La sentenza CGUE 7.7.2022, C-264/21, traccia il perimetro della figura del c.d. produttore apparente, di cui all’art. 3, comma 1, ult. parte, Dir. n. 85/374/CEE. Secondo l'avviso della Corte, ai sensi della predetta disposizione si presenterebbe come produttore, e sarebbe assoggettato al medesimo regime di responsabilità del produttore effettivo, il soggetto che fosse (meramente) titolare di un segno distintivo apposto sul prodotto. Nel contributo, l'autore opera una disamina critica della decisione, prospettando una legittimazione passiva alla domanda risarcitoria del danneggiato confinata al soggetto il quale, propriamente, appaia come produttore sulla base dell'apposizione di un segno distintivo sul prodotto e di circostanze concomitanti.
In its judgment of July 7th, 2022, in Case C-264/21, the ECJ deals with the apparent producer’s liability for damage caused by a defective product (Art. 3, par. 1, Directive 85/374/EEC), ruling that the mere fact that a person puts his name, trade mark or other distinguishing feature on the product is sufficient to consider him as its producer. The author criticizes the ECJ's interpretation of Art. 3, par. 1, Directive 85/374/EEC, proposing to consider the apparent producer as the person who objectively gives the impression of being the actual manufacturer of the product.
L'articolo 3, comma 1, della Direttiva 85/374/CEE deve essere interpretato nel senso che la nozione di «produttore», di cui a tale disposizione, non richiede che la persona che ha apposto il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto, o che ha autorizzato tale apposizione, si presenti anche come il produttore dello stesso in qualsiasi altro modo.
Corte di Giustizia UE, Sez. X, Sentenza 7 luglio 2022, C-264/21
1. Il caso - 2. Pars destruens: il c.d. produttore apparente (art. 3, comma 1, ult. parte, Dir. n. 85/374/CEE) come soggetto che (meramente) appone il proprio segno distintivo su un prodotto. Critica della impostazione adottata da CGUE 7.7.2022, C-264/21 - 3. Pars construens: tre considerazioni preliminari sul concetto di apparenza giuridica - 4. Segue. Sviluppo di una tesi alternativa: l’apparenza c.d. produttiva come ipotesi di apparenza giuridica in senso proprio - 5. La (ir)rilevanza, in seno alla fattispecie effettuale, della buona fede (in senso soggettivo) del danneggiato, ed il (possibile) ruolo della mala fede. L’applicabilità, in via analogica, della disciplina relativa alla responsabilità del fornitore (art. 3, comma 3, Dir. n. 85/374/CEE) - NOTE
In Finlandia, un consumatore acquista una macchina da caffè, sulla quale sono apposti due marchi: il primo, riconducibile ad una società operante nel settore (generico) della produzione di dispositivi elettronici (P.); il secondo, riconducibile ad una società operante nel settore (specifico) della produzione di macchine da caffè (S.).
Il giorno successivo, un difetto della macchina da caffè innesca un incendio presso la casa di abitazione del consumatore. Il pregiudizio patrimoniale subito da quest’ultimo, a causa dell’incendio, viene indennizzato dall’assicuratore L.F., in esecuzione di una polizza assicurativa perfezionata tempo addietro. L.F., surrogandosi nei diritti attribuiti al danneggiato dalla Dir. n. 85/374/CEE (rectius, dalla corrispondente normativa interna di attuazione, emanata nel 1990) in confronto del produttore del prodotto difettoso, agisce (soltanto) contro la società P., la quale eccepisce di non essere produttrice della macchina da caffè.
In effetti, la macchina da caffè – per vero, recante, in aggiunta ai marchi di P. e S., indicazioni ulteriori: segnatamente, un indirizzo in Italia, e la locuzione «made in Romania» – risulta prodotta, presso uno stabilimento romeno, da S., società controllata da P., con sede legale in Italia; e commercializzata, in Finlandia, da una terza società, ancora controllata da P., avente sede legale (proprio) in Finlandia.
All’esito di due gradi di giudizio che registrano la prevalenza delle ragioni, rispettivamente, di L.F. e di P., la controversia giunge, alfine, alla cognizione della Corte Suprema finlandese, la quale rileva l’esserci di una dirimente questione interpretativa: quale sia la esatta portata – in precipua funzione, deve reputarsi, dell’intendimento della omologa disposizione interna – dell’art. 3, comma 1, ult. parte, Dir. n. 85/374/CEE, sotto due profili complementari. Da un lato, se siano richiesti criteri «supplementari», rispetto alla (mera) apposizione di un segno distintivo sul prodotto, per aversi responsabilità di quanti non è produttore effettivo (c.d. produttore apparente); dall’altro, se possano considerarsi rilevanti alcuni «elementi di esclusione della responsabilità», come la circostanza che sul prodotto siano apposte diciture le quali appalesino l’alterità del fabbricante rispetto alla società titolare del segno. Inoltre, la C.S. osserva come il produttore effettivo sia nella «migliore posizione» per evitare il verificarsi di eventi dannosi, analoghi a quello occorso nella specie. Sospende, quindi, il procedimento, e, nell’ambito di un rinvio pregiudiziale, sottopone alla CGUE due questioni collegate: «1) Se la definizione di produttore, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 85/374, richieda che la persona che ha apposto il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto, o che ha autorizzato tale apposizione, si presenti anche come produttore del prodotto in qualsiasi altro modo. 2) In caso di risposta affermativa alla prima questione: in base a quali criteri si debba valutare se il titolare del marchio si presenti come fabbricante del prodotto. Se sia rilevante ai fini di tale valutazione il fatto che il prodotto è stato fabbricato da una società figlia del titolare del marchio e commercializzato da un’altra società figlia».
La CGUE, nella sentenza del 7.7.2022, C-264/21, risponde soltanto alla prima questione [1], rassegnando il seguente giudizio (§ 38): «l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 85/374 deve essere interpretato nel senso che la nozione di “produttore”, di cui a tale disposizione, non richiede che la persona che ha apposto il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto, o che ha autorizzato tale apposizione, si presenti anche come il produttore dello stesso in qualsiasi altro modo».
L’itinerario argomentativo percorso dai giudici europei per addivenire a tale decisione si snoda in considerazioni di carattere letterale, teleologico-assiologico e sistematico, che è opportuno riportare in modo analitico.
Quanto all’argomento letterale, esso ricava dal (preteso) «tenore chiaro e inequivocabile» dell’art. 3 Dir. n. 85/374/CEE la sufficienza dell’apposizione del segno distintivo sul prodotto per la configurazione della responsabilità del titolare: non stabilendo la predetta disposizione, giusta tale prospettiva, «alcun criterio supplementare» al fine della costituzione della obbligazione risarcitoria.
Gli argomenti teleologico-assiologico («scopo») e sistematico («contesto») sono spesi, invece, in modo promiscuo, e possono riassumersi nelle seguenti asserzioni.
In primo luogo, l’art. 5 Dir. n. 85/374/CEE (i.e. la regola della solidarietà passiva di tutti gli eventuali responsabili, sulla base della disciplina veicolata dalla Direttiva, in confronto del danneggiato-creditore), in uno con i precedenti cons. nn. 4 s., renderebbe evidente «che il legislatore dell’Unione ha inteso adottare un’accezione ampia della nozione di “produttore” al fine di tutelare il consumatore»; l’osservazione abbozzata dal giudice del rinvio, in ordine alla convenienza della responsabilità del produttore effettivo dalla specola della prevenzione, riuscirebbe, per ciò stesso, «non pertinente», giacché «più persone possono essere considerate produttori e (…) il consumatore può presentare la propria domanda contro una qualsiasi di esse».
In secondo luogo, la lettura della «relazione introduttiva all’art. 2 della proposta di direttiva della Commissione del 9 settembre 1976, all’origine della direttiva 85/374», assevererebbe che «il legislatore dell’Unione ha ritenuto che la tutela del consumatore non sarebbe sufficiente se il distributore potesse “rinviare” il consumatore al produttore, il quale può non essere conosciuto dal consumatore».
In terzo luogo, con l’apposizione del proprio segno distintivo su un prodotto la persona titolare darebbe «l’impressione di essere implicata nel processo di produzione o di assumerne la responsabilità»; a ciò si abbinerebbe, del resto, lo sfruttamento, da parte del soggetto cui il segno si riferisce, della propria «notorietà al fine di rendere tale prodotto più attraente agli occhi dei consumatori»: di talché, la responsabilità di costui per il danno cagionato dal prodotto si atteggerebbe, in questo prisma, a ragionevole contropartita del profitto conseguito in grazia dell’apposizione del segno.
L’interpretazione dell’art. 3, comma 1, ult. parte, Dir. n. 85/374/CEE, operata dalla CGUE nella sentenza in commento, non appare punto condivisibile, esponendosi a plurimi motivi di censura.
Cominciando dall’argomento letterale, di là della obiezione (metodologica) che la chiarezza di un enunciato normativo rappresenta il momento finale di un procedimento il quale, se muove dalla lettera, giammai può arrestarsi alla sua contemplazione [2], (nel merito) il testo dell’art. 3 Dir. n. 85/374/CEE neppure si accontenta, ai fini della imputazione della responsabilità, della (mera) apposizione di un segno distintivo sul prodotto, sibbene delinea un soggetto, cui il segno si riferisce, che, altresì, «si presenta come produttore». Asserire che l’apposizione di un segno sul prodotto sia bastevole per aversi responsabilità del titolare, allora, significa, già su un piano formale, obliterare il frammento finale della disposizione, di essa offrendo, in tal guisa, una inaccettabile – essendo una ermeneusi siffatta prospettabile, a tutto concedere, appena come extrema ratio [3] – lettura (parzialmente) abrogante (i.e. la medesima norma avrebbe potuto essere ricavata da un disposto nel quale non figurasse il frammento finale; tuttavia, se il legislatore comunitario tale frammento ha inserito, è necessario provare ad assegnarvi un significato, invece di assumere che un significato non abbia affatto). Su un piano dogmatico, inoltre, la soluzione adottata della CGUE, facendo assurgere l’apposizione del segno su un prodotto sic et simpliciter a fatto costitutivo – positivamente predeterminato, si badi, ed esclusivo – della legittimazione passiva del titolare alla domanda risarcitoria del danneggiato, finisce per riportare la previsione dell’art. 3, comma 1, ult. parte, Dir. n. 85/374/CEE nell’area del formalismo giuridico. Ma il formalismo, inteso con rigore, è un dispositivo di tutela dell’affidamento (in astratto-obiettivo) che si asside, naturaliter, su fatti di significazione per simboli (i.e. su fatti di linguaggio): i quali, come fonti di conoscibilità diretta di fatti significati, ne evocano per rappresentazione, (appunto) direttamente, la struttura ideale [4]. Ciò non sembra attagliarsi alla (mera) apposizione di un segno distintivo su un prodotto, dacché essa: per un verso, non appare in grado, di per sé, di simboleggiare alcunché, non appena si consideri che il segno può essere apposto sul prodotto al fine di designarne il produttore (è il caso, esemplare, del marchio c.d. di fabbrica), ovvero soltanto un distributore (è il caso, esemplare, del marchio c.d. di commercio), ovvero ancora in esecuzione di un contratto di merchandising o di sponsorizzazione, per finalità benefiche, e via elencando; per altro verso, può, semmai, lasciare inferire, in quanto abbinata a circostanze concomitanti, il fatto che il soggetto, cui il segno si riferisce, sia anche il produttore della cosa sulla quale il segno è apposto. Se così è, si tratta, quindi, di un fatto (se si preferisce, una circostanza di fatto) capace di apprestare una conoscenza indiretta della qualità di produttore, integrando il polo significante di un rapporto di significazione per segnali [5]: un fatto, insomma, che risulterebbe più appropriato ricondurre – pure nel prisma della interpretazione del diritto positivo: potendosi valorizzare qui, della dogmatica, la sua funzione orientativa dell’intelletto interpretante [6] – alla sfera (degli elementi costitutivi) di un’apparenza in senso proprio [7], in luogo del formalismo.
Quanto all’argomento teleologico-assiologico, due considerazioni di segno opposto concorrono a depotenziarlo. In una dimensione generale, l’imputazione incondizionata del costo del danno cagionato dal prodotto (sul quale fosse solo apposto un suo segno distintivo) ad un soggetto non, di necessità, coinvolto nel processo produttivo, importerebbe un immiserimento della responsabilità extracontrattuale (del produttore), con la sua dignità di istituto autonomo: la sua funzione riuscendone infirmata a tutto vantaggio di una immoderata – in quanto frutto di una valutazione unilaterale [8] – tensione verso la realizzazione dell’interesse riparatorio del danneggiato [9]. Ora, anche a concedere che le discipline speciali della responsabilità extracontrattuale rappresentino, ormai, «micro-sistemi sempre più ispirati a logiche proprie» [10], resta attuale il rilievo in accordo al quale «non è responsabilizzando a casaccio l’uno e l’altro produttore [o, a fortiori, chi produttore non è affatto] che si raggiunge il fine voluto» [11]: quello, beninteso, di compensare bensì, a posteriori; ma prevenendo, al contempo, l’occorrere dall’evento dannoso [12]. Tale risultato può conseguirsi, piuttosto, rendendo responsabile quanti abbia davvero un potere di controllo (ed intervento nell’ambito) del processo produttivo (meglio, quanti, governando progettazione, fabbricazione e conformazione delle informazioni destinate al pubblico, sia nella posizione più idonea a dominare i pericoli che, intrinsecamente od in ragione del contesto situazionale, si ricollegano al prodotto) [13]. E che a tale rilievo non sia, in fondo, insensibile lo stesso legislatore (già) comunitario, riesce asseverato, del resto, giusto dalla disciplina della Dir. n. 85/374/CEE: in conformità delle regole sulla responsabilità del fornitore, nonché del produttore parziale. Il primo, difatti, risponde solo in via sussidiaria del danno cagionato dal prodotto fornito, cioè a dire in quanto non riesca ad indicare al danneggiato la identità del produttore (art. 3, comma 3, Dir. n. 85/374/CEE) [14]; il secondo, pur sempre, si libera provando che l’evento dannoso è riconducibile ad un difetto della concezione del prodotto finale, od alla mera conformazione del suo contegno alle istruzioni impartite dal produttore finale (art. 7, lett. f, Dir. n. 85/374/CEE) [15]. Se un tanto vale per quanti sia coinvolto nella distribuzione del prodotto e, financo, per quanti partecipi al processo produttivo (di una parte componente del prodotto finale), un ampliamento delle maglie soggettive della responsabilità, in assenza del correttivo di eventuali cause di esonero (specifiche, i.e. discriminanti la posizione del soggetto rispetto a quella dell’effettivo produttore), non può essere coerentemente predicato per quanti soltanto apponga il proprio segno distintivo su un prodotto. A ciò si aggiunga che obiettivo primario della Dir. n. 85/374/CEE – in sintonia con la complessiva regolazione europea dei rapporti di consumo [16] – appare (arg. anche ex cons. n. 1) l’armonizzazione del diritto della responsabilità del produttore, secondando quella i presupposti per un gioco equilibrato della concorrenza (tra produttori: s’intende, effettivi) e per la creazione di un mercato comune (della produzione: s’intende, effettiva) [17]; non già, invece, quello dell’apprestamento della massima tutela possibile – in relazione a questa fattispecie e non in relazione ad altre, le quali pure evidenziano interessi altrettanto meritevoli di protezione – del danneggiato punto, perseguita mediante una (ipotetica) moltiplicazione ad libitum dei designati responsabili [18].
