L'Autore esamina le possibilità di impiego delle tecnologie di intelligenza artificiale – concetto tuttora alquanto indefinito, e privo di definizione normativa – nella gestione del patrimonio digitale. Dopo una breve analisi del concetto di dati personali, e del loro possibile significato economico, diretto o indiretto, l'Autore si sofferma sull’utilizzo dello strumento del contratto in tale ambito. A tal proposito, vengono esaminate le applicazioni pratiche dell'intelligenza artificiale, nella complessa gestione di dati e averi digitali, anche a fronte della recente introduzione, nell’ordinamento giuridico italiano, dell'art. 2-terdecies, D. Lgs. n. 196/2003, sulla scorta di quanto offerto dal Reg. UE n. 2016/679 (G.D.P.R.).
The Author examines the opportunities of using artificial intelligence technologies – a relatively novel concept that hasn’t been defined yet in the current legislation – in the management of digital assets. After a brief analysis of the concept of personal data, and their possible economic relevance, direct or indirect, the Author focuses on the employment of the instrument of contract in this area of interest. For this reason, some practical applications of artificial intelligence in the complex management of digital data and assets are examined, especially considered the recent introduction of art. 2-terdecies, D. Lgs. n. 196/2003 into the Italian legal system, based on the regulation provided by Reg. UE n. 2016/679 (G.D.P.R.).
Sommario:
1. L’intelligenza artificiale: un nuovo attore, nella scena giuridica moderna? - 2. I dati personali, e gli averi digitali, nella sfera informatica - 3. L’impiego del contratto, e l’utilizzo delle tecnologie di intelligenza artificiale, nella gestione dei dati personali, e degli averi digitali - 4. Considerazioni conclusive - NOTE
«Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella. Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste esser soppresso, sostituito da qualche meccanismo?» [1]. Già Pirandello, al principio del secolo scorso, si interrogava sulle sòrti dell’operato dell’uomo, e sull’utilità di un suo intervento, al cospetto dell’ausilio offerto dalla tecnologia, forte del suo inesorabile incedere.
Accanto alla letteratura, nel medesimo periodo, anche la dottrina giuridica – la quale, in molte occasioni, veste gli abiti di spettatore, e, a seguire, di attore privilegiato, immediatamente coinvolto nelle evoluzioni della società – si poneva i medesimi quesiti, benché, pare quasi superfluo sottolinearlo, riferibili a situazioni paragonabili, soltanto in minima parte, all’attuale condizione umana, arricchita dalle più recenti evoluzioni della tecnica. A tal proposito, Antonio Cicu, riflettendo su di un tema, tuttora attuale, come quello della stipulazione di contratti, per il tramite di automi, definiva questi ultimi, nella prospettiva giuridica, alla stregua di «ogni meccanismo […] che rende possibile l’esecuzione di una prestazione senza l’intervento diretto dell’opera del prestante» [2].
Certo, le riflessioni del tempo si concentravano, sostanzialmente, sull’impiego della tecnologia, allora intesa quale semplice tecnica meccanica, ovvero uno strumento utile per l’esecuzione materiale di attività dal sapore, e significato, su tutto, pratico, ma capaci di determinare, al contempo, risvolti giuridici, non sempre di mero contorno. Uno strumento che, pertanto, veniva, solitamente, impiegato per la ripetizione di determinate azioni, sulla base di quanto già definito dalla volontà umana. Chi scriveva, al tempo, non poteva certo figurarsi le opportunità, che sarebbero state, poi, concesse dallo sviluppo tecnologico, giunto, oggi, alla definizione di una nuova figura, dai contorni incerti, e dalle possibilità applicative, apparentemente, illimitate: l’intelligenza artificiale.
Non è dato rinvenire, al momento, una legislazione uniforme dedicata al tema dell’intelligenza artificiale, come, del pari, manca una sua definizione univoca [3]. Come, recentemente, osservato dalla Commissione Europea [4], tra il 1955 – anno in cui venne annunciata la Conferenza di Dartmouth [5], tenutasi, poi, l’anno seguente –, e il 2019, sono state proposte più di cinquanta definizioni di intelligenza artificiale. Una produzione scientifica ben in grado di dimostrare l’elusività del concetto al quale si riferisce, e difficilmente riconducibile a un’unica, o, quanto meno, condivisa, definizione. Epperò, un riferimento, per quanto generico, dall’indubbio valore descrittivo, è stato proposto dalla stessa Commissione Europea, a testimonianza dell’interesse che il tema riveste, su tutto, in àmbito comunitario. Secondo la Commissione [6], infatti, con il termine intelligenza artificiale, si suole fare riferimento ai «sistemi che mostrano un comportamento intelligente analizzando il proprio ambiente e compiendo azioni, con un certo grado di autonomia, per raggiungere specifici obiettivi. I sistemi basati sull’IA possono consistere solo in software che agiscono nel mondo virtuale (per esempio assistenti vocali, software per l’analisi delle immagini, motori di ricerca, sistemi di riconoscimento vocale e facciale); oppure incorporare l’IA in dispositivi hardware (per esempio in robot avanzati, auto a guida autonoma, droni o applicazioni dell’Internet delle cose)».
A intricare, ulteriormente, la materia, occorre notare come una spessa coltre di incertezza avvolga, altresì, la natura giuridica da riconoscere a codesta figura. Il dubbio principale, che a essa soggiace, consiste nell’eventuale riconoscimento di una sua soggettività [7], tema che fonda la propria indeterminatezza, su tutto, nelle caratteristiche fondamentali, che contraddistinguono le nuove tecnologie, e, in particolar modo, gli strumenti dei quali la stessa intelligenza artificiale si compone, e di cui, di conseguenza, si nutre. Se l’intelligenza artificiale è in grado di manifestarsi quale frutto del lavoro di una pluralità di soggetti, produttori e utilizzatori, al contempo, questa stessa intelligenza artificiale si caratterizza per i molteplici collegamenti tecnologici, che stanno alla sua base, i quali si rivelano, di per sé, incompleti, privi di autonomia, e soggetti a continui, e necessarî, aggiornamenti [8]. Ebbene, la rapida e costante evoluzione, alla quale è soggetta la materia, e la così ricca moltitudine di contenuti, che ne colorano i tratti, impediscono di ricondurre a unità l’eterogeneo insieme contraddistinto dall’intelligenza artificiale, anche se, forse, a tal proposito, sarebbe più opportuno un riferimento, di più ampio respiro, alle tecnologie di intelligenza artificiale.
Non è, di sicuro, questa la sede per addentrarsi oltre in simili interrogativi [9]; eppure, è utile tenere a mente come, nelle recenti progressioni della tecnica, la figura in esame si sia contraddistinta per alcune caratteristiche, capaci di riempirne i lineamenti, ma, al contempo, motivo di riflessione giuridica, e, talvolta, occasione di contenzioso nella vita quotidiana [10]. In particolare, il riferimento va a quella capacità di apprendimento, il così detto machine learning, di cui può fregiarsi l’attuale tecnologia, ormai in grado di fondare le proprie capacità sulla conoscenza acquisita, a fronte delle esperienze che la stessa è in grado di accumulare in concreto. Una caratteristica, quest’ultima, che si è ulteriormente evoluta, tanto da delineare una vera e propria capacità di self-learning [11], consistente nella possibilità di autoapprendimento di cui la macchina risulta, sovente, dotata, e consistente nell’abilità di assumere decisioni autonome, a fronte di un processo di adattamento, sviluppato nel tempo, proprio sulla base della diretta esperienza pregressa [12].
L’intelligenza artificiale, talvolta interlocutore, e, altre volte, mero strumento asservito al soddisfacimento di bisogni umani [13], si intreccia, ora, con i temi legati alla sfera digitale, ché, rispetto alla riflessione offerta da Cicu [14], l’incedere del progresso ha permesso di ampliare le possibilità della tecnica, non più limitate all’ausilio materiale, prettamente pratico, offerto dalle macchine, nel compimento di determinate attività. Gli strumenti di intelligenza artificiale permettono, infatti, alla tecnologia, autonome interazioni con l’uomo, agevolate dall’impiego della rete internet [15], la cui diffusione è, ormai, indubitabile [16]. In un simile contesto, è possibile ricondurre alla sfera digitale anche elementi dal carattere strettamente personale, quali, su tutto, i dati relativi ai profili più intimi della persona, ma anche altri, contraddistinti dai tratti più propriamente patrimoniali; categorie, queste ultime, parimenti capaci di essere attratte nella logica degli scambî negoziali, come presto si avrà modo di approfondire.
Ebbene, è in un àmbito di tal genere che possono essere coinvolte, ça va sans dire, le tecnologie di intelligenza artificiale, ormai offerte alla generalità dei consociati, con sempre maggiore frequenza, quale utile ausilio nella gestione degli stessi dati informatici, e degli averi digitali, facenti parte di insiemi, talvolta, in grado di intersecarsi. Un ausilio che si rivela assai utile, specie al fine della conservazione di tali oggetti, e della loro successiva trasmissione, ad altri individui, anche nella prospettiva di carattere successorio mortis causa.
