È un dato incontrovertibile che la pandemia ha avuto un impatto rilevante oltre che sul piano sociale ed economico, anche sul versante del sistema delle fonti. La letteratura che si è sviluppata in proposito, comprova la circostanza ponendo in evidenza il sempre maggiore protagonismo dell’attività interpretativa. Si tratta di problematiche che aprono nuovi orizzonti anche per quanto concerne il contratto, la cui interpretazione non può prescindere dalla necessità di una concreta correlazione con la realtà nella piena consapevolezza del rapido decadimento normativo.
What is certain is that the pandemic has had a relevant impact on both the social point of view and the economical, moreover, even on the source system. The doctrine that has devoloped concerning that, assure this circumstance underlining the increasing value of the interpretation. It deals with the issues that open up to new possibilities even on the contract side, whose interpretation cannot exist without the necessity of a concrete relationship with the reality, in full awareness of the rapid normative decadence.
1. La rilevanza della trazione costituzionale ed eurounitaria nella interpretazione evolutiva e sistematica - 2. La metamorfosi metodologica della meritevolezza degli interessi - 3. La variegata composizione dei rimedi contrattuali alla luce dei canoni costituzionali ed eurounitari - 4. La forma dei contratti nella sua rilettura assiologica e sostanzialista - 5. Le clausole negoziali e la corretta identificazione ed interpretazione del loro contenuto - 6. La complessità della ricostruzione sistematica della buona fede: criterio primario dell’interpretazione - 7. L’incidenza dell’elemento testuale nella valutazione interpretativa - NOTE
Nel complesso panorama contemporaneo, l’attività interpretativa è sempre più protagonista.
La globalizzazione e le emergenze, dapprima sanitaria e poi bellica, hanno determinato rapidi cambiamenti sociali ed economici dei quali il diritto deve tenere conto per mantenere una salda connessione con la realtà, nella consapevolezza delle limitazioni poste dall’attività del legislatore spesso tardiva e farraginosa.
Il contrasto alla repentina obsolescenza normativa, senza dubbio influenzata anche dal ritmo frenetico che scandisce l’incedere delle odierne vicende umane, deve essere affidato all’esegesi e, in particolare, ad un metodo che, nel tracciato dei principi della Carta fondamentale e del diritto sovranazionale, sempre più rilevante in ambito domestico, consenta di attualizzare le disposizioni legislative conferendo loro un significato più moderno, lasciandone però immutata la formulazione testuale ma anche di rintracciare la regola del caso concreto in enunciati non più isolatamente considerati, bensì posti in raffronto sistematico con altre regole del settore di riferimento e col panorama dei valori fondamentali dell’ordinamento giuridico.
L’opera che il giurista contemporaneo è chiamato a svolgere deve, pertanto, svilupparsi secondo due direttrici fondamentali: evolutiva e sistematica.
Del primo canone manca un’univoca definizione così come un’analisi dettagliata dei presupposti teorici. Queste carenze di uniformità hanno dato luogo a diverse modalità applicative, nelle quali è possibile tuttavia individuare uno schema di base connotato dalla presenza di un fattore esterno che determina la necessità di adottare un’interpretazione evolutiva, e, al contempo, del referente oggetto della stessa; cioè l’originaria intenzione dell’autore della regola [1] che potrebbe anche essere superata se oramai priva di qualsiasi rilevanza fattuale.
Nell’orizzonte pluralistico del sistema delle fonti [2], tracciato dagli artt. 117, comma 1, Cost. [3] e 1 disp. prel. cod. civ. [4], l’interpretazione sistematica viene ad assumere un ruolo centrale, essendo strumento che, tramite l’impiego di alcune figure argomentative (ad es. combinato disposto, sedes materiae, costanza terminologica), permette di desumere il significato di una data disposizione dalla sua collocazione nel sistema complessivo, ovvero relativo ad una specifica materia o ad un dato istituto. In questo ambito deve essere riconosciuto precipuo rilievo all’interpretazione adeguatrice la quale consentendo di conformare il significato di una disposizione a quello di altri enunciati materialmente, strutturalmente o assiologicamente superiori [5], rappresenta un mezzo imprescindibile per ristabilire un ordinato rapporto tra le fonti dell’ordinamento e per forgiare la norma della fattispecie concreta, destinata ad essere plasmata dalla legge ordinaria nel tracciato delle coordinate poste dai canoni normativi ad essa sovraordinati [6].
