sia, in mancanza di contratto, per effetto di una sentenza giudiziale e, nei soli casi stabiliti dalla legge, con l’emanazione di un atto amministrativo [4]. Detto ciò, il fatto che anche le servitù coattive possano trovare la propria fonte in un atto di autonomia negoziale non incide sulla distinzione tra servitù coattive e servitù volontarie [5]. Nello specifico, la costituzione mediante contratto non modifica o trasforma la servitù da coattiva a volontaria [6]. Il contratto, infatti, non fa altro che attuare quanto stabilito dalla legge, realizzando, in questo modo, una situazione di corrispondenza tra la fattispecie concreta e la fattispecie astratta prevista dalla legge [7]. Riprendendo il concetto iniziale di obbligatorietà o non obbligatorietà, è possibile, perciò, affermare che la distinzione tra servitù volontarie e servitù coattive sia strettamente connessa al concetto di volontarietà o involontarietà rispetto alla costituzione del diritto [8], posto che la realizzazione di una servitù coattiva rappresenta esclusivamente l’adempimento di un obbligo di natura legale [9].
Come specificato da una parte della dottrina [10], l’obbligo legale di costituzione è connesso ad una situazione di necessità in cui viene a trovarsi il fondo dominante [11]. Tale situazione può profilarsi nei casi in cui la limitazione del diritto sul futuro fondo servente possa essere considerata imprescindibile [12]. Il concetto di imprescindibilità si riferisce ad una condizione differente rispetto alla nozione di mera utilità, che si ritrova nell’ambito delle servitù volontarie. La necessità o imprescindibilità della servitù si riscontra, infatti, nei casi in cui la sua costituzione sul fondo servente si presenti concretamente essenziale ed utile per l’esercizio del diritto di proprietà sul fondo dominante, a condizione, però, che siano previsti tutti gli ulteriori requisiti stabiliti dalla legge [13].
Il concetto di imprescindibilità della servitù così delineato, rimanderebbe, secondo Alcuni, a delle esigenze di carattere sociale legate alla necessità di un’utilizzazione razionale del fondo [14]. Alla luce di tali considerazioni, si è perfino prospettata l’esistenza di una vera e propria espropriazione per pubblica utilità a carico del titolare del fondo servente [15]. Si tratterebbe, nello specifico, di un’espropriazione parziale del diritto di proprietà [16], in virtù della quale il proprietario del fondo servente, sebbene conservi il proprio diritto di proprietà, subisce una restrizione dei propri poteri di godimento e di gestione sul fondo. Ciò significa che, in tali contesti, si verifica una perdita, vale a dire una diminuzione dell’intensità e dell’estensione della proprietà. È proprio in questi termini e muovendo da tali considerazioni, alcuni Autori hanno qualificato l’ipotesi in esame come un caso di requisizione del bene, finalizzata alla realizzazione dell’interesse pubblico, mettendo, comunque, in evidenza che l’utilità derivante dall’esercizio della servitù si riverbera esclusivamente sul proprietario del fondo dominante [17].
Sintetizzando quanto esposto finora, sussistono, in alcuni casi, delle esigenze sociali di rilevanza tale per cui l’utilizzazione razionale del fondo da parte del proprietario si realizza attraverso la compressione dei diritti esistenti sul futuro fondo servente. Di fatto, dunque, il proprietario del fondo dominante è portatore di esigenze di carattere pubblicistico, ritenute prevalenti rispetto agli interessi privatistici del proprio vicino [18].
Seguendo questa linea, è possibile, perciò, configurare la sussistenza di un obbligo di contrarre in capo al proprietario del fondo servente e di un corrispondente diritto alla costituzione della servitù in relazione al proprietario del fondo dominante. A questo proposito, secondo la dottrina tradizionale, l’obbligo di costituire la servitù deve essere considerato come una obligatio propter rem. Si tratterebbe, conseguentemente, di un’obbligazione avente carattere ambulatorio, in forza della quale l’impegno ad adempiere non riguarderebbe esclusivamente una determinata persona, ma chiunque al momento della costituzione della servitù sia proprietario del fondo servente [19]. Gli Autori più recenti hanno mosso diverse critiche in relazione alla configurabilità di un’obbligazione in capo al proprietario del fondo servente. Oltre alle questioni inerenti alla possibile applicabilità del rimedio di cui all’art. 2932 cod. civ. in caso di inadempimento [20], Alcuni contestano in maniera particolarmente incisiva l’esistenza stessa dell’obbligo. Le motivazioni vengono individuate, innanzitutto, nella formulazione dell’art. 1032, comma 1, c.c., per cui in mancanza di un contratto la servitù può essere costituita mediante sentenza, senza che venga fatto alcun riferimento al mancato adempimento di un obbligo [21]. Il proprietario del fondo servente non ha, perciò, alcun obbligo né di contrarre né di contrattare e, di conseguenza, non può essere ascrivibile nessuna responsabilità per danni a suo carico [22].
Al contrario, secondo una parte della dottrina, il proprietario del fondo dominante sarebbe titolare di un diritto potestativo, a cui farebbe da contraltare una posizione di soggezione e non di obbligo a carico del proprietario del fondo servente. Viene, tuttavia, riconosciuta la necessità che quest’ultimo, là dove venga adito in sede giudiziale, segua una condotta corretta a livello processuale, evitando di porre in essere comportamenti che possano ostacolare la costituzione della servitù [23]. Questa impostazione ha incontrato diverse critiche. Il riconoscimento di un diritto potestativo in capo al proprietario del fondo dominante non sarebbe, infatti, in linea con la natura delle obbligazioni coattive, che possono essere costituite con o senza il consenso del proprietario del fondo dominante [24]. Di conseguenza, dovrebbe essere negata completamente la sussistenza di un rapporto diritto-obbligo in caso di servitù coattive, riconoscendo unicamente un potere di costituzione della servitù in capo al titolare del fondo dominante e alla pubblica amministrazione. Tuttavia, il titolare del fondo dominante, a differenza della pubblica amministrazione, non può esercitare tale potere in maniera diretta. È, infatti, necessario, il consenso dell’altra parte, nel caso in cui si stipuli un contratto, oppure, là dove questo manchi, l’emanazione di un provvedimento di carattere giudiziario [25].
Come più volte accennato, ai sensi dell’art. 1032 cod. civ. le servitù coattive possono costituirsi mediante contratto e, in mancanza di contratto, mediante sentenza. È importante sottolineare, come sostenuto da una parte della dottrina, che il riferimento al mezzo negoziale o al provvedimento giudiziale non deve essere concepito in via alternativa. L’obbligato, titolare del fondo servente, potrebbe, infatti, decidere di non prestare il proprio consenso e, in questa ipotesi, dovrà subire le conseguenze derivanti dall’emanazione di una sentenza costitutiva da parte del Giudice [26]. Sotto il profilo meramente strutturale è, però, importante evidenziare che l’obbligato non è mai libero di concludere il contratto, sebbene tale atto sia espressione dell’autonomia privata. Ciò significa che il consenso manifestato dal titolare del fondo servente non rappresenta una libera manifestazione della propria libertà negoziale, ma un atto dovuto in base ad un obbligo di legge [27]. Seguendo questa linea, si potrebbe, però, sostenere che il contratto abbia il valore di adempimento di un obbligo previsto dalla legge [28] e, al contempo, come qualsiasi atto di adempimento, la sua conclusione rientri nella libertà propria del soggetto obbligato. In quest’ottica, la mancata prestazione del consenso contrattuale da parte dell’obbligato costituirà un’ipotesi di mancato adempimento e determinerà, attraverso l’esercizio dell’azione giudiziaria da parte dell’avente diritto, l’emanazione della sentenza costitutiva da parte del Giudice [29].
Nello specifico, con la manifestazione del proprio consenso, il titolare del fondo servente esprime unicamente la libertà di soggiacere all’imposizione proposta, là dove siano presenti tutti i requisiti previsti dalla legge. Tale consenso, però, non costituisce l’attuazione spontanea dell’obbligo di contrarre né una libera volontà costitutiva, che consenta di superare o annullare la coattività della servitù [30].
Alla luce di tali considerazioni, sembrerebbe sussistere una vera e propria contraddizione in termini, posto che il contratto rappresenta l’espressione della libertà negoziale del soggetto privato, ma, in questo caso, si traduce nell’adempimento di un obbligo di legge, perdendo il carattere di libertà che lo contraddistingue. Tuttavia, sotto il profilo degli effetti e della disciplina applicabile, non vi è alcuna differenza a seconda che il contratto sia costitutivo di servitù a carattere volontario ex art. 1058 cod. civ. o di servitù coattive, come nell’ipotesi in esame. Il contratto sarà, pur sempre, idoneo a produrre effetti reali [31], cioè a costituire il diritto di servitù, a condizione che il consenso contrattuale venga manifestato da soggetti legittimati e capaci di disporre dei propri diritti [32]. Viene, inoltre, ammessa l’applicabilità della disciplina contrattuale comune e, soprattutto, la possibilità che le parti possano intervenire sul regolamento contrattuale prevedendo obbligazioni e/o clausole accessorie, che integrino il contenuto contrattuale, adattando la normativa al caso concreto [33].
Là dove le parti non giungano alla conclusione del contratto, l’avente diritto procederà all’esercizio dell’azione giudiziaria, volta all’emanazione della sentenza costitutiva del diritto di servitù. La mancanza del contratto si può, dunque, considerare come la condizione negativa necessaria per procedere alla costituzione della servitù mediante sentenza [34]. Ciò non esclude che il convenuto, nel corso del giudizio, decida di addivenire ad un accordo con l’attore, stipulando un contratto ed evitando, così, l’emanazione della sentenza costitutiva [35]. Tale sentenza, infatti, potrebbe, ad esempio, presentare degli svantaggi relativamente alle modalità previste per l’esercizio della servitù, che possono essere determinate dalle parti attraverso l’accordo contrattuale.
In relazione all’applicabilità dell’art. 2932 c.c., a cui si è fatto cenno precedentemente, appare chiaro come la sentenza costitutiva abbia come presupposto la mancanza del contratto e, di conseguenza, non determini l’esecuzione di un obbligo a contrarre, escludendo così la fattispecie dall’ambito dell’articolo 2932 cod. civ. citato [36]. Tuttavia, come evidenziato dalla dottrina più risalente, la sentenza non ha solamente efficacia costitutiva rispetto al sorgere del diritto di servitù, ma presenta, al contempo, natura dichiarativa rispetto all’obbligo di concedere il diritto. Ciò significa che il Giudice accerta la presenza di tutti i presupposti e delle condizioni previste dalla legge per la costituzione della servitù coattiva richiesta [37]. In questo senso, viene, perciò, affermata la duplice natura della sentenza: dichiarativa rispetto all’obbligo di concedere la servitù e costitutiva rispetto alla nascita del diritto. È, dunque, possibile affermare che la sentenza sostituisce perfettamente il contratto quale titolo costitutivo della servitù. In particolare, come le parti hanno la possibilità di determinare convenzionalmente le modalità di esercizio della servitù, nonché l’indennità a favore del titolare del fondo servente, così il Giudice dovrà provvedere in tal senso, ricalcando, dunque, il contenuto di un ipotetico contratto tra le parti [38].