Giova, ora, soffermarsi, seppur brevemente, sul vasto ed eterogeneo insieme dei dati personali, per approfondire le commistioni capaci di intrecciarne l’esistenza con il tema delle tecnologie di intelligenza artificiale, e che ne contraddistinguono l’intrinseca natura. Al lume di codesto inquadramento, i dati personali debbono essere considerati nella loro usuale collocazione, e, in particolare, vanno osservati all’interno della realtà informatica, quella stessa realtà in cui essi sono, con sempre maggiore frequenza, coinvolti. In primo luogo, occorre tenere a mente una distinzione di fondo, necessaria per indagare il tema, giacché il concetto di “privacy”, e la multiforme essenza dei così detti “dati personali”, termini il cui utilizzo viene, spesso, e impropriamente, confuso, non possono essere considerati sinonimi [17]. In particolare, la materia, che ruota attorno ai dati personali, e al loro trattamento, si contraddistingue per un’ampiezza, giocoforza, maggiore, rispetto al concetto di riservatezza, o di quello di privacy, nonostante gli indubbî punti di contatto, che gli stessi condividono.
Proprio a tal proposito, se, in un primo momento, la considerazione giuridica della privacy doveva intendersi limitata al semplice “diritto a essere lasciati soli” (“right to be alone”), la riflessione sul tema si è evoluta nel tempo, al punto da arricchirne il significato, suggerendo quello di “autodeterminazione informativa”, che pare, ora, più appropriato ad accogliere le molteplici sfaccettature emergenti in tema. In virtù di codesta espressione, si intende fare riferimento al ben più ampio potere, riconosciuto in capo a ciascun individuo, di mantenere il controllo sui proprî dati, e sulle informazioni attinenti alla propria persona. Una considerazione, quest’ultima, che trova origine, su tutto, nella «Direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 24 ottobre 1995 relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati» [18], e che, successivamente, ha rinvenuto terreno fertile nella legislazione, non soltanto sovranazionale, ma anche in quella accolta all’interno dei confini dei singoli Stati membri dell’Unione Europea. I settori coinvolti dal trattamento dei dati, pertanto, non possono più essere circoscritti al semplice diritto alla riservatezza, giacché gli argomenti, e i concetti, che gravitano attorno a codesto argomento sono ben più ampî, e si dimostrano in grado di rannodarsi anche a taluni profili patrimoniali, dal significato, spesso, di indubbio rilievo.
Limitandosi a un’analisi tradizionale, e, forse, considerata la complessità raggiunta dal tema, ormai superficiale, la concezione di “dato personale” sembrerebbe limitata a tutti quei dati, per così dire, sensibili, riguardanti alcuni profili dell’individuo, quali, a modo di esempio: l’orientamento religioso, sessuale, politico, filosofico, le informazioni mediche. Tra i varî fattori in giuoco, l’evoluzione delle interazioni online ha contribuito ad ampliare la sua considerazione giuridica, specie se si considerino tutte le occasioni in cui i service provider [19], nelle contrattazioni in rete, esigono dagli utenti il consenso alla raccolta dei dati di navigazione, al fine di svolgere quelle peculiari operazioni di profilazione, utili per adeguare l’offerta di mercato alle necessità, e alle preferenze, del singolo.
È d’uopo notare come, in casi simili, tutte queste informazioni, anch’esse riconducibili al più vasto insieme dei dati personali, siano, peraltro, suscettibili di valutazione economica, nel momento in cui la loro raccolta viene giustificata, quale strumento necessario al fine del godimento di taluni servizî offerti in rete, apparentemente gratuiti [20], ma che, invero, sottendono un accordo contraddistinto dall’indubbia sinallagmaticità [21]. In questi casi, le informazioni divengono vera e propria ricchezza, impiegata nelle contrattazioni in rete, merce di scambio, all’interno di tale logica, che viene liberamente ceduta, mediante la semplice selezione di un’icona, sullo schermo del computer, o di altro strumento elettronico, senza che l’utente si soffermi, con la dovuta attenzione, sul consenso prestato. Eppure, si badi, non manca chi ha ritenuto come gli stessi dati personali debbano essere, ormai, considerati alla stregua di beni, dotati di immediato significato economico, senza la necessità di alcuna mediazione, in quanto oggetto di contrattazione. Uno strumento, pertanto, rappresentante effettiva ricchezza, da spendere all’interno del mercato virtuale della rete [22].
Accanto ai dati personali, pur nell’ampia considerazione, che a essi è, ora, dedicata, si distinguono, lo si anticipava poc’anzi, altre entità, dotate, prima facie, di significato patrimoniale, senza la necessità che questo debba essere ricavato dall’appetibilità di un loro scambio, pel tramite di internet, al fine dell’ottenimento di beni, o per la fruizione di taluni servizî. È facile, infatti, rinvenire entità digitali, che, singolarmente considerate, possono essere sussunte nella più ampia, e tradizionale, categoria dei beni: averi che risultano, pertanto, riconducibili alla medesima persona, accomunati dalle fattezze informatiche, in quanto aventi origine digitale, oppure generati in forma materiale, successivamente convertiti in file e, in tal modo, conservati [23]. A tal proposito, nonostante l’evidente lacunosità di qualsivoglia elencazione, riguardante codesti averi digitali, sembra, comunque, opportuno richiamare: la corrispondenza e-mail; alcuni peculiari rapporti contrattuali, che si instaurano per il tramite della rete; il diritto d’autore; il diritto all’immagine; i così detti “beni familiari” [24]. In ogni caso, si tratta di elementi che, vi si è già fatto cenno, sembrano poter essere considerati, recta via, alla stregua di beni, anche secondo la valutazione a essi riservata dal Codice civile del 1942, e, in particolare, dall’art. 810 cod. civ., ai sensi del quale, debbono reputarsi beni tutte «le cose che possono formare oggetto di diritti» [25].
In sintesi, e partendo da uno sguardo d’insieme, la somma di tutti codesti averi, suscettibili di pressoché immediata valutazione economica [26], pare in grado di definire una nuova figura, dai tratti compositi, e dai confini, invero, assai ampî. Un concetto che si rivela utile, su tutto, per le finalità pratiche, alle quali è asservito, e in grado di radunare tutti codesti beni, entro un’unica, efficace, locuzione: quella di “patrimonio digitale”, espressione, evidentemente, di facile intendimento, e dall’indubbio valore descrittivo, ma che fatica a trovare una propria collocazione giuridica certa [27].
Al lume di siffatte osservazioni, pare evidente il livello di commistione raggiunto, tra i dati personali, a partire dalla loro più tradizionale concezione, con l’elemento patrimoniale, utile per emanciparne la considerazione dalle strette maglie dei diritti fondamentali della persona, e capace di coinvolgere gli stessi nei traffici giuridici, e più prettamente economici, della realtà quotidiana. Dati personali, e averi digitali, che si contraddistinguono, nella quotidianità degli accordi conclusi per il tramite della rete, quale prima linfa, e inesauribile nutrimento, per le tecnologie di intelligenza artificiale, spesso chiamate alla gestione di codesti, sconfinati, complessi di informazioni, per conto dei soggetti che ne predispongono l’operato con il pubblico degli utenti, e che necessitano un trattamento peculiare, al lume del significato, strettamente legato ad alcuni dei profili più intimi della persona.
Al cospetto della complessa, e sfaccettata, realtà offerta dalle attuali possibilità della tecnica, è facile notare come i novelli strumenti di intelligenza artificiale si trovino, giocoforza, coinvolti nella custodia di una sconfinata moltitudine di informazioni, e dati, in forma digitale. Solitamente, in relazione a tale attività di gestione, fornisce il proprio ausilio, e indispensabile sostegno, il contratto, capace di mostrarsi quale strumento utile per agevolare l’amministrazione, e la trasmissione, di siffatti elementi informatici, i quali, a loro volta, e di conseguenza, divengono l’oggetto immediato del contratto al quale afferiscono.
Si consideri come, di per sé, la semplice collocazione degli averi digitali, negli spazî informatici offerti in rete, sottenda, necessariamente, un accordo, teso alla custodia dei medesimi beni, alla quale si accompagna una gestione, non di rado, affidata ad algoritmi, quelle complesse combinazioni di istruzioni, che debbono essere applicate per eseguire una determinata operazione, o per la risoluzione di un problema, e che vengono tipicamente impiegate dalle tecnologie di intelligenza artificiale, per il loro stesso funzionamento. Contratti, quelli poc’anzi evocati, di frequente ricorrenza nella prassi, capaci di tingersi di contenuti differenti, e che ben potrebbero essere ricondotti ad alcuni schemi negoziali, già conosciuti all’interno del nostro ordinamento giuridico, pur corretti dalle caratteristiche pattuizioni, generalmente diffuse in rete, secondo i modelli predisposti dai service provider.
Un’operazione, quest’ultima, senza dubbio utile a desumere, almeno in parte, la disciplina di legge applicabile alle molteplici fattispecie in grado di presentarsi al giurista, ché, altrimenti, questa sarebbe lasciata alla mercé della sola volontà dei paciscenti [28]. Si pensi, a modo di esempio, alla regolamentazione dedicata ai contratti di locazione (artt. 1571 ss. cod. civ.), deposito (artt. 1766 ss. cod. civ.), comodato (artt. 1803 ss., cod. civ.), al servizio di cassette di sicurezza (artt. 1839 ss. cod. civ.), trame che possono essere richiamate, financo a fronte del semplice impiego degli spazî di memoria in rete (il così detto cloud), al fine della conservazione online degli averi informatici. Un ausilio normativo, quello appena rammentato, che pare utile per colmare gran parte dei vuoti di disciplina, in grado di manifestarsi al cospetto di rapporti giuridici legati alla sfera informatica, i quali, altrimenti, giova rammentarlo, risulterebbero governati dalla sola fonte pattizia, ovvero una fonte, per quanto utile, non sempre completa, o, quanto meno, adeguata.