In una dimensione di maggiore dettaglio, poi, oziosa è la rappresentazione di un soggetto che, apponendo il proprio segno distintivo sul prodotto, susciterebbe l’impressione di un coinvolgimento nel processo produttivo: tralasciando la non piana compatibilità logica dell’argomento con quello, sistematico, fondato sull’art. 5 Dir. n. 85/374/CEE, tale raffigurazione può attagliarsi, tutt’al più, ad una frazione delle fattispecie possibili; e, soprattutto, riesce smentita, nel caso concreto, a fronte dell’apposizione sul prodotto d’indicazioni aggiuntive, le quali sembrano univocamente cospiranti a disvelare la erroneità della predetta (eventuale) impressione. Analogamente è a dirsi per l’assunto che la responsabilità possa essere giustificata quale corrispettivo della utilizzazione della notorietà del segno distintivo apposto sul prodotto: oltreché, di nuovo, affatto parziale, e difficilmente conciliabile con quello che fa leva sull’apparente implicazione del soggetto nel processo produttivo, esso postula l’adesione, solo in questa ipotesi, al questionabile criterio (sostanziale d’imputazione di una responsabilità oggettiva) del c.d. rischio-profitto (cuius commoda) [19]. Senz’altro diverso, secondo l’opinione corrente, è, d’altronde, il fondamento della responsabilità del produttore effettivo [20], pure prospettata dai giudici unionali come del tutto equiparata, in punto di disciplina, a quella del produttore apparente.
Quanto, infine, all’argomento sistematico, può subito segnalarsi che nessuna indicazione utile, a sostegno della decisione della CGUE, può seriamente trarsi dall’art. 5 Dir. n. 85/374/CEE, sulla solidarietà dei responsabili: invero, la disposizione relativa alla responsabilità solidale presuppone risolta la questione relativa alla individuazione dei responsabili, limitandosi a configurare un regime di solidarietà passiva della obbligazione risarcitoria. La questione della sufficienza o no dell’apposizione del segno distintivo su un prodotto per aversi responsabilità del titolare non può, insomma, che essere dipanata prima della (teorica) applicazione dell’art. 5: il quale, nel caso, opererà, a valle, una volta individuata una pluralità di responsabili. Inaccettabile è, altresì, il richiamo alla proposta di direttiva del 1976, che si vorrebbe rivelatore della valutazione legislativa circa la insufficienza della protezione del consumatore, dinnanzi ad un distributore il quale potesse rinviarlo al produttore: esso dimentica, per tacer d’altro, che, come già riferito, tale asserto è smentito, in conformità della medesima Direttiva, con riferimento alla disciplina della responsabilità del (distributore-)fornitore. Il fornitore, infatti, non risponde – si badi, non risponde, e non già risponde con diritto di regresso o rivalsa verso il produttore [21] – sol che comunichi al danneggiato l’identità del produttore. Un nebuloso criterio interpretativo storico-soggettivo, basato sulla proposta di direttiva, non può, all’evidenza, fare premio su un criterio interpretativo sistematico-oggettivo, basato sulla Dir. n. 85/374/CEE [22].
Esaurita, così, la disamina critica della decisione in commento, è possibile, ora, avanzare una ipotesi di soluzione alternativa: basata, secondo quanto si avrà modo di argomentare, sulla riconduzione della figura del produttore apparente (rectius, della fattispecie di responsabilità di cui all’art. 3, comma 1, ult. parte, Dir. n. 85/374/CEE) nell’alveo del concetto di apparenza in senso proprio.
In premessa, riesce opportuno svolgere tre (brevi) considerazioni preliminari.
La prima: quella dell’apparenza giuridica non è una figura di diritto italiano punto; tutto all’opposto, si rinviene in seno alla tradizione giuridica dei principali sistemi europeo-continentali, e giusto dalle elaborazioni dottrinali d’oltralpe (Rechtsschein; apparence) risulta penetrata in Italia [23]. Il nucleo concettuale è, invero, comune: strutturalmente, l’apparenza giuridica si radica in un fatto significante reale, legato da un rapporto di significazione con un fatto significato – preso in considerazione per gli effetti giuridici che produce – non (perlomeno, non di necessità) [24] reale; funzionalmente, in ciò che comprime l’onere di accertamento preventivo della realtà in situazioni che rendono tale accertamento complesso o dispendioso – e, per converso, al cospetto di circostanze tali da giustificare la possibile illazione collettiva [25] della sussistenza del fatto significato –, l’apparenza giuridica è un dispositivo di protezione dell’affidamento (in astratto-obiettivo) [26]. Muta, piuttosto, la estensione del concetto, ossia il novero di casi (i.e. di fatti significanti, e significati) che si riportano nell’area concettuale. In Germania, tale insieme è sempre stato assai corposo, e diffusamente costituito da fatti significanti, muniti di valore formale, già isolati, con precisione, dal diritto positivo: sicché, anche a trascurare le declinazioni teoretiche più estreme e risalenti (Rechtsschein ist alles) [27], compendiante ipotesi che, ad un vaglio analitico, risultano meglio collocabili nell’area del formalismo, in quanto integrate (appunto) da fattispecie di investitura formale la cui rilevanza giuridica assorbe quella della situazione reale [28]. Numerose risultano pure le fattispecie di operatività dell’apparenza giuridica prospettate – quantunque, dapprima, sull’invocato fondamento, (tutto) soggettivistico, della massima error communis facit ius [29] – dagli interpreti francesi [30]; i quali, in linea di principio, hanno saputo, peraltro, conservarne l’autonomia rispetto al campo d’elezione del formalismo [31]. In Italia, fatta eccezione per talune, minoritarie tendenze espansive [32], il concetto è stato evocato con moderazione, distinguendolo non soltanto dal fenomeno pubblicitario in senso stretto, ma, altresì, da un formalismo compendiante atti di pubblica fede e titoli di legittimazione formale; un’applicazione del modulo disciplinare oltre l’ambito applicativo delle fattispecie legalmente tipiche (artt. 534 cod. proc. civ., 1189, 1835 cpv. e, si crede, 1415, comma 1, cod. civ.) è stata, al più, ammessa con prudenza e assoggettata a rigorosi limiti, se non quanto a potenziale applicativo [33], sotto il profilo della costruzione della fattispecie [34].
La seconda: quella dell’apparenza giuridica non è una figura pertinente, per propria natura, al solo ambito della circolazione delle situazioni soggettive, quale predicato della legittimazione a porre in essere atti negoziali dispositivi (validi ed efficaci). Per quanto più interessa in questa sede, in Germania, all’inizio del secolo scorso, se n’è immaginata, fra l’altro, un’applicazione funzionale a configurare, in testa ad un socio apparente (meglio, al già-socio il quale, e però, latamente apparisse ancora tale sulla base di pubbliche risultanze), una responsabilità extracontrattuale per il danno cagionato da una cosa di proprietà di una società di persone [35]. La tesi fu criticata da parte prevalente degli interpreti [36], e con buona ragione, avendo riguardo alla fattispecie – caratterizzata, ad ogni modo, dalla rilevanza di un elemento oggettivo formale (Handelsregister) – in questione; si deve sottolineare, d’altra parte, come quest’ultima non assurgesse a fattispecie normativa, disciplinata dal diritto positivo come costitutiva di obbligazioni risarcitorie [37]. In Francia, all’apparenza giuridica sono state riferite fattispecie variegate [38]: compresa, in particolare, quella della responsabilità del commettant, per il danno cagionato da un préposé apparent [39]. In Italia, se prospettazioni echeggianti queste ultime pure sono state contemplate, in modo sporadico [40], merita rammentare come l’apparenza della qualità di creditore rilevi, positivamente, ai fini della liberazione del debitore adempiente (art. 1189 cod. civ.; analogo, oggi, il disposto dell’art. 1342-3 Code civil); e, a latere, come, in più occasioni, sia stata affacciata dagli interpreti una figura d’imprenditore apparente [41]. Insomma, se la circolazione giuridica per mezzo di atti negoziali rappresenta l’area in cui la figura ha assunto (tradizionalmente) e assume (tuttora) maggiore importanza, sub specie di elemento della fattispecie di acquisto di situazioni soggettive da parte di quanti ne dispone, sprovvisto della relativa legittimazione, nessun ostacolo sembra frapporsi all’assegnazione di rilevanza all’apparenza in ambiti ulteriori: e ciò, sicuramente, allorquando lo preveda il legislatore.
La terza: nessuna implicazione logica necessaria sussiste, sul piano della costruzione della fattispecie normativa, fra apparenza e buona fede (in senso soggettivo: di quanti, beninteso, si avvantaggiasse di effetti radicati nell’apparenza). Se le fattispecie effettuali in cui l’apparenza ricorre sono fattispecie complesse [42], per ciò che affiancano ad un elemento oggettivo (situazione di apparenza) un elemento soggettivo (la buona fede di chi agisce sulla base della situazione di apparenza), la esigenza che anche il secondo elemento ricorra per la produzione dell’effetto è puramente giuridica [43]: cioè a dire, di diritto positivo. Da un lato, ciò significa che il legislatore, in astratto, ben potrebbe configurare fattispecie effettuali integrate esclusivamente dall’elemento obiettivo della situazione di apparenza, le quali, sebbene collocabili in una zona di confine, sotto il profilo funzionale, con le ipotesi di formalismo, non sarebbero ancora strutturalmente sovrapponibili ad esse: mutevole essendo, da caso a caso, il fatto – da caratterizzarsi, comunque, per la idoneità a determinare un errore collettivo possibile – posto a fondamento dell’effetto [44]. D’altro lato, un tanto consente di ritenere che, quand’anche allo stato gnoseologico del soggetto volesse conservarsi una rilevanza nel contesto della fattispecie effettuale, al fine di marcare la distanza tra fattispecie dell’apparenza e, quantomeno, fatti di pubblicità, nulla imporrebbe di considerare la buona fede come suo elemento costitutivo: sul piano probatorio, da provare da parte di chi invocasse la scaturigine di un effetto favorevole; in luogo di considerare la mala fede quale elemento impeditivo: sul piano probatorio, con onere della prova della mala fede in capo a chi fosse latore di un interesse contrario [45].
Riassumendo, può ribadirsi, in conclusione, che: il concetto di apparenza giuridica è patrimonio comune della tradizione europeo-continentale; la rilevanza giuridica dell’apparenza è suscettibile di estendersi alla platea degli elementi costitutivi (o dei presupposti) di una fattispecie di responsabilità extracontrattuale; l’apparenza come situazione obiettiva non deve, per forza, abbinarsi, in una fattispecie normativa complessa, all’elemento della buona fede (in senso soggettivo), né tampoco deve abbinarsi, ad ogni modo, alla buona fede come elemento costitutivo della fattispecie effettuale.
Alla luce di quanto riferito finora, appare possibile riguardare l’art. 3, comma 1, Dir. n. 85/374/CEE, nella parte in cui fa menzione di un soggetto che (appone il proprio segno distintivo su un prodotto e) «si presenta come produttore», quale disposizione veicolante una fattispecie di apparenza giuridica in senso proprio: una apparenza (per dir così) produttiva, determinante la legittimazione passiva del produttore apparente alla domanda risarcitoria del danneggiato (meglio, in una dimensione tutta sostanziale, determinante la costituzione di una obbligazione risarcitoria in testa al produttore apparente). In altre parole, il frammento finale del disposto sembra suscettibile di rinviare l’interprete alla ricerca di circostanze oggettive, socialmente apprezzabili, del caso concreto (i.e. indeterminate a priori), idonee a far apparire colui, cui il segno distintivo apposto su un prodotto si riferisce, come se ne fosse il produttore.
Una impostazione sostanzialmente intonata a quest’ultima risulta, invero, recepita da una parte degli interpreti europei: sia con riferimento alle normative interne di attuazione della Dir. n. 85/374/CEE; sia in immediata relazione, si badi, alla Dir. n. 85/374/CEE. Quanto al primo momento, basti richiamare, a titolo esemplificativo: la riflessione della dottrina italiana in merito alla opportunità di espungere dalla categoria del produttore apparente (già, art. 3, comma 3, D.P.R. 24.5.1988, n. 224; oggi, arg. ex 3, lett. d, 103, comma 1, lett. d, cod. cons. e 3, comma 1, ult. parte, Dir. n. 85/374/CEE) [46] la figura del titolare di un marchio di commercio, quantunque apposto su un prodotto [47]; il distinguo, ricorrente nell’approccio interpretativo tedesco, tra c.d. Quasi-Hersteller (§ 4, comma 1, ult. parte, Produkthaftungsgesetz) e soggetto che, pur apponendo il proprio segno su un prodotto, fosse chiaramente riconoscibile come distributore del medesimo [48]; la esclusione dalla sfera soggettiva d’imputazione della responsabilità del producent, predicata in Olanda da giurisprudenza teorica e pratica, di quanti apponesse bensì il proprio segno su un prodotto (art. 6:187 cpv., ult. parte, BW), ma per mere ragioni pubblicitarie [49]. Quanto al secondo momento, merita segnalare che in un recente contributo scolare, frutto del lavoro congiunto di giuristi autorevoli provenienti da molteplici Paesi membri, la qualità di produttore apparente viene ricollegata ad un comportamento del soggetto capace di suscitare l’impressione di essere produttore: con la negazione recisa, per converso, che tale attributo possa radicarsi, in modo automatico, nella (mera) circostanza dell’apposizione del segno distintivo su un prodotto [50]. L’accertamento circa il ricorrere della idoneità del comportamento del produttore apparente a generare l’anzidetta impressione, inoltre, è configurato come da svolgersi in concreto, adottando il punto di vista del consumatore medio (rispetto, si precisa, al c.d. target group del prodotto), normale, ordinario, prudente [51].
A seguire questa traccia, allora, il riferimento dell’art. 3, comma 1, Dir. n. 85/374/CEE all’apposizione del segno distintivo su un prodotto, lungi dal rendere ridondante l’ultimo frammento della disposizione, avrebbe la funzione di delimitarne l’ambito di applicazione: ossia, di perimetrare il contesto operativo dell’apparenza produttiva. Si tratterebbe, in altri termini, di un fatto sempre necessario, ma non sufficiente a costituire una situazione di apparenza.
La previsione, sotto questo profilo, finirebbe per rassomigliare a quella relativa alla titolarità apparente di cui all’art. 1415, comma 1, cod. civ.: laddove, secondo la ricostruzione preferibile, la simulazione del negozio è bensì necessaria, ma non bastevole, in quanto tale, al fine d’integrare la situazione di apparenza di titolarità. La salvezza del terzo avente causa dal simulato acquirente, cioè a dire, sembrerebbe doversi sempre radicare in un quid oggettivo-esteriore, irriducibile al (mero) ricorrere di una (dichiarazione di) volontà negoziale simulata [52]: corrispondente, a tutto concedere [53], ad una (forma di) ostensione del negozio simulato – come titolo di un determinato effetto, e regolamento di contegni corrispondenti – da parte dei simulanti (ovvero, del simulato acquirente, con la compartecipazione, inerziale, del simulato alienante) [54], Similmente, come l’apparenza di titolarità ex art. 1415, comma 1, cod. civ. rappresenta una ipotesi di apparenza (almeno) colposa [55], così, (almeno) colposa – in ciò che contempla, se non altro, un consenso del soggetto all’apposizione del suo segno distintivo su un prodotto; e, comunemente, all’apposizione, con determinate modalità, nella consapevolezza del contesto circostanziale – dovrebbe giudicarsi l’apparenza produttiva di chi, come produttore, si presentasse [56].