Tutto ciò nella triplice prospettiva di evitare la creazione di una disciplina contingente inidonea ad “abbracciare la complessità fenomenica in tutte le sue sfaccettature né tanto meno di ponderare con esattezza gli interessi connessi ad una certa pretesa, così da mettere a repentaglio il conseguimento del bene anelato per effetto di strumenti spesso inadeguati o inefficaci” [7]; della valorizzazione dell’aspetto sostanziale della giustizia e, dunque, del concetto di interesse quale “requisito strutturale di ogni posizione soggettiva fatta valere in giudizio al fine di superare le contraddizioni di un sistema troppo attento ai dettami normativi” [8]; infine, della costante tensione ermeneutica di adeguamento del significato dei principi costituzionali, e del rapporto gerarchico tra di essi, alle sempre mutevoli prerogative emergenti dall’attualità [9].
Espressione della metamorfosi metodologica delineata è quella della meritevolezza (artt. 1322, comma 2 e 2645-ter cod. civ.) [10], rispetto alla quale lo sforzo esegetico è confluito nella sua identificazione quale “criterio distintivo tra interessi apprezzabili e scopi voluttuari, favorendo un più intenso controllo del giudice che – acclarata la conformità del contratto a norme di legge – potrà in ogni caso ritenere il negozio e più in generale la pretesa immeritevole, dunque non tutelabile” [11]. Ciò nella prospettiva di una netta affermazione di autonomia ontologica e funzionale dal vaglio di liceità (ex artt. 1343 e 1344 cod. civ.).
Un approdo interpretativo non sempre condiviso.
Ed infatti, all’indomani dell’entrata in vigore del Codice civile, al fine di neutralizzare letture del sistema di carattere social-tipologico improntate al primato dell’ordine sociale sulla libertà privata di autoregolamentazione [12], la linea prevalente è stata quella della sovrapposizione della meritevolezza alla liceità [13]. In senso contrario si sono posti coloro che, nell’ottica di far assurgere ad interessi degni di tutela quelli supportati da una incontestabile volontà di assunzione del vincolo alla stregua delle regole giuridiche, hanno riservato al giudizio di meritevolezza un controllo sul tipo, ossia la verifica della impegnatività, e dunque della effettiva giuridicità, dello schema atipico elaborato dai privati [14]. Ma anche quanti hanno condiviso, a partire dagli anni ’60 e ’70, un’intensa e profonda opera di rinnovamento del diritto civile, nel segno dell’incisiva duplice angolazione costituzionale e sovranazionale [15].
A tale ultimo ambito deve innanzitutto ricondursi la posizione di chi ritiene, fermi i limiti della dannosità sociale (derivanti dall’art. 41, 2° comma, Cost.) e della illiceità, che la meritevolezza abbia valore positivo quale riconoscimento dell’autonomia privata, ossia della libertà della persona di esplicare la propria capacità di agire per la realizzazione di qualsiasi interesse economico o personale costituzionalmente rilevante [16]. E ancora, la prospettiva di quanti sono inclini ad attribuire alla meritevolezza funzione di conciliazione degli interessi individuali delle parti con quelli super-individuali [17].
Per altro verso, l’equiparazione di regole e principi ha condotto a ritenere superflua la mediazione dell’art. 1322 c.p.v. cod. civ., per la via del requisito della meritevolezza, all’interno del giudizio di utilità sociale dell’atto di autonomia privata, volto a verificare se la causa concreta del contratto contrasti o meno con interessi sociali rilevanti sul piano costituzionale. Onde, pur svalutandosi il requisito posto dall’art. 1322, comma 2, cod. civ., in modo non dissimile da chi, come sopra riferito, riteneva di sovrapporre la meritevolezza alla liceità, non si giunge alla neutralizzazione del possibile contenuto valutativo del giudizio sugli interessi meritevoli, ma, al contrario, al recupero di siffatto aspetto ponendo l’accento sulla funzionalizzazione dell’autonomia privata, o, ancora, innestando nel sindacato di liceità quei profili valutativi inevitabili quando il parametro di giudizio si arricchisce di precetti che instaurano un giudizio morale come accade con i principi e i diritti fondamentali [18].