Si badi, il riferimento alla disciplina di legge, vigente nell’ordinamento giuridico in cui producono i proprî effetti gli accordi stipulati per il tramite di internet, pare alquanto opportuno, specie se si considera che, nei regolamenti contrattuali predisposti dai service provider, è frequente (se non addirittura costante) l’inserimento di peculiari clausole, sostanzialmente imposte agli utenti del web, e senza possibilità di contrattazione alcuna, mediante le quali le parti optano per l’applicazione della disciplina del luogo, in cui gli stessi service provider hanno il loro domicilio legale. Una disciplina che, sovente, e non a caso, si dimostra maggiormente favorevole proprio al predisponente, vale a dire il soggetto dotato della maggiore forza contrattuale, nel relativo rapporto. Non è questa la sede per approfondire funditus tali profili, che si combinano con la disciplina di Diritto internazionale privato [29], epperò, è utile rammentare come il rinvio generico, e indiscriminato, a una normativa differente, rispetto a quella del luogo di residenza dell’utente (rectius, solitamente, consumatore) ben potrebbe rivelarsi in contrasto con la disciplina interna, la quale impone il contemperamento con alcuni principî, talvolta inderogabili, a difesa di alcuni diritti, e imprescindibili prerogative, riconosciuti in capo ai consumatori.
Come già anticipato, l’intelligenza artificiale può fornire la propria assistenza, anche nelle attività successive, e consequenziali, alla custodia dei dati informatici, da intendersi nelle vesti, non soltanto di dati personali, ma anche in quelle di veri e proprî beni, suscettibili di immediata valutazione economica, come poc’anzi ricordato [30]. In particolare, la tecnologia può essere, ora, asservita al fine della trasmissione del patrimonio digitale, nella sua accezione più ampia, financo al momento della successione ereditaria dell’utente, al quale sono riconducibili gli averi, di cui questo si compone, nonché alla comunicazione delle sue più intime informazioni, a coloro che, per legge, o d’accordo con le eventuali disposizioni di ultima volontà, ne debbano essere i destinatarî.
Invero, non si tratta di una possibilità di recente introduzione, dal momento che, ormai da alcuni anni, i principali service provider, e, in special modo, i gestori di servizî di posta elettronica, e di memorizzazione in rete, offrono simili strumenti, in grado agevolare [31] la devoluzione mortis causa di quanto a essi affidato, e utili a evitare l’insorgere di gran parte delle controversie, che, spesso, si sono presentate in simili circostanze [32]. Del pari, anche le piattaforme di social network hanno iniziato a offrire i medesimi meccanismi, impiegati, in tali casi, principalmente, per la gestione dei dati personali, nella loro accezione più tradizionale.
Tra i primi strumenti offerti, giova rammentare il così detto “Google inactive account manager” (anche comunemente conosciuto, con un’espressione dai contorni assai incisivi, come “Google death manager”), mediante il quale, a ciascun utente di Google, è concesso definire, preventivamente, il destino dei relativi account, per il tempo successivo alla propria morte [33]. Pel tramite del “Google inactive account manager”, è concessa la facoltà di pianificare, in anticipo, il destino dei proprî averi digitali [34], e dei dati personali, purché, si badi, in combinazione con lo strumento testamentario, o, tutt’al più, d’accordo con le norme disciplinanti la successione legittima (artt. 565 ss. cod. civ.).
In concreto, in forza di codesto strumento, il service provider risulta incaricato, alla morte dell’utente, del cómpito di trasmettere le credenziali di accesso all’account, oppure, direttamente, il suo intero contenuto, ai soggetti preventivamente individuati dal fruitore del servizio, di modo da agevolare la gestione di tali elementi, al fine dell’attribuzione a eredi, e legatarî, eventualmente in conformità, giova rimarcarlo, con le disposizioni di ultima volontà. L’indicazione, infatti, del destinatario delle password, o, direttamente, dei contenuti digitali da queste difesi, non può affatto intendersi quale designazione del destinatario finale di tali beni, ché tale individuazione deve rimanere saldamente riservata al negozio di ultima volontà, o, in sua assenza, agli artt. 565 ss. cod. civ., serbanti le disposizioni dettate per la successione legittima. D’altronde, non parrebbe giustificabile una deviazione dagli usuali sentieri di Diritto ereditario, soltanto al lume della differente natura, per la quale si contraddistinguono gli oggetti in questione, rispetto al contenuto dell’asse ereditario, come tradizionalmente considerato [35]. Una conclusione differente non risulterebbe affatto sorretta dal dato normativo, il quale, piuttosto, sembra parificare, là dove possibile, la materia digitale, e quella tradizionale, come avvenuto, a modo di esempio, e tenendo sempre ferme le dovute accortezze, e distanze, nella considerazione riservata ai documenti informatici, e agli strumenti di firma digitale, nelle varie forme in cui, specie questi ultimi, si manifestano.
Il profilo che riveste il maggior rilievo, ai presenti fini, è rappresentato dalle concrete modalità, per mezzo delle quali l’intelligenza artificiale evince la scomparsa dell’utente, e determina l’attivazione dell’inactive account manager, o di altro strumento, a questo assimilabile, tutte le volte in cui manchi la comunicazione della scomparsa dell’utente, testimoniata dalla trasmissione della relativa documentazione (si pensi, a modo di esempio, alla consegna del certificato di morte). In questi casi, il service provider è legittimato a desumere la morte dell’utente, in ragione della sua inattività, protrattasi per un determinato periodo di tempo, sulla base di quanto indicato dallo stesso utente, al momento dell’adesione al relativo servizio online [36]. È proprio questo uno dei casi, in cui trovano applicazione i peculiari meccanismi, che si reggono sulla rammentata e complessa combinazione di algoritmi, che muovono l’intelligenza artificiale, vale a dire lo strumento principe, al quale fanno affidamento i gestori di servizî in rete, per controllare la sconfinata moltitudine di dati, a questi consegnati, e per gestire ed elaborare i così detti big data [37], primo sostentamento delle medesime tecnologie.
Ebbene, in simili circostanze, e al fine di attivare lo strumento di gestione degli account inattivi, l’intelligenza artificiale fonda la propria azione sulla combinazione di alcuni indizî, desumibili da presupposti di fatto, di facile identificazione, ma che presuppongono una elaborazione informatica, da parte degli stessi. In particolare, si può fare riferimento alla cronologia dei siti internet consultati, all’ultimo accesso al profilo personale, all’utilizzo delle relative applicazioni su telefono cellulare. È, pertanto, al concomitante verificarsi di tali circostanze, che l’intelligenza artificiale individua il momento in cui fondare la propria attivazione, al fine dello svolgimento di quanto indicato dall’utente, al momento dell’adesione al relativo servizio.
Muovendo da simili presupposti, è possibile soffermarsi sulle strutture giuridiche, utili per giustificare il trattamento dei dati, e la gestione degli averi digitali, da parte della tecnologia informatica impiegata dai service provider, fattispecie che sembrano trovare, agevolmente, la propria applicazione negli strumenti di gestione degli account inattivi, quale, a modo di esempio, il rammentato “Google inactive account manager”. Nell’affidamento delle sorti degli averi digitali, e dei dati personali, sembra, infatti, possibile scorgere i contorni di un contratto di mandato, il quale, in questo caso, si presenta nella peculiare accezione di mandato post mortem exequendum [38]. Il contratto di mandato (artt. 1703 ss. cod. civ.), giova rammentarlo, si estingue, di regola, alla morte del mandante, in virtù di quanto statuito dall’art. 1722, n. 4, cod. civ., e conformemente al principio, di antica derivazione, secondo il quale «mandatum morte finitur». Cionondimeno, secondo l’opinione della più attenta dottrina, al momento, senza dubbio, prevalente, la causa di estinzione, descritta dall’art. 1722, n. 4, cod. civ., non sembrerebbe sorretta da interessi generali, proprî della collettività nel suo complesso, e, di conseguenza, non potrebbe reputarsi espressione di una norma inderogabile [39]. In tal modo, sarebbe possibile giustificare la legittimità di un mandato, nella predetta accezione di mandato post mortem exequendum, purché il relativo contenuto si risolva nel compimento di atti materiali, niente affatto sconfinanti in una indebita attribuzione di diritti ereditarî; circostanza, questa, che deve rimanere riservata al negozio testamentario [40]. Una differente previsione si rivelerebbe, infatti, in sicuro contrasto con il divieto di patti successorî, offerto dall’art. 458 cod. civ., principio, quest’ultimo, tendenzialmente invalicabile, all’interno del nostro ordinamento giuridico [41], e, pertanto, sanzionabile con la nullità del relativo contratto.
Lo stesso Legislatore pare avere, recentemente, accettato codesta conclusione, proprio in relazione a temi assai vicini a quelli relativi alla gestione del patrimonio digitale, introducendo, in virtù del D. Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, l’art. 2-terdecies del D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 («Codice in materia di protezione dei dati personali», anche conosciuto come codice della privacy) [42]. Il primo comma dell’art. 2-terdecies cod. privacy dispone, infatti, che «i diritti di cui agli articoli da 15 a 22 del Regolamento [43] riferiti ai dati personali concernenti persone decedute possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell’interessato, in qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione». Una norma, quella racchiusa nella mentovata disposizione, ben in grado di adattarsi alle vicende giuridiche, che si instaurano con l’ausilio dell’intelligenza artificiale, e che fonda la propria portata sulla pretesa legittimità di un contratto di mandato, nella peculiare accezione di mandatum post mortem exequendum. L’introduzione, pertanto, dell’art. 2-terdecies cod. privacy, pur contraddistinguendosi per una tecnica legislativa modesta, appoggiatasi a strumenti, già diffusi nella prassi, ma dai lineamenti tutt’altro che definiti, si rivela il frutto di una lettura socialmente orientata, e da tempo auspicata, del tema in esame, il quale risulta, tuttora, e per larga parte, retto dalla fonte pattizia, primo ausilio, invero, nel raggiungimento delle necessità dei consociati.