La esigenza normativa dell’apposizione del segno, per aversi apparenza produttiva, sembra giustificarsi, del resto, sulla base di due rilievi. In una prospettiva sostanziale, poiché si tratta, pur sempre, del fatto principale – secondo un criterio di esperienza, o di verosimiglianza; ancorché, si ripete, non decisivo di per sé – astrattamente in grado di fondare, a tutta prima, una situazione di apparenza; e, di contro, la cui assenza – qualunque fosse il contingente complesso di circostanze concomitanti – renderebbe meno agevole rintracciare, nonché provare, gli estremi di una tale situazione. In una prospettiva formale, poi, dacché la superiore osservazione appare asseverata – di là della interna legislazione industriale (arg. ex art. 2572 cod. civ.; artt. 7 ss. c.p.i.), soprattutto – dalla legislazione (di matrice) europea regolante il complessivo contegno del produttore di beni di consumo: cui, per comodità espositiva, può rinviarsi prendendo a paradigma la disciplina di recepimento italiana, contenuta nel cod. cons. (arg. spec. ex artt. 2, comma 2, lett. c, 6, comma 1, lett. b, 7, 11, 104, comma 4, lett. a, cod. cons.). In sintesi, giusta la normativa in questione, ogni prodotto destinato ai consumatori – ovvero, la sua confezione – dovrebbe recare l’apposizione di un segno distintivo del produttore (s’intende: dell’effettivo produttore) o, in genere, la indicazione dei di lui dati identificativi; risultando, simmetricamente, vietata la commercializzazione di un prodotto sprovvisto delle predette informazioni, pena la irrogazione di sanzioni (amministrative e, nel caso, penali). Riesce, pertanto, concepibile la costruzione di un affidamento prima facie degli utilizzatori di un prodotto destinato ai consumatori (rectius, di un errore collettivo possibile prima facie), qualificato dal dover essere normativo, sulla qualità di produttore del soggetto il cui segno distintivo vi figurasse apposto, giusto in ragione dell’apposizione del segno.
Provando a rendere più concreto ed analitico il quadro, la relazione tra apposizione del segno distintivo su un prodotto e apparenza produttiva (ex art. 3, comma 1, ult. parte, Dir. n 85/374/CEE), per come restituita dalla prassi, si presta ad essere sistemata in tre classi di ipotesi.
Una prima classe, compendiante ipotesi paradigmatiche di riconoscibilità della situazione reale, cioè a dire fattispecie in relazione alle quali, nonostante l’apposizione del segno distintivo su un prodotto, il soggetto cui il segno si riferisce non può punto giudicarsi apparire come produttore. Si tratta, anzitutto, delle ipotesi in relazione alle quali, accanto all’apposizione del segno distintivo di un soggetto, sul prodotto figura la espressa (i.e. sub specie di fatto di linguaggio) assegnazione della qualità di produttore ad un soggetto diverso, (eventualmente) accompagnata dall’apposizione del segno distintivo, ulteriore, di tale ultimo soggetto. Assimilabili a queste sono, per vero, le ipotesi in cui, all’apposizione del segno distintivo di un soggetto sul prodotto, si abbinano circostanze concomitanti che, seppure non integrate dalla espressa indicazione che altri è produttore, consentono obiettivamente di escludere che lo sia il titolare del segno. È, fra l’altro, il caso dell’attribuzione, espressa, della qualità di (mero) distributore (o importatore) del soggetto cui il segno si riferisce: la quale pone, semmai, un problema d’identificazione del produttore effettivo, dipanabile con l’applicazione della disciplina dedicata al fornitore [57] (oppure, quantomeno se il prodotto proviene da un Paese extra-UE, con la imputazione della responsabilità al soggetto – non già in quanto produttore apparente, sibbene – in quanto importatore). Sembra, altresì, il caso del prodotto recante più segni distintivi, riconducibili a soggetti diversi, allorquando: per un verso, un segno appaia soltanto, mentre l’altro si combini con univoche indicazioni aggiuntive capaci di surrogare, secondo un canone di apprezzabilità sociale, la mancata esplicitazione della qualità di produttore (quale, tipicamente, la locuzione, posta in prossimità della marcatura CE, «prodotto/fabbricato in», associata ad un indirizzo corrispondente alla sede di uno stabilimento produttivo del titolare del secondo segno, od alla sede legale di quest’ultimo) [58]; per altro verso, il soggetto, cui si riferisce il primo segno, non operi, notoriamente, nel settore della produzione, od operi in un settore merceologico affatto diverso da quello cui il prodotto afferisce (esemplificando, il produttore di macchine da caffè, il cui segno distintivo fosse apposto su una bicicletta) [59], mentre il soggetto cui si riferisce il secondo segno operi (proprio) nel settore merceologico cui il prodotto afferisce (o, tutt’al più, in un settore affine) [60].
Una seconda classe di ipotesi compendia fattispecie paradigmatiche di apparenza produttiva, non coincidenti con una designazione espressa del soggetto, cui il segno apposto sul prodotto si riferisce, quale produttore. Devono allogarsi in questa categoria, in linea di massima, le ipotesi in cui sul prodotto risulta apposto soltanto un segno distintivo, senza ulteriori indicazioni, riconducibile ad un soggetto notoriamente operante nel settore della produzione: allorché, in ispecie, il settore merceologico di riferimento corrisponda (proprio) a quello cui il prodotto afferisce (o, tutt’al più, il titolare operi in un settore affine). Allo stesso modo, dovrebbero opinarsi fondare una situazione di apparenza le ipotesi diametralmente opposte a quelle riferite con riguardo alle fattispecie, rappresentate da ultimo, di riconoscibilità della situazione reale: ipotesi, quindi, in cui deve decidersi circa la apparenza produttiva del secondo soggetto, il cui segno è apposto sul prodotto, e non già del primo.
Una terza classe di ipotesi compendia, infine, fattispecie in cui l’apposizione del segno distintivo si abbina a circostanze concomitanti le quali non consentono d’inferire, in modo inequivocabile, la qualità di produttore del soggetto cui il segno si riferisce; ma nemmeno parteggiano per la illazione contraria. Così è a dirsi, ad esempio, per le ipotesi in cui sul prodotto risulta apposto solo un segno distintivo, in assenza di ulteriori indicazioni, riconducibile ad un soggetto non notorio, ovvero notoriamente non operante nell’ambito della produzione, od operante in un settore merceologico diverso da quello cui il prodotto afferisce. Così è a dirsi, ancora, per le ipotesi in cui sul prodotto vengono apposti più segni distintivi, senza ulteriori indicazioni, riconducibili a soggetti non notori, oppure egualmente non operanti nell’ambito della produzione, ovvero operanti in settori merceologici identici od affini, tanto più laddove l’uno non appaia ictu oculi preminente – per numero delle apposizioni, dimensione, posizione – rispetto all’altro.
La casistica veramente problematica è rappresentata, beninteso, dalle ipotesi di cui alla terza classe. Per inquadrarle nell’area della riconoscibilità della situazione reale o dell’apparenza produttiva non pare, d’altronde, opportuno procedere nella direzione che, sovente, è stata additata dalla dottrina europea: cioè a dire, facendo assurgere a criterio di discrimine l’assenza, o l’esserci, di un rapporto negoziale fra produttore effettivo e persona che appone il proprio segno sul prodotto [61]. In particolare, affermare, su questa scia, che, qualora il soggetto cui il segno si riferisce avesse commissionato ad altri la fabbricazione del prodotto, in quanto committente egli dovrebbe rispondere, dacché (di regola) «pretenderà di poter incidere sull’attività produttiva», sulla «stessa concezione del prodotto», sulle sue «caratteristiche di forma e di qualità», «guidando in via esclusiva la politica di marketing» [62], significa confondere due fattispecie (e fondamenti d’imputazione) della responsabilità del produttore irriducibili ad unità: la responsabilità del produttore apparente e la responsabilità del produttore effettivo. Il soggetto che s’ingerisce nel processo produttivo, incidendo sulla progettazione («concezione») del prodotto, sull’uso prevedibile («forma e qualità»), sulla presentazione («politica di marketing») e, altresì (in quanto committente), sulla «messa in circolazione», non deve rispondere in quanto, pur non essendolo, appare produttore: apparenza che, per incidens, non riuscirebbe nemmeno suscettibile di derivarsi da (reali) rapporti interni alle sfere di soggetti estranei al danneggiato. Al pari del produttore finale-mero assemblatore, egli deve rispondere, invece, in quanto effettivamente produttore (arg. spec. ex artt. 3, 6 e 7, lett. f, Dir. n. 85/374/CEE) [63]. La stessa conclusione non può non estendersi alle ipotesi di licenza di marchio e know-how (i.e. del licenziatario che produce, apponendo sul prodotto il segno distintivo del licenziante), o del franchising industriale: se è vero che l’attività di produzione di licenziatari e franchisee è, non di rado, «meramente materiale, applicativa di una “formula” predeterminata dal licenziante» [64] o franchisor, (anche) questi ultimi sono qualificabili, tenendo in conto il momento della progettazione, come produttori effettivi [65].
Insomma, il criterio dell’effettivo controllo del processo produttivo, o di suoi profili, rileva ai fini dell’individuazione del soggetto-produttore effettivo; mentre non può che restare del tutto privo di rilevanza ai fini della costituzione di una situazione di apparenza produttiva.
La (tendenziale) collocazione delle ipotesi dubbie nell’area dell’apparenza, in luogo della riconoscibilità della situazione reale, deve transitare, piuttosto, per una contemplazione teleologico-assiologica e sistematica dell’art. 3, comma 1, ult. parte, Dir. n. 85/374/CEE.
Dinnanzi ad una ipotesi dubbia, infatti, è confacente prediligere la soluzione più favorevole al danneggiato, allentando nella misura massima consentita (i.e. per quanto compatibile, appunto, col residuare di un margine di errore collettivo possibile) il rigore dell’interprete nella valutazione circa il ricorrere o no di una situazione di apparenza, sol che si convenga sulla validità di tre assunti. In primo luogo, che la medesima previsione normativa – nel senso della rilevanza dell’apparenza produttiva, oltreché della produzione effettiva – è strumentale ad allievare l’onere di accertamento preventivo della realtà dell’utilizzatore-danneggiato, a fronte di una non immediata identificabilità del produttore effettivo, e garantire una (modalità di) realizzazione più agevole (anche: più snella, più celere) del suo interesse risarcitorio. In secondo luogo, che al soggetto il quale appone il proprio segno distintivo su un prodotto, adottando un criterio di normalità, è possibile inibire, in ogni caso, l’apparenza, mediante opportuni accorgimenti: sicché, se questi ultimi difettano, il produttore apparente finisce per non assolvere il proprio onere di conservazione, aggravato di riflesso dall’alleggerimento dell’onere di accertamento dell’utilizzatore; egli, in definitiva, imputet sibi, secondo i canoni dell’autoresponsabilità e, più in dettaglio, dell’apparenza colposa [66]. In terzo luogo, conviene richiamare, a suffragio, la caratterizzazione normativa della presenza del segno distintivo come elemento costante della fattispecie di apparenza produttiva, sì come la sua giustificazione materiale e nel prisma del sistema: potendosi configurare, secondo quanto più sopra accennato, un’apparenza prima facie, qualificata normativamente, della qualità di produttore, di quanti abbia soltanto apposto il proprio segno su un prodotto.
In quest’ultima prospettiva, ragioni di rinforzo sembrano arguibili dalla circostanza che l’art. 3 Dir. n. 85/374/CEE, al fine del perfezionamento della fattispecie effettuale (s’intende, della costituzione dell’obbligazione risarcitoria in testa al produttore apparente), non richiede puntualmente, in positivo, la (prova della) buona fede (in senso soggettivo) del danneggiato; né tantomeno la Direttiva configura espressamente, a carico del danneggiato, un rigoroso onere della prova dell’apparenza. Ne discende che la prova dell’apposizione del segno sul prodotto potrebbe finanche concepirsi quale fondamento di una presunzione semplice [67] di (situazione di) apparenza; ovvero – a discriminarla concettualmente dalla (vera e propria) presunzione [68] – quale, plausibile, c.d. prova prima facie dell’apparenza produttiva [69]: per conseguenza, toccherebbe al titolare del segno-convenuto, il quale volesse scuotere il convincimento del giudice, fornire elementi di prova funzionali a persuaderlo circa la riconoscibilità della situazione reale (arg. anche ex artt. 4 e 7, spec. lett. a, c, f, Dir. n. 85/374/CEE).
In conclusione, resta da affrontare un ultimo aspetto della disciplina della responsabilità del produttore apparente, una volta condotta, secondo quanto si è cercato di argomentare, nell’alveo dell’apparenza in senso proprio.
In conformità di tale impostazione, se il titolare del segno distintivo apposto sul prodotto non risultasse essersi presentato come produttore, facendo difetto una situazione di apparenza, la sua responsabilità sarebbe esclusa. Laddove, invece, fosse integrata una situazione di apparenza produttiva, occorrerebbe interrogarsi, ancora, circa il ruolo della buona fede (in senso soggettivo) del danneggiato. In limine esclusa, difatti, una rilevanza della buona fede quale elemento costitutivo della fattispecie effettuale – non davvero reclamata, in termini generali, dalla teoretica dell’apparenza in senso proprio; non richiesta, ad ogni modo, dall’art. 3, comma 1, Dir. n. 85/374/CEE –, ci si deve interrogare, quantomeno, se essa importi in negativo: ossia, se la mala fede (i.e. la conoscenza, da parte del danneggiato, della circostanza che il soggetto, cui il segno apposto si riferisce, non sia effettivamente produttore, nonostante la situazione obiettiva di apparenza) possa fungere da elemento impeditivo dell’effetto-costituzione dell’obbligazione risarcitoria. Elemento impeditivo della cui prova, beninteso, sarebbe onerato il produttore apparente.
Al proposito, sembra possibile immaginare varie declinazioni (anche: mutevoli intensità) dello stato gnoseologico dell’utilizzatore-danneggiato, con ovvi risvolti sul piano (della facilità o complessità del raggiungimento, da parte del produttore apparente, del relativo, ipotetico, standard) probatorio. In talune, comunque, la mala fede appare sicura; e, pertanto, la prova della mala fede, da fornire (per presunzioni, ma) rigorosamente, non troppo disagevole da attingere [70]: così, in particolare, nella ipotesi del danneggiato appalesantesi come consapevole che il soggetto cui il segno si riferisce non è produttore, in quanto munito della consapevolezza – per avventura, dimostrabile – della identità del produttore effettivo. In questo caso, si vuol significare, pur essendogli nota l’identità del produttore effettivo, il danneggiato agirebbe contro quanti, per ciò stesso, saprebbe non essere produttore.
Ora, ad immaginare una rilevanza della mala fede come elemento impeditivo, qualora essa fosse, alfine, provata dal produttore apparente, quest’ultimo, a rigore, dovrebbe andrebbe esente da responsabilità; il giudizio promosso dal danneggiato s’interromperebbe e, semmai, costui potrebbe iniziarne uno ex novo, agendo contro il produttore effettivo. Un tanto sarebbe coerente, del resto, con la (generale) connotazione assiologica dell’apparenza giuridica: la quale non dovrebbe volgere a vantaggio di quanti, sulla situazione di apparenza, non avesse veramente confidato [71]. Nelle ipotesi in cui, per contro, la mala fede non fosse dimostrata – e, quindi, fosse conseguente reputare, del danneggiato, la convinzione circa la qualità di produttore del titolare del segno distintivo, nonché la ignoranza circa la identità del produttore effettivo –, il produttore apparente dovrebbe rispondere.
Purtuttavia, sembra possibile prospettare, di tale responsabilità, una conformazione non già (come) diretta e principale, bensì (come) mediata e sussidiaria: a fronte di un’applicazione, analogica [72], della regola dedicata alla responsabilità del fornitore (art. 3, comma 3, Dir. n. 85/374/CEE). In questo modo, al produttore apparente potrebbe (più) opportunamente accollarsi, in luogo del rischio del difetto di un prodotto che non ha fabbricato, il rischio della mancata conoscenza (dunque, della mancata indicazione entro un termine ragionevole) della identità del fabbricante effettivo del prodotto sul quale ha apposto il proprio segno distintivo [73].