Una delle questioni maggiormente dibattute in materia di servitù coattive è rappresentata dalla previsione dell’indennità [39]. Come stabilito dal secondo comma dell’art. 1032 c.c., con l’emanazione della sentenza il Giudice deve determinare le modalità di esercizio della servitù e, al contempo, la misura dell’indennità dovuta. Inoltre, il comma 3 dell’articolo sopra indicato, afferma che il proprietario del fondo servente possa opporsi all’esercizio della servitù da parte del titolare, nel caso in cui l’indennità non sia ancora stata corrisposta.
Prima di analizzare le maggiori questioni in tema di indennità, è molto importante evidenziare che, sebbene la previsione dell’indennità sia circoscritta all’art. 1032 cod. civ. e sembri, perciò, riguardare esclusivamente le servitù giudiziarie, si tratta di una regola di carattere generale. Di conseguenza, la previsione in materia di indennità deve essere applicata anche nell’ipotesi in cui la costituzione della servitù coattiva sia realizzata contrattualmente. In virtù di ciò, si deve ritenere che l’indennità sia dovuta per tutte le servitù di carattere coattivo, considerando, tra l’altro che sussistono alcune disposizioni specifiche di indennità in tale contesto, come, ad esempio, nell’indennità di acquedotto (artt. 1038 e 1039 c.c.); nell’appoggio e infissione di chiusa (art. 1047 c.c.) e, infine, nell’ipotesi di passaggio coattivo di cui all’articolo 1053 cod. civ. [40].
È possibile riscontrare due filoni principali per quanto concerne l’inquadramento dell’indennità sotto il profilo dogmatico.
Una prima linea di pensiero muove dalla constatazione per cui il contratto, costitutivo del diritto, produrrebbe effetti reali ed effetti obbligatori. In particolare, dalla conclusione del contratto scaturirebbe l’obbligo in capo al titolare del fondo servente di mettere a disposizione il bene per consentire l’esercizio del diritto di servitù da parte del titolare del fondo dominante. Tale obbligazione, come testimoniato dal comma 3, dell’art. 1032 cod. civ., si troverebbe in un rapporto di sinallagmaticità rispetto alla prestazione dell’indennità da parte del titolare del fondo dominante [41].
Questa ricostruzione viene ritenuta valida dalla dottrina anche nell’ipotesi in cui la servitù coattiva sia stata costituita mediante sentenza. Alla base di tale statuizione vi è l’idea per cui, là dove la servitù venga costituita giudizialmente, il provvedimento vada a sostituire in tutto oppure in parte il contratto mancante e, conseguentemente, la sentenza non si presenta solamente costitutiva del diritto di servitù, ma dà origine alle obbligazioni di cui si è detto [42].
È, tuttavia, opportuno evidenziare che il nesso di corrispettività non può essere individuato tra la prestazione dell’indennità e la costituzione della servitù. La motivazione è da ricercarsi nel fatto che, tra la costituzione coatta della servitù e l’indennità, non può sussistere quel particolare rapporto di interdipendenza reciproca, per cui un’obbligazione non può esistere e sussistere senza l’altra. Nello specifico, l’obbligo di pagare l’indennità deve essere identificato in un momento successivo rispetto alla costituzione della servitù. Di conseguenza, il pagamento dell’indennità non determina la costituzione della servitù, ma semplicemente la possibilità del suo esercizio. Sussiste, dunque, una situazione di totale indipendenza tra l’obbligo di corrispondere l’indennità e la costituzione del diritto. In virtù di ciò, si può correttamente affermare che, in caso di alienazione del fondo dominante, l’obbligo di corrispondere l’indennità sussiste in capo all’alienante, così come, nel caso inverso, in cui l’alienazione riguardi il fondo servente, l’acquirente non è titolare del diritto all’indennità, a meno che questo non gli sia stato ceduto nell’atto stesso di alienazione [43].
Detto ciò, considerato il nesso di sinallagmaticità tra le due prestazioni, si pone il problema di verificare le conseguenze derivanti dal mancato pagamento dell’indennità, là dove tale situazione si protragga nel tempo. Gli Autori sono concordi nell’affermare l’importanza del rimedio di cui all’art. 1032, comma 3, c.c., che viene qualificato come un’eccezione di inadempimento, analogamente alla previsione ex art. 1460 c.c [44]. Tuttavia, al di là di tale rimedio, considerato comunque efficace sul piano applicativo, è necessario comprendere se il titolare del fondo servente possa o meno far ricorso agli altri rimedi previsti in caso di inadempimento contrattuale, in particolare la risoluzione del contratto.
Una parte della dottrina ammette il ricorso a tale rimedio, considerando che non sussiste alcuna ragione giuridica per escludere l’applicabilità della disciplina comune in materia di contratti [45]. Altri, al contrario, rifiutano tale impostazione, ritenendo che la disciplina contrattuale possa essere applicata solamente nei contratti che siano espressione dell’autonomia negoziale dei privati. Si afferma, in particolare, che «(…) la norma relativa alla risoluzione, cioè l’articolo 1453 c.c., è dettata per i contratti– negozi d’autonomia, mentre qui il contratto è dovuto [46]». È chiaro, comunque, che, in alcuni frangenti, il ricorso all’art. 1032, comma 3, cod. civ., e, dunque, all’eccezione d’inadempimento, potrebbe non rilevarsi sufficiente a garantire gli interessi in capo al titolare del fondo servente.
La posizione sostenuta dalla giurisprudenza, anche recentemente, è di segno avverso rispetto alle conclusioni finora illustrate, che ruotano attorno al concetto di indennità quale corrispettivo. A prescindere dalla sussistenza o meno di un legame di natura sinallagmatica tra le due prestazioni, l’idea di fondo è che l’indennità rivesta una funzione di carattere risarcitorio [47]. Ad esempio, per quanto concerne la servitù di passaggio coattivo, è stato affermato che «(…) l’indennità dovuta dal proprietario del fondo in cui favore è stata costituita la servitù di passaggio coattivo non rappresenta il corrispettivo dell’utilità conseguita dal fondo dominante, ma un indennizzo risarcitorio da ragguagliare al danno cagionato al fondo servente, cosicché per la sua determinazione si deve tenere conto del pregiudizio subito dal fondo servente, in relazione alla sua destinazione, a causa del transito di persone e di veicoli» [48]. In sintesi, la tendenza giurisprudenziale è quella di identificare nell’indennità una prestazione di carattere risarcitorio, la cui misura deve essere necessariamente ragguagliata, non solamente al pregiudizio causato dalla servitù sull’area oggetto di occupazione, ma a qualsiasi altro pregiudizio derivante da circolazione di macchine o beni all’interno del terreno stesso [49].
Una parte della dottrina si è posta in una posizione intermedia tra le due prospettive sopra illustrate (la teoria sinallagmatica e la teoria risarcitoria). Si tratta, nello specifico, di un’impostazione minoritaria in forza della quale l’indennità rappresenta una somma equivalente, che va a sostituire, nel patrimonio del soggetto titolare del fondo servente, il valore che il fondo ha, di fatto, perduto a seguito della costituzione della servitù [50]. Non è chiaro come il concetto di equivalenza debba essere prospettato sul piano dogmatico. Sembrerebbe, tuttavia, che tale ricostruzione venga accuratamente ricollegata ai presupposti stessi della servitù coattiva e, in particolare, al peso imposto con la costituzione della servitù, che deve essere strettamente connesso ad un bisogno o interesse permanente e non temporaneo del proprietario del fondo dominante [51]. Di conseguenza, l’indennità viene semplicemente concepita come il ristoro rispetto alla perdita di valore del terreno, derivante dall’imposizione stessa della servitù [52]. L’idea di corrispettivo, seguendo questa linea interpretativa, deve essere completamente abbandonata, alla luce dell’impostazione per cui alla base dell’indennità non vi è un atto di carattere volontario volto all’assunzione dell’obbligo in oggetto [53]. In ogni caso, al di là delle questioni concernenti la natura dell’indennità, si ritiene che le parti possano, comunque, di comune accordo, escludere la corresponsione dell’indennità e, conseguentemente, decidere di stipulare un contratto a carattere gratuito. Secondo una parte della dottrina, come si avrà modo di approfondire successivamente, tale contratto dovrebbe essere qualificato alla stregua di un contratto di donazione, con tutte le conseguenze in tema di vincoli formali e di revocabilità da parte del donante stesso [54].
Nell’illustrare la costituzione delle servitù coattive si è detto che il contratto produce effetti di carattere reale, perché immediatamente costitutivo del diritto. In virtù di tali considerazioni, la dottrina ha messo in luce la necessità che la convenzione rispetti il requisito della forma scritta ex art. 1350 n. 4 cod. civ. e sia soggetta alla trascrizione ai sensi di quanto sancito dall’art. 2643, n. 4. e 2644 cod. civ. In assenza di trascrizione, infatti, il contratto costitutivo della servitù non potrà produrre i propri effetti nei riguardi dei terzi, che abbiano acquistato i propri diritti sul fondo servente sulla base di un atto, che sia stato trascritto oppure iscritto in data anteriore rispetto alla trascrizione del contratto di cui sopra [55].
Il carattere di realità degli effetti pone il problema di verificare se, in questa specifica ipotesi, le parti possano ricorrere all’art. 1333 c.c., disciplinante il contratto con obbligazioni del solo proponente. Si tratta di una questione che da sempre solleva un ampio dibattito e che, in questo specifico caso, necessita di ulteriori considerazioni. Le servitù coattive sono, infatti, previste per legge e il consenso alla stipulazione del contratto da parte del proprietario del fondo servente rappresenta l’adempimento ad un obbligo di legge.
Per comprendere la problematica in oggetto è necessario, innanzitutto, analizzare sotto il profilo prettamente strutturale tale istituto. Ai sensi di quanto sancito dall’art. 1333 cod. civ. [56], la proposta diretta a concludere un contratto da cui derivino obbligazioni per il solo proponente è irrevocabile appena giunge a conoscenza del destinatario, che può rifiutare la proposta nel termine stabilito dalla natura degli affari o dagli usi. In mancanza di rifiuto, il contratto è concluso.
La prima considerazione che emerge dall’analisi della norma è che il contratto con obbligazioni del solo proponente presenta una struttura che si potrebbe definire anomala rispetto alla definizione di contratto, di cui all’art. 1321 c.c., basato sull’accordo di due o più parti e finalizzato alla produzione di effetti giuridici e, altresì, in relazione all’art. 1326 c.c., che delinea lo schema tipico di formazione del contratto attraverso lo scambio tra proposta e accettazione [57]. Ai sensi dell’art. 1333 c.c., la conclusione del contratto, avviene, infatti, senza necessità di accettazione, una volta che, decorso il termine stabilito dagli affari o dagli usi, l’oblato non abbia rifiutato la proposta a lui indirizzata [58]. Si tratta di una fattispecie peculiare, che, in base alla lettera della norma, si instaura attraverso due possibili sequenze: una negativa, rappresentata dalla sequenza proposta-rifiuto, ed una positiva, costituita dalla proposta seguita dal mancato rifiuto da parte dell’oblato. In quest’ultimo caso, il contratto potrà dirsi legittimamente concluso tra le parti [59].
Al di là della collocazione sistematica dell’articolo 1333 cod. civ., inserito dal legislatore sotto il capo I, dedicato all’accordo tra le parti [60], la dottrina ha assunto posizioni confliggenti rispetto alla qualificazione strutturale dell’istituto. Nello specifico, si sono formate due diverse correnti dottrinali a seconda del riconoscimento o meno di una promessa unilaterale oppure di una fattispecie di natura contrattuale [61]. Cerchiamo, dunque, di ricostruire in termini sintetici i principali punti di tale dibattito.