Se, pertanto, è d’uopo concludere per la legittimità dello schema offerto per il contratto di mandato post mortem, nelle strette maglie poc’anzi rammentate [44], quest’ultimo, applicato alla gestione dei dati personali, e degli averi digitali, in combinazione con le possibilità offerte dall’intelligenza artificiale, apre a un quesito, di non secondaria importanza: è possibile affermare che, in tutti questi casi, l’obbligazione gravante sul mandatario venga, invero, attribuita alla stessa intelligenza artificiale, prima ancóra che al gestore del servizio online, o financo, al destinatario delle credenziali di accesso agli account? Certo, da ultimo, l’attività materiale, consistente nella ripartizione delle entità digitali ai successori mortis causa, deve essere compiuta da un determinato soggetto, la persona fisica, nella quale l’utente ripone la propria fiducia [45], ma, prima di questa, è necessaria l’opera della macchina, che agisce autonomamente, a partire da semplici indicazioni pratiche, impartite dallo stesso utente, e, a ben pensare, senza la mediazione del service provider. Il gestore del servizio, nella sostanza, si mostrerebbe alla stregua di semplice garante dell’operazione, o nelle vesti di soggetto in grado di agevolare la fruizione di siffatti strumenti pratici, ma, comunque, non unica parte del vincolo negoziale, che si instaura pel tramite del rammentato contratto di mandato.
Eppure, considerare lo strumento di intelligenza artificiale quale parte attiva, all’interno dello schema contrattuale asservito allo scopo della gestione, e trasmissione, del patrimonio digitale, implicherebbe, quale presupposto logico, il riconoscimento, proprio in capo all’intelligenza artificiale, della soggettività giuridica, conclusione che, al momento, pare doversi escludere, e con fermezza. Peraltro, e di conseguenza, sarebbe oltremodo complicato, se non impossibile, risolvere i problemi relativi agli eventuali profili di responsabilità, specie extracontrattuale, capaci di insorgere nello svolgimento di tali attività. Infatti, anche accettando, in linea teorica, il riconoscimento della soggettività, in capo all’intelligenza artificiale, quest’ultima, giocoforza sprovvista di un proprio patrimonio, non sarebbe in grado di rispondere di eventuali danni cagionati [46]. Tutt’al più, questi potrebbero essere imputati al programmatore del servizio, o, meglio ancóra, al gestore dello stesso, sempre che sia giuridicamente possibile considerare tali soggetti, quali effettivi responsabili del successivo, e autonomo, operato della macchina.
Si badi, il tema è già stato, almeno in parte, considerato, specie a livello comunitario. A tal proposito, infatti, è d’uopo richiamare la «Proposta di risoluzione del Parlamento Europeo recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica» n. 2015/2103, del 31 maggio 2016, approvata in via definitiva il 16 febbraio 2017, nella quale, tra i principî generali riguardanti lo sviluppo della robotica, e dell’intelligenza artificiale per uso civile, occorre richiamare la lettera f) del n. 58, ove è possibile scorgere l’auspicio alla «istituzione di uno status giuridico specifico per i robot nel lungo termine, di modo che almeno i robot autonomi più sofisticati possano essere considerati come persone elettroniche responsabili di risarcire qualsiasi danno da loro causato, nonché eventualmente il riconoscimento della personalità elettronica dei robot che prendono decisioni autonome o che interagiscono in modo indipendente con terzi» [47]. Eppure, nonostante simili iniziative, da ascrivere, al momento, a prospettive meramente de iure condendo, manca, allo stato attuale, una espressa considerazione del problema, quanto meno a livello legislativo. Al contempo, pare difficile negare l’autonomia di azione di cui godono, in fatto, le macchine, nella multiforme realtà odierna, rafforzata dalle abilità, di cui l’uomo è stato capace di dotarle, che ne ha reso evidente l’interazione negli scambî economici, e nei rapporti giuridici.
La scena giuridica attuale, lo si è già notato, è alquanto eterogenea, e, per certi versi, incapace di offrire indicazioni certe all’operatore del diritto, e, in misura per giunta minore, al comune consociato. Peraltro, a quest’ultimo, durante la fase di contrattazione con i fornitori di servizî in rete, spesso, non è riconosciuto alcun potere, se non in sede di successivo, ed eventuale, contenzioso. All’interno di un simile contesto, gli argomenti legati ai temi offerti dal patrimonio digitale, e all’influsso che su di esso esercita l’intelligenza artificiale, specie nel momento della sua gestione, risultano governati, principalmente, dalla volontà delle parti. In codesta materia, le lacune normative sono, tuttora, diffuse, e assai ampie. Il rimedio a simili mancanze, pertanto, e di norma, viene affidato all’elemento negoziale, non di rado lasciato alla più libera contrattazione delle parti [48], più adeguata a far fronte alle esigenze del caso. Una soluzione, quest’ultima, che si dimostra auspicabile, per l’elasticità di cui è dotata, purché la sua applicazione sia improntata al principio di equità, e svincolata dai rapporti di forza, che guidano le parti nelle contrattazioni in rete. Un auspicio, quest’ultimo, desumibile dal fatto che una disciplina di legge, appositamente dedicata a taluni temi, fiorenti attorno alla tecnologia, rischierebbe di divenire, ben presto, obsoleta, esponendosi alla necessità di un inseguimento, senza sosta, del progresso tecnologico.
In un simile àmbito, l’unica possibilità di legislazione, comunque necessaria, quanto meno per la definizione dei confini di azione riservati agli agenti, all’interno di codesti settori, si dovrebbe limitare a una disciplina neutra [49], insuscettibile di variazioni, al cospetto del mutamento della società, e, ancor di più, delle possibilità offerte dalla tecnica, ché, altrimenti, il suo intervento sarebbe utile soltanto per un breve periodo di tempo. Al contempo, questa stessa virtù si mostrerebbe, in qualche modo, carente, considerata la probabile incapacità di pieno adeguamento a ogni situazione, in grado di manifestarsi in fatto, e suscettibile di considerazione giuridica. Eppure, pare questo l’approdo maggiormente auspicabile in codesto àmbito, specie a fronte del groviglio di fonti, su tutto, sovranazionali, che reggono il tema, e che richiamano, a gran voce, fondamenta salde, almeno nel diritto interno degli Stati, a partire dalla comune guida offerta, anche per il nostro ordinamento giuridico, dal Legislatore comunitario.
Una società, in cui i dati personali, e le informazioni relative a ciascun individuo [50] – da intendersi, è d’uopo rammentarlo, anche quali veri e proprî elementi patrimoniali, impiegati alla stregua di merce, per il godimento di numerosi servizî offerti in rete [51] –, divengono il centro gravitazionale degli scambî economici, ecco che l’intelligenza artificiale, la quale, su tutto, si nutre proprio di dati e informazioni digitali, assume un ruolo fondamentale. La gestione di questa ingente quantità di dati coinvolge, direttamente, il vasto pubblico degli utenti della rete, e, probabilmente in prima battuta, grazie all’ausilio offerto dal contratto di mandato, financo, lo si è già rammentato, nella sua peculiare accezione di mandato post mortem exequendum, come ora riconosciuto dall’art. 2-terdecies cod. privacy. A partire da questi presupposti, assume centrale importanza la normativa dedicata al trattamento dei dati, custodita, nella nostra architettura giuridica, nel D. Lgs. n. 196/2003, ora influenzato, su tutto, dal così detto G.D.P.R. (Regolamento UE 27 aprile 2016, n. 679, anche conosciuto come «General Data Protection Regulation»).
È proprio da una lettura del Reg. UE n. 679/2016, che emerge la centralità, in codesto settore, del trattamento dei dati personali [52], e della titolarità di tale trattamento, da parte dell’intelligenza artificiale, e, in secondo luogo, dei service provider, i quali fondano il proprio operato, molto spesso, sul volontario e spontaneo affidamento delle stesse informazioni, in veste digitale, da parte del diretto interessato, ovvero il soggetto, al quale sono riconducibili gli stessi dati. Ebbene, in simili circostanze, ben potremmo domandarci se l’intelligenza artificiale possa, effettivamente, essere considerata il diretto titolare del trattamento dei dati, secondo quanto disposto dall’art. 4, n. 7, Reg. UE n. 679/2016. Codesta disposizione definisce proprio il titolare del trattamento come «la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che, singolarmente o insieme ad altri, determina le finalità e i mezzi del trattamento di dati personali […]».
La risposta a tale quesito non potrebbe prescindere, ancóra una volta, dal riconoscimento, in capo all’intelligenza artificiale, di quella soggettività giuridica, che, tuttavia, senza il sostegno del dato normativo, non può essere ammessa. L’accoglimento di tale soggettività giuridica esigerebbe, infatti, il presupposto di una evidente fictio iuris, paragonabile, almeno nelle linee essenziali, alla soggettività convenzionalmente riconosciuta in capo agli enti di Diritto privato, e necessitante, in egual misura, di un esplicito intervento da parte del Legislatore, quanto meno di quello nazionale [53]. Eppure, manca, al momento, un simile riconoscimento in capo alle tecniche di intelligenza artificiale, nonostante le evidenti attribuzioni (tra le quali, la capacità di self-learning [54]), di cui queste, in fatto, sono ora in grado di fregiarsi. Una conclusione che, di conseguenza, impone di escludere la designazione degli strumenti informatici, quali titolari del trattamento dei dati personali degli utenti, da ricondurre in capo ai service provider, o anche come semplici responsabili dello stesso trattamento [55].