Nei confronti di quest’ultima prospettazione, per vero, gli interpreti del diritto interno tendono ad opporre uno sbrigativo rifiuto. La obiezione solitamente avanzata, contro la estensione del modulo del fornitore alla responsabilità del produttore apparente, sta in ciò, che la prima è regolata in una sede topografica diversa rispetto a quella pertinente al fornitore, e comune a quella del fabbricante: il quale ultimo, va da sé, non può liberarsi alla medesima stregua del primo [74]. Tale obiezione, purtuttavia, è formalistica, perché oblitera che la caratterizzazione sostanziale essenziale della figura del produttore apparente si presenta assai più prossima a quella del fornitore, piuttosto che a quella del produttore effettivo. Altrimenti dal produttore effettivo, infatti, fornitore e produttore apparente non partecipano, in quanto tali, al processo produttivo; il rapporto di ambedue col prodotto si apprezza, semmai, sul piano della commercializzazione. Quanto al fornitore, dacché questi distribuisce il prodotto, fabbricato da altri, presso i consumatori; quanto al produttore apparente, perché esso, apponendo il proprio segno sul prodotto fabbricato da altri, pure manifesta col medesimo – specialmente, va da sé, allorché il ricorrere di circostanze concomitanti induca a ritenerne la qualità di produttore – un legame che può (contribuire a) orientare le scelte di consumo e (più in generale, di) utilizzo. Vi è, allora, una identità di ratio fra la conseguenza giuridica predisposta (in relazione alla figura del fornitore), e quella da predisporre (in relazione alla figura del produttore apparente) [75]: la quale non può non considerarsi prevalente – e rilevante, laddove si reputasse necessario transitarvi per sdoganare la prospettata analogia, quale fondamento di una riduzione teleologica dell’art. 3, comma 1, Dir. n. 85/374/CEE – sul puro e semplice riscontro del testo normativo.
Tutt’al più, la non-estensibilità, al produttore apparente, della regola prevista per la responsabilità del fornitore, potrebbe argomentarsi, a tutta prima, dalla (consueta) regolamentazione dell’apparenza giuridica in fattispecie diverse dall’apparenza produttiva. Gli è, cioè a dire, che se un effetto giuridico si radica in una situazione di apparenza, il diritto positivo non concede, a quanti abbia un interesse contrario, d’inibirlo (meglio, di cancellarlo) mediante la prova – non già, si presti attenzione, della riconoscibilità della situazione reale, bensì – della situazione reale. Valga, per tutti, un esempio: l’erede vero non è ammesso a precludere (rectius, obliterare) l’acquisto del terzo avente causa dall’erede apparente (art. 534, comma 2, cod. civ.) provando l’altrui apparenza della qualità di erede, e provocando l’accertamento della propria (qualità di erede vero).
E però, due obiezioni correlate sembrano sufficienti a disinnescare tale argomento. Da un lato, poiché, in una prospettiva dogmatica, il fatto apparente non rappresenta, in nessun caso, un fatto giuridico equivalente a quello (omologo) della fattispecie c.d. regolare – in nessun caso producendo la fattispecie di apparenza giuridica, s’intende, effetti del tutto coincidenti con quelli radicati in quest’ultima –, ciò che conta, in ultima analisi, è che venga assicurata l’adeguatezza degli effetti giuridici prodotti dall’apparenza all’interesse, cui essa è asservita [76]. D’altro lato, in una prospettiva teleologica, il suddetto modulo di regolamentazione pare dipendere dalla connotazione delle principali disposizioni, attributive di rilevanza giuridica ad una situazione di apparenza, contemplate dai diritti nazionali europeo-continentali: laddove la tutela dell’interesse di chi trae vantaggio dall’apparenza non può realizzarsi, se non mediante la produzione (e conservazione) di quegli effetti. Se fosse possibile annichilire le conseguenze ricollegate da una disposizione alla situazione apparente, dando la prova della situazione reale, semplicemente il soggetto, alla cui protezione la rilevanza giuridica dell’apparenza mira, non verrebbe giammai tutelato.
Nel caso dell’apparenza produttiva, di converso, l’esonero da responsabilità del produttore apparente, a fronte del disvelamento della identità del produttore effettivo, non importerebbe il venir meno della tutela (risarcitoria) del danneggiato: al quale dovrebbe restare indifferente rivolgere la propria domanda in confronto del produttore effettivo, in luogo di quello apparente. Ciò è tanto più vero, in quanto tale mutamento soggettivo non necessiterebbe neppure di transitare, dal lato processuale, per una nuova iniziativa: potendo il giudizio già instaurato proseguire in confronto del produttore effettivo chiamato in causa (nel diritto italiano, ex art. 106 cod. proc. civ.), con estromissione del produttore apparente già convenuto. La ipotesi di soluzione poc’anzi prefigurata opererebbe, a ben riflettere, una composizione equilibrata e ragionevole di tutti gli interessi in gioco: conservando, pur sempre, al danneggiato un credito risarcitorio; facendo rispondere, preferibilmente, il produttore effettivo, con risvolti positivi sul piano della prevenzione; facendo rispondere, ma solo in via sussidiaria, il produttore apparente. Ecco perché il meccanismo disegnato dall’art. 3, comma 3, Dir. n. 85/374/CEE: ossia, di nuovo, l’onere di disclosure del responsabile sussidiario, tenuto ad apprestare al danneggiato la indicazione del produttore effettivo al fine di essere estromesso dal giudizio, appare dotato di un potenziale espansivo.
In definitiva, la disciplina della responsabilità del fornitore risulta bensì idonea ad essere evocata, ogniqualvolta il produttore apparente non riuscisse a provare la mala fede del danneggiato.
Ma, se si considera che la prova della mala fede, per solito, finisce per implicare la conoscenza della identità del produttore effettivo (anche) da parte del soggetto cui il segno apposto sul prodotto si riferisce, in un’ottica semplificatrice, e valorizzante il dato letterale – l’assenza, si vuol intendere, di puntuali riferimenti, nel disposto dell’art. 3 Dir. n. 85/374/CEE, non soltanto alla buona fede come elemento costitutivo, sibbene pure alla mala fede come elemento impeditivo –, di essa potrebbe predicarsi, senza troppi indugi, un’applicazione a prescindere da qualunque indagine in ordine allo stato gnoseologico del danneggiato.
Quest’ultima costruzione, nel senso dell’assoluta irrilevanza sostanziale della buona o mala fede del danneggiato, si concilierebbe, più ampiamente, con l’idea che la fattispecie effettuale dell’apparenza giuridica possa consistere nel solo elemento oggettivo (situazione di apparenza) [77]. Già si è speso, al riguardo, il rilievo che una tale fattispecie si collocherebbe in un’area funzionale al confine con quella del formalismo, espandendo, nella massima misura possibile, l’onere di conservazione del produttore apparente; ma, in punto di struttura, conserverebbe una propria autonomia, non essendo (in toto) predeterminate positivamente le circostanze di fatto costitutive dell’apparenza [78].
Una soluzione non dissimile, d’altra parte, è recepita, dalla giurisprudenza italiana, in ciò che ammette la pronunzia di una dichiarazione di fallimento [79] in confronto del soggetto il quale, col proprio fatto, abbia ingenerato nei terzi il convincimento che agisse come socio (illimitatamente responsabile) della società (di persone) fallita: qui, si badi, la tutela non è limitata ai terzi (acquirenti o creditori) in buona fede, ma viene estesa «indiscriminatamente alla massa dei creditori concorsuali» [80]. Non è questa, beninteso, la sede per sottoporre l’orientamento ad una disamina critica; a voler astrarre la regola di decisione, cercando di razionalizzarne il fondamento e dogmatizzarla, si potrebbe, peraltro, teorizzare che, ogniqualvolta il fenomeno oggettivo alla base dell’apparenza avesse una portata non meramente individuale – nel senso che rilevasse, piuttosto che un atto, un’attività del soggetto: implicante, per propria vocazione, la relazione con una pluralità di terzi (è il caso, fra le altre, dell’attività imprenditoriale) –, esigenze (assiologiche) di massimizzazione dell’onere di conservazione di colui che desse adito all’apparenza, e (pratiche) di semplificazione processuale, si scarichino in una tutela dei terzi indipendente dall’accertamento, singulatim, della relativa buona o mala fede [81].
La medesima logica – pure (in certa misura) echeggiata, sia detto per inciso, da una giurisprudenza europea, in materia di responsabilità del venditore-professionista (ex art. 1, comma 2, lett. c, Dir. n. 1999/44/CE) per difetto di conformità del bene al contratto [82] – potrebbe, allora, estendersi, mutatis mutandis, alla ipotesi dell’apparenza produttiva.
[1] La seconda questione, pur meritevole, si crede, di essere (almeno) considerata – essendo P. (asserita produttrice apparente) la controllante di S. (produttrice effettiva), oltreché della società distributrice del prodotto in Finlandia –, è stata, così, ignorata – perlomeno, formalmente: non potendosene escludere la rilevanza quale ratio decidendi (per dir così) nascosta – dalla CGUE nella sentenza che si commenta. Al riguardo, non è un fuor d’opera ricordare il principio di diritto enunciato, in relazione ad una fattispecie, per certi versi, consimile (i.e. domanda esperita dal danneggiato da un prodotto difettoso contro una società, ora, controllata dalla produttrice effettiva, e appena distributrice del prodotto in un Paese diverso da quello della sede legale di quest’ultima), in CGCE, 2.12.2009, C-358/08, in Resp. civ. prev., 2010, 2000 ss.: ove si legge, in particolare, che l’art. 11 Dir. n. 85/374/CEE «non osta a che il giudice nazionale consideri – nel procedimento giudiziario avviato entro il termine ivi fissato nei confronti della società controllata al 100% dal “produttore”, ai sensi dell’art. 3, n. 1, della Direttiva 85/374 – che il produttore possa essere sostituito alla sua controllata ove detto giudice constati che l’immissione in circolazione del prodotto di cui trattasi è stata di fatto determinata da tale produttore». Per la ricostruzione della complessa vicenda sostanziale e processuale (caso O’Byrne-Aventis Pasteur), esitata nella predetta pronuncia, cfr. A. Venchiarutti, Product liability e armonizzazione del diritto comunitario: le indicazioni della Corte di giustizia e le soluzioni della Supreme Court of United Kingdom, in Resp. civ. prev., 2010, 2009 ss.
[2] Scontato, in punto, il rinvio a E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica), Giuffrè, 1949, 183 s.; più di recente, ampiamente, P. Perlingieri, L’interpretazione della legge come sistematica ed assiologica. Il broccardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, oggi in Id., Interpretazione e legalità costituzionale. Antologia per una didattica progredita, Esi, 2012, 136 s.; Id., Giustizia secondo Costituzione ed ermeneutica. L’interpretazione c.d. adeguatrice, ivi, 239; Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-europeo delle fonti, IV ed., II, Esi, 2020, 314 ss., spec. 324 ss.
[3] Di «salvezza del risultato interpretativo utile» quale criterio interpretativo, echeggiante il principio c.d. di conservazione del contratto, fa menzione, con specifico riguardo – stante la sua (assunta) natura contrattualistica – al diritto (già comunitario; ora) eurounitario, E. Russo, L’interpretazione dei testi normativi comunitari, in Tratt. dir. priv. Iudica, Zatti, Giuffrè, 2008, passim; nei termini del testo, in relazione a disposizioni di diritto interno, v. G. Gabrielli, F. Padovini, La locazione di immobili urbani, II ed., Cedam, 2005, 197. Di «estremo limite» discorre, inoltre, S. Pugliatti, Il trasferimento delle situazioni soggettive, I, oggi in Id., Scritti giuridici, IV, Giuffrè, 2011, 855.
[4] Sul crinale tra formalismo giuridico ed apparenza giuridica, quali dispositivi caratterizzati dalla identità della funzione, ma differenti quanto al modo in cui essa viene realizzata, insuperata è la ricostruzione teoretica di A. Falzea, Apparenza, oggi in Id., Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, II, Giuffrè, 1997, 816 ss., ove si legge che il formalismo «si manifesta in strutture rigide e tipizzate» (e, obliterando il limite della tutela costituito dalla conoscenza della situazione reale, «attua una più intensa tutela del terzo»; in punto, v., peraltro, quanto si osserverà infra, §§ 3 e 5); v. anche, su una conoscibilità diretta (e, in ispecie, una conoscibilità legale o formale) in contrapposto ad una conoscibilità indiretta, Id., Fatto di conoscenza, oggi ivi, 548 ss. Nello stesso senso, v. S. Pugliatti, La trascrizione, I, 1, oggi in Id., Scritti giuridici, III, Giuffrè, 2011, 1592, secondo cui «apparenza e pubblicità sono (…) strumenti concorrenti di tutela giuridica di una medesima esigenza pratica»; R. Moschella, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, Giuffrè, 1973, 48, il quale distingue la pubblicità e le dichiarazioni alla generalità, consistenti in «fatti tipici, rigorosamente determinati, che hanno un valore formale e si sovrappongono alla realtà», dalle apparenze, connotate da «elementi variabili e solo funzionalmente individuati come quelli che normalmente accompagnano la realtà»; L. Mengoni, Gli acquisti «a non domino», III ed., Giuffrè, 1975, 346 ss., che, dopo aver escluso dall’ambito dell’apparenza in senso proprio fattispecie attributive di rilevanza ad un «fatto specifico (semplice o complesso) rigidamente predeterminato», discorre della pubblicità immobiliare, quale ipotesi di formalismo, designandola come «strumento di protezione dell’affidamento strutturalmente diverso dall’apparenza del diritto».
[5] V., di nuovo, A. Falzea, Fatto di conoscenza, cit., 555 ss.; Id., Apparenza, cit., 820 ss.; L. Mengoni, Gli acquisti «a non domino», cit., 351, il quale ultimo scrive d’indicazione (del fatto significato) «per inferenza (in senso empirico) o rinvio».
[6] Com’è noto, si mutua, qui, una espressione («uso ermeneutico dei concetti dogmatici in funzione regolativa dell’intelletto interpretante») spesa – con la ispirazione di Geldsetzer («ermeneutica dogmatica») – da L. Mengoni, Dogmatica giuridica, oggi in L. Mengoni, F. Modugno, F. Rimoli, Sistema e problema. Saggi di teoria dei sistemi giuridici, II ed., Giappichelli, 2017, 104 ss.
[7] Cioè a dire, sul piano oggettivo, di un «apparire dell’irreale come reale dentro un campo di pubblica esperienza, in virtù di rapporti socialmente riconosciuti di significazione non simbolica» (i.e. una «falsa segnalazione di realtà»): così, A. Falzea, Apparenza, cit., 822 ss.; nonché, in termini di «rapporto inferenziale fallace», Id., Fatto di conoscenza, cit., 596 s. Che il fatto significato rilevi «per le sue conseguenze giuridiche» – di talché, in letteratura, non è raro rinvenire la formula, ellittica, giusta la quale «ciò che appare è una situazione giuridica» – è circostanza opportunamente sottolineata da R. Sacco, voce Apparenza, in Dig. disc. priv., sez. civ., I, Utet, 1987, 361.