Secondo altra concezione, che pure si inserisce nel medesimo tracciato esegetico, il giudizio di meritevolezza avrebbe portata autonoma rispetto a quello di liceità, essendo al primo demandata la funzione di garantire la concretizzazione dei valori fondamentali dell’ordinamento. Ciò sul presupposto che le libertà negoziali e contrattuali non costituiscano in sé un valore; abbiano cioè “giustificazione non in sé, ma in principi e valori del sistema – non più Stato di diritto, ma Stato sociale di diritto – caratterizzato dalla solidarietà e dal personalismo”, onde “qualsiasi atto di autonomia è meritevole purché conforme a questi specifici valori” [19]. Da ciò deriva l’estensione del giudizio ex art. 1322, comma 2, cod. civ. a qualunque contratto, dunque anche se tipico [20], e l’istituzione di una forma di controllo e di conformazione giudiziale degli atti di autonomia ai principi fondamentali nazionali ed europei, così da conciliare il perseguimento dell’utile individuale con l’attuazione delle direttive di fondo dell’ordinamento.
Per quanto appieno condivisibile, l’aspetto di maggiore criticità di detta impostazione risiede nella premessa da cui muove, per giungere ad una larvata funzionalizzazione degli atti di autonomia (tipici e atipici): quella per cui la libertà negoziale non possiede giustificazione in sé, ma “in principi e valori del sistema”. Invero, nel passaggio dallo Stato liberale a quello costituzionale (Verfassungsstaat), proprio delle democrazie pluralistiche, la libertà individuale, e dunque anche quella economica ex art. 41 Cost. (di cui la libertà negoziale costituisce un’estrinsecazione), “diviene la parte più significativa del sistema (giuridico-positivo) dei valori supremi (costituzione), che si impone come parametro universale della legittimità dei vari atti dei poteri «costituiti», compreso il legislatore, e come misura di liceità dei comportamenti dei soggetti privati nella loro opera personale di fruizione e di strutturazione delle obiettive chances of life che l’ordinamento positivo offre ad essi” [21]. Onde, la medesima si raccorda con gli altri valori supremi dell’ordinamento, ad essa legati da un “intreccio materiale”, attraverso un procedimento a due stadi: bilanciamento dei valori coinvolti e loro successiva ponderazione con la particolare struttura materiale della fattispecie [22].
E proprio questo, in un diritto civile compenetrato nella legalità costituzionale, potrebbe essere uno spazio di operatività da riservare al giudizio di meritevolezza, da considerare cioè quale strumento di valutazione, alla luce delle coordinate costituzionali e sovranazionali, della ragionevolezza del bilanciamento dei valori emergenti dal caso concreto e della proporzionalità della tutela per ciascuno di essi ritagliata dai privati con l’atto di autonomia. Dunque, mentre il giudizio di liceità opererebbe al livello della legalità (ossia dei fini), concretizzandosi in un confronto dialettico tra la causa concreta del contratto e le prescrizioni di legge, quello di meritevolezza riguarderebbe, invece, il differente piano della “legittimità” (ossia dei valori in gioco) dell’atto di autonomia, da condurre in riferimento ai sistemi tracciati dalla Carta fondamentale e dal diritto sovranazionale, adeguati alle esigenze, contingenti e sempre mutevoli, economiche e sociali [23].
Anche in giurisprudenza la soluzione ermeneutica che coniuga la meritevolezza con i principi costituzionali ha avuto ampia condivisione. In proposito valga ricordare che nell’orientamento esegetico della Suprema Corte il giudizio ex art. 1322, comma 2, cod. civ. è tradizionalmente ancorato a tre differenti postulati: non meritevolezza dei contratti, o patti, che, pur formalmente leciti, hanno per scopo o per effetto di attribuire ad una delle parti un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza contropartita per l’altra [24]; porre una delle parti in una posizione di indeterminata soggezione rispetto all’altra [25]; costringere una delle parti a tenere condotte contrastanti coi superiori doveri di solidarietà costituzionalmente imposti [26]. Onde la immeritevolezza discenderebbe dalla contrarietà del risultato del contratto, o del patto atipico, con i principi di solidarietà, di parità e di non prevaricazione, canoni da porre tutti a fondamento dei rapporti tra privati [27].