Parte della dottrina rifiuta in termini categorici la qualificazione contrattuale dell’art. 1333 cod. civ. Nello specifico, il mancato rifiuto da parte dell’oblato non può essere concepito come una manifestazione tacita di accettazione [62] oppure come un mero comportamento di carattere negativo, che acquista, in base alle circostanze, il valore di accettazione oppure semplicemente valore di carattere negoziale [63].
Queste argomentazioni, infatti, si baserebbero esclusivamente sulla volontà di salvare la supremazia del contratto quale strumento generale di autonomia negoziale, trascurando che, ragionando in tali termini, si ricorrerebbe ad una vera e propria finzione. Sarebbe, infatti, una mera finzione il tentativo di ravvisare nel silenzio una dichiarazione di accettazione da parte dell’oblato. Il silenzio, infatti, potrebbe assumere il valore di una manifestazione di volontà solamente nel caso in cui si tratti di silenzio circostanziato, vale a dire là dove ci siano delle particolari circostanze – relative ad un rapporto già costituito – che consentano di interpretare il silenzio come una manifestazione di volontà negoziale [64]. Sulla base di tali osservazioni, si giunge a qualificare la fattispecie di cui all’art. 1333 cod. civ. nei termini di promessa unilaterale gratuita, nel senso che chi offre la conclusione del contratto senza prestazioni per la controparte, offre una prestazione di carattere gratuito [65]. Tale qualificazione si presta, però, ad un vero e proprio ripensamento rispetto al principio di tipicità delle promesse unilaterali. Di fronte a tali considerazioni, si è imposta, dunque, la necessità di distinguere tra promesse unilaterali tipiche, di cui all’art. 1987 cod. civ. e promesse unilaterali atipiche, rientranti, invece, nell’ambito applicativo dell’art. 1333 [66].
La maggioranza della dottrina ritiene, al contrario, che l’art. 1333 cod. civ. configuri una fattispecie di natura esclusivamente contrattuale. Si afferma, in particolare, che il contratto con obbligazioni del solo proponente, al pari di quanto avvenga nell’ambito del contratto con sé stesso e della donazione obnuziale, sia un vero e proprio contratto, anche se l’accordo si perfeziona con la dichiarazione di una sola parte. Restano, dunque, senza alcuna valenza dogmatica le diverse argomentazioni volte ad attribuire il valore di accettazione alla situazione di inattività, che sia riscontrabile nel comportamento proprio dell’oblato [67]. In particolare, l’esame della storia e delle esperienze sovranazionali dimostra come il contratto, sul piano concreto, non consta necessariamente di una proposta seguita da un’accettazione, né si identifica obbligatoriamente con una coppia di comportamenti di natura commissiva [68]. Il requisito della bilateralità viene, infatti, limitato, sotto il profilo prettamente legislativo, a determinate fattispecie contrattuali, come, ad esempio, i contratti sinallagmatici, che constano necessariamente di una proposta e di un’accettazione, i contratti che si perfezionano attraverso un particolare atto di esecuzione a formazione bilaterale, così come avviene nell’ambito dei contratti reali, nonché le donazioni formali [69].
A questo punto, seguendo l’impostazione della dottrina maggioritaria, si tratta di comprendere come la realità degli effetti possa giudicarsi compatibile con lo schema di cui all’art. 1333 cod. civ, [70] Si è detto, infatti, che il contratto costitutivo di una servitù di carattere coattivo rientra di buon grado nel novero dei contratti ad effetti reali, perché dà immediatamente origine al diritto di servitù. Le problematiche circa l’applicabilità dell’art. 1333 cod. civ., a tale fattispecie nascono sia sotto il profilo strutturale, posto che il contratto ex art. 1333 cod. civ., si perfeziona con la dichiarazione del solo proponente, sia sotto il profilo meramente dogmatico, considerato che la produzione degli effetti reali esige la sussistenza di un accordo tra le parti, in virtù del principio consensualistico, sancito dall’art. 1376 del Codice civile [71]. A ciò si aggiunge, sotto il profilo letterale, che l’art. 1333 cod. civ. fa unicamente riferimento al contratto da cui derivino obbligazioni per il solo proponente. Da tale formulazione potrebbe, dunque, emergere una restrizione dell’applicabilità dell’art. 1333 cod. civ. ai soli contratti produttivi di effetti obbligatori in capo al proponente [72].
Prima di affrontare tale analisi bisogna, però, evidenziare come il problema relativo all’applicabilità dell’art. 1333 cod. civ., nel caso di contratti costitutivi di servitù coattive riguarda esclusivamente l’ipotesi in cui l’indennità, di cui si è trattato, sia configurabile in termini risarcitori così come sostenuto dalla giurisprudenza. Là dove, al contrario, si configurasse l’indennità come corrispettivo rispetto all’obbligo di mettere il fondo a disposizione del titolare del fondo servente, la questione non avrebbe alcuna ragione di porsi. In tale ipotesi, infatti, avremmo un nesso di sinallagmaticità tra le due prestazioni, che, come visto precedentemente, esclude l’ambito di applicabilità dell’art. 1333 cod. civ.
Per poter comprendere la questione è necessario, anzitutto, confrontarsi con il principio del consenso traslativo. In forza di tale principio, l’effetto traslativo è subordinato alla legittima manifestazione del consenso delle parti e viene immediatamente prodotto per effetto del consenso stesso. La ratio di tale principio risponde alle regole di rapidità nella circolazione dei traffici attraverso l’istituzione di uno strumento circolatorio in grado di realizzare tale finalità. Al contempo, in forza di tale principio, è possibile far fronte al principio di libertà che governa gli scambi e i traffici tra i privati, in virtù del quale nessuno può essere privato di un proprio diritto se non in forza di un consenso legittimamente e liberamente manifestato e, soprattutto, in virtù di un’operazione che compensi la perdita patrimoniale mediante la previsione di un vantaggio (idoneo a giustificare lo svantaggio subito) [73].
La necessità del consenso legittimamente manifestato da entrambe le parti pone di sicuro delle grosse criticità rispetto alla possibilità di utilizzare a fini traslativi l’art. 1333 c.c., considerato che, come più volte evidenziato, in questa ipotesi mancherebbe l’espressione di volontà propria dell’oblato, ma il contratto si perfezionerebbe in ogni caso. Il primo giurista, in ordine di tempo, ad affrontare compiutamente la questione è stato Rodolfo Sacco negli anni Sessanta del secolo scorso [74]. L’illustre Autore muove dalla constatazione per cui, ammettendo l’applicabilità dell’art. 1333 c.c., si dovrebbe, al contempo, affermare che il trasferimento dei diritti da un soggetto ad un altro potrebbe avvenire solamente in forza di una dichiarazione emessa dal proponente, senza la manifestazione di volontà propria dell’accettante. Al pari di quanto affermato anche negli scritti successivi, Sacco sostiene la necessità di una rigorosa lettura del dato normativo e ciò, come approfondito precedentemente, lo porta ad escludere i contratti ad effetti reali dall’ambito applicativo dell’art. 1333 cod. civ. [75].
Vi sono, tuttavia, delle ragioni di carattere razionale che porterebbero, comunque, a tali conclusioni. L’acquisto di diritti reali porterebbe, infatti, ad assumere, di fatto, obbligazioni e responsabilità da parte dell’oblato, così come avviene tipicamente nelle ipotesi di usufrutto, uso e abitazione. Alla luce di tali considerazioni, l’acquisto di diritti reali potrebbe avvenire in base all’art. 1333 cod. civ. solamente nell’ipotesi in cui tale acquisto non generi conseguenze di carattere negativo in capo all’oblato. Il trasferimento del diritto, in assenza di accettazione, potrebbe essere giustificato solamente nel caso in cui l’acquisto del diritto non sia in grado di recare pregiudizio all’acquirente [76].
L’unica soluzione prospettabile in questo caso, oltre ovviamente alla scelta dello schema consueto di conclusione del contratto, sarebbe quella di verificare l’esistenza di un precedente consenso dell’acquirente rispetto all’acquisizione del diritto e, dunque, una sua consapevolezza rispetto agli svantaggi collegati all’acquisto. Questa condizione può essere, ad esempio, riscontrabile nel caso in cui Tizio possieda animo domini il bene che Caio abbia intenzione di trasferirgli oppure là dove Tizio abbia trascritto un proprio atto di acquisto sul bene, inefficace perché a non domino [77].
Un’altra recente impostazione si basa, invece, su un particolare collegamento tra la categoria degli effetti reali, in relazione alla loro costituzione e al loro trasferimento, e la necessità o meno di un accordo e, conseguentemente, di un’accettazione da parte dell’oblato. Muovendo dall’idea per cui l’art. 1333 cod. civ. ha necessità di un’applicazione, che potremmo definire controllata, e che deve essere calibrata sullo schema proprio dell’accordo tra le parti, là dove la proposta determini degli effetti vantaggiosi a carico del destinatario, l’accettazione risulterebbe di fatto inutile rispetto all’esigenza di tutela dell’oblato stesso. Si parla, a tal proposito, di una presunzione non tecnica di “normalità”, che giustificherebbe l’abbandono di schemi contrattuali, che vengono definiti “pesanti” rispetto all’ipotesi in esame e vengono richiesti principalmente nell’ambito dei contratti sinallagmatici [78]. La situazione si presenta, invece, differente nell’ipotesi in cui vi sia l’attribuzione di un diritto reale a titolo gratuito. In questa fattispecie, infatti, l’acquisto del diritto determina a carico dell’oblato un insieme di oneri e pesi, che possono essere anche di natura non esclusivamente patrimoniale e, conseguentemente la necessità di ricorrere all’utilizzo di schemi contrattuali “pesanti”, quale per l’appunto la previsione ordinaria di cui all’art. 1326 cod. civ. [79].
Detto ciò, in assenza di riferimenti di carattere giurisprudenziale, che si riferiscano in maniera specifica alle servitù coattive, si tratta di comprendere se effettivamente lo schema di conclusione di cui all’art. 1333 cod. civ. sia applicabile in caso di contratto costitutivo di una servitù coattiva. Alla luce delle argomentazioni dottrinali sopra prospettate, l’art. 1333 cod. civ. non potrebbe applicarsi in tale fattispecie, posto che il titolare del fondo dominante sarebbe pur sempre obbligato al risarcimento del danno attraverso il pagamento dell’indennità. L’acquisto del diritto comporterebbe, dunque, degli svantaggi rilevanti sul piano fattuale. Non dobbiamo, però, dimenticare che si tratta di una servitù coattiva e che, conseguentemente, manca la volontarietà rispetto alla conclusione del contratto. Al contempo, l’accordo tra le parti consente di determinare le modalità di esercizio della servitù, e la stessa misura dell’indennità, che altrimenti sarebbero rimesse esclusivamente alla decisione del Giudice.