[8] La impostazione della CGUE, si vuol significare, sembra considerare il problema della responsabilità extracontrattuale dalla esclusiva specola della tutela del danneggiato, obliterando che la regola di responsabilità – al pari di qualsivoglia regola giuridica facente parte del sistema normativo civile – compone un conflitto d’interessi: di talché, oltre a sceverare il danno risarcibile da quello non-risarcibile (pertinenza, in punto di fattispecie, del momento di valutazione della ingiustizia del danno), occorre selezionare – tanto più, laddove l’evento dannoso non sia diretta emanazione di un comportamento (umano) –, presso una platea di (astratti) responsabili potenziali, il responsabile attuale (pertinenza della individuazione, non già appena di un nesso causale, bensì, eminentemente, di un determinato criterio d’imputazione). Di «malinteso tutelismo» in confronto del danneggiato discorre, con riguardo ad un approccio facilone alla disciplina della responsabilità del produttore, C. Castronovo, Responsabilità civile, Giuffrè, 2018, 770, ove pure il rilievo che «il problema della responsabilità civile non si risolve meglio aumentando indiscriminatamente i centri di imputazione sui quali fare rifluire alternativamente il danno, bensì individuando la sfera soggettiva più idonea fra tutte». Merita, altresì, rammentare, incidentalmente, che, nonostante la collocazione topografica della disciplina della responsabilità del produttore (per danno da prodotto difettoso) nel diritto italiano vigente (artt. 114 ss. cod. cons.), tale disciplina non si applica punto nella sola ipotesi del danneggiato-acquirente non-professionista del prodotto (di consumo): al proposito, sull’equivoco, già in una dimensione teleologico-assiologica, di una lettura della responsabilità in discorso operata attraverso la lente consumerista, v. A. Nicolussi, I consumatori, in L. Nivarra (a cura di), Gli anni Settanta del diritto privato, Giuffrè, 2008, 411 ss.
[9] Per vero, l’assunto circa la polifunzionalità della responsabilità extracontrattuale risulta, oggi, radicato presso gli interpreti italiani: cfr., fra i molti, P. Perlingieri, Le funzioni della responsabilità civile, in Rass. dir. civ., 2011, 155 ss.; C. Salvi, La responsabilità civile, III ed., in Tratt. dir. priv. Iudica, Zatti, Giuffrè, 2019, 37 ss., sebbene con un taglio critico, laddove distingue tra funzione del risarcimento e funzioni della responsabilità, nonché tra (risarcimento del) danno patrimoniale e non patrimoniale; M. Bussani, L’illecito civile, Tratt. dir. civ. del Consiglio Nazionale del Notariato diretto da P. Perlingieri, Esi, 2020, 113 ss. La preminenza dei momenti della prevenzione e della compensazione, in quanto generalmente caratterizzanti la responsabilità (anche oggettiva), è, comunque, esplicita nella pagina di C. Castronovo, Responsabilità civile, cit., 23 ss., e 770 con riguardo alla responsabilità del produttore, ove si legge, in particolare, che solo con la fissazione dei limiti soggettivi della imputazione «la responsabilità civile può realizzare la sua funzione di prevenzione e risarcimento»; e v. spec. P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, III ed., Giuffrè, 2021, 3 ss., 301 ss. e 435 ss. relativamente alla responsabilità del produttore, il quale, riguardata la disciplina di cui agli artt. 114 ss. cod. cons. come un mezzo per «esercitare una pressione sui metodi di produzione e sulle attività di progettazione, al fine di rendere i prodotti più sicuri», osserva che «il problema non è quello di trasferire senz’altro sul fabbricante ogni rischio di danno, bensì quello di distinguere i diversi rischi, attribuendone alcuni al fabbricante, altri all’utente, in modo da indurre l’uno e l’altro ad adottare le misure preventive di rispettiva competenza (…) quando ci si proponga semplicemente una finalità assicurativa, questa si realizza in modo più efficace e meno costoso mediante l’assicurazione contro i danni, piuttosto che mediante le complicazioni della responsabilità civile».
[10] Così, C. Salvi, La responsabilità civile, cit., 316, il quale, invero, causticamente aggiunge: «quando pure una logica si riesce a trovare».
[11] Il virgolettato, riferito all’art. 2 della proposta di direttiva (corrispondente, nella sostanza, all’art. 3 Dir. n. 85/374/CEE), è di C. Castronovo, Problema e sistema nel danno da prodotti, Giuffrè, 1979, 802 s., il quale premetteva a tale affermazione un rilievo: «la responsabilità civile è un istituto che ha una sua logica in risposta a esigenze sociali ben precise che non sono certo quelle del risarcimento ad ogni costo: (…) non è solo questo – né invero quello primario – l’obiettivo della responsabilità civile».
[12] Cfr., per tutti, D. Fairgrieve, G. Howells, P. Møgelvang-Hansen, G. Straetmans, D. Verhoeven, P. Machnikowski, A. Janssen, R. Schulze, Product Liability Directive, in P. Machnikowski (a cura di), European product liability. An Analysis of the State of the Art in the Era of New Technologies, Intersentia, Cambridge, 2016, 62 s., in accordo ai quali la Dir. n. 85/374/CEE rende responsabili «almost all participants involved in the production process (except mainly for designers)»; e, in particolare, la responsabilità viene fatta gravare sul «real producer (…) for reasons of prevention and in view of forestalling the spread of damage».
[13] S’intenda, poi, giustificare sostanzialmente la imputazione al soggetto prefigurato adducendo il criterio della colpa: per tale, minoritaria impostazione, almeno con riguardo ai difetti di progettazione ed informazione, v., di recente, A. Bertolini, Responsabilità del produttore, in E. Navarretta (a cura di), Codice della responsabilità civile, Giuffrè, 2021, 2624 s., il quale argomenta, in modo precipuo, dall’art. 118, lett. e, cod. cons. (corrispondente all’art. 7, lett. e, Dir. n. 85/374/CEE; in senso critico v., d’altronde, M. Barcellona, La responsabilità civile, in Tratt. dir. priv. Mazzamuto, VI, I, Giappichelli, 2021, 245, laddove eccepisce, giustamente, che la causa di esonero del c.d. rischio da sviluppo «determina il campo di operatività» della responsabilità del produttore, ma «non muta assolutamente il carattere oggettivo del titolo a cui il produttore risponde quando, invece, è chiamato a rispondere»); ovvero, quello del rischio (in particolare, d’impresa, lecito e tipico): come suggerisce, per tutti, P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, cit., 301 ss., spec. 435 ss.; ovvero ancora, quello – disegnato, in prima battuta, da Calabresi – c.d. del cheapest cost avoider (se si preferisce, del soggetto meglio in grado di condurre la cost-benefit analysis): cui aderisce, ancora di recente, da C. Castronovo, Responsabilità civile, cit., 492 s., il quale pure, a 794, nel testo e nella nt. 80, radica la responsabilità oggettiva del produttore nella «inadeguatezza dell’organizzazione d’impresa»; od infine, secondo quanto appare preferibile, (della idoneità a dominare od evitare la concretizzazione) del pericolo (arg. anche ex art. 117 cod. cons.), secondo la intuizione di M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità oggettive (Artt. 2049-2053), in Comm. cod. civ. Schlesinger, Giuffrè, 2009, 68 ss., spec. 184 ss., 250 ss. Del resto, avendo riguardo al diritto italiano, non solo la responsabilità del produttore è suscettibile di essere regolata, in luogo (della normativa speciale) degli artt. 114 ss. cod. cons., (proprio) dalla regola (di diritto comune) dell’art. 2050 cod. civ. (arg. ex art. 13 Dir. n. 85/374/CEE, e art. 127, comma 1, cod. cons.): sul punto, ampiamente, Ar. Fusaro, I prodotti difettosi e pericolosi: le responsabilità, in G. Alpa (a cura di), La responsabilità del produttore, Giuffrè, 2019, 361 ss.; in ispecie, il criterio valutativo sotteso a quest’ultima disposizione sembra munito di vocazione espansiva, in ciò che fa riferimento ad una pericolosità basata, oltreché sulla natura dell’attività, sulla natura dei mezzi adoperati (dunque, una pericolosità non riferita, di necessità, all’attività in sé, ma derivabile, altresì, dal contesto circostanziale).
[14] Un tanto non era stato previsto, in un primo momento, nella disciplina di recepimento francese, laddove la responsabilità del fornitore veniva equiparata, quanto a regolamentazione (in particolare, sotto il profilo della possibilità di esonero), a quella del produttore (art. 1386-7 Code civil). Tuttavia, a seguito di una duplice censura della normativa di attuazione da parte della CGUE (25.4.2002, C-52/00; 14.3.2006, C-177/04), anche la disciplina interna francese, sotto questo profilo, risulta, oggi, conforme alla Dir. n. 85/374/CEE: notizie, al proposito, in J.-S. Borghetti, Product liability in France, in P. Machnikowski (a cura di), European product liability, cit., 211.
[15] Dalla specola della disciplina di attuazione italiana, cfr., per tutti, P. Cendon, P. Ziviz, La prova del danno, in G. Alpa, M. Bin e P. Cendon (a cura di), La responsabilità del produttore, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. ec. Galgano, XIII, Cedam, 1989, 172.
[16] Il rilievo, per quanto consolidato, non sembra abbisognare di riscontri; efficace, in punto, la sintesi di H.-W. Micklitz, Il consumatore: mercatizzato, frammentato, costituzionalizzato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, 862, ove si legge che «sin da quando la Ue ha indossato i panni di regolatore del mercato, il diritto dei consumatori ha assunto una piega differente. Esso deve servire a completare il mercato interno. Il diritto dei consumatori è strumentalizzato».
[17] V., fra gli altri, A. Venchiarutti, Product liability e armonizzazione del diritto comunitario: le indicazioni della Corte di giustizia e le soluzioni della Supreme Court of United Kingdom, cit., 2016; G. Ponzanelli, Armonizzazione del diritto v. protezione del consumatore: il caso della responsabilità del produttore, oggi in E. Al Mureden, La sicurezza dei prodotti e la responsabilità del produttore. Casi e materiali, II ed., Giappichelli, 2017, 113, laddove afferma che «l’interesse del consumatore non è oggetto di una protezione diretta e/o prioritaria, ma soltanto, nella sostanza, di una difesa mediata dall’esigenza di giungere a una migliore armonizzazione dei singoli diritti»; da ultimo, A. Bertolini, Responsabilità del produttore, cit., 2620, il quale, accanto a quella di «tutela del consumatore» (v., peraltro, quanto precisato supra, nt. 8), evoca una finalità di «armonizzazione e garanzia di effettiva concorrenza».
[18] Anche nella prospettiva di una maggior tutela del danneggiato, per la eventualità della insolvenza del produttore effettivo, congruo potrebbe opinarsi, semmai, lo strumento (della istituzione) di un fondo di solidarietà: v. C. Castronovo, Problema e sistema nel danno da prodotti, cit., 806; agli strumenti dell’assicurazione, del servizio sanitario nazionale e della previdenza obbligatoria guarda, similmente, P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, cit., 443 s.
[19] Una critica risolutiva in M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità oggettive (Artt. 2049-2053), cit., 57 ss. Presso gli interpreti europei domina, ad ogni modo, l’idea che la responsabilità disciplinata dalla Dir. n. 85/374/CEE, per come recepita nei rispettivi diritti interni, abbia carattere – per incidens, del tutto giustificato, anche nella prospettiva dell’analisi economica del diritto: v. G. Afferni, L’analisi economica del diritto, in G. Alpa (a cura di), La responsabilità del produttore, cit., 346 ss. – oggettivo (arg. anche ex cons. n. 2): cfr., per la Germania, U. Magnus, Product liability in Germany, in P. Machnikowski (a cura di), European product liability, cit., 253, il quale segnala che, secondo la visione prevalente, la responsabilità del produttore, nel regime del Produkthaftungsgesetz, è «strict liability» (laddove, invece, nel regime del BGB, sarebbe una responsabilità per colpa presunta); per la Francia, J.-S. Borghetti, Product liability in France, cit., 219; per la Spagna, M. Martìn-Casals e J. Solé-Feliu, Product liability in Spain, ivi, 423; e, per l’Italia, G. Comandé, Product liability in Italy, ivi, 282, spec. nt. 21. La giurisprudenza italiana, per vero, adotta il canone, problematico, della c.d. responsabilità presunta (i.e., giusta l’adagio pretorio, prescindente dalla prova della colpevolezza del produttore, ma non del difetto del prodotto): v., da ultimo, Cass. 7.4.2022, n. 11317, in CED Cassazione; per una censura della categoria, in quanto concettualmente inconsistente, v., d’altronde, C. Castronovo, Responsabilità civile, cit., 789 s., nt. 69.
[20] V. supra, ntt. 13 e 19. Beninteso, il criterio del rischio-profitto, (almeno) in alcune declinazioni, può avvicinarsi – fino a sovrapporsi – a quello del rischio d’impresa; quest’ultimo, però, (almeno) nella declinazione più meditata, fa gravare il costo del danno sull’imprenditore non già quale contropartita del profitto derivante dall’attività, bensì in quanto soggetto meglio in grado di (prevederlo e, sotto un profilo economico, di) governarlo (nella prospettiva, orientata dalla teoria della distribuzione di costi e ricavi come fondamento delle scelte produttive, di una pressione alla razionalizzazione economica della relativa attività): mediante assicurazione, auto-assicurazione od aumento del prezzo dei prodotti.
[21] Non sembra, pertanto, ammissibile l’affermazione di M. Franzoni, L’illecito, II ed., I, in Tratt. resp. civ. Franzoni, Giuffrè, 2010, 650, secondo cui «la figura del responsabile prevista nel decreto non coincide con quella di fabbricante del bene: il legislatore ha favorito il danneggiato, consentendogli di agire nei confronti di chi in ogni modo è coinvolto nella circolazione del prodotto, salvo poi fare ricadere sul fabbricante il peso del danno, in via definitiva, attraverso il regresso». Proprio la (opzione positiva della) esclusione del distributore dalla sfera d’imputazione soggettiva della responsabilità – se non, s’intende, in via sussidiaria – è criticata, del resto, da F. Cafaggi, La responsabilità dell’impresa per prodotti difettosi, in Tratt. dir. priv. eur. Lipari, II ed., IV, Cedam, 2003, 551.
[22] V., sul piano del metodo, P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-europeo delle fonti, II, cit., 326 ss.; e si consideri, nel merito, che, giusto con riferimento all’articolato della proposta di direttiva, U. Carnevali, La responsabilità del produttore, rist. aggiornata, Giuffrè, 1979, 413, affermava la non-sufficienza dell’apposizione del segno su un prodotto per aversi responsabilità del titolare, rappresentando la esigenza che, altresì, «l’imprenditore si present[asse] al pubblico come produttore».
[23] Sulla evoluzione di tali elaborazioni, recepite, dapprima, da Finzi, Sotgia, Mossa e (specialmente) M. D’Amelio [fra l’altro, nella voce Apparenza del diritto (agg. di L. Marmo), in Noviss. Dig. it., I, Utet, 1957, 714 ss.], cfr. R. Moschella, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, cit., 10 ss.; E. Rajneri, Il principio dell’apparenza giuridica, Università degli Studi di Trento-Litotipografia Alcione, 2002, 11 ss., 45 ss., 65 ss.; P. Gallo, Trattato di diritto civile, IV, I contratti, le promesse unilaterali, l’apparenza, Giappichelli, 2017, 589 ss. Nel diritto romano, per un passo (in certa misura) antesignano, v. D. 5, 3, 25, 17, relativo all’alienazione di beni ereditari da parte del possessore in buona fede; error ius facit., invece, nel legato di suppellettili (D. 33, 10, 3, 5). V. anche l’art. 3:201 PECL.
[24] In quanto, secondo alcune impostazioni – invalse, in special modo, in Germania –, vi si fanno rientrare ipotesi di apparire, quantunque accidentale, del reale come reale: v., ad esempio, il rilievo di R. Moschella, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, cit., 25, nt. 20.
[25] La fortunata formula dell’errore collettivo possibile, in relazione alla (conformazione della inferenza rispetto alla situazione di) apparenza giuridica, si deve, com’è noto, a L. Monacciani, Azione e legittimazione, Giuffrè, 1951, 138 s., che scrive, in forma più estesa, di «possibilità oggettivamente apprezzabile di errore collettivo, anziché un errore individuale in atto».