Ecco che, nonostante il fiorire degli strumenti pratici, utili nella gestione del patrimonio digitale, dei dati personali e delle informazioni relative alla persona, e in grado di intrecciarsi con le tecnologie di intelligenza artificiale, queste ultime non possono essere considerate veri e proprî soggetti agenti all’interno di un siffatto ambiente virtuale, capace di agevolare l’insorgere di numerosi rapporti contrattuali, nella vita quotidiana dei consociati. La considerazione riservata all’intelligenza artificiale non può variare, nemmeno al cospetto degli istituti giuridici, e delle possibilità, di recente introduzione nel nostro ordinamento, quali, su tutto, e ancóra una volta, l’art. 2-terdecies cod. privacy. Ciò significa che, anche riconoscendo l’esistenza di rapporti contrattuali, agevolati dall’ausilio delle tecnologie di intelligenza artificiale, queste ultime rimangono estranee, nella prospettiva soggettiva del rapporto, al vincolo negoziale creatosi, mostrandosi, tutt’al più, quale mero espediente, utile ad agevolare l’altrui azione, e, in sostanza, longa manus del soggetto che offre il servizio informatico, e che ne mantiene la gestione. È, pertanto, a quest’ultimo che debbono essere applicate le, pur esigue, disposizioni normative presenti in materia, e allo stesso dovranno ricondursi tutte le conseguenze giuridiche, da ciò dipendenti, nonostante la mediazione offerta dalla tecnologia, per quanto questa, nella realtà vigente, risulti dotata di un’autonomia di azione, e, in parte, autosufficienza decisionale, dai contorni piuttosto ampî.
[1] L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, 1916 (rist. Milano, 2021, IV ed.), 12.
[2] Così, A. Cicu, Gli automi nel diritto privato, in Filangieri, 1901, 561.
[3] A tal riguardo, cfr., in particolare, G. Finocchiaro, Intelligenza artificiale e responsabilità, in Contr. e impresa, 2020, 713 ss.
[4] Il documento in esame, intitolato «AI Watch. Defining Artificial Intelligence. Towards an operational definition and taxonomy of artificial intelligence», è stato pubblicato, nel 2020, sul sito della Commissione Europea, ed è rinvenibile, nella sua versione inglese, all’indirizzo https://publications.jrc.ec.europa.eu/repository/handle/JRC118163.
[5] Tradizionalmente, il «Dartmouth Summer Research Project on Artificial Intelligence», anche conosciuto come Conferenza di Darthmouth, e il documento con il quale questo venne presentato al pubblico, sono considerati gli elementi primi, e fondanti, dei concetti di intelligenza artificiale, quanto meno nella prospettiva della generalità dei consociati.
Si badi, l’intelligenza artificiale moderna affonda, comunque, le proprie radici nel passato, ove è possibile rinvenire, tenendo a mente le dovute distanze, taluni dei suoi antenati. S. Stefanelli, Diritto e Intelligenza artificiale. Alcune riflessioni nell’ambito del paradigma argomentativo, in Inf. e dir., 1999, 8 ss., richiama, a questo proposito, alcuni esempî: la “zajria” araba, una macchina “combinatoria”, risalente al periodo medievale; la “machine à calculer”, ideata da Blaise Pascal. A questi esempî, si deve, inoltre, aggiungere la riflessione di Leibniz, il quale, nel Ratio corporis juris reconcinnandi, prospettava la possibilità di racchiudere l’intero diritto di una nazione «in un sol foglio», che riportasse le norme generali, e principali, le quali, tra loro combinate, avrebbero permesso di risolvere qualsiasi fattispecie, pel tramite di un meccanismo, in fatto, non diverso da quello impiegato dall’intelligenza artificiale moderna.
[6] «L’intelligenza artificiale per l’Europa», pubblicato il 25 aprile 2018.
[7] R. Clarizia, Mercato, persona e intelligenza artificiale: quale futuro?, in Jus civile, 2020, 689, suggerisce, a tal riguardo, e a ragion veduta, prudenza: «l’intelligenza artificiale è giunta ormai ad un tale livello di sofisticazione tecnologica da consentire una completa spersonalizzazione del contratto, fino a far ritenere da taluno possibile il riconoscimento del robot quale autonomo soggetto di diritto. Io sarei cauto nel fare siffatte affermazioni. Infatti, fino a quando il robot non sarà titolare di un patrimonio autonomo e potrà quindi rispondere ai sensi degli artt. 2740, 1218 e 2043 cod. civ., non sarà possibile riconoscergli una autonoma soggettività giuridica.
Qualunque sia il grado di sofisticazione tecnologica che consentirà al robot di elaborare con la propria intelligenza artificiale la dichiarazione di volontà, di contrattare, di perfezionare e di dare esecuzione al contratto, gli effetti si produrranno in capo al soggetto di diritto (persona fisica o ente) titolare di un patrimonio che risponde delle azioni poste in essere dal suo robot».
G.P. Cirillo, I soggetti giuridici digitali, in Contr. e impresa, 2020, 585, interrogandosi circa la possibilità di riconoscere la qualifica di “persona” agli agenti digitali, non esclude l’applicabilità, a questi ultimi, là dove compatibili, delle norme dettate dall’ordinamento per le persone giuridiche, e per gli enti di fatto, quanto meno nell’attesa della definizione di una legislazione maggiormente adatta a codeste, nuove, figure.
[8] V., in tal senso, U. Salanitro, Intelligenza artificiale e responsabilità: la strategia della Commissione Europea, in Riv. dir. civ., 2020, 1246 ss., il quale si sofferma, in modo particolare, sugli orientamenti intrapresi dal Legislatore europeo, a fronte degli ultimi, esigui, interventi normativi in materia.
Cfr., altresì, M. Zanichelli, Ecosistemi, opacità, autonomia: le sfide dell’intelligenza artificiale in alcune proposte recenti della Commissione europea, in Intelligenza artificiale e diritto. Come regolare un mondo nuovo, a cura di A. D’Aloia, Milano 2021, 9 ss.
[9] Basti aggiungere, ai presenti fini, come, alla base dell’ausilio offerto dall’intelligenza artificiale, sia possibile distinguere, per certi versi, una contrapposizione di sistemi informatico-giuridici. Da un lato, è possibile appoggiarsi a un modello “normativistico”, ove la macchina trova conforto nell’insieme di regole, a questa indicate, e che, se considerate nel loro complesso, sono in grado di formare l’intera sagoma del diritto. Da altro lato, è possibile fare affidamento a un modello “decisionistico”, che ricava dall’esperienza, e dai precedenti giurisprudenziali, le soluzioni per il singolo caso concreto (il così detto “case-based reasoning”, di derivazione statunitense).
Al fine di approfondire tali concetti, v., nuovamente, S. Stefanelli, op. cit., 10 ss.
[10] Le maggiori questioni, a tal riguardo, ruotano attorno al profilo della responsabilità, specie quella aquiliana, per i danni causati dalle macchine. Non è questo l’oggetto della presente analisi, ma pare, comunque, opportuno rinviare, quanto meno, a: E. Palmerini, Robotica e diritto: suggestioni, intersezioni, sviluppi a margine di una ricerca europea, in Resp. civ. e prev., 2016, 172 ss.; M. Costanza, L’intelligenza artificiale e gli stilemi della responsabilità civile, in Giur. it., 2019, 1686 ss.; M. Infantino, La responsabilità per danni algoritmici: prospettive europeo continentali, in Resp. civ. e prev., 2019, 1762 ss.; U. Ruffolo, Intelligenza artificiale, machine learning e responsabilità da algoritmo, in Giur. it., 2019, 1689 ss.; G. Finocchiaro, op. cit., 713 ss.; N.F. Frattari, Robotica e responsabilità da algoritmo. Il processo di produzione dell’intelligenza artificiale, in Contr. e impresa, 2020, 458 ss.; M. Gambini, Responsabilità civile e controlli del trattamento algoritmico, in Il trattamento algoritmico dei dati tra etica, diritto ed economia. Atti del 14° Convegno Nazionale, Napoli, 2020, 313 ss.; U. Salanitro, op. cit., 1246 ss.
[11] R. Clarizia, op. cit., 714 ss., presta attenzione proprio al tema del self-learning, attribuzione di cui sono dotati i robot di ultima generazione.
[12] Così, U. Salanitro, op. cit., 1247.
Cfr., altresì, S. Fidotti, Nuove forme contrattuali nell’era del Blockchain e del Machine learning. Profili di responsabilità, in Diritto e intelligenza artificiale, a cura di G. Alpa, Pisa, 2020, 335 ss.
[13] A tal riguardo, si veda, oltre, ai §§ 3 e 4.
[14] A. Cicu, op. cit., 561 ss.
[15] Lo sviluppo di internet, nato alla stregua di progetto, in parte, militare, e, in parte, accademico, ha contribuito alla genesi di un universo intangibile, parallelo alla realtà fenomenica, e fruibile soltanto con l’ausilio di strumenti meccanici, ma, non per questo, degno di minore considerazione.