Inoltre, come detto nella parte introduttiva, le parti potrebbero escludere la corresponsione dell’indennità e qui, secondo Alcuni [80] si profilerebbe un’ipotesi di donazione, soggetta alle regole formali di cui all’articolo 782 del Codice civile e, dunque, alla necessità di accettazione da parte del donatario. La dottrina, però, non ha analizzato in maniera puntuale l’esistenza o meno dello spirito di liberalità che dovrebbe caratterizzare l’applicazione sul piano strutturale e disciplinare del contratto di donazione. Potrebbe, infatti, accadere che il contratto permanga a titolo gratuito, ma non sia configurabile alcuno spirito di liberalità, come nell’ipotesi in cui il proponente intenda costituire gratuitamente il vincolo di servitù a svantaggio del proprio fondo per conseguire determinati vantaggi, riguardanti lo stesso fondo oppure direttamente la propria persona [81]. In tutti questi, non si potrebbe far riferimento alla disciplina in materia di donazione, ma dovrebbe continuare a trovare applicazione lo schema di conclusione del contratto di cui all’art. 1333 c cod. civ. [82].
Rispetto a quanto finora analizzato, la situazione si presenta totalmente differente per quanto concerne l’applicabilità dell’art. 1411 cod. civ. – riguardante il contratto a favore di terzo – alle ipotesi di costituzione di servitù aventi carattere volontario.
Innanzitutto, si è in presenza di un contratto a favore di terzo nel momento in cui una parte, definita stipulante, designa un soggetto terzo quale avente diritto alla prestazione dovuta dalla controparte, che assume la denominazione di promittente. Il terzo acquista il diritto nei confronti del promittente per effetto del contratto, ma lo stipulante conserva, comunque, la possibilità di revocare o modificare la disposizione a favore del terzo fino al momento in cui quest’ultimo dichiara di volerne profittare [83].
Analogamente a quanto avvenuto per il contratto con obbligazioni del solo proponente, anche in questa fattispecie si è posto il problema di applicabilità rispetto ai contratti con effetti reali [84], considerata l’operatività del consenso traslativo di cui all’articolo 1376 del Codice civile. In virtù di tale disposizione, infatti, non è ammessa la produzione di effetti reali nei confronti dei soggetti che non abbiano fatto parte del contratto. Vi sarebbero, anche, alcuni ostacoli di ordine letterale rispetto all’applicabilità dell’art. 1411 cod. civ. a tali fattispecie. Infatti, nella disciplina codicistica in materia di contratto a favore di terzo, il legislatore utilizza in maniera costante il termine “prestazione” e, in riferimento al primo periodo dell’art. 1411 cod. civ., si parla espressamente di «acquisto contro il promittente per effetto della stipulazione» [85]. Secondo Alcuni, inoltre, la produzione di effetti reali da parte dell’art. 1411 cod. civ. determinerebbe l’ammissibilità all’interno del nostro ordinamento giuridico dei c.d. negozi traslativi astratti. Infatti, mentre il promittente aliena il proprio diritto in base ad un valido rapporto causale – costituito dal contratto concluso con lo stipulante – l’acquisto da parte del terzo sarebbe privo di giustificazione sotto il profilo causale [86]. A ciò si aggiunge l’idea per cui il contratto a favore di terzo ha un’efficacia di carattere costitutivo. Ciò comporta, secondo i critici, che il diritto attribuito al terzo, per effetto di tale contratto, debba sorgere per la prima volta in capo al terzo stesso e tale situazione non potrebbe verificarsi nella misura in cui si trattasse di un diritto di natura reale [87].
Tali considerazioni sono state pienamente confutate da parte della dottrina maggioritaria e la stessa giurisprudenza ha ormai assunto in prevalenza una posizione favorevole rispetto all’ammissibilità degli effetti reali. Per quanto concerne il presunto contrasto tra l’art. 1376 cod. civ. e l’art. 1411 c.c., si è fatto riferimento nello specifico all’interpretazione autentica della disposizione. Nelle intenzioni del legislatore vi sarebbe stata, infatti, la volontà di non restringere l’ambito applicativo dell’istituto. Non può essere, dunque, seguita un’interpretazione soggettivamente restrittiva della norma, senza tener conto del fatto che il legislatore ha inteso attribuire al principio consensualistico lo stesso valore già riconosciuto dalle codificazioni precedenti, che non avevano espresso alcuna riserva riguardo l’ambito di applicabilità del principio [88]. In riferimento alle altre argomentazioni, si è affermato che la tesi in materia di negozi traslativi astratti non sarebbe di per sé sufficiente ad escludere gli effetti reali. Infatti, a prescindere da considerazioni di carattere puramente generale, la teoria sopra esposta non tiene conto della causalità nella stipulazione a favore altrui ed eccede nello «smembramento della fattispecie» [89]. Nello specifico, il principio relativo all’invalidità dei negozi astratti è per sua natura flessibile e, al contempo, la stipulazione a favore di terzi trova, comunque, una propria giustificazione causale, che deriva da una valutazione in termini unitari della fattispecie [90].
Osserviamo ora la posizione assunta dalla giurisprudenza in materia, considerato che, come detto inizialmente, i Giudici si sono mostrati favorevoli rispetto alla produzione di effetti reali da parte del contratto a favore di terzo.
Dall’analisi del dato giurisprudenziale emerge come uno dei maggiori ambiti applicativi abbia per l’appunto riguardato la costituzione di servitù volontarie [91]. Nelle pronunce si riscontra unanimemente la tendenza a riconoscere gli effetti reali sopra indicati nella misura in cui sussistano le seguenti condizioni: la stipulazione avvenga per iscritto; il vincolo reale sia costituito a carico del fondo del promittente ed a favore di quello del terzo; la costituzione del vincolo ed il conseguente vantaggio per il terzo siano previsti e voluti dai contraenti; sia determinato (o determinabile con certezza) il fondo dominante (e quindi il proprietario) e, infine, lo stipulante abbia un interesse anche di natura non patrimoniale rispetto alla costituzione della servitù [92]. La sussistenza di detto interesse richiama esplicitamente la previsione di cui all’art. 1411 cod. civ., che ricalca i principi generali in materia contrattuale. Lo stipulante, infatti, così come ogni contraente, deve avere interesse alla prestazione secondo quanto stabilito dall’articolo 1174 del Codice civile [93].
Si deve ritenere, però, che tali conclusioni giurisprudenziali non siano applicabili per quanto concerne la costituzione delle servitù coattive. Il contratto a favore di terzo deve essere visto come un’esplicazione dell’autonomia contrattuale. Infatti, seguendo quanto stabilito dall’art. 1411 c.c., il privato può impegnare la controparte ad eseguire la prestazione nei confronti del terzo, anziché a proprio vantaggio, ma il rapporto instaurato conserva la propria origine contrattuale e continua ad essere regolato dalla disciplina generale [94]. Come si è visto nella parte introduttiva, la situazione si presenta diversa nell’ambito delle servitù coattive, dove la prestazione del consenso risponde all’adempimento di un obbligo di legge e, sebbene le parti possano disciplinare le modalità di esercizio della servitù e la misura dell’indennità, la disciplina di riferimento è pur sempre quella prevista dal Codice civile per le singole servitù coattive.
Inoltre, in linea generale, con riferimento alle servitù volontarie, appare difficilmente condivisibile la tendenza dottrinale [95] volta ad individuare una simmetria tra l’art. 1411 cod. civ. e l’art. 1333 cod. civ. Tale simmetria dovrebbe giustificare la creazione immediata della servitù anche attraverso lo schema di cui all’art. 1333 cod. civ. In entrambe le ipotesi, infatti, il beneficiario della prestazione, in un caso, e l’oblato, nell’altro, non manifestano la propria volontà. L’unica differenza ravvisata tra i due casi si basa sul fatto che, ai sensi dell’art. 1411 c.c., il beneficiario acquista una situazione giuridica rilevante prima ancora di ricevere o di riconoscere la dichiarazione contrattuale che lo riguarda [96]. L’accostamento tra le due fattispecie è stato oggetto di critica, avendo riguardo agli effetti concretamente prodotti. Nel contratto a favore di terzo, infatti, quest’ultimo avrebbe sempre la possibilità di rifiutare l’acquisto e il diritto non potrebbe mai costituirsi in via definitiva, senza una manifestazione di volontà a suo favore. Dall’altra, invece, con riguardo all’art. 1333 cod. civ., il diritto si consolida in maniera definitiva nel momento in cui il destinatario della proposta non abbia espresso il proprio rifiuto in ordine all’acquisto del diritto. Di conseguenza, l’acquisto potrebbe perfezionarsi in maniera definitiva senza che l’oblato abbia espresso la propria volontà in merito [97].
[1] B. Biondi, Le servitù, Milano, 1967, 768 s., sostiene l’esistenza di una tripartizione in materia di servitù. Nella classificazione dei diritti reali oggetto di analisi ricorrono non solamente le servitù volontarie e le servitù coattive, ma, altresì, le servitù legali. La differenza tra le servitù legali e le servitù coattive deve essere individuata muovendo dalla concezione stessa di servitù che viene sottolineata dall’Autore, che identifica la servitù in una situazione di soggezione di un fondo per l’utilità propria di un altro fondo. Assunta tale impostazione, si ritiene che, nelle servitù legali, la situazione giuridico-soggettiva di soggezione sussista giù in virtù della legge e in relazione alla circostanza per cui i due fondi si trovino nelle condizioni stabilite dal legislatore per la costituzione del diritto di servitù. Per quanto concerne, invece, le servitù coattive, la legge non riconosce come servitù una determinata situazione, ma semplicemente obbliga il soggetto a costituirla, là dove, ovviamente, sussistano tutti i presupposti previsti dalla legge stessa. Secondo l’Autore sotto il profilo meramente strutturale, non sussiste alcuna differenza tra le servitù volontarie e le servitù legali, così come descritte, ma in ogni caso le servitù legali, al pari delle servitù coattive, sono caratterizzate dal vincolo di tipicità. Di conseguenza, si tratterebbe di un numero chiuso, che escluderebbe la possibilità di introdurre nuove tipologie di servitù diverse rispetto a quelle previste dalla legge. Sussisterebbero, comunque, delle problematiche distintive tra servitù legali e servitù coattive, là dove la questione fosse esclusivamente trattata sul piano pratico. Di fatti, in entrambe le ipotesi (v. in particolare 771 s.) è presente l’elemento proprio della legalità, nel senso che la loro ammissibilità è subordinata ad un’esplicita previsione di legge. A questo proposito vengono posti diversi esempi chiarificatori; si è, ad esempio, in presenza di una servitù legale nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 843 c.c., che attribuisce il passaggio al fine di costruire o riparare un muro o un’altra opera di proprietà del vicino. In questa ipotesi, infatti, la servitù può dirsi esistente nella misura in cui la posizione tra i due fondi sia tale da dar luogo ad una situazione di servitù, senza che sia necessaria la costituzione coattiva della stessa. Sul concetto di servitù legale v. anche le riflessioni di G. Grosso, G. Deiana, Le servitù prediali, I, in Trattato di diritto civile italiano redatto da diversi giureconsulti sotto la direzione di F. Vassalli, Torino, 1963, 321 s.
[2] Tra gli altri: M. Comporti, voce Servitù (dir. priv.), in Enc. dir., XLII, 1990, 297; S. Palazzolo, voce Servitù coattive, in Enc. giur. Treccani, XXVIII, Roma, 1992, 1.; G. Tamburrino, A.N. Grattagliano, Le servitù, in Giur. sist. dir. civ. comm. Bigiavi, III ed., Torino, 2002, 502. Nel Codice civile del 1865 l’impostazione seguita si presentava totalmente differente. Le servitù, infatti, venivano classificate in due ampie categorie: servitù stabilite per legge e servitù stabilite per fatto dell’uomo. Si trattava, però, come messo in evidenza dai commentatori e dalla stessa Relazione del Ministro Guardasigilli Grandi al Codice civile del 1942 (v. n. 490: «Ho abbandonato questa classificazione, oggetto di varie critiche, che si rileva inesatta, sol che si consideri che il contratto può essere anche modo di costituzione delle servitù stabilite dalla legge»), di un’espressione inesatta, considerando che il contratto rientra anch’esso tra i mezzi di mezzi di costituzione delle servitù coattive.