[26] Cfr., esemplificando, già M. Wellspacher, Das Vertrauen auf äußere Tatbestände im bürgerlichen Rechte, Manz, 1906, 115, ove si legge che «Wer im Vertrauen auf eine äußeren Tatbestand rechtsgeschäftlich handelt, der zufolge Gesetzes oder Verkhersauffassung die Erscheinungsform eines bestimmten Rechtes, Rechtsverhältnisses oder eines anderen rechtlich relevantes Momentes bildet, ist in seinem Vetrauen geschützt, wenn jener Tatbestand mit Zutun desjenigen zustande gekommen ist, dem der Vertrauensschutz zum Nachteile gereicht»; avendo riguardo, fra l’altro, alla giurisprudenza francese, M. D’Amelio, voce Apparenza del diritto (agg. di L. Marmo), cit., 716, in accordo al quale, «quando l’apparenza del diritto è ragionevole, deve permettersi ai terzi di considerarla come corrispondente alla realtà per non creare sorprese alla buona fede nelle contestazioni; per non obbligare i terzi ad un accertamento preventivo della realtà di quanto appare evidente, con intralcio gravissimo della vita degli affari; per non rendere più lenta e faticosa e costosa l’attività giuridica, in un momento storico dove tutto esige speditezza e sicurezza nella formazione dei rapporti giuridici e sociali».
[27] Giusta la celebre locuzione di P. Krückmann, Nachlese zur Unmöglichkeitslehre. Erster Beitrag, in Jherings Jahrbücher für die Dogmatik des bürgerlichen Rechts, Gustav Fischer, 1910 (B. 57), 162, 169. In questa prospettiva, l’apparenza designa, in termini generalissimi, la rilevanza (per dir così) esaustiva, ai fini della produzione dell’effetto, di elementi (per dir così) esteriori di una fattispecie (o, comunque, il carattere esaustivo di alcuni elementi costitutivi di essa: che, in quanto consentono di presumere il ricorrere degli altri, riescono praticamente sufficienti per ritenere integrata la fattispecie, rendendo per ciò stesso concrete le pretese soggettive), e finisce per assumere, in tal modo, la foggia di un «principio di funzionamento dell’ordinamento giuridico», di «una legge della fenomenologia giuridica», di un fondamento per «spiegare l’inevitabile inconveniente della scissione tra il diritto astrattamente previsto dal legislatore e il diritto concretamente applicato»: cfr., rispettivamente, R. Moschella, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, cit., 35 s.; M. Bessone e M. Di Paolo, voce Apparenza, in Enc. giur., II, Treccani, 1988, 1; E. Rajneri, Il principio dell’apparenza giuridica, cit., 62.
[28] Cfr., fra gli altri, R. Moschella, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, cit., 36 ss. Così è a dirsi, ad esempio, per la disciplina positiva della tutela del terzo acquirente da quanti – non già: appare erede (art. 534, comma 2, cod. civ.); bensì – viene indicato come erede in un Erbschein (§§ 2365 s. BGB).
[29] Cfr., per tutti, L. Josserand, Cours de droit civil positif français, I, II ed., Recueil Sirey, 1932, 153, 801, 908 s. Con l’ampliamento della casistica rilevante, d’altronde, l’errore comune («erreur commune et invincible», nonché «excusable», in conformità delle aggettivazioni di Josserand) diventa, nella prassi applicativa, errore legittimo, ossia quello che «il principio dell’apparenza perdona malgrado l’esistenza di strumenti che, se consultati, avrebbero svelato la realtà del diritto»: cfr. E. Rajneri, Il principio dell’apparenza giuridica, cit., 41 s.
[30] Così, nella già menzionata opera di L. Josserand, Cours de droit civil positif français, I, cit., passim, e II, II ed., Recueil Sirey, 1933, passim, la rilevanza giuridica dell’apparence viene enunziata – con dovizia di riferimenti dottrinali e giurisprudenziali – in materia di: domicile; séparation de fait; filiation; concubinage; propriété (segnatamente, «pour le immeubles»: operando, nell’ambito mobiliare, la regola en fait de meubles la possession vaut titre); paiement; prête-nom; hypothèque; préposé (in relazione alla responsabilité du commettant). Nel diritto positivo vigente, a seguito della Ordonnance n. 2016-131, del 10.2.2016, v. gli artt. 1156 s. e 1342-3 Code civil.
[31] V. supra, nella nt. precedente.
[32] Invalse, specialmente, nella dottrina giuscommercialistica d’inizio ‘900: cfr., per tutti, L. Mossa, Trattato del nuovo diritto commerciale secondo il codice civile del 1942, I, Soc. ed. Libraria, 1942, passim.
[33] Nella misura in cui, s’intende, non è raro rinvenire, soprattutto presso la giurisprudenza pratica, la declamazione di un principio generale dell’apparenza giuridica: fra le sentenze più recenti, v., ad esempio, Cass. 19.3.2007, n. 6465, in Leggi d’Italia; Trib. Nocera Inferiore, 22.3.2010, ivi; Trib. Modena, 15.1.2008, ivi; in senso critico, fra gli altri, v. F. Galgano, Sul principio generale dell’apparenza del diritto, in Contr. impr., 2009, 1137 ss., il quale, peraltro, riconduce le pratiche applicazioni dell’apparenza giuridica, fuori dai casi legalmente tipici, alle regole relative alla simulazione.
[34] Richiedendosi, cioè a dire, il ricorrere, nonché dell’errore (individuale) scusabile di quanti l’apparenza invocasse a proprio vantaggio, della colpa (o del dolo) del soggetto (determinante, col proprio contegno, una situazione di apparenza) contro cui fosse invocata: cfr., da ultimo, P. Gallo, Trattato di diritto civile, IV, I contratti, le promesse unilaterali, l’apparenza, cit., 599 ss. La fattispecie (non legalmente tipica) di più frequente riscontro pratico, individuata in sede di Fortbildung dottrinale-giurisprudenziale, è, senz’altro, quella dell’apparenza di rappresentanza, affermatasi nel diritto vivente (appunto) come necessariamente colposa e compendiante la buona fede (in senso soggettivo) del terzo: v., fra le altre, Cass., ord. 6.8.2018, n. 20549, in Leggi d’Italia; Cass. 13.7.2018, n. 18519, in CED Cassazione, 2018; Cass. 27.1.2015, n. 1451, in Notariato, 2015, 173. In dottrina, limitando le citazioni all’ultimo decennio, possono consultarsi, sul punto, i contributi di L. Nivarra, Tutela dell’affidamento e apparenza nei rapporti di mercato, in Eur. dir. priv., 2013, 838 s., ove una critica alla figura della rappresentanza apparente, in quanto riferita all’ambito della rappresentanza civile (la cui disciplina verrebbe, secondo l’Autore, surrettiziamente e indebitamente equiparata, per tal via, a quella della rappresentanza commerciale); S. Pagliantini, La riconcettualizzazione processuale del contratto: le Sezioni Unite sulla rappresentanza senza potere nel dualismo fra tutela obbligatoria e reale dell’affidamento, in Contratti, 2015, 652 ss., spec. 653, il quale appare orientato, invece, in senso favorevole; G. Di Rosa, Rappresentanza, in Enc. dir. – I tematici, I-2021, Contratto, diretto da G. D’Amico, Giuffrè, 2021, 962 ss., il quale, infine, tende a riportare la questione sul terreno della inopponibilità a terzi della modificazione o della estinzione della procura (meglio, dei fatti determinativi delle relative vicende).
[35] Cfr. J.v. Gierke, Handelsrecht und Schiffahrtsrechts, II ed., De Gruyter, 1926, 47 s., laddove si riferisce alla fattispecie – già segnalata da K. Rauch, Grenzen der negativen Publizität des Handelsregisters, in Festgabe fur K. Güterbock, Vahlen, 1910, 451 – della esplosione nella fabbrica di proprietà di una Handelsgesellschaft, a fronte della quale restavano feriti due passanti; il socio apparente aveva bensì lasciato la società [«ist (…) aussgeschieden»] prima della esplosione, ma la relativa comunicazione pubblica era stata eseguita solo in seguito. In ossequio al Publizitätsprinzip, viene prospettata, quindi, una responsabilità (anche) del già-socio, allorquando il danneggiato non fosse stato a conoscenza, per fatto proprio, della intervenuta dipartita.
[36] Cfr. spec. L. Mossa, Trattato del nuovo diritto commerciale, IV, Cedam, 1957, 151 s., ove si legge che «l’apparenza e l’affidamento non hanno significato al di là della determinazione di volontà. Si è d’accordo, sino dai giorni primi della teoria dell’apparenza, nell’escluderla dinanzi ai fatti illeciti della società che ha creato una certa apparenza. L’esempio è quello della passeggiata innanzi ad un opificio di esplosivi che salta per aria, passeggiata fatta sulla sicurezza che un socio in collettivo era ancora in società»; e già, con rimandi alla coeva dottrina tedesca, Id., Trattato del nuovo diritto commerciale secondo il codice civile del 1942, I, cit., 324. Suscita perplessità, peraltro, l’argomento che Mossa spende per convalidare la superiore conclusione, discorrendo di una «illiceità che non può farsi divenire, con sforzi assurdi, fonte di affidamento»: invero, non certo dalla illiceità, nella specie, potrebbe farsi scaturire un ipotetico affidamento (del danneggiato che agisse in giudizio contro il socio escluso, credendolo erroneamente ancora socio), sibbene dalla pubblicità di un fatto. E merita segnalare che lo stesso Mossa, a seguito delle superiori declamazioni, pur sempre assume come «più savia l’ipotesi del danno extracontratto, provocato dall’istitore revocato senza registrazione».
[37] Né tantomeno, per quanto possa opinarsi rilevare, era integrata un’apparenza capace di reagire sul comportamento del danneggiato (già) prima (dell’evento dannoso e) della relativa domanda risarcitoria. Si vuol intendere che, come si preciserà in appresso (infra, §§ 4 s.), il segno distintivo apposto su un prodotto – a maggior ragione, se abbinato a circostanze concomitanti che cospirino a prospettare la qualità di produttore del titolare del segno – può contribuire a determinare le scelte di consumo ed utilizzo. Non altrettanto è a dirsi, naturalmente, per la circostanza che un già-socio appaia (in senso lato), secondo pubbliche risultanze, ancora tale, rispetto al fatto della passeggiata di un terzo in (casuale) prossimità di una fabbrica di proprietà della società. Di là di tali puntualizzazioni, gli è, comunque, che, nella fattispecie individuata dai giuristi tedeschi, a configurare una responsabilità del già-socio si potrebbe tutelare, tutt’al più, l’affidamento del danneggiato in quanto (ormai) attore, evitandogli l’inconveniente (soprattutto, le spese) di un nuovo procedimento, da coltivare in confronto dei soci effettivi. E però, se ciò dovrebbe valere, quantomeno, ad escludere la rilevanza dell’apparenza allorquando, prima dell’esperimento dell’azione contro il già-socio, la situazione reale fosse portata alla cognizione del danneggiato, una responsabilità del già-socio resterebbe difficilmente giustificabile, pur sempre, anche nel primo caso. Si avrà modo di argomentare, invero, che, con riferimento al produttore apparente, la soluzione più adeguata non sia, in nessun caso, quella dell’assimilazione piana del soggetto ad un produttore effettivo (i.e. della responsabilità punto); quanto, semmai, di una responsabilità mediata e sussidiaria, ancorché preservante il danneggiato dall’onere d’iniziare un nuovo giudizio rispetto a quello, per ipotesi, già radicato: v. infra, § 5.
[38] V. supra, nt. 30.
[39] Rilevava, sul punto, L. Josserand, Cours de droit civil positif français, I, cit., 276, che «il suffit que la compétence du préposé soit apparente pour que’elle entraîne la responsabilité du commettant (…) c’est una nouvelle consécration de la théorie de l’apparence et des effets que renferme en puissance cette situation juridique: qui crée une apparence en demeure le prisonnier».
[40] Oltre al riferimento dottrinale di cui supra, nt. 36, v. spec. Cass. 7.4.2006, n. 8229, in Mass. Giur. it., 2006, in accordo alla quale, sulla base del principio dell’apparenza, l’intermediario finanziario può considerarsi responsabile per il fatto illecito compiuto – in tale veste – da un promotore apparente in danno di terzi.
[41] Cfr., in punto, M. Bessone, M. Di Paolo, voce Apparenza, cit., 5, i quali – richiamando la giurisprudenza di Cass. 19.10.1979, n. 5433, in Rep. Giust. civ., 1979, voce Obbl. contr., n. 11 – osservano come la costruzione rilevi, in seno alla casistica, allorquando ricorre una scissione tra «titolarità della licenza» per lo svolgimento di una attività commerciale, e «realtà sostanziale della gestione dell’impresa»: qui, normalmente, è il «vero gestore» che risponde delle obbligazioni assunte verso i terzi in via esclusiva; tuttavia, ciò non esclude che «la responsabilità del titolare della licenza che non gestisca l’esercizio possa affermarsi in relazione ad una situazione di apparenza giuridica, vale a dire ad un comportamento dello stesso intestatario che giustifichi il convincimento dei terzi che egli, e non altri, sia l’effettivo gestore dell’esercizio». V. anche, al riguardo, R. Moschella, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, cit., 208 ss.
[42] Come rileva A. Falzea, Apparenza, cit., 835 ss.
[43] V. sempre A. Falzea, Apparenza, cit., 836, ove si legge che è «frutto di equivoco (…) l’affermazione secondo cui la buona fede sarebbe elemento logicamente necessario della fattispecie»: se la legge richiede che all’apparenza (come elemento oggettivo) si accompagni l’elemento concomitante della buona fede, tale nesso è «giuridico e non logico».
[44] Ecco perché, si crede, costituisce una petizione di principio l’assunto di L. Nivarra, Tutela dell’affidamento e apparenza nei rapporti di mercato, cit., 838 s., nt. 4, laddove considera «inconcepibile» una rilevanza giuridica dell’apparenza «al di fuori di un disegno di tutela dell’affidamento incolpevole»: perlomeno, va da sé, laddove con ciò si volesse significare non già (solo) la necessaria tensione (funzionale) dell’apparenza giuridica verso la tutela dell’affidamento (in astratto-obiettivo), bensì (anche) la necessaria sussistenza (strutturale) di un elemento soggettivo – tesi, quest’ultima, presente già in L. Monacciani, Azione e legittimazione, cit., 140, nt. 52; più cauto S. Pugliatti, La trascrizione, I, 1, cit., 1583, che ne opina il carattere «quasi sempre» costitutivo – nell’ambito della relativa fattispecie effettuale.
[45] Tale impostazione, del resto, è accolta, in termini generali, da R. Moschella, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, cit., 69 ss., in accordo al quale, sulla base della premessa che «conoscenza dell’apparenza» e «conoscenza della realtà rilevano su piani diversi» (la prima, quale elemento costitutivo della fattispecie effettuale; la seconda, quale normale elemento impeditivo), conclude che «non è l’apparenza un limite alla rilevanza giuridica della buona fede; è la mala fede un limite alla rilevanza giuridica dell’apparenza».
