lo scritto ricorda la figura di Vincenzo Scalisi. Eminente civilista. Figura fra le più significative della scienza giuridica del '900 italiano. Si pone in luce in particolare la riflessione, negli ultimi scritti del Maestro, sul dovere di verità dell'interprete e sulla dignità della Persona.
The paper recalls the figure of Vincenzo Scalisi. Eminent civilist. One of the most significant figures of 20th century Italian legal science. It particularly highlights the reflection, in the Maestro's last writings, on the interpreter's duty of truth and the dignity of the Person.
Il pensiero di Vincenzo Scalisi ha dominato la Scienza giuridica a cavallo di due secoli e si è misurato nel corso di decenni con ogni aspetto del diritto privato nazionale ed europeo. Con un tratto comune negli ultimi anni: la riflessione sul compito dell’interprete chiamato a dare risposta, oggi più di sempre, ad un interrogativo: come individuare la regola giuridica più adatta ad ogni caso della vita che reclama giustizia. Con questa domanda inizia un suo saggio recente e la risposta negli ultimi scritti si sofferma su tre parole: ermeneutica, verità e dignità [1]. Su di esse dirò qualcosa. In breve.
1. L’ermeneutica - 2 Il dovere di verità - 3 La dignità - NOTE
L’ermeneutica è una metodica di tutte le scienze umane e sociali. Che cosa accade nella dimensione giuridica fra gi anni ’50 e ’70 del ’900 è noto. Il saggio di Hart del 1958 [2] consolida la separazione fra diritto e morale con un paradigma che resterà dominante per decenni. Solo Dworkin [3], il suo successore sulla cattedra di Oxford, inizia negli anni ’70, con altrettanto seguito, a porre in discussione quell’impianto formale, riflettendo su Principi, non “definiti da un test normativo ma da una conformità ad un’ideale di giustizia” [4]. L’ermeneutica ha un ruolo fondamentale nei decenni successivi nel fissare alcuni criteri forti. Il vincolo della legge è un cardine del sistema, ma deve essere riformulato e attualizzato. “il dover essere e l’essere vengono posti sullo stesso piano” perché la norma e il caso concreto non restano immutati ma si fondono e si adattano. Il legislatore e la giurisprudenza lavorano, in modo diverso, ai processi di formazione del diritto, non fosse altro perché la legge “deve esse posta ma per avere efficacia ha bisogno di applicazione e, a sua volta, per essere applicata ha bisogno di essere compresa”, tramite l’osservazione del contesto sociale, la ricerca della piena effettività delle fonti e l’orientamento della buona dogmatica [5]. Vincenzo Scalisi ripercorre le diverse visioni [6]. È consapevole che il nuovo ruolo dell’interprete può condurre ad una deriva soggettivistica che il diritto non può accettare. Sa bene che il testo non è un limite perché solo con l’interpretazione assume un senso compiuto e dunque non è un freno all’arbitrio. Si convince che ‘il circolo ermeneutico’, per funzionare, esige l’adesione ad una prospettiva ontologica. e indica come unico criterio forte e concreto un percorso veritativo. E sul dovere di verità le conclusioni del Maestro sono incalzanti.
La complessità in cui siamo immersi non può essere eliminata o ridotta entro schemi rigidi. All’unità del moderno subentrano, con una forza via via travolgente, la diversità e il molteplice. Il formalismo estremo e lo storicismo che esalta il quotidiano come l’unico mondo possibile sono entrambi da respingere. Dopo l’immersione nei fatti se ne deve prendere la distanza per rimanere vigili custodi di un dovere di verità, appunto, che può radicare stabilmente il dovere essere nell’essere. Si tratta di capire come. Angelo Falzea [7] parla di adattabilità necessaria degli effetti al fatto, Salvatore Pugliatti di un dover essere fuso nel fatto [8]. Bobbio e Perelmann delle ‘verità al plurale’ soggette a continue revisioni, grazie alle buone ragioni, senza le quali non resta che la violenza [9]. La retorica esalta il ruolo del convincere e del persuadere ma il diritto richiede scelte ove la verità non si discute [10]. Si fa. Una verità che il diritto cerca e crea come nella confessione e nel giudicato, forme veritative, appunto, create dal codice civile e dal codice di procedura civile [11]. Ma si può andare oltre. Un dovere di verità esiste per legge a carico di tutti i soggetti del processo. La parte non può sostenere il falso e il suo avvocato non lo può avvallare ed anzi è vincolato ad un dovere di verità sancito dall’art. 50 del codice deontologico che ha un preciso significato. Il difensore non deve alterare la verità processuale che si forma attraverso precise norme e decadenze a tutela della parità delle parti e del buon funzionamento del processo, come nel caso del deposito dei documenti o della deduzione delle prove. Il mancato rispetto di tali regole lo espone ad una sanzione disciplinare. Il giudice deve costruire il fatto rilevante nella causa dopo aver ascoltato la narrazione delle parti [12]. E poi decidere. Tutto ciò deve avvenire nel rispetto di norme inderogabili, del dovere di disciplina (art.54 della Costituzione) e dell’etica professionale. In mancanza la sentenza è viziata e il contegno di chi giudica è censurabile. Ma la verità non è assicurata solo dal rispetto di norme. Nel diritto “essa altro non è che la sua giustizia”. La quale si realizza, secondo Scalisi, quando [continua ..]
Il principio è concepito e attraversa ogni cultura, dal pensiero cristiano, alla teoria laica, classica e rinascimentale, sino al giusnaturalismo. Incontra un ostacolo nella modernità giuridica delle prime Carte del ’700 ove domina il concetto di libertà ed eguaglianza formale, astratta “dalle reali e concrete necessità della vita”. Ottiene una precisa rilevanza giuridica, dopo la seconda guerra mondiale nella Carte internazionali del 1945 e 1948 e poi nella costituzione italiana e tedesca. Promuove una vera rivoluzione “capace di sancire la definitiva ascesa della persona a valore di vertice del nuovo ordine mondiale. Un “argine al ripetersi di quegli errori che la modernità non seppe” evitare e soprattutto “un’ancora di salvataggio dell’umanità di fronte alle insidie e alle nuove sfide della postmodernità”: dall’”aggressività del mercato”, allo “sviluppo tecnologico sempre meno controllabile”, sino al “relativismo etico e al politeismo di valori”, in “uno stile di vita anch’esso nuovo e diverso”, scandito da precarietà ed incertezza [15]. Insomma “il principio di dignità vuol essere fondativo di un ordine giuridico nuovo” dal quale “attingere il finale criterio di legittimità di ogni manifestazione dell’agire privato, di ogni iniziativa dei pubblici poteri, di ogni esito interpretativo dello stesso diritto positivo”: “una nuova religione civile europea” accolta dalla Convenzione di Oviedo, dalla Carta di Nizza e dai Trattati” e resa operativa da alcune pronunzie della Corte di Giustizia e dalla Corte di Strasburgo [16]. Ma il nostro autore avverte subito il lettore. “Occorre definire contenuto ed essenza del principio” per scongiurare ogni possibile ‘infatuazione’ e per respingere chi lo qualifica come frutto di un “pensiero negativo”, un “espressione liturgica”, o “scatola vuota” inutile e manipolabile. Sicché non è sufficiente per fugare questi giudizi demolitori né il richiamo concreto alla storicità di ogni interpretazione e al valore provvisorio e relativo di ogni verità, né i molti elogi [17], perché in un caso e nell’altro non si precisa a sufficienza la “consistenza [continua ..]