[3] Art. 1032 cod. civ.: «Quando, in forza di legge, il proprietario di un fondo ha diritto di ottenere da parte del proprietario di un altro fondo la costituzione di una servitù, questa, in mancanza di contratto, è costituita con sentenza. Può anche essere costituita con atto dell’autorità amministrativa nei casi specialmente determinati dalla legge. La sentenza stabilisce le modalità della servitù e determina l’indennità dovuta. Prima del pagamento dell’indennità il proprietario del fondo servente può opporsi all’esercizio della servitù».
[4] Sul punto: M. Comporti, voce Servitù (dir. priv.), cit.: «(…) Dall’altro lato, però, il successivo art. 1032 cod. civ. dimentica la distinzione delle servitù introdotta dall’art. 1031 sui modi di costituzione, perché prevede espressamente, come modo di costituzione delle servitù coattive, oltre alla sentenza ed al provvedimento amministrativo, anche il contratto, quindi un atto costitutivo volontario. E nonostante le perplessità di taluni autori, non sembra dubbio, come meglio sarà innanzi chiarito (…), che tramite il contratto – od anche tramite il testamento – si costituisca una servitù coattiva, sempreché ne sussistano i presupposti: invero, non è solo la Relazione al codice a prospettare simile soluzione, ma soprattutto la disciplina legislativa ad imporla. Infatti la regolamentazione speciale delle servitù coattive trova attuazione anche nell’ipotesi di costituzione della servitù per contratto, come è dimostrato dall’espresso richiamo alle convenzioni delle parti contenuto in varie norme sulle servitù coattive (v., ad esempio, art. 1034 comma 2, 1049 commi 3 e 4, 1055 cod. civ.)».
[5] R. Triola, Le servitù. Artt. 1027-1099, in Comm. Cod. civ. fondato da P. Schlesinger e diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2008, 94.
[6] G. Tamburrino, A.N. Grattagliano, Le servitù, cit., 507. In giurisprudenza: Cass., 21 dicembre 2012, n. 23839, in Imm. propr., 2013, 392.
[7] G. Tamburrino, A.N. Grattagliano, Le servitù, cit., 502: «(…) è la legge che costituisce il titolo primario per la costituzione della servitù coattiva ed ai privati è demandato solo il modo di costituzione, il quale non può non avere riferimento, come contenuto, se non al contenuto delle fattispecie legali espressamente previste»; (nello specifico, gli Autori ritengono che la legge costituisca il titolo astratto per la costituzione della servitù, che si presenta indispensabile perché possa sorgere il titolo concreto, rappresentato dall’atto negoziale, giudiziale o amministrativo); sul punto anche R. Triola, Le servitù. Artt. 1027-1099, cit., 95.
[8] G. Branca, sub art. 1031, in Servitù prediali. Art. 1027-1099, in Comm. Cod. civ. Scialoja-Branca, V ed., Bologna – Roma, 1979, 72.
[9] G. Branca, sub art. 1031, cit., 72: «(…) se questa è esecuzione di un obbligo legale a contrattare, la servitù sorge (…) con tutta la fisionomia delle coattive (…), giacché la preesistenza di quell’obbligo si ripercuote sul contenuto e sulla durata del diritto così costituito».
[10] B. Biondi, Le servitù, cit., 768 s.; F. Messineo, Le servitù (artt. 1027-1099 cod. civ.), Milano, 1949, 74.
[11] In giurisprudenza, tra le più recenti: Cass., 21 marzo 2019, n. 8037, in Imm. prop., 2019, 325; Cass., 8 febbraio 2013, n. 3132; Cass., 13 gennaio 2010, n. 382; nel merito: App. Firenze 31 gennaio 2023, in Leggi d’Italia, WoltersKluwer; Trib. Benevento, 31 marzo 2020, in Leggi d’Italia, WoltersKluwer.
[12] F. Messineo, Le servitù (artt. 1027-1099 cod. civ.), 74: «La presenza della necessità giustifica il diritto alla servitù contro il principio della libertà dei fondi, cui il proprietario del fondo servente è di regola arbitro di rinunziare, o meno (…). La nozione di necessità (…) in quanto imprescindibilità della limitazione del diritto sul futuro fondo servente, perché il fondo futuro dominante non può fare a meno del servizio corrispondente (…)».
[13] B. Biondi, Le servitù, cit., 768 s.: «Il fondamento sta nella necessità in cui si trova il fondo. Non qualunque necessità importa l’obbligo a costruire la corrispondente servitù, ma sono quelle servitù che sono veramente essenziali od estremamente utili per l’esercizio della proprietà. Tali sono: l’acquedotto, lo scarico, l’appoggio ed infissione di chiusa, la somministrazione di acqua per uso domestico o agricolo, passaggio, elettrodotto, funivie». P. Vitucci, voce Servitù prediali, in Dig. Disc. Priv., XVIII, IV ed., Torino, 1998, 407, mette in evidenza come la regola della tipicità che caratterizza le servitù coattive sia strettamente connessa all’elemento della necessità fondiaria di cui sopra. La scelta tra utilità e necessità in relazione alla costituzione delle servitù è una scelta rimessa esclusivamente alla decisione del legislatore, che, nelle ipotesi di servitù coattive, ritiene che l’esigenza da soddisfare in relazione al fondo dominante sia tale da giustificare la costituzione del diritto, anche nell’ipotesi in cui manchi il consenso del soggetto che subirà la costituzione della servitù sul proprio fondo; G. Tamburrino, A.N. Grattagliano, Le servitù, cit., 504.
[14] G. Branca, sub art. 1032, in Servitù prediali. Art. 1027-1099, cit., 77.
[15] F. Messineo, Le servitù, cit., 75.
[16] B. Biondi, Le servitù, cit., 769. Il punto di partenza per la costituzione della servitù coattive secondo l’illustre Autore è sicuramente rinvenibile nell’espropriazione per pubblica utilità. Con la costituzione delle servitù coattive si evita di escludere totalmente la proprietà privata, al contrario di quanto avvenga in caso di espropriazione per pubblica utilità. Seguendo questa impostazione, a nostro avviso, il legislatore avrebbe creato una situazione di equilibrio tra le due opposte esigenze di carattere privatistico e pubblicistico («Il punto di partenza, se non storico, logico probabilmente, fu l’espropriazione per pubblica utilità, nella stessa guisa che per le servitù volontarie il punto di partenza fu il trasferimento della proprietà del fondo, rispetto al quale si intendeva esercitare un determinato potere. Il mezzo appare eccessivo, come nella sfera privata. (...) così all’espropriazione per pubblica utilità si sostituì l’imposizione di una servitù coattiva, che soddisfaceva pienamente l’esigenza pubblica, senza escludere la proprietà privata».
[17] F. Messineo, Le servitù (artt. 1027-1099 cod. civ.), cit., 75; v. anche le riflessioni di B. Biondi, Le servitù, cit., 769.
[18] G. Branca, sub art. 1031, cit., 77: «In certi casi, l’utilizzazione razionale del fondo, in quanto risponde (…) ad esigenze sociali che premono davvicino e quasi in forma immediata, acquista un particolare valore per l’ordinamento giuridico. Perciò quando essa non sia possibile se non comprimendo i diritti dei terzi [alludo al requisito della necessità (…)], il contrasto è risolto dalla legge con l’imporre (…) una servitù su quel predio che offre come una barriera all’espansione del diritto di chi vuole utilizzare il proprio fondo. L’interesse del padrone di quest’ultimo (…), per l’incidenza d’un’utilità pubblica immediata è ritenuto prevalente rispetto all’interesse del vicino, che per ciò è sacrificato e, come diritto, si affievolisce». Sul tema più recentemente: E. Guerinoni, Le servitù prediali, in Trattato dei diritti reali Gambaro-Morello, v. III, Diritti reali parziari, Milano, 2011, 251 s.
[19] Su questa linea: B. Biondi, Le servitù, cit., 773, secondo il quale l’ambulatorietà caratterizzerebbe anche il lato attivo del rapporto obbligatorio. In particolare, «(…) tale obbligazione mediante il processo si concreta in una singola e determinata persona: l’azione giudiziaria, si intenta appunto, e non può essere diversamente, da una singola persona contro una singola persona che si trovi genericamente nella situazione voluta dalla legge. Con ciò cessa l’indeterminatezza dei soggetti»; e G. Branca, sub art. 1031, cit., 78: «Si tratta per me di un’obligatio propter rem (…) in quanto è proprio in relazione con un diritto reale (servitù, condominio) e serve anzi a farlo nascere».
[20] A. Burdese, Le servitù prediali. Linee teoriche e questioni pratiche, Padova, 2007, 196.
[21] A. Natucci, Beni, proprietà e diritti reali, in Tratt. Bessone, v. VII, t. 2, Torino, 2001, 158. Secondo l’Autore, la situazione si presenterebbe in maniera totalmente differente in relazione all’ipotesi di cui all’art. 1068 c.c., concernente il trasferimento della servitù. In tale contesto, si ritiene che là dove l’offerta venga rifiutata da parte del proprietario del fondo servente, ciò costituisca valido motivo per poter adire l’autorità giudiziaria. In linea fortemente critica anche S. Palazzolo, voce Servitù coattive, cit., 1.
[22] A. Natucci, Beni, proprietà e diritti reali, cit., 158.
[23] A. Natucci, Beni, proprietà e diritti reali, cit., 156; sulla natura potestativa vedi già le considerazioni di F. Messineo, Le servitù, cit., 76: «Prima della conclusione del contratto o dell’emanazione della sentenza costitutiva, l’interessato ha un mero diritto personale (di credito) ius ad servitutem habendam; ossia un diritto alla servitù (che è un diritto potestativo) e non ancora un diritto (reale) di servitù».
[24] S. Palazzolo, voce Servitù coattive, cit., 1.
[25] S. Palazzolo, voce Servitù coattive, cit., 2. In questi termini la posizione espressa dall’Autore apparirebbe contradditoria, perché arriva ad affermare la sussistenza di un diritto di natura potestativa, che poco prima era stato negato.
[26] B. Biondi, Le servitù, cit., 774: «Non si tratta, però, di un’alternativa, ma di subordinazione o di facoltà potestativa attribuita all’obbligato. L’art. 1032 dice infatti che la servitù “in mancanza di contratto è costituita per sentenza”. L’obbligato, dunque, se volontariamente non costituisce la servitù, deve subire la sentenza costitutiva».
[27] B. Biondi, Le servitù, cit., 774.
[28] È importante sottolineare che, a differenza di quanto avvenga per il contratto preliminare, in questo caso non si ha un obbligo di contrarre, ma soltanto l’obbligo legale di concedere la servitù. Il contratto, secondo quanto sostenuto da F. Messineo, Le servitù, cit., 78 non costituisce il titolo che darà diritto alla servitù, ma il mezzo «mediante il quale si traduce il titolo legale in un atto di costituzione».