[46] Per vero, il diritto positivo italiano della responsabilità del produttore, (almeno) a tutta prima, non conosce, oggi, la figura del responsabile-produttore apparente: recepita, dapprima, nel D.P.R. n. 224 del 1988, e ancora agevolmente configurabile (mediante elaborazione sistematica) a seguito della trasposizione della disciplina nel cod. cons., il vigente art. 115, comma 2-bis, cod. cons., introdotto nel 2007 (art. 14, comma 2, d.lgs. 23.10.2007, n. 221), ne ha determinato, formalmente, la obliterazione. Quest’ultima disposizione veicola, infatti, una nozione di produttore, rilevante ai fini dell’applicazione degli artt. 114 ss. cod. cons., che non contempla il titolare di segni distintivi apposti sul prodotto. Il produttore apparente resta, certo, nominato dalla disposizione generale dell’art. 3 cod. cons., nonché dal successivo art. 103 (in materia di sicurezza dei prodotti; e v. anche l’art. 128, comma 2, lett. d, cod. cons., in materia di vendita di beni di consumo); e però, se l’ambito applicativo del secondo è espressamente confinato al relativo titolo, il primo fa espressamente salvo, financo, (proprio) l’art. 115, comma 2-bis. Stante la puntuale definizione, ad opera delle disposizioni interne, delle rispettive sfere operative, l’impressione che, in tal guisa, il legislatore italiano abbia dato la stura ad una singolare ipotesi di (per dir così) mancata attuazione sopravvenuta della Dir. n. 85/374/CEE, non è facile da esorcizzare. Una conclusione diversa imporrebbe uno sforzo interpretativo supplementare, rispetto a quello richiesto prima del 2007, sì da recuperare (ancora), alla luce delle altre disposizioni consumeristiche (che conoscono la figura: riferendo, in particolare, la salvezza di cui all’art. 3 cod. cons. appena alla menzione, nell’art. 115, di produttore parziale, produttore della materia prima, allevatore, cacciatore e pescatore, non testualmente contemplati nella disposizione generale) e in virtù di una interpretazione conforme (alla Direttiva), l’adeguatezza della normativa interna al diritto europeo: in questa direzione muove, in effetti, U. Carnevali, “Produttore” e responsabilità per danno da prodotto difettoso nel codice del consumo, oggi in E. Al Mureden, La sicurezza dei prodotti e la responsabilità del produttore, cit., 78 ss.
[47] In tal senso, v. spec. U. Carnevali, in Aa.Vv., La responsabilità per danno da prodotti difettosi, Giuffrè, 1990, 19 s.; Id., in Id. (a cura di), Dei fatti illeciti. Leggi collegate, nel Comm. cod. civ. E. Gabrielli, Utet, 2013, 596 ss.; con qualche cautela, O. Troiano, Art. 3. Produttore – d.p.r. 24 maggio 1988, n. 224, in Nuove leggi civ. comm., 1989, 524 s., sebbene depotenziando, così, l’asserto, pure speso nel contributo, di un titolare del segno che si presenterebbe come produttore per il sol fatto di aver apposto il proprio segno distintivo su un prodotto; analogamente è a dirsi per A. Atti, I soggetti equiparati al fabbricante, in G. Alpa, M. Bin, P. Cendon (a cura di), La responsabilità del produttore, cit., 72 s., la quale, pur inclinando per una responsabilità del titolare del marchio di commercio, precisa che, laddove il segno fosse preceduto da diciture quale «distribuito da», dovrebbe applicarsi la disciplina dedicata al(la responsabilità del) fornitore; P.G. Monateri, La responsabilità civile, in Tratt. dir. civ. Sacco, Utet, 1998, 712, secondo cui il titolare del segno potrebbe evitare la responsabilità «solo se la mera intenzione pubblicitaria era così evidente da non poter sfuggire neanche al consumatore qualunque».
[48] Cfr., da ultimo, H. Sprau, Gesetz über die Haftung für fehlerhafte Produkte (Produkthaftungsgesetz – ProdHaftG), in Bürgerliches Gesetzbuch mit Nebengesetzen Palandt, B. 7, Beck, 2021, 2978: «Auch wer an dem Prod seine Marke anbringt, haftet nach I 2, sofern nicht klar erkennb ist, dass diese nur auf ihn als Handler hinweist und hinweisen soll; im letzteren Fall Haftung nur nach III od nach DeliktsRecht». In giurisprudenza, l’idea che l’apposizione del segno su un prodotto non sia sufficiente per aversi responsabilità del titolare si rinviene, fra le altre, in BGH 21.6.2005 – VI ZR 238/03, in bundesgerichtshof.de.
[49] Cfr., al proposito, quanto riferisce A.L.M. Keirse, Product liability in Netherlands, in P. Machnikowski (a cura di), European product liability, cit., 325, il quale richiama, nella nt. 52, la giurisprudenza di Kamerstukken II Mvt 1985/86, 19 636, 10: «the person who lends his name to a product for advertising reasons is not considered to be the producer of the product».
[50] In questo senso, v. D. Fairgrieve, G. Howells, P. Møgelvang-Hansen, G. Straetmans, D. Verhoeven, P. Machnikowski, A. Janssen, R. Schulze, Product Liability Directive, cit., 63 ss., i quali aggiungono che la ratio dell’art. 3, comma 1, ult. parte, Dir. n. 85/374/CEE va individuata nella protezione del danneggiato il quale incontrasse difficoltà nel rintracciare l’identità del produttore effettivo.
[51] V., di nuovo, D. Fairgrieve, G. Howells, P. Møgelvang-Hansen, G. Straetmans, D. Verhoeven, P. Machnikowski, A. Janssen, R. Schulze, Product Liability Directive, cit., 64 s. Per una problematizzazione del canone del consumatore medio, sebbene nel contesto disciplinare della contrattazione consumeristica, cfr., peraltro, S. Pagliantini, In memoriam del consumatore medio, in Eur. dir. priv., 2021, 2 ss.; e conviene precisare che, nella specie, in luogo del consumatore dovrebbe farsi riferimento all’utilizzatore.
[52] Un tanto, perlomeno, a supporre che la fattispecie simulatoria sia perfetta, di talché rilevante ex art. 1414 cod. civ., non appena siano perfezionati – quand’anche, si badi, senza (il ricorrere di modalità e circostanze idonee alla) esteriorizzazione a terzi – l’accordo simulatorio ed il relativo negozio simulato; ma che, al contempo, ciò non esaurisca, di necessità, il procedimento finalizzato a realizzare l’interesse (complessivo) dei simulanti, il quale non può non proiettarsi, funzionalmente, verso la determinazione di un intendimento di terzi: per una concezione consimile, v. F. Anelli, Simulazione e interposizioni, in Tratt. del contratto Roppo, III, Giuffrè, 2006, 567 ss. Una posizione prossima a quello del testo è, si ritiene, in A. Falzea, Apparenza, cit., 826 s., il quale, muovendo dall’assunto secondo cui i fatti di significazione simbolica (quale, beninteso, una dichiarazione negoziale) non sono strutturalmente suscettibili di fondare una situazione di apparenza, rileva come l’apparenza di titolarità (ex art. 1415, comma 1, cod. civ.) dovrebbe intendersi «costituita in primo luogo dal contratto simulato, ma anche e specialmente dal comportamento complessivo dei simulanti, idoneo a generare nei terzi l’erroneo convincimento sulla titolarità»; v. pure G. Furgiuele, Della simulazione di effetti negoziali, Cedam, 1992, 57 ss., il quale, pur escludendo il fenomeno simulatorio dall’ambito dell’apparenza (58, nt. 81), riguarda, poi, il negozio simulato (degradato a mero fatto) come indice primo e fondamentale prospettato, assieme ad altri, dai simulanti ai terzi, per indurli a credere occorsa la produzione di determinati effetti negoziali. Se così è, comunque la si volesse considerare, ai fini dell’applicazione dell’art. 1415, comma 1, cod. civ. della medesima volontà simulata non conterebbe tanto il contenuto di per sé (ciò che si manifesta), quanto, semmai, il contenuto in relazione alla sua modalità di espressione, ed al relativo contesto situazionale (come lo si manifesta). In senso diverso (i.e. per la sufficienza del negozio simulato, fondante un’apparenza di titolarità intesa in senso ampio e, in ultima analisi, titolo di legittimazione formale), v. L. Mengoni, Gli acquisti «a non domino», cit., 346 s., 363 s., ma sulla premessa, fra l’altro, di una lettura non condivisibile – in quanto obliterante la duplice rilevanza giuridica del negozio simulato, come autoregolamento, depotenziato dall’accordo simulatorio (artt. 1414, 1372 cod. civ.), e come fatto rilevante dinnanzi ai terzi (art. 1415 s. cod. civ.) – dell’art. 1414, comma 1, cod. civ., opinato come concernente la opponibilità dell’accordo simulatorio. Al proposito, una ricostruzione che, nel negozio simulato, distingue il momento dell’autoregolamento (rilevanza inter partes-efficacia) da quello della fattispecie legale (rilevanza nei confronti dei terzi-validità), si rinviene, naturalmente, in A. Auricchio, La simulazione del negozio giuridico. Premesse generali, Jovene, 1957, passim, spec. 9 ss.; per una accurata panoramica degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia, di recente, cfr. R. Lenzi, Simulazione (Artt. 1414-1417), in Comm. cod. civ. Schlesinger, Giuffrè, 2017, 3 ss.
[53] Ed in uno, s’intende, con l’assenza d’indici concorrenti oggettivamente in grado di annichilire l’apparenza, rivelando la realtà. Si potrebbe obiettare che la rilevanza di un tale profilo sia pertinente, piuttosto, all’elemento soggettivo della fattispecie ex art. 1415, comma 1, cod. civ.; e però, intesa come ignoranza (individuale) della simulazione (ed errore, individuale, circa la titolarità), la buona fede del terzo – la cui rilevanza, in punto di fattispecie normativa, già importa una divaricazione tra il trattamento giuridico del negozio simulato, da un canto, e quello dei (fatti di pubblicità, nonché) dei titoli di legittimazione formale, dall’altro – potrebbe ben essere slegata dalla riconoscibilità sociale, in ragione del ricorrere di elementi obiettivi, della situazione reale (dunque, dalla scusabilità dell’errore, intesa, si badi, come scusabilità oggettiva): cfr., in tal senso, A. Falzea, Apparenza, cit., 846 s. Per contro, allorquando discorre di errore nell’ambito della simulazione, L. Mengoni, Gli acquisti «a non domino», cit., 347, in coerenza con la concezione di cui supra, alla nota precedente, fa riferimento ad una protezione del terzo acquirente apprestata «per il solo fatto che ha ignorato la simulazione del titolo del suo autore, indipendentemente dalla commisurazione dell’errore individuale in atto sul metro astratto di un possibile errore collettivo».
[54] Insomma, le locuzioni contratto apparente (art. 1414, comma 2, cod. civ.) e titolare apparente (art. 1415, comma 1, e 1416, comma 1, cod. civ.), opportunamente valorizzando il dato letterale, non appaiono equivalere davvero, sic et simpliciter, a contratto simulato e simulato acquirente, sibbene, perlomeno, a contratto simulato in quanto oggetto di ostensione, e simulato acquirente in forza di un titolo oggetto di ostensione. Altrimenti da quanto prevede l’art. 1992 cod. civ. (v. anche gli artt. 2003, comma 2, 2008, 2021 cod. civ.), tale (forma di) ostensione del negozio simulato – si pensi, ad esempio, alla sua documentazione, seguita da una formalità pubblicitaria, ovvero alla esecuzione di un c.d. obbligo formale (tributario: art. 13, comma 1, l. 9.12.1998, n. 431), od ancora ad atti reali (fittiziamente) esecutivi (in grado, nel caso, finanche di manifestare la volontà simulata per facta concludentia), e via elencando; per la possibile comprensione, altresì, della dichiarazione (di volontà negoziale simulata) orale, e però se resa «alla presenza di almeno un terzo», v. G. Furgiuele, Della simulazione di effetti negoziali, cit., 71 s. – dovrebbe considerarsi indeterminata a priori (quanto a modalità), e non necessariamente in confronto di un terzo determinato, contro cui s’invocasse, nel caso specifico, la simulazione (ciò su cui si appuntavano, del resto, le più vivaci critiche di S. Pugliatti, La simulazione dei negozi unilaterali, oggi in Id., Scritti giuridici, III, cit., 678 ss., alla teoria messiniana della c.d. consumazione); allo stesso modo in cui, per la salvezza del terzo avente causa dal simulato acquirente ex art. 1415, comma 1, cod. civ., appare necessario che a quello, in qualche modo, fosse stato reso effettivamente conoscibile (e, quindi, fosse conosciuto), se non altro, il fatto-negozio simulato, presupposto della titolarità apparente. Di esteriorizzazione del negozio simulato, in contrapposto ad una mancata esteriorizzazione ai terzi (non coincidente, si badi, con una mancata manifestazione di volontà, in quanto non determinante il mancato perfezionamento) di quello dissimulato, discorre, fra gli altri, A. Cataudella, I contratti. Parte generale, IV ed., Giappichelli, 2014, 294 ss.; e, per il rilievo che la salvezza del terzo, praticamente, transiti per «comportamenti materialmente conformi all’esecuzione del contratto» – quali, ad esempio, la consegna della cosa (la cui proprietà fosse) simulatamente alienata, la movimentazione di danaro e via elencando –, «onde rafforzare l’apparato scenico agli occhi dei terzi e sottrarre loro elementi presuntivi di prova della simulazione, che sarebbe ictu oculi percepibile laddove nessun comportamento esecutivo sia seguito alla dichiarazione negoziale», v., inoltre, F. Anelli, Simulazione e interposizioni, cit., 572. Che, una volta ammessa la validità della ricostruzione, ciò possa corrispondere ad una situazione di apparenza in senso proprio, sembra concesso, indirettamente (ma a fortiori), anche da L. Mengoni, Gli acquisti «a non domino», cit., 242, nt. 141, nella misura in cui afferma che il § 405 BGB (il quale impedisce al debitore che abbia «eine Urkunde über die Schuld ausgestellt», allorquando il documento fosse stato esibito al cessionario in occasione della cessione, d’invocare la circostanza che «die Eingehung oder Anerkennung des Schuldverhältnisses nur zum Schein erfolgt», sempreché il cessionario non ne fosse a conoscenza) e l’art. 18, comma 2, Codice svizzero delle obbligazioni (giusta il quale, il «debitore non può opporre la eccezione di simulazione al terzo che ha acquistato il credito sulla fede di un riconoscimento scritto») costituiscono – nonostante, per vero, la predeterminazione legale del fatto significante – ipotesi di «apparenza di diritto in senso stretto».
[55] Per il rilievo che uno «scopo fraudolento» non connota, per forza, la simulazione, sì come non la connota uno scopo fraudolento con una «direzione subiettiva determinata», né la sua «attuazione», v., sulle orme di Ferrara, S. Pugliatti, La simulazione dei negozi unilaterali, cit., 678; di «intento doloso» non implicato, necessariamente, dalla simulazione, discorre, in dettaglio, L. Mengoni, Gli acquisti «a non domino», cit., 349. Poiché, d’altronde, la simulazione presuppone, quantomeno, una (duplice) volontà del simulato alienante (di perfezionare l’intesa simulatoria ed il negozio simulato); poiché, altresì, un’apparenza di titolarità basata (anche) sul negozio simulato presuppone, perlomeno, un ulteriore contegno del simulato alienante (che, consapevole di avere costituito un titolo d’acquisto simulato, resti inerte, non rivelando l’intesa simulatoria), trattasi, a tutto concedere, di apparenza colposa, e non già c.d. pura: v. spec. A. Falzea, Apparenza, cit., 848.
[56] Una trattazione a parte converrebbe dedicare, peraltro, alla questione dell’apposizione del segno contro la volontà (od a prescindere dalla volontà) del soggetto, cui il segno si riferisce: in particolare, alle ipotesi della c.d. manomissione e della c.d. utilizzazione atipica. Secondo la lettura di P.G. Monateri, La responsabilità civile, cit., 713 s., in questi casi il produttore apparente non risponderebbe, se non qualora avesse acconsentito all’apposizione (segnatamente, in caso di utilizzazione atipica); e però, a seguire rigorosamente la traccia dell’apparenza giuridica, allorquando fosse, comunque, riscontrabile una colpa del produttore apparente, l’apparenza produttiva dovrebbe risultare insensibile alla circostanza che il segno sia stato materialmente apposto da quest’ultimo o da un terzo. Il riferimento al consenso del produttore apparente, pertanto, dovrebbe essere inteso in senso ampio, sì da comprendere (anche) ipotesi d’inerzia del titolare del segno, pure a fronte della conoscenza dell’apposizione da parte di altri.