All’ambito enunciato è riconducibile, in primo luogo, la pronuncia che si è occupata di un contratto di concessione di acque pubbliche, dichiarato nullo nella parte in cui estendeva, in capo al concessionario, l’obbligo di corrispondere il canone anche là dove, per cause a lui non imputabili, l’utilizzo dell’impianto fosse divenuto impossibile [28]. In questa occasione, il vaglio di meritevolezza ha coinvolto la causa del contratto con particolare riferimento al duplice profilo: dello sviamento del patto dalla funzione tipica del contratto di concessione, considerando che l’interpretazione del testo contrattuale non consentiva di cogliere con chiarezza l’intento delle parti di dare vita ad una pattuizione connotata da aleatorietà; del contrasto di essa con la libertà di iniziativa economica presidiata dall’art. 41 Cost., dato che l’operazione concepita dai contraenti aveva come effetto quello di far gravare sull’imprenditore un rischio incalcolabile e di assicurare alla pubblica amministrazione una posizione ingiustificatamente privilegiata.
In secondo luogo, viene in considerazione quell’orientamento che ha fatto ricorso ad un giudizio sul contenuto del contratto, basato sul legame tra meritevolezza e principi costituzionali, teso alla omogeneizzazione dei termini dell’operazione negoziale. Questa linea si è affermata soprattutto in tema di validità ed efficacia dell’assicurazione della responsabilità civile. Il riferimento è alla pronuncia con cui la Suprema Corte ha reputato immeritevole la clausola claims made impura o mista, la quale stabilisce che la copertura assicurativa opera quando il fatto illecito e la richiesta risarcitoria si realizzino entrambi nel periodo di efficacia del contratto [29]. Sul punto, in senso parzialmente difforme, si è collocata una successiva decisione a Sezioni Unite che, sulla scorta della legislazione speciale, ha ricondotto all’area della tipicità l’assicurazione con clausola claims made, presentando quest’ultima come una deroga convenzionale allo schema dell’art. 1917 cod. civ., inidonea a dare origine ad una radicale deviazione strutturale [30]. Sulla scorta di tale riclassificazione, il giudizio ha coinvolto la causa in concreto nel solco della «stessa tensione ispiratrice dello scrutinio di meritevolezza», ossia con lo sguardo rivolto al complesso dei valori costituzionali e sovranazionali, con l’obiettivo ultimo di garantire un esercizio dell’autonomia privata conforme ai principi della dignità umana (art. 2 Cost.) e dell’utilità sociale (art. 41 cost.). Avuto riguardo agli interessi delle parti, scopo dell’operazione critica è la calibratura del contenuto contrattuale. Nel caso dell’assicurazione contenente una clausola claims made, le Sezioni Unite chiariscono che detto sindacato potrebbe avere esito negativo là dove venisse rilevato che «lo scopo pratico del regolamento negoziale […] presenti un arbitrario squilibrio giuridico tra rischio assicurato e premio, giacché, nel contratto di assicurazione contro i danni, la corrispettività si fonda in base ad una relazione oggettiva e coerente con il rischio assicurato, attraverso criteri di calcolo attuariale». In tal caso, al giudice sarebbe riconosciuto il potere di arginare gli abusi del contraente più forte e di forgiare una fattispecie concreta improntata ad equità, tramite lo strumento manutentivo della nullità parziale e non già attraverso la sostituzione della copertura assicurativa claims made con quella – di matrice codicistica – basata sull’insorgenza del danno.
Nel tracciato delle pronunce fondate sulla connessione tra meritevolezza e canoni costituzionali si pone, infine, la decisione sulla validità di una clausola inserita in un contratto di locazione ad uso abitativo con la quale, a pena di risoluzione, era stato stabilito in capo al conduttore il divieto di dare ospitalità a persone estranee al proprio nucleo familiare per un apprezzabile periodo di tempo [31].
Il giudizio di meritevolezza ha riguardato altresì la disamina svolta in punto alla causa solidaristica, la quale connota le fattispecie che non consentendo di rintracciare la funzione tipica della donazione e lo spirito di liberalità, impongono al soggetto un sacrificio patrimoniale volto piuttosto che all’arricchimento dell’altra parte, al perseguimento della finalità solidaristica (ad esempio, di natura familiare, sociale, religiosa) sulla base di valori che conformano il suo sistema di vita [32].