[29] B. Biondi, Le servitù, cit., 774: «La convenzione (…) ha il valore di adempimento di atto dovuto, ma nello stesso tempo è atto libero come l’adempimento di ogni prestazione, in quanto l’obbligato è libero di non adempierla, ma nello stesso tempo si assoggetta alla sanzione, che nel nostro caso è data dalla sentenza costitutiva di servitù, che l’inadempiente è tenuto a subire». L’esercizio dell’azione giudiziaria da parte dell’avente diritto e la successiva emanazione della sentenza costitutiva da parte del Giudice, in presenza dei presupposti richiesti dalla legge, viene concepita dall’Autore come una vera e propria sanzione prevista dalla legge in caso di inadempimento dell’obbligo di costituire la servitù coattiva.
[30] S. Palazzolo, voce Servitù coattive, cit., 3: «Il consenso del proprietario del fondo servente alla richiesta dello avente diritto (e la conseguente creazione dello strumento negoziale attributivo) esprime soltanto la (libera) volontà di soggiacere– per accertamento privato della ipotesi di legge – alla imposizione proposta, ma non costituisce né attuazione spontanea di un obbligo di contrarre insussistente né una libera volontà costitutiva, che superi o annulli la coattività della servitù: questa rimane coattiva, cioè rimane imposta, anche se la costituzione ha assunto la forma contrattuale, con la conseguenza che il vizio di imposizione – ad es. errore sulla sussistenza delle condizioni di legge-non è sanato dal contratto».
[31] Sul punto v. le interessanti delucidazioni di L. Cariota-Ferrara, sub art. 221, in AA.VV. Codice civile Commentario, Libro della Proprietà, diretto da M. D’Amelio, Firenze, 1942, 744: «La convenzione con cui si pone in essere la servitù legale, attuando il diritto scaturito dalla legge, è un vero e proprio contratto reale, nel senso di contratto (traslativo) costitutivo di un diritto reale. Poiché tale è la natura del contratto, questo deve avere tutti i requisiti dei contratti con cui si costituiscono le servitù prediali. Deve, quindi, farsi per iscritto (…). A nostro avviso deve essere pure trascritta. La mancata trascrizione renderebbe inopponibile all’acquirente che trascriva il suo titolo, la convenzione».
[32] M. Comporti, voce Servitù (dir. priv.), cit., 305.
[33] S. Palazzolo, voce Servitù coattive, cit., 3, contra B. Biondi, Le servitù, cit., 775, secondo il quale le parti devono necessariamente limitarsi a definire le modalità di esercizio del diritto di servitù, prevedendo unicamente sul piano contenutistico la disciplina legale in materia di servitù coattive. Infatti, là dove le parti operassero in maniera differente, esorbitando letteralmente dal contenuto legale della disciplina, la convenzione si presenterebbe in maniera analoga a quelle conclude in caso di servitù volontaria. Sul rapporto tra il contenuto contrattuale e le disposizioni in materia di servitù coattive vedi le considerazioni di G. Grosso e G. Deiana, Servitù prediali, in Tratt. dir. civ. comm. Vassalli, v. V, t. I, Torino, 1963, 329: «Quando la costituzione avviene mediante un negozio giuridico, sarà in primo piano l’atto costitutivo che determinerà le modalità della servitù, obblighi e oneri; il negozio può del resto costituire la servitù indipendentemente dalla sua coattività. Però, in quanto il negozio si presenti come soddisfazione di quelle esigenze cui sopperisce il diritto riconosciuto dalla legge, allora le norme date dalla legge, circa la servitù alla cui costituzione si aveva diritto, valgono come norme interpretative». In ogni caso, però, come sottolineato da P. Vitucci, voce Servitù prediali, cit., 507, le ipotesi di servitù coattive sono tassativamente previste dalla legge e le previsioni legali non possono essere né dilatate, né piegate per servire esigenze di ordine diverso rispetto a quelle perseguite dalla legge stessa.
[34] B. Biondi, Le servitù, cit., 775. A questo proposito, A. Burdese, Le servitù prediali. cit., 196 (che rifiuta l’esistenza di un rapporto di natura obbligatoria avente come oggetto la costituzione del diritto di servitù) ritiene che la conclusione del contratto rappresenti un vero e proprio onere in capo alle parti e soprattutto in capo al titolare del fondo servente volto ad evitare l’emanazione della sentenza costitutiva. Questa impostazione appare chiara sul piano pratico. Attraverso la conclusione del contratto, come esplicato nel corpo del testo, le parti hanno la possibilità– ferma la presenza dei presupposti richiesti dalla legge –di determinare la servitù in termini di contenuto e di corrispettivo, adattandola alla situazione concreta.
[35] B. Biondi, Le servitù, cit., 775. La conclusione dell’accordo, seppur nel corso del giudizio, comporta, secondo l’Autore, la costituzione coattiva della servitù mediante contratto.
[36] B. Biondi, Le servitù, cit., 775.
[37] G. Branca, sub art. 1032, cit., 79 s. contra F. Messineo, Le servitù, cit., 80, secondo il quale l’accertamento dei presupposti per la costituzione della servitù presenta mero carattere preliminare e, soprattutto, si riscontra in tutti i procedimenti giudiziari preliminarmente all’emanazione del provvedimento conclusivo. La sua funzione è, dunque, essenzialmente costitutiva e non dichiarativa e il fatto che il Giudice (come si vedrà nel proseguo della trattazione) debba determinare le modalità di esercizio della servitù e la misura dell’indennità determinerebbe un ulteriore funzione in capo alla sentenza. Si parla, in particolare, di “funzione normativa” della sentenza. Appare, inoltre, interessante la posizione espressa da G. Branca, sub art. 1032, cit., 79 s. in relazione alle esigenze di tutela dell’attore. Posto che l’obbligo di costituire la servitù avrebbe dovuto essere adempiuto dalla parte subito dopo la domanda formale, deve essere riconosciuto in capo all’attore il diritto al risarcimento dei danni per ritardo. La domanda, infatti, costituisce una vera e propria costituzione in mora, di conseguenza deve necessariamente applicarsi l’art. 1223 cod. civ., in materia di risarcimento del danno in caso di inadempimento o ritardo. Tale situazione produrrà i propri effetti anche sul piano prettamente processualistico, considerando che le spese di lite dovranno essere computate necessariamente a carico del convenuto, che deve concedere la servitù, fatta esclusione per le spese necessarie a determinare le modalità della servitù o la misura dell’indennità, che graveranno sull’attore (sulla stessa linea appare già F. Messineo, Le servitù, cit., 79, che afferma la necessità di un moderno “tentativo di conciliazione tra le parti”, a cui il Giudice deve obbligatoriamente adempiere prima di dar corso al procedimento, trattandosi di un presupposto di natura processuale. Tale tentativo assumerebbe la natura di vero e proprio onere per l’attore, che, in caso di esito negativo, potrebbe procedere alla richiesta di risarcimento per i danni derivanti da ritardo nella costituzione della servitù.
[38] G. Branca, sub art. 1032, cit., 80. Il riferimento è nello specifico al secondo comma dell’art. 1032 c.c., che prevede testualmente la necessità che la sentenza determini le modalità di esercizio del diritto di servitù nonché la misura dell’indennità.
[39] Sul tema in generale v. le interessanti riflessioni di C. Caricato, Indennizzo e indennità, Torino, 2012, 112 s.
[40] G. Grosso, G. Deiana, Le servitù prediali, cit., 329. Gli Autori mettono in evidenza come la tendenza del Codice civile sia assolutamente volta a rimescolare i diversi punti di visti relativi al diritto alla costituzione e al modo stesso di costituzione della servitù, oscillando, come dicono testualmente, tra il riferimento alla costituzione per sentenza e una impostazione di carattere generale, che concerne tutte le servitù coattive.
[41] G. Branca, sub art. 1032, cit., 81: «(…) è indiscutibile (…) che dal contenuto meramente obbligatorio dell’atto scaturisce l’obbligo di mettere a disposizione la cosa per l’esercizio della servitù e per evitare che questo possa costituire turbativa di possesso verso il costituente; obbligo che non si deve confondere con quello di pati o di non facere (…) e che grava sulla persona che costituisce la servitù. (…) l’indennizzo è il corrispettivo anche di questo obbligo, che grava sul concedente o sul convenuto di mettere il proprio fondo a disposizione di chi chiede la servitù». Alle origini del nesso di sinallagmaticità di cui si è detto vi sarebbero le seguenti considerazioni illustrate dall’Autore: l’obbligo di mettere a disposizione il bene, per l’esercizio della servitù, nel contratto costitutivo-traslativo di jura in re aliena corrisponde all’obbligo di consegnare la cosa da parte del venditore nel contratto traslativo del dominio. Nell’una e nell’altra ipotesi, siamo in presenza di una compravendita. Detto ciò, mentre l’obbligo di consegnare la cosa nella vendita della proprietà deriva dall’obbligo della traditio romana, così nella vendita di servitù, l’obbligo di mettere a disposizione il fondo per l’esercizio della servitù deriva dalla stipulatio che nel diritto romano si accompagnava al negozio costitutivo di jura in re aliena. Analizzando le argomentazioni sopra illustrate, sembrerebbe che l’Autore abbia inteso motivare le proprie conclusioni mettendo in comparazione la vendita e la costituzione di servitù, richiamandosi in maniera chiara alla tradizione romanistica.
[42] G. Branca, sub art. 1032, cit., 81.
[43] B. Biondi, Le servitù, cit., 782 s.: «Si è voluto considerare sinallagmatico il rapporto tra servitù e indennità. Ciò non è vero. La costituzione della servitù è un prius rispetto all’indennità come risulta dalla connessione tra il primo e il secondo comma dell’art. 1032 (…). Appunto per questo la legge dispone che la servitù non possa essere esercitata se prima non viene pagata l’indennità. Il pagamento di questa subordina non l’esistenza della servitù, ma il suo esercizio».
[44] G. Branca, sub art. 1032, cit., 81.
[45] G. Grosso e G. Deiana, Servitù prediali, cit., 333; contra G. Branca, sub art. 1032, cit., 84 s.
[46] G. Branca, sub art. 1032, cit., 84.
[47] Tra le più recenti: Cass., 22 settembre 2022, n. 27719, in Guida dir., 2022, 44; Cass., 11 marzo 2022, n.7972, in Foro it., 2022, II, 1681: “In altri termini (e a tale principio di diritto dovrà uniformarsi il giudice di rinvio) l’indennità dovuta dal proprietario del fondo in cui favore è stata costituita la servitù di passaggio coattivo, pur non rappresentando il corrispettivo dell’utilità conseguita dal fondo dominante, costituisce un indennizzo dovuto da ragguagliare al danno cagionato al fondo servente, sicché, per la sua determinazione, non può aversi riguardo esclusivamente al valore della superficie di terreno assoggettata alla servitù, dovendosi tenere altresì conto di ogni altro pregiudizio (come nei sensi prima esemplificativamente precisati) subito dal fondo servente in relazione alla sua destinazione a causa del transito di persone e di veicoli»; Cass., 9 ottobre 2020, n.21866: “Del resto è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le tante, Cass. n. 3649/2007 e Cass. n. 10269/2016) che l’indennità dovuta dal proprietario del fondo in cui favore è stata costituita la servitù di passaggio coattivo non rappresenta il corrispettivo dell’utilità conseguita dal fondo dominante, ma un indennizzo risarcitorio da ragguagliare al danno cagionato al fondo servente, sicché, per la sua determinazione, non può aversi riguardo esclusivamente al valore della superficie di terreno assoggettata alla servitù, dovendosi tenere, altresì, conto di ogni altro pregiudizio subito dal fondo servente in relazione alla sua destinazione a causa del transito di persone e di veicoli»; Cass., 10 aprile 2018, n.8817; Cass., 18 maggio 2016, n.102; Cass. 16 febbraio 2007, n.3649; nel merito: Trib. Arezzo, 16 luglio 2015, n. 863, in DeJure Giuffrè, 2023;
[48] Cass., 22 settembre 2022, n. 27719, cit.