[57] Un cenno, in questa direzione, si rinviene in A. Atti, I soggetti equiparati al fabbricante, cit., 73; U. Carnevali, in Aa.Vv., La responsabilità per danno da prodotti difettosi, cit., 20 s.; Id., in Id. (a cura di), Dei fatti illeciti, cit., 596 ss.
[58] Una fattispecie analoga, si rammenta, risulta essere quella vagliata dalla CGUE nella sentenza in commento.
[59] Rientrano, all’evidenza, in questa casistica le ipotesi del titolare del segno-merchandisor o – sponsor.
[60] Esemplificando, anche qui, il produttore di macchine da caffè, il cui segno distintivo fosse apposto su un astuccio di cialde per macchine da caffè.
[61] V., fra gli altri, O. Troiano, Art. 3. Produttore – d.p.r. 24 maggio 1988, n. 224, cit., 524 ss.; A. Atti, I soggetti equiparati al fabbricante, cit., 73 ss.; P.G. Monateri, La responsabilità civile, cit., 712 ss.; H. Sprau, Gesetz über die Haftung für fehlerhafte Produkte (Produkthaftungsgesetz – ProdHaftG), cit., 2978; un cenno alla possibile rilevanza della «close economic relationship between the actual producer and his wholesaler, who acts as the producer of the product», pur nell’ambito di una trattazione che, nel complesso, risulta altrimenti intonata, si rinviene anche in D. Fairgrieve, G. Howells, P. Møgelvang-Hansen, G. Straetmans, D. Verhoeven, P. Machnikowski, A. Janssen, R. Schulze, Product Liability Directive, cit., 64.
[62] I virgolettati sono attinti da O. Troiano, Art. 3. Produttore – d.p.r. 24 maggio 1988, n. 224, cit., 524 ss.
[63] Può risultare utile segnalare che, in Austria, l’assemblatore risponde bensì, mentre s’intendono rimanere estranei alla nozione di produttore (dunque, all’area della imputazione soggettiva della responsabilità), dacché collocantisi «outside the scope of said definition», i soggetti che «merely provide make-ready service (ie finishing of an otherwise already complete product)»: cfr. B. Koch, Product liability in Austria, in P. Machnikowski (a cura di), European product liability, cit., 118 ss., il quale osserva come, sebbene il distinguo tra assemblaggio e (mera) opera di make-ready service non sia, in concreto, sempre agevole da stabilire, la giurisprudenza tenda a focalizzarsi, per discriminare, su «the expertise of the provider, the expectations of their costumers, and public perception of the product(s)». Così, secondo OGH 23.11.2006, 8 Ob 136/06t, EvBl 2007/53, il mettere assieme singole parti componenti di un prodotto finale potrebbe importare la costituzione di un nuovo prodotto: sicché, quanti procedesse a tale opera, risponderebbe per il danno cagionato dal nuovo prodotto; e però, se l’opera suddetta non richiedesse davvero, per la esecuzione, una particolare expertise, potendo essere posta in essere da chiunque, la responsabilità sarebbe, di converso, esclusa.
[64] Così, ancora, O. Troiano, Art. 3. Produttore – d.p.r. 24 maggio 1988, n. 224, cit., 528, ove si legge, ulteriormente, che almeno il «difetto di progettazione e quello derivante dalla mancata comunicazione all’utilizzatore delle informazioni necessarie per un impiego del prodotto in condizioni di sicurezza» rientrano, invero, nella «sfera di controllo del licenziante piuttosto che in quella del licenziatario».
[65] Ciò sembra in grado di giustificare, obiettivamente, perché, in Germania, «Der Lizenzgeber ist nicht Quasihersteller»: v. H. Sprau, Gesetz über die Haftung für fehlerhafte Produkte (Produkthaftungsgesetz – ProdHaftG), cit., 2978.
[66] Sul concetto di autoresponsabilità, cfr. almeno la voce, classica, di S. Pugliatti, Autoresponsabilità, oggi in Id., Scritti giuridici, IV, cit., 193 ss. Con riguardo ad ipotesi in cui il criterio di autoresponsabilità risultasse slegato da una «imputabilità soggettiva» (dall’illustre Autore riferita, per vero, al dolo; v., d’altra parte, quanto egli afferma a 246), L. Mengoni, Gli acquisti «a non domino», cit., 349, suggerisce, comunque, di ravvisarne il fondamento nel «principio oggettivo dell’agire a proprio rischio».
[67] Potrebbe trattarsi, al più, di presunzione semplice, dacché non esiste una disposizione di legge che la stabilisca, veicolando una corrispondente regola di giudizio: il diritto positivo, infatti, non già vincola il giudice – in seno alla disciplina della responsabilità del produttore – a considerare provato il fatto ignoto (qualità di produttore) sulla base del fatto noto (apposizione del segno distintivo su un prodotto); piuttosto, si limita a legittimare una considerazione dell’apposizione del segno su un prodotto – ricorrendo, a margine, circostanze concomitanti non idonee a disvelare senz’altro la situazione reale – come apposizione, secondo un canone sostanziale di probabilità prevalente, da parte del produttore. Per la (astratta) sufficienza di una singola inferenza, fondata su un singolo fatto noto, al fine della costituzione del «fondamento probatorio dell’accertamento del fatto ignorato», nonché di più inferenze convergenti, quand’anche nessuna fosse in grado, da sola, di «fondare adeguatamente la conclusione sul fatto ignorato», v., comunque, M. Taruffo, Le prove per induzione, in Id. (a cura di), La prova nel processo civile, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu e Messineo, Giuffrè, 2012, 1111 s.
[68] Di recente, cfr. M. De Maria, Delle presunzioni. Artt. 2727-2729, in Comm. cod. civ. Schlesinger, Giuffrè, 2014, 121 ss., laddove segnala – raccogliendo uno spunto di Taruffo – la differenza tra criterio di probabilità: che, «in quanto attiene alla materia della prova del fatto specifico, entra in gioco nel giudizio basato sulle presunzioni semplici»; e criterio di verosimiglianza: la quale «è condizione presupposta dalla fattispecie tipica dedotta in causa che non abbisogna di dimostrazione in quanto assista da una “apparenza” che garantisce intorno alla sua veridicità. Verosimile è il fatto allegato nella misura in cui esso risulta prevedibile come situazione ricorrente secondo un criterio di normalità» (non già, invece, sulla base di indizi gravi precisi e concordanti, ex art. 2729, comma 1, cod. civ.).
[69] Sulla figura, cfr. spec. S. Patti, Della prova testimoniale. Delle presunzioni (Art. 2721-2729), in Comm. cod. civ. Scialoja, Branca, Zanichelli-Soc. ed. Foro it., 2001, 92 s., ove si legge che essa, presso la giurisprudenza italiana, è stata evocata «in ipotesi in cui la domanda di risarcimento sarebbe stata respinta per la difficoltà di provare circostanze che, seppure evidenti, sfuggono ad ogni controllo probatorio; con la conseguenza che il convincimento del giudice non si basa su mezzi istruttori o almeno sugli indizi del caso concreto che dovrebbero giustificare la presunzione, ma su una spiegazione della fattispecie alla luce delle regole di esperienza». In Germania, del resto, per giungere al medesimo esito potrebbe farsi ricorso alla figura, (in certa misura) omologa, dell’Anscheinsbeweis, la quale esonera la parte, altrimenti gravata, dall’onere di fornire una prova piena: v. sempre, in punto, S. Patti, op. cit., 93 s.
[70] In talaltre, può riuscire più plausibile dedurre una ragionevole, e però malcerta, convinzione del danneggiato: cioè a dire che il danneggiato, nonostante la obiettiva situazione di apparenza, sulla base di indici di riconoscibilità (per dir così) soggettivamente specifici potrebbe giudicarsi indotto bensì alla rappresentazione della circostanza che il titolare del segno apposto sul prodotto non sia produttore; purtuttavia, la mancata (dimostrabilità della) conoscenza della identità del produttore effettivo potrebbe fare residuare – nel (soggettivo) foro interno del danneggiato e, soprattutto, sul piano (oggettivo) probatorio – più o meno larghi margini di dubbio.
[71] Cfr., per tutti, A. Falzea, Apparenza, cit., 847.
[72] O, beninteso, finanche in via diretta, allorquando il produttore apparente risultasse, in effetti, pure un distributore del prodotto.
[73] Conviene, per scrupolo, rammentare che, al fine di andare esente da responsabilità, il fornitore dovrebbe apprestare al danneggiato indicazioni funzionali ad identificare effettivamente, ed entro un termine ragionevole (art. 3, comma 3, Dir. n. 85/374/CEE; nel diritto italiano, il termine è di tre mesi dalla richiesta del danneggiato: art. 116, comma 1, cod. cons.) il fabbricante del prodotto, non potendo limitarsi a negare di essere produttore: v., per tutti, A. Venchiarutti, Product liability e armonizzazione del diritto comunitario: le indicazioni della Corte di giustizia e le soluzioni della Supreme Court of United Kingdom, cit., 2014, nt. 11.
[74] Segue questa traccia argomentativa, all’evidenza, O. Troiano, Art. 3. Produttore – d.p.r. 24 maggio 1988, n. 224, cit., 524, secondo cui «la sottoposizione del c.d. produttore apparente al regime di responsabilità del produttore impedisce la possibilità di indicare il fabbricante al fine di ottenere l’esonero da responsabilità secondo la disciplina contenuta nell’art. 4»; analogamente, v. A. Atti, I soggetti equiparati al fabbricante, cit., 71; U. Carnevali, in Aa.Vv., La responsabilità per danno da prodotti difettosi, cit., 17 s.
[75] Come già riferito supra, nt. 50, in accordo a D. Fairgrieve, G. Howells, P. Møgelvang-Hansen, G. Straetmans, D. Verhoeven, P. Machnikowski, A. Janssen, R. Schulze, Product Liability Directive, cit., 64, la «ratio legis» dell’art. 3, comma 1, ult. parte, Dir. n. 85/374/CEE, consisterebbe, opportunamente, nell’offrire protezione ai danneggiati «if they experience difficulties in discovering the identity of the actual producer and ensuring that the person who presents himself as a producer effectively bears the consequences of his conduct»; per le ragioni esposte supra, § 2, inaccettabile, nonché fondata su una petizione di principio, appare, invece, la posizione di U. Carnevali, “Produttore” e responsabilità per danno da prodotto difettoso nel codice del consumo, cit., 79, laddove fonda la responsabilità del produttore apparente, e sopra l’assunto di un affidamento del consumatore – si rammenta: non sempre coincidente, comunque, col danneggiato-legittimato attivo; e di un affidamento prescindente, dovrebbe ritenersi, dall’esserci di una vera e propria apparenza produttiva – su «qualità» e «sicurezza» del prodotto in virtù del segno distintivo che vi è apposto, e sulla (pretesa) maggiore capienza del patrimonio del titolare (rispetto a quello del produttore effettivo). Orbene, se la disciplina della responsabilità del fornitore, giusta quanto osserva C. Cossu, La responsabilità del fornitore, in G. Alpa, M. Bin, P. Cendon (a cura di), La responsabilità del produttore, cit., 82 s., «trova ragione nel principio della tutela dell’affidamento del consumatore e dell’apparente paternità del prodotto, che in altra parte della disciplina ha motivato anche l’affermazione della responsabilità dell’importatore», di talché il danneggiato resta liberato da «non sempre facili indagini sull’identità del produttore», non è chi non veda che essa risulta identica a quella informante, secondo la superiore (condivisibile) prospettazione, la responsabilità del produttore apparente. Pertanto, ingiustificata sarebbe una differenziazione del relativo statuto disciplinare.
[76] Come ricorda A. Falzea, Apparenza, cit., 850 s., «il recupero della fattispecie (…) viene in funzione dell’interesse del terzo, e perciò sono garantiti gli effetti giuridici, e solo gli effetti giuridici, legati a questo interesse». Più in generale, sul principio di convenienza dell’effetto al fatto, cfr. Id., Efficacia giuridica, oggi in Id., Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, II, cit., 63 s.
[77] Resterebbe ancora astrattamente concepibile, semmai, la eventualità di una exceptio doli: fondata non sulla (mera) mala fede, quanto su una domanda del danneggiato motivata dalla di lui intenzione di agire a danno del produttore apparente.
[78] Un tanto, comunque, non dovrebbe punto sorprendere, se si conviene che «l’autonomia dal diritto comune nazionale faccia assurgere la normativa europea, spesso compartimentalizzata, ad un fattore di ibridazione di concetti giuridici» (qui, del resto, già non sempre distinti in modo nitido nel diritto interno straniero, e già astrattamente suscettibili di avvicinamento giusta il diritto italiano; v. supra, § 3): per questo rilievo, v. S. Pagliantini, In memoriam del consumatore medio, cit., 3.
[79] Oggi, naturalmente, liquidazione giudiziale, in conformità degli artt. 121 ss. del Codice della crisi d’impresa (d.lgs. 12.1.2019, n. 14).
[80] Così, il noto arresto di Cass. 24.11.1998, n. 11912, in Mass. Giur. it., 1998; adde, di recente, Cass. 26.11.2008, n. 28225, in Leggi d’Italia; e già, nella giurisprudenza di merito, Trib. Modena 5.12.1962, in Riv. dir. comm., 1963, II, 238. Sul tema, da ultimo, cfr., in dottrina, A. Bassi, L’apparenza come criterio di imputazione della responsabilità per l’esercizio dell’impresa, in Giur. comm., 2016, 751 ss.
[81] Riuscendo tale accertamento assorbito, in sostanza, dal ricorrere di un errore collettivo possibile (i.e. dall’elemento oggettivo dell’apparenza). Sembra muoversi su un terreno argomentativo non dissimile, del resto, App. Lecce 22.2.1997, in Arch. civ., 1998, 309. Quanto affermato nel testo non vuole negare, beninteso, che pure l’apparenza ereditaria, della qualità di creditore e via elencando possano riferirsi, accidentalmente, ad una pluralità di atti (ben potendosi concepire, insomma, una pluralità di acquisti, a vantaggio di molteplici terzi, da quanti appare erede, aventi ad oggetto diversi beni ereditari; od una pluralità di pagamenti, effettuati da vari debitori, e ricevuti dal medesimo creditore apparente). Ma non è chi non veda lo scarto fra tali situazioni e quelle che implicano, naturalmente, il ricorrere di una siffatta pluralità d’interazioni, in quanto connaturata alla qualità apparente. Le esigenze assiologiche di cui si è fatta menzione, del resto, sarebbero tanto più giustificate, in quanto l’apparenza si appuntasse su uno status soggettivo, per sua natura, affidante.
[82] Ci si riferisce, in particolare, a CGUE 9.11.2016, C-149/15, in Leggi d’Italia, concernente una fattispecie di vendita (di beni di consumo: segnatamente, un veicolo a motore) perfezionata, per conto di un privato-venditore, da un professionista-intermediario (segnatamente, un’autofficina), con modalità tali da indurre il consumatore-compratore a confidare sulla qualità di proprietario del secondo: nella specie, al contratto viene applicata la disciplina delle vendite B2C (di beni di consumo). Nel riferirsi alla pronuncia, orientata – secondo l’avviso dei giudicanti – a preservare «un livello elevato di protezione dei consumatori e, di conseguenza, la [loro] fiducia», S. Pagliantini, In memoriam del consumatore medio, cit., 19 s., osserva che «la buona fede dell’acquirente viene presunta» e che «la tutela è somministrata non andando preliminarmente a scandagliare se ricorresse un’apparenza affidante quanto e piuttosto per il fatto oggettivo che sia stata creata un’apparenza (…) la Corte tipizza in realtà una presunzione iuris tantum di venditore di bene di consumo in capo a quel professionista che alieni invece per conto di un privato».