Le predette finalità militari della rete, in origine perfezionata a opera di alcuni studiosi statunitensi, consistevano, nella creazione di un sistema di difesa e spionaggio, da impiegare per difendersi dalla minaccia sovietica, durante la Guerra fredda. Per quanto riguarda, invece, i profili accademici, giova rammentare il così detto “Intergalactic computer network”, sviluppato presso il Massachusetts Institute of Technology (M.I.T.) di Boston, e impiegato, inizialmente, quale piattaforma digitale per la pubblicazione di opere scientifiche. A proposito di entrambi i temi, v., quanto meno: G. Ziccardi, Informatica giuridica. Manuale breve, Milano, 2008, 43 ss.; G. Pascuzzi, Introduzione, in Il diritto dell’era digitale, a cura di G. Pascuzzi, Bologna, 2016, 25 ss.
[16] M. Orlandi, voce Diritto nel mondo virtuale, in Enc. Treccani XXI Sec., Roma, 2009, 491, propone l’impiego dell’espressione “età telematica”, precisando, a tal proposito, come ci troveremmo, per l’appunto, nell’epoca «delle tecnologie informatiche, capaci di conformare il nostro modo di essere e di costruire mondi interamente digitali, che si raggiungono solo attraverso la macchina elaboratrice e sono attingibili uno tempore ovunque; mondi privi di luogo fisico (atopici), e così suscettibili di compresenza istantanea».
[17] Così, V. Ricciuto, Il contratto ed i nuovi fenomeni patrimoniali: il caso della circolazione dei dati personali, in Riv. dir. civ., 2020, 643 ss.
[18] Secondo S. Rodotà, Persona, riservatezza, identità. Prime note sistematiche sulla protezione dei dati personali, in Riv. crit. dir. priv., 1997, 588 ss., la Dir. 95/46/CE, e la L. 31 dicembre 1996, n. 675 («Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali»), che ne ha determinato il recepimento, all’interno del nostro ordinamento giuridico, «non sono l’effetto di una forzatura del legislatore ma di una sintonia con una evoluzione culturale sempre più marcata, che ha modificato profondamente sia la percezione sociale della privacy sia la sua considerazione giuridica. L’originaria nozione, infatti, è venuta mutando finalità e struttura, accentuando il momento della libera scelta individuale, dilatando le frontiere della privacy fino a comprendere in essa l’insieme delle regole sulla circolazione delle informazioni personali, rafforzando la rilevanza costituzionale di tale diritto».
[19] Per semplicità, con il termine service provider, d’ora innanzi, dovranno intendersi, senza ulteriori distinzioni, tutti i soggetti operanti in rete, luogo virtuale nel quale offrono una moltitudine di servizî, e di beni, al vasto pubblico di utenti, con i quali si relazionano.
Al fine di un maggiore approfondimento di codeste figure, si rinvia a C. Perlingieri, Profili civilistici dei social networks, Napoli, 2014, 39 ss., la quale propone un’attenta tripartizione, per categorie, dei service provider, prendendo spunto dal D. Lgs. 9 aprile 2003, n. 70 («Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico»), dedicato al fenomeno del commercio elettronico. Tale testo normativo, e, in particolare, gli artt. 14, 15 e 16, disciplinanti, invero, taluni profili della responsabilità, ascrivibili ai soggetti operanti in rete, offrono la possibilità di distinguere: attività di mero accesso alla rete, e trasporto di informazioni fornite da terzi (mere conduit); attività di memorizzazione temporanea (caching); attività di memorizzazione di informazioni (hosting).
In tema, v., altresì, L. Nivarra, voce Responsabilità del provider, in Dig. Disc. priv. – Sez. civ., II, Torino, 2003, 1195 ss.
[20] R. Senigaglia, La dimensione patrimoniale del diritto alla protezione dei dati personali, in Contr. e impr., 2020, 774 ss., definisce come “non monetary transactions” tutti «quegli accordi per effetto dei quali i consumatori beneficiano, apparentemente a titolo gratuito, di servizi digitali in cambio di una concessione pressoché illimitata dell’utilizzo dei loro dati personali, non indispensabile per l’esecuzione della fornitura del servizio digitale».
[21] La letteratura dedicata a codesto tema è, ormai, piuttosto ampia: F.G. Viterbo, Protezione dei dati personali e autonomia negoziale, Napoli, 2008; G. Resta, V. Zeno-Zencovich, Volontà e consenso nella fruizione dei servizi in rete, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, 411 ss.; S. Thobani, Diritti della personalità e contratto: dalle fattispecie più tradizionali al trattamento in massa dei dati personali, Milano 2018; A. De Franceschi, Il «pagamento» mediante dati personali, in Protezione e libera circolazione dei dati personali nel diritto europeo. Il Regolamento generale 2016/679 (e le Direttive 2016/680 e 2016/681 sul trattamento dei dati in ambito penalistico), a cura di V. Cuffaro, R. D’Orazio, V. Ricciuto, Torino 2019, 1381 ss.; V. Ricciuto, op. cit., 642 ss.; R. Senigaglia, op. cit., 760 ss.
[22] V., ancóra, V. Ricciuto, op. cit., 659, il quale afferma che «il dato personale è un “bene”, riconducibile alla previsione dell’art. 810 cod. civ., e come tale – a prescindere dal fatto che non lo si voglia chiamare “bene” o “corrispettivo” per salvare l’apparenza di un’idea esclusiva di tutela della personalità morale – è oggetto di operazioni di scambio».
[23] Sia concesso rinviare, ampiamente, a F. Mastroberardino, Il patrimonio digitale, Napoli, 2019, passim, ma, in particolare, 119 ss.
Cfr., altresì: V. Barba, Contenuto del testamento e atti di ultima volontà, Napoli, 2018, 282 ss.; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2020, X ed., 18 ss.
[24] La categoria dei beni familiari, invero, e all’apparenza, non accolta dalla struttura del Diritto privato vigente, comprende tutti quegli averi – scritti, fotografie, registrazioni audio, o video –, capaci di fondere la propria essenza con la sfera degli affetti, e dal valore economico, talvolta, esiguo, ma che, di regola, non può, comunque, essere trascurato. In tema, v.: M.D. Bembo, Carte, documenti, ritratti, ricordi di famiglia, in Tratt. dir. delle successioni e donazioni, dir. da G. Bonilini, vol. I, La successione ereditaria, Milano, 2009, 779 ss.; R. Tuccillo, Le disposizioni aventi ad oggetto carte, documenti, ritratti, ricordi di famiglia, in Temi notarili, dir. da G. Bonilini, vol. I, Le disposizioni testamentarie, Torino, 2012, 219 ss.
[25] S. Pugliatti, voce Beni (teoria generale), in Enc. dir., V, Milano, s. d., ma 1959, 175 ss., distingue, con estrema chiarezza, il bene giuridico “in senso lato”, dai beni, che debbono essere letti attraverso le lenti del patrimonio, di cui costituiscono il fondamento: «si è considerato il concetto di bene in relazione al concetto di oggetto, in duplice accezione e correlativa estensione: come oggetto della tutela giuridica in senso obbiettivo (bene giuridico in senso lato), o come oggetto della tutela giuridica posta a disposizione di un soggetto singolarmente individuabile (bene giuridico in senso stretto). Naturalmente – si è già visto – codeste nozioni hanno una base reale, sia sotto il profilo economico, sia con riferimento al sistema di diritto positivo. Ma la più diretta valorizzazione di tale fondamento, nel suo duplice aspetto, conduce a delineare una più ristretta nozione di “bene”, che si riflette persino nel linguaggio e nel suo uso tradizionale, ed ha attinenza a quella complessa e importante massa di fenomeni e di rapporti che gravita e si intreccia attorno al concetto economico e giuridico del patrimonio e della potenzialità patrimoniale, con riflessi in lato senso sociali».
V., inoltre: M. Costantino, I beni in generale. Beni immobili e beni mobili, in Tratt. dir. priv., dir. da P. Rescigno, vol. VII, Proprietà, Torino, 2005, II ed., 64 ss.; O.T. Scozzafava, Dei beni. Artt. 810-821, in Cod. Civ. Comm., fond. da P. Schlesinger e dir. da F.D. Busnelli, Milano, 2006, 39 ss.
[26] Tra le categorie poc’anzi rammentate, una presenta, forse in maniera meno chiara delle altre, gli stessi connotati economici, ai quali si faceva menzione. Si tratta, in particolare, della corrispondenza epistolare, intrattenuta mediante posta elettronica. Eppure, il profilo patrimoniale non è da escludere nemmeno per codesta categoria, giacché è ben possibile fare riferimento alla corrispondenza e-mail intrattenuta da un imprenditore, per lo svolgimento della sua attività. Del pari, non si può escludere la successiva dignità di stampa, e pubblicazione, di determinati scambî, anch’essi intervenuti pel tramite di e-mail, mezzo assurto, nella società attuale, a strumento principe, per le comunicazioni in forma scritta.