[49] Cass., 16 febbraio 2007, n.3649. Sulla stessa linea di recente R. Triola, Le servitù. Artt. 1027-1099, cit., 101.
[50] F. Messineo, Le servitù (artt. 1027-1099 cod. civ.), cit., 81 e sulla stessa linea anche R. Albano, sub art. 1032 c,c., in AA.VV., Della proprietà, in Comm. Cod. civ. redatto a cura di magistrati e di docenti, Libro III, t. 2 (Art. 957-1999), II ed. ricevuta ed aggiornata, Torino, 1958, 358.
[51] F. Messineo, Le servitù (artt. 1027-1099 cod. civ.), cit., 81.
[52] F. Messineo, Le servitù (artt. 1027-1099 cod. civ.), cit., 36.
[53] F. Messineo, Le servitù (artt. 1027-1099 cod. civ.), cit., 36.
[54] R. Albano, sub art. 1032 c.c., cit., 355.
[55] Tra gli altri, sul tema v. le riflessioni di M. Comporti, voce Servitù (dir. priv.), cit., 305. L’Autore evidenzia come nella pratica la costituzione della servitù sia spesso inserita in una clausola all’interno di un contratto più ampio. In questa ipotesi, sarà necessaria, secondo l’Autore, la trascrizione specifica della clausola, non essendo sufficiente la trascrizione del solo contratto; più recentemente in maniera esaustiva sull’argomento F. Gazzoni, La trascrizione degli atti e delle sentenze, in (a cura di) E. Gabrielli, F. Gazzoni, Trattato della trascrizione, v. I, Torino, 2012, 190 s., che mette in evidenza la possibilità in caso di mancata trascrizione del contratto e, conseguentemente, di impossibile opponibilità ai terzi acquirenti, l’opportunità di ricorrere in sede giudiziale. In questa ipotesi, però, devono pur sempre essere presenti i requisiti previsti dalla legge per la costituzione della servitù coattiva, come, ad esempio, l’interclusione del fondo nell’ambito della servitù di passaggio. Secondo l’Autore, in particolare, il carattere di coattività della servitù, infatti, non può venir meno là dove sia stato stipulato precedentemente un altro contratto, avente ad oggetto il medesimo diritto.
[56] Le origini di tale disposizione sono da rintracciare nell’art. 36, comma 4, del Codice del Commercio, concernente il regime dell’obbligatorietà nell’ambito delle promesse unilaterali. Secondo tale disposizione, nell’ambito dei contratti unilaterali, le promesse sono obbligatorie appena giungano a notizia della parte cui sono fatte. Le discussioni dottrinali sul punto sono state piuttosto ampie ed articolate, soprattutto in relazione alla considerazione per cui la formulazione della norma ne escludeva l’applicabilità all’ambito di formazione del contratto (v. all’epoca lo scritto di V. Scialoja, Osservazioni sull’art. 36 del Codice di Commercio, in Per cinquantesimo anno di insegnamento di Enrico Pessina, v. III, Studi giuridici varii, Napoli, 1899, 3 s.). Per i riferimenti dottrinali sul tema v. tra le altre le recenti ricostruzioni di G. Conte, sub art. 1333, in La formazione del contratto. Artt. 1326-1330 e 1333-1335, in Comm. Cod. civ. Schlesinger – Busnelli, Milano, 2018, 399 s.; A. Orestano, La conclusione del contratto per mancato rifiuto della proposta, in Tratt. contr. Roppo, v. I, (a cura di) C. Granelli, Formazione, 2° ed., Milano, 2023, 195 s.; U. Perfetti, in Il contratto in generale, II, La conclusione del contratto, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu, Messine, Mengoni, Schlesinger, Milano, 2015, 468.
[57] A. Diurni, Il contratto con obbligazioni del solo proponente: la tutela dell’oblato, in Riv. dir. civ., 1998, 681 s.
[58] A. Diurni, Il contratto con obbligazioni del solo proponente: la tutela dell’oblato, cit., 681 s.
[59] A. Diurni, Il contratto con obbligazioni del solo proponente: la tutela dell’oblato, cit., 681. Parla di diverse sequenze già G. Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969, 122 s.
[60] Come evidenziato in maniera chiara da A. Orestano, La conclusione del contratto per mancato rifiuto della proposta, cit., 199 (v. anche nota n. 13 per ulteriori riferimenti bibliografici): «Sebbene la fattispecie venga disciplinata all’interno della sezione dedicata all’“accordo tra le parti”, in realtà rimane dubbia proprio la possibilità di riconoscere la presenza di un accordo tra i due protagonisti della vicenda. Ciò in quanto il comportamento tenuto dal destinatario della “proposta”, normativamente rilevante ai fini della “conclusione”, è il mero silenzio; e se anche può probabilmente ammettersi che il mero silenzio talvolta si atteggi alla stregua di fatto concludente, di manifestazione tacita di volontà negoziale, ciò può accadere soltanto ove ricorrano elementi e circostanze ulteriori rispetto alla semplice inerzia, che valgono ad imprimere al contegno omissivo quella univocità che, per definizione, ad esso è estranea».
[61] Per una ricostruzione sintetica e compiuta del dibattito v. G. Gallo, Sub art. 1333 cod. civ., in Comm. Cod. civ. Gabrielli, in (a cura di E. Navarretta, A. Orestano, Dei Contratti in generale, v. I: Artt. 1321-1349 c.c., Torino, 2011, 385 s. e già A. Sciarrone Alibrandi, Pagamento traslativo e art. 1333, in Riv. dir. civ., 1989, 535 s.
[62] Si rifiuta così l’impostazione seguita tra gli altri da A. Ravazzoni, La formazione del contratto, v. I, Milano, 1966, 348 s., secondo il quale ci si trova di fronte ad una disposizione legislativa che incide direttamente sul procedimento formativo del contratto, riconoscendo il perfezionamento dello stesso a prescindere da una manifestazione espressa di volontà. In particolare, la dichiarazione con effetti di carattere sostanziale è rappresentata dal comportamento silenzioso della parte, che viene qualificato dall’Autore come comportamento legalmente tipizzato, nel senso che ad esso la legge attribuisce un significato predeterminato.
[63] Su questo punto sono interessanti le posizioni espresse da R. Scognamiglio, sub art. 1333 c.c., in Contratti in generale, in Tratt. dir. civ. G. Grosso – F. Santoro-Passarelli, Milano, 1977, 165, secondo il quale il comportamento materiale di carattere omissivo deve considerarsi, alla stregua della legge come atto conclusivo del contratto stesso. Secondo l’illustre Autore, dunque, non sarebbe configurabile una forma di accettazione tacita dell’accordo. Nell’ipotesi di cui all’art. 1333 cod. civ.il contratto si concluderebbe attraverso la sequenza proposta –mancato rifiuto del destinatario, che, per effetto di legge, assume valore negoziale. Sul tema v. anche le più recenti considerazioni di E. Damiani, Il contratto con prestazioni a carico del solo proponente, Milano, 2000, 225, che definisce il silenzio della parte come contegno negozialmente rilevante. Il silenzio viene, dunque, valutato come una dichiarazione legale tipica, cui sarebbero applicabili le normali disposizioni in materia di vizi del consenso in una prospettiva di tutela dell’oblato.
[64] C.M. Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, III ed., Milano, 2019, 230.
[65] C.M. Bianca, Il contratto, cit., 230.
[66] Sul tema e per riferimenti bibliografici v. le riflessioni di A. Diurni, Il contratto con obbligazioni del solo proponente: la tutela dell’oblato, cit., 688 s.
[67] F. Carresi, Contratto con obbligazioni del solo proponente, in Riv. dir. civ., 1974, I, 403 s.
[68] Su questa linea sembrerebbe anche C. Donisi, Il problema dei negozi giuridici bilaterali, Napoli, 1972, 128 s. che critica in maniera piuttosto esaustiva quella parte della dottrina che individua nella fattispecie di cui all’art. 1333 cod. civ., un negozio di tipo unilaterale, anziché una modalità differente di formazione del contratto.
[69] R. Sacco, G. De Nova, Obbligazioni e contratti, t. 2, in Tratt. dir. priv, Rescigno, 10, IV ed., 2018, 21 s. Sulla stessa linea, tra gli altri: V. Roppo, Il contratto, in Tratt. dir. priv. Iudica – Zatti, II ed., 2011, 120; più recentemente, invece, AM. Benedetti, Autonomia privata procedimentale. La formazione del contratto fra legge e volontà delle parti, Milano, 2002, sostiene che la conclusione del contratto abbia luogo attraverso la combinazione tra un atto di carattere commissivo, rappresentato dalla proposta e un atto di tipo omissivo, costituito dal mancato rifiuto da parte dell’oblato. L’omissione in quest’ottica rappresenta un atto giuridico di carattere negativo che attribuisce la forza di consolidare il contratto con obbligazioni del solo proponente.
[70] Sul problema generale dell’applicabilità dell’art. 1333 cod. civ. vedi la ricostruzione di F. Rossi, Il contrato con obbligazioni del solo proponente, Napoli, 2005, 51 s.
[71] Art. 1376 c.c.: «Nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato». Sul principio consensualistico v. tra altre la ricostruzione di M. Franzoni, sub art. 1376, in Degli effetti del contratto. Artt. 1374-1381., v. II, Integrazione del contratto. Suoi effetti reali e obbligatori, in Comm. Cod. civ. fondato da P. Schlesinger e diretto da F.D. Busnelli, II ed., Milano, 2013, 344 s.
[72] Sul punto tra gli altri: R. Sacco, G. De Nova, Obbligazioni e contratti, cit., 30: «(…) la lettera dell’art. 1333, che restringe il proprio campo ai contratti ad efficacia obbligatoria è un residuato del linguaggio formatosi allorché tutti i contratti producevano solamente effetti obbligatori (…) o invece deve essere interpretato in modo letterale, escludendone l’applicabilità a quelle proposte che mirano a produrre effetti reali?».
[73] Tra gli altri: C. Camardi, Principio consensualistico, produzione e differimento dell’effetto reale. I diversi modelli, in Studi in onore di P. Rescigno, v. III, Diritto Privato, t. 2 Obbligazioni e contratti, Milano, 1998, 239 s.
[74] R. Sacco, Contratto, e negozio a formazione bilaterale, in Studi in onore di P. Greco, II, Padova, 1965, 933 s. L’Autore muove la propria analisi a partire dalla concezione bilaterale o plurilaterale del negozio giuridico, che sembrerebbe già mettere in crisi l’applicabilità dell’art. 1333 cod. civ., anche se in realtà la dottrina preferisce limitare l’applicazione della norma in esame, piuttosto che rinunciare al dogma della bilateralità. Per un’analisi esaustiva dell’evoluzione dottrinale a partire dal pensiero di Sacco (anche in riferimento alla giurisprudenza) v. A. Palazzo, Profili di invalidità del contratto unilaterale, in Riv. dir. civ., 2002, 589 s.
[75] R. Sacco, Contratto, e negozio a formazione bilaterale, cit., 982.
[76] R. Sacco, Contratto, e negozio a formazione bilaterale, cit., 984 e R. Sacco, G. De Nova, Obbligazioni e contratti, cit., 30 s. Questa impostazione si ritrova anche nella giurisprudenza più recente: (in materia di usufrutto) Cass., 18 giugno 2018, n. 15997, in Corr. giur., 2019, 320 s., con nota critica di C. Natoli, La Cassazione sulla questione dell’ammissibilità dei contratti con obbligazioni del solo proponente ad effetti reali, in NGCC, 2018, 1745, con commento di S. Gatti, Limiti alla possibilità di costituire l’usufrutto tramite il procedimento dell’art.1333 cod. civ., in Jus Civile, 2019, 185, con commento di F. Bertelli, Sulla pretesa irrealizzabilità di effetti traslativi mediante l’atto unilaterale soggetto a rifiuto ex art. 1333 c.c.,: «Sulla stessa linea è la giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo cui la ratio dell’art. 1333 cod. civ. “risiede nel fatto che al destinatario della proposta dal contratto possono derivare soltanto vantaggi” (Cass. n. 5748/1987). In contrasto con tali principi la corte d’appello non solo ha riconosciuto l’applicabilità dell’art. 1333 cod. civ. anche se il diritto reale trasferito o costituito importi oneri ed obblighi per il beneficiario, ma ha giustificato tale insostenibile posizione sulla base del rilievo che gli oneri e gli obblighi dell’usufruttuario discendono dalla legge e non dal contratto. Al contrario la presenza di tali oneri e obblighi legali è esattamente la ragione che giustifica la essenzialità dell’accettazione dell’oblato al fine dell’acquisto o della costituzione del diritto reale di usufrutto»; Cass., 4 dicembre 2020, n. 27857, in epoca più risalente: Cass., 30 giugno 1987, n.5748, in Giust. civ., 1988, I, 1023.
[77] R. Sacco, Contratto, e negozio a formazione bilaterale, cit., 984 e R. Sacco, G. De Nova, Obbligazioni e contratti, cit., 30 s.
[78] AM. Benedetti, Autonomia privata procedimentale. La formazione del contratto fra legge e volontà delle parti, cit., 102 s. La distinzione tra “accordi a struttura leggera” e “accordi a struttura pesante” si ritrova espressa ed elaborata da V. Roppo, Il contratto, cit., 120 s. F. Realmonte, La formazione del contratto con obbligazioni del solo proponente, in Tratt. Bessone, Il contratto in generale, v. XIII, t. 2, Torino, 2000, che parla dell’art. 1333 cod. civ. come di un procedimento di formazione del contratto che viene definito “semplificato”.
[79] AM. Benedetti, Autonomia privata procedimentale. La formazione del contratto fra legge e volontà delle parti, cit., 105. L’Autore ritiene che tale valutazione sia applicabile non solamente ai contratti ad effetti reali, ma ai contratti con effetti di carattere obbligatorio: “Anche per i contratti ad effetti obbligatori, del resto, vale la stessa regola; nel senso che l’interprete è chiamato a valutare il contenuto concreto della proposta ricevuta dall’oblato, escludendo il ricorso allo schema in esame tutte le volte in cui il destinatario della proposta è esposto ad un qualche svantaggio; se la proposta di patronage può essere accettata ex art. 1333 cod. civ. (…), la datio in solutum, per l’effetto estintivo del credito di cui il creditore era titolare, deve essere accettata espressamente dall’oblato Ed ancora: la proposta di novazione, se l’obbligazione che sorge in luogo dell’estinta è a solo carico del debitore, può dar luogo a contratto col mancato rifiuto del creditore; nonché, una proposta di modifica del rapporto contrattuale in corso che comporti, per l’altra parte, effetti solo vantaggiosi; ovvero, ancora, una proposta di opzione senza corrispettivo (…)».
[80] R. Albano, sub art. 1032 cod. civ., cit., 355.
[81] Sul tema v. le interessanti riflessioni di M. Segni, Autonomia privata e valutazione legale tipica, Milano, 1972, 393.
[82] M. Segni, Autonomia privata e valutazione legale tipica, cit., 393.
[83] C.M. Bianca, Il contratto, cit., 518 s.
[84] In materia v. l’importante trattazione di F. Girino, Studi in tema di stipulazione a favore di terzi, Milano, 1965, 140 s. e più recentemente, tra gli altri l’importante contributo di M. Sesta, Contratto a favore di terzo e trasferimento di diritti reali, in Studi in onore di R. Sacco, Milano, 1994, 1101 s.; M. Franzoni, Il contratto e i terzi, in (a cura di) E. Gabrielli, I contratti in generale, v. II, in Tratt. contratti Rescigno, Torino, 2006, II ed., 1227 s.; A. Fusaro, Contratto e terzi, in Tratt. contratto Roppo, v. III, Effetti, Milano, 2006, 192 s.; L.V. Moscarini, Il contratto a favore di terzi. Artt. 1411-1413, in Comm. Cod. civ. Schlesinger, Busnelli, II ed., Milano, 2013, 121 s.
[85] Sul tema, tra gli altri: U. Majello, L’interesse dello stipulante nel contratto a favore di terzi, Ristampe della Scuola di specializzazione in diritto civile dell’Università di Camerino, Napoli, 2010, 131 s., che ricostruisce in maniera esaustiva anche le posizioni espresse sotto il vigore del Codice civile del 1865: «(…) potrebbe obiettarsi che proprio l’art. 1376 sembra escludere l’efficacia traslativa del contratto a favore altrui, stabilendo che la trasmissione e l’acquisto del diritto si hanno per effetto del consenso legittimamente manifestato: posto che il terzo, per definizione, non è parte e non manifesta il proprio consenso, non pare – a voler stare alla lettera del codice – che egli possa acquistare il diritto in base ad un contratto stipulato a suo favore. Volendo, indugiare, ancora su considerazioni di carattere letterale è da osservare come gli artt. 1411 e segg. sembrano alludere esclusivamente all’ipotesi dell’efficacia obbligatoria sia per l’uso del termine “prestazione” sia per la relatività dei rapporti tra terzo e promittente»; v. più recentemente anche l’analisi di F. Angeloni, Del contratto a favore di terzi, in Comm. Cod. civ. Scialoja-Branca-Galgano, Bologna-Roma, 2004, 99 s. Per la trattazione del problema sotto il Codice civile del 1865, tra gli altri: L. Coviello junior, L’art. 1228 cod. civ. e la stipulazione a favore di terzi con contenuto reale, in Foro it., 1935, IV, 240 s.; A. Giovene, L’art. 1228 cod. civ. e la stipulazione a favore di terzi con contenuto reale, in Foro it., 1939, 273 s.
[86] U. Majello, L’interesse dello stipulante nel contratto a favore di terzi, cit., 138: «(…) è da notare che la validità di un contratto a favore altrui con efficacia traslativa aprirebbe una breccia all’ammissibilità (…) dei negozi traslativi astratti. (…) l’effetto traslativo a favore del terzo consentirebbe una frattura del fenomeno del trasferimento, per cui la dismissione del diritto da parte dell’alienante avrebbe un fondamento giuridico diverso da quello che giustifica l’acquisto del diritto da parte del terzo. (…) la dismissione del diritto da parte del promittente si opera in virtù della causa negoziale che è alla base del contratto con lo stipulante, lo acquisto da parte del terzo verrebbe (…) a prescindere da un’espressa giustificazione causale. (…) la causa del contratto di base, pur essendo idonea a giustificare l’acquisto da parte dello stipulante non lo è, invece, per giustificare l’acquisto ad opera di un terzo».
[87] F. Carresi, Il contratto, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu-Messineo-Mengoni, v. XXI, t. 1, Milano, 1987, 306 s.
[88] F. Girino, Studi in tema di stipulazione a favore di terzi, cit., 166 s.
[89] Così testualmente: F. Girino, Studi in tema di stipulazione a favore di terzi, cit., 153.
[90] F. Girino, Studi in tema di stipulazione a favore di terzi, cit., 154: «Sostenuta come premessa l’inammissibilità assoluta dei negozi astratti, il problema si pone in termini di alternatività e cioè o la stipulazione a favore altrui fa eccezione al principio, oppure, rientrandosi nel principio, è nulla ed allora le norme che la regolano vanno sottoposte ad un processo ermeneutico abrogante. (…) si deve credere che il principio relativo all’invalidità dei negozi astratti è flessibile e che la stipulazione a favore di terzi è causale, stante il modo unitario in cui detta fattispecie va considerata. (…) questa teoria non solo non può essere accettata da chi aderisce al principio di causalità della stipulazione per altri, ma rende perplessi perché eleva un elemento costitutivo della fattispecie a rango di ragione giuridica del patto. Pare che quanto asserito in tema di unicità della causa della stipulazione sia sufficiente per respingere l’opinione che vede un’astrazione nell’attribuzione del diritto del terzo da parte dello stipulante». In posizione critica anche M. Sesta, Contratto a favore di terzo e trasferimento di diritti reali, cit., 1108 s., secondo il quale deve sempre rinvenirsi una giustificazione di carattere causale nel contratto a favore di terzo, da identificarsi nella relazione tra stipulante e soggetto terzo.
[91] Tra le altre v.: Cass., 27 giugno 2011, n.14180; Cass., 30 ottobre 2006, n.23343, in Riv. giur. edilizia 2007, I, 965; Cass., sez18 maggio 2000, n. 6450; Cass., 11 maggio 2000, n.6030, in Riv. giur. edilizia 2000, I, 827 (s.m.); Cass., 1° settembre1994, n.7622; Cass., 13 febbraio1993, n.1842; Cass., 27 gennaio 1992, n. 855; Cass., 28 novembre 1986, n.7026; Cass.,14 febbraio1986, n.6688; Cass., 7 gennaio 1984, n.104, in Riv. giur. edilizia, 1984, I, 229; Cass., 13 luglio1983, n.4778, in Foro it. 1983, I,3054; Cass., 14 dicembre1982, n.6871; Cass., 16 luglio1981, n.4643; Cass, 25 febbraio 1980 n. 1317, in Riv. dir. comm., 1980, II, 339, con nota di A. Guarnieri, Costituzione di servitù e stipulazione a favore di terzo, Cass. 3 luglio 1979, n. 3749.
[92] Cass., 30 ottobre 2006, n.23343, cit.
[93] R. Sacco, G. De Nova, Obbligazioni e contratti, cit., 473.
[94] M. Segni, Autonomia privata e valutazione legale tipica, cit., 389 s.
[95] R. Sacco, G. De Nova, Obbligazioni e contratti, cit., 471 s.
[96] R. Sacco, G. De Nova, Obbligazioni e contratti, cit., 472 s. In questo senso, dunque, la suddetta dottrina giustifica espressamente la previsione di cui all’art. 1411 cod. civ. come compatibile rispetto al principio di efficacia relativa del contratto. La sua presenza tra le norme codicistiche, infatti, non va ad intaccare la definita armonia del sistema più di quanto non faccia l’articolo 1333 cod. civ. nei termini di cui si è detto.
[97] M. Segni, Autonomia privata e valutazione legale tipica, cit., 390.