[27] In tema, v.: M. Martino, Le «nuove proprietà», in Tratt. dir. delle successioni e donazioni, dir. da G. Bonilini, vol. I, La successione ereditaria, Milano, 2009, 355 ss.; D. Corapi, Successione. La trasmissione ereditaria delle c.d. “nuove proprietà”, in Fam. pers. succ., 2011, 379 ss.; M. Cinque, La successione nel “patrimonio digitale”: prime considerazioni, in Nuova giur. civ. comm., 2012, 661 ss.; G. Resta, La “morte” digitale, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2014, 891 ss.; S. Deplano, La successione a causa di morte nel patrimonio digitale, in Internet e diritto civile, a cura di C. Perlingieri, L. Ruggeri, Napoli, 2015, 427 ss.; U. Bechini, Disposizione di beni digitali, in Tradizione e modernità del diritto ereditario nella prassi notarile, Milano, 2016, 241 ss.; V. Barba, op. cit., 282 ss.; C. Camardi, L’eredità digitale tra reale e virtuale, in Dir. inf., 2018,. 65 ss.; G. Resta, La successione nei rapporti digitali e la tutela postmortale dei dati personali, in Contr. e impresa, 2019, 85 ss.; S. Stefanelli, Destinazione post mortem dei diritti sui propri dati personali, in Media laws, 2019, 136 ss.; S. Delle Monache, Successione mortis causa e patrimonio digitale, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 460 ss.; I. Maspes, Successione digitale, trasmissione dell’account e condizioni generali di contratto predisposte dagli internet services providers, in Contratti, 2020, 583 ss.
Con riguardo, invece, alle opere monografiche, cfr.: F. Cristiani, Nuove tecnologie e testamento: presente e futuro, Torino, 2012; C. Perlingieri, Profili civilistici dei social networks, cit.; F. Mastroberardino, Il patrimonio digitale, cit.; A. d’Arminio Monforte, La successione nel patrimonio digitale, Pisa, 2020; A. Vesto, Successione digitale e circolazione dei beni online. Note in tema di eredità digitale, Napoli, 2020.
[28] Si badi, i regolamenti contrattuali, sovente sottoposti all’attenzione degli utenti, sono il frutto di una predisposizione unilaterale, a opera dei service provider. Al fine della sua approvazione, non è concessa, infatti, alcuna possibilità di negoziazione, al punto che, al fine di una valida accettazione, il più delle volte, risulta sufficiente la semplice selezione di un’icona, da parte del futuro fruitore, tramite il mouse del computer. Un’operazione, peraltro, meramente manuale, che viene assimilata all’esplicita manifestazione del consenso, e che, nelle operazioni commerciali più diffuse in rete, naturalmente, non è soggetta ad alcun vincolo di forma.
A tal riguardo, è evidente la differenza di forza contrattuale, di cui dispongono le parti coinvolte in simili eventualità. Di regola, è, infatti, agevole distinguere due soggetti, capaci di un’influenza manifestamente impari: l’utente, nelle vesti di soggetto debole del rapporto, o consumatore finale del bene, e il fornitore del servizio desiderato, quale soggetto forte. Una disparità che si ripercuote, direttamente, sul regolamento contrattuale, sottoposto al vaglio dei privati utilizzatori, e che staglia, su di esso, consistenti ombre, specie se si considerano i casi in cui l’accordo intende disciplinare, tra gli altri, il trattamento dei dati personali dell’utente.
[29] Per un approfondimento, si rinvia a F. Mastroberardino, Il patrimonio digitale, cit., 88 ss.
[30] A tal proposito, v., supra, § 2.
[31] Si badi, l’attività in esame rimane di mero ausilio pratico, e, per così dire, di contorno, rispetto all’effettiva devoluzione ereditaria. Quest’ultima, infatti, deve rimanere ancorata all’eventuale volontà testamentaria, oppure, in sua mancanza, alla disciplina dettata per la successione legittima. A tal proposito, v., infra, in questo paragrafo.
[32] Il primo, tragico, evento, contraddistintosi per i risvolti giuridici, che ne sono derivati, e significativi per i temi riconducibili al patrimonio digitale, risale alla scomparsa di un militare americano, deceduto in Iraq, nel 2005, nel corso della seconda guerra del Golfo. La famiglia del soldato, desiderosa di approfondire gli ultimi giorni di vita del giovane, ma non disponendo delle credenziali di accesso ai suoi account informatici, chiedeva, a Yahoo!, il provider di posta elettronica utilizzata dal giovane defunto, l’accesso alla sua casella e-mail. A fronte del diniego opposto da Yahoo!, forte delle condizioni contrattuali accettate dall’utente, alla sottoscrizione dell’accordo tese all’utilizzo del servizio di posta elettronica, la famiglia dell’utente scomparso si rivolgeva alla Probate Court competente, nel tentativo di vedere accolte le proprie richieste. A conclusione di un lungo iter giudiziale, la Corte, con una decisione di compromesso, per un verso, negava ai familiari l’accesso alla casella di posta elettronica del defunto, e, per altro verso, ordinava al service provider di rendere disponibile agli stessi la corrispondenza giacente, eludendo, di fatto, il divieto imposto dai termini di contratto.
V., in tal senso, G. Resta, La “morte” digitale, cit., 897 ss.
Al fine di approfondire altri casi, utili per l’indagine in esame, cfr.: R. Mattera, La successione nell’account digitale. Il caso tedesco, nota a BGH, 12 luglio 2018, n. 183/17, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 691 ss.; M. Cinque, L’“eredità digitale” alla prova delle riforme, in Riv. dir. civ., 2020, 85 ss.; S. Delle Monache, op. cit., 461 ss.; F. Mastroberardino, L’accesso agli account informatici degli utenti defunti: una prima, parziale, tutela, nota a ord. Trib. di Milano, Sez. I, 10 febbraio 2021, n.95062, in Fam. e dir., 2021, 622 ss.
[33] Strumenti simili sono, ormai, offerti anche da parte di altri soggetti, e, specialmente, dai gestori di social network, tra i quali, a modo di esempio, Facebook.
[34] La facoltà di scelta è duplice: procedere con la cancellazione di tutti i dati, oppure indicare una, o più persone fidate, alle quali inoltrare le credenziali (username e password), per l’accesso ai relativi account informatici.
[35] Invero, una ipotesi peculiare è quella legata ai così detti beni familiari, già rammentati, supra, alla nt. 24. Beni, questi ultimi, dotati, di regola, di un esiguo valore patrimoniale, ma che presentano un peculiare pregio, consistente nella capacità di intrecciarsi con la sfera più intima dell’individuo: quella degli affetti. È proprio in ragione di codesta caratteristica che, per la trasmissione mortis causa dei beni familiari, non sembrerebbe irragionevole concludere nel senso della loro attribuzione ai parenti più stretti, indipendentemente dalla loro eventuale qualifica di eredi, o legatarî, in forza di una vocazione, che si dovrebbe qualificare come legittima anomala. Si badi, una simile conclusione non può essere, comunque, esente da critiche, dal momento che le successioni legittime anomale richiedono, per il loro verificarsi, un espresso riconoscimento, da parte della legge; circostanza che, al momento, manca, con riguardo ai beni familiari.
In tema di successioni legittime anomale, si veda, limpidamente, G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 248, secondo il quale, per successioni (o vocazioni) legittime anomale, debbono intendersi «le successioni in beni determinati, o in complessi di beni, regolate dalla legge attraverso norme speciali, deroganti al principio di unità della successione. […] La deroga al principio di unità della successione è variamente attuata. Essa, invero, può consistere o nell’alterazione degli ordini successorî, attraverso la selezione, dei successibili, basata sulle qualità personali, qual è quella del convivente, oppure qualità professionali, o nel riconoscimento di diritti successorî a soggetti diversi dai successibili indicati dall’art. 565».
Cfr., inoltre: L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, in Tratt. dir. civ. e comm., già dir. da A. Cicu, F. Messineo, continuato da L. Mengoni, Milano, 1999, VI ed., 241 ss.; C. Cattaneo, Le vocazioni anomale, in Tratt. dir. priv., dir. da P. Rescigno, vol. 5, Successioni, t. I, Torino, s. d., ma 1997, II ed., 511 ss.; G. Capozzi, op. cit., t. I, 640 ss.
[36] Per approfondire lo strumento pratico in esame, v. F. Mastroberardino, Il patrimonio digitale, cit., 28 ss.
[37] In tale contesto, la riflessione di M. Franzoni, Lesione dei diritti della persona, tutela della privacy e intelligenza artificiale, in Jus civile, 2021, 11, offre spunti di particolare interesse, là dove precisa che «l’impiego dell’intelligenza artificiale pone ulteriori questioni che inevitabilmente impattano, sia con il trattamento dei dati personali, sia con la tutela dei diritti della persona. Alludo al fatto che il vantaggio che concretamente possiamo ottenere dal lavoro degli algoritmi dipende dalla massa di dati che il sistema può processare, così impadronendosene. L’algoritmo è ormai capace di apprendere in autonomia e di restituire un risultato funzionale ad un certo obbiettivo, ma l’attendibilità del risultato dipende dal modo in cui è stato posto in grado di reperire e selezionare i risultati dei dati raccolti, ma soprattutto dalla quantità di dati sui quali può lavorare: maggiore è la quantità di dati processabili, più attendibile è il risultato conseguibile in output. […] Per poter funzionare al meglio un algoritmo di machine learning deve poter avere accesso al maggior numero possibile di dati, di qualsiasi fonte, formato e caratteristiche tecniche».
[38] È di opinione contraria V. Barba, Interessi post mortem tra testamento e altri atti di ultima volontà, in Riv. dir. civ., 2017, 343, secondo il quale l’indicazione, nei social network, del così detto “contatto erede” (espressione ormai ricorrente nella prassi, ma che si rivela, senza dubbio, giuridicamente imprecisa) configurerebbe, non tanto un mandato, con l’individuazione del soggetto incaricato di svolgere una peculiare attività, quanto, piuttosto, un vero e proprio atto di ultima volontà. Epperò, tale conclusione non pare condivisibile in ogni circostanza. Mediante un simile strumento, l’utente non giunge, necessariamente, a quella sistemazione di interessi, per il tempo successivo alla propria morte, tipica degli atti mortis causa. Il titolare dell’account potrebbe, infatti, avere inteso individuare un soggetto (lo stesso “contatto erede”), al solo fine di agevolare l’esecuzione del proprio testamento, unico strumento in grado di farsi carico dell’attribuzione ereditaria dei relativi contenuti.
[39] È la stessa littera legis ad avere stabilito, espressamente, alcune eccezioni al principio «mandatum morte finitur». Nel secondo periodo dell’art. 1722, n. 4, cod. civ., è stabilito che il mandato, relativo all’esercizio di un’attività di impresa, non si estingue alla morte di una delle parti, a patto che la medesima attività venga continuata dagli eredi. Con ciò, il Codificatore del 1942 ha insinuato una particolare eccezione alla finitezza del mandato, coerente con quel diffuso intento, desumibile dall’intera architettura civilistica vigente, che si sostanzia nella salvaguardia delle ragioni dell’economia, talvolta tenute in maggiore considerazione, rispetto alla tutela degli interessi dei singoli. Ancóra, l’art. 1723, cpv., cod. civ., nega l’estinzione del contratto di mandato, nel caso in cui il relativo incarico sia stato conferito nell’interesse del mandatario, oppure di terzi. In virtù di tali presupposti, e tenendo saldo a mente il fondamentale principio di autonomia contrattuale, scolpito nell’art. 1322 cod. civ., pare ragionevole ammettere la figura del mandato post mortem exequendum, purché, come oltre precisato, circoscritto al compimento di meri atti materiali, o, per meglio dire, privi di valenza patrimoniale.
Per l’approfondimento di codesta figura, v.: L. Coviello, Mandatum post mortem, in Riv. dir. civ., 1930, 30 ss.; G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Milano, 1954 (rist. Napoli, 2010), 124 ss.; L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte, vol. I, Parte generale, t. III, L’eredità. Il legato. Acquisto. Perdita, Napoli, s. d., ma 1955, 61 ss.; U. Carnevali, Negozio fiduciario e mandato post mortem, in Giur. comm., 1975, II, 694 ss.; G. Bonilini, Una valida ipotesi di mandato post mortem, in Contratti, 2000, 1101 ss.; F.A. Moncalvo, I negozî «connessi alla morte». Il mandato post mortem, in Tratt. dir. delle successioni e donazioni, dir. da G. Bonilini, vol. I, La successione ereditaria, Milano, 2009, 225 ss.; N. Di Staso, Il mandato post mortem exequendum, in Fam., pers. e succ., 2011, 685 ss.
[40] E così, la rivelazione, a taluni soggetti, delle credenziali di accesso agli account del defunto sembra ricadere proprio entro i confini di siffatte attività materiali, richieste al fine di configurare un mandato post mortem, dal momento che l’oggetto immediato dell’attribuzione consiste nella sola combinazione di nome utente e password, di per sé sprovvista di valore economico. L’oggetto mediato, invece, di tale operazione, ovvero la consegna del contenuto dell’account difeso da tali credenziali, deve seguire sorti differenti, estranee al contenuto del mandato, il quale è in grado, in tal modo, di conservare la propria liceità.
[41] La materia è stata, di recente, oggetto di evoluzione, in virtù dell’intervento del Legislatore europeo. A tal riguardo, occorre osservare il Regolamento UE 4 luglio 2012, n. 650, con il quale è stata sostituita la previgente disciplina di Diritto internazionale privato, in tema di successione ereditaria, precedentemente racchiusa negli articoli che vanno dal 46 al 50, della L. 31 maggio 1995, n. 218 («Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato»). In particolare, l’art. 25, Reg. UE n. 650/2012, si è contraddistinto per aver riconosciuto cittadinanza, entro i confini dell’Unione Europea, alla figura del patto successorio, anche se, occorre rammentarlo, con alcuni, peculiari, accorgimenti. Il divieto dei patti successorî, presente in alcuni ordinamenti giuridici, quali il nostro, è stato reputato, da parte del Legislatore europeo, non conforme ad alcuni principî fondamentali, questi ultimi comuni alla generalità degli Stati membri, concludendo per l’ammissibilità della figura del patto successorio, al ricorrere di talune, particolari, circostanze.
Al fine di approfondire il Reg. UE n. 650/2012, v.: T. Ballarino, Il nuovo regolamento europeo sulle successioni, in Riv. dir. int., 2013, 4, 1116 ss.; D. Damascelli, Diritto internazionale privato delle successioni a causa di morte, Milano, 2013, 33 ss.; V. Barba, I nuovi confini del diritto delle successioni, in Dir. succ. e fam., 2015, 333 ss.; R. Battiloro, Le successioni transfrontaliere ai sensi del Reg. UE n. 650/2012 tra residenza abituale e certificato successorio europeo, in Dir. fam. pers., 2015, 658 ss.
[42] Lo spunto per l’introduzione dell’art. 2-terdecies cod. privacy, che ha, per larga parte, superato l’originario disposto dell’abrogato art. 9, terzo comma, del medesimo testo di legge, è stato offerto dal Considerando 27 del Regolamento UE 27 aprile 2016, n. 679, in cui si afferma che «gli stati membri possono prevedere norme riguardanti il trattamento dei dati personali delle persone decedute».
Peraltro, è recente il primo precedente giurisprudenziale, soffermatosi sull’art. 2-terdecies cod. privacy. A tal proposito, v. ord. Trib. di Milano, Sez. I, 10 febbraio 2021, n.95062, con nota di F. Mastroberardino, L’accesso agli account informatici degli utenti defunti: una prima, parziale, tutela, cit., 622 ss.
[43] La disposizione rinvia, in tal modo, al «Regolamento UE 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)». Ebbene, le disposizioni richiamate dall’art. 2-terdecies cod. privacy descrivono i diritti: di accesso dell’interessato ai proprî dati personali (art. 15), di rettifica dei dati inesatti (art. 16), di cancellazione dei dati (art. 17), a ottenere limitazioni di trattamento (art. 18), di notifica (art. 19), di portabilità dei dati (art. 20), di opposizione (art. 21), e, infine, di non essere sottoposto a processi decisionali automatizzati (art. 22).
[44] Il cómpito del mandatario, giova rimarcarlo, deve essere circoscritto al compimento di semplici atti materiali, senza sconfinare, in alcun modo, in un’effettiva attribuzione patrimoniale mortis causa.
[45] Il soggetto che, in alcuni casi, è indicato come “contatto erede”, vale a dire colui, al quale sono destinate le credenziali di accesso agli account, o, in alternativa, e direttamente, il loro intero contenuto. A tal proposito, cfr. di nuovo, V. Barba, Interessi post mortem tra testamento e altri atti di ultima volontà, cit., 343.
[46] V., di nuovo, R. Clarizia, op. cit., 689.
[47] In tema, cfr. G. P. Cirillo, op. cit., 574.
[48] Una libertà, invero, manovrata dai rapporti di forza, che bilanciano il ruolo degli attori in giuoco. L’autonomia dei singoli utenti è, infatti, spesso, prevaricata dalla forza contrattuale, di cui godono i service provider, capaci di offrire al pubblico, sostanzialmente senza possibilità di contrattazione, regolamenti predisposti, e, a questi ultimi, di regola, più sfavorevoli.
[49] G. Finocchiaro, Intelligenza artificiale e protezione dei dati personali, in Giur. it., 2019, 1670 ss., ricorda che: «nel dibattito internazionale è ormai un principio consolidato quello della neutralità tecnologica, in virtù del quale la norma giuridica deve essere tecnologicamente neutra e dunque non riferirsi ad una particolare tecnologia, affermata in un particolare momento storico. I vantaggi della neutralità tecnologica sono evidenti: il diritto non condiziona il mercato, favorendo questa o quella tecnologia; non condiziona lo sviluppo della tecnica e non deve rincorrerla. L’approccio del diritto, nella neutralità tecnologica, è “funzionale”. Non si concentra sul “cosa”, ma sul “come”».
[50] I concetti di dato personale, e informazione, non coincidono, nonostante le due categorie presentino alcuni punti di contatto. È, di nuovo, utile richiamare quanto affermato da G. Finocchiaro, Intelligenza artificiale e protezione dei dati personali, cit., 1673, secondo la quale: «il dato è la fonte dell’informazione, nel quale questa è contenuta e dal singolo dato o dall’insieme di dati l’informazione può essere estratta o inferita. Ma l’informazione, a rigore, non coincide con il dato stesso. L’informazione è elaborazione del dato».
[51] V., nuovamente, R. Senigaglia, op. cit., 760 ss.
[52] Ai sensi dell’art. 4, n. 2, Reg. UE n. 679/2016, per trattamento deve intendersi «qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione».
[53] Si veda G. P. Cirillo, op. cit., 585, il quale, al fine di colmare l’insostenibile lacuna, che contraddistingue codesto tema, suggerisce proprio l’applicazione, anche all’intelligenza artificiale, della disciplina dettata per le persone giuridiche, nonostante l’assenza di un esplicito riconoscimento normativo di tale attribuzione.
[54] V., supra, § 1.
[55] Anche in questo caso, è l’art. 4, Reg. UE n. 679/2016, e, in particolare, il n. 8, a fornire una definizione di responsabile del trattamento, individuabile in quella «persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che tratta dati personali per conto del titolare del trattamento».