L’inquadramento di una siffatta ragione pratica avverrà all’esito di un procedimento ermeneutico incentrato sullo specifico contesto, sociale e relazionale, dal quale l’atto è originato [33], che pertanto costituirà il punto di partenza del vaglio dell’interesse che il debitore intende liberamente attuare tramite il sacrificio patrimoniale, rappresentato dall’art. 1322 il quale indica all’autonomia contrattuale il limite della realizzazione di interessi meritevoli di tutela. Ed è proprio con riguardo a quest’ultimo profilo che viene in considerazione l’operatività dei canoni costituzionali, in particolare quello di solidarietà desumibile non solo dall’art. 2 Cost., che richiede «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà», ma anche dall’art. 41 Cost. per cui lo svolgimento dell’attività economica deve essere conforme all’utilità sociale e al rispetto della sicurezza, libertà e dignità umana. Si tratta di valori connessi ad interessi della persona, di carattere non patrimoniale, la cui tutela viene ulteriormente rafforzata dalle fonti sovranazionali ed internazionali, in primo luogo dalla CDFUE per la quale la solidarietà, in quanto valore individuale ed universale, è l’autentico pilastro dell’Unione.
Considerata, dunque, la centralità della solidarietà sotto il profilo causale, occorre sottolineare che, se l’assunzione di un vincolo obbligatorio giustificato da un dovere morale o sociale è da ritenersi serio, lecito e socialmente apprezzabile, meritevole di tutela per l’ordinamento, non tutti gli interessi non patrimoniali sono idonei a legittimare gli effetti dell’atto.
Ed è proprio sotto tale profilo che assume rilievo il giudizio di meritevolezza ex art. 1322, comma 2, cod. civ., alla cui stregua devono ritenersi esclusi gli interessi “bagatellari” ovvero quelli singolari, limitati cioè a ristrette porzioni di realtà. Utili indicazioni in questo senso sono rinvenibili nella Relazione al Codice civile per la quale è necessario che il fine intrinseco del contratto sia quello di risultare socialmente utile, così che il dovere morale integrerà gli estremi di interesse meritevole ai sensi dell’art. 1322 cod. civ. ove sia anche socialmente apprezzabile, mentre, in ipotesi contraria, retrocederà al rango di mero motivo potendo trovare soddisfazione, oltre che attraverso l’istituto dell’art. 2034 cod. civ., tramite un diverso negozio a causa tipica.
Posto che la nullità è la forma più grave di invalidità [34] dalla quale discende un’inefficacia assoluta e radicale del contratto [35] la disciplina che il Codice civile vi dedica fa riferimento all’art. 1418 il quale, rubricato “Cause di nullità del contratto” ne dispone che è nullo il contratto “contrario a norme imperative” (comma 1), ovvero quello affetto da problemi relativi ai suoi elementi costitutivi (comma 2), e, infine, “negli altri casi stabiliti dalla legge” (comma 3). Alle nullità testuali dell’ultimo comma si contrappongono quelle “virtuali”, “fattispecie in cui l’interprete ricava che il contratto è nullo, pur in assenza di una norma che lo dichiari espressamente tale, applicando taluno dei criteri di cui ai primi due commi dell’art. 1418” [36]. A detta categoria sono riconducibili “due grandi famiglie di nullità contrattuali: quella delle nullità strutturali, cui si collegano i contratti nulli perché insensati o incompleti; o le nullità politiche relative ai contratti nulli perché disapprovati” [37].
Le nullità strutturali sono tali poiché consistono in difetti relativi agli elementi che compongono la struttura del contratto, che lo rendono insensato, foriero di un’operazione giuridicamente ed economicamente paradossale. Sono “politiche”, invece, quelle che colpiscono i contratti sensati e completi, ma disapprovati dall’ordinamento perché contrastanti con i canoni e le scelte politiche fatte dallo stesso.
Tuttavia, una rinnovata impostazione esegetica in senso assiologico, ha riguardato l’istituto della nullità di protezione, introdotto in ambito domestico ad opera di legislazioni speciali di matrice euro-unitaria. La principale fattispecie che viene in rilievo è quella contemplata dall’art. 36 cod. cons., secondo cui, da un lato, le clausole vessatorie sono nulle ma il contratto rimane valido per il resto (1° comma), mentre, dall’altro, il rimedio opera soltanto a vantaggio del consumatore ed è sottoposto al rilievo d’ufficio ad opera del giudice (comma 3).
Degne di rilievo sono anche le ipotesi contemplate dall’art. 2 del d.lgs. n. 122/2005, il quale ricollega la nullità, «che può essere fatta valere unicamente dall’acquirente», al mancato rilascio, da parte del costruttore, di una garanzia fideiussoria di importo pari alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo ricevuto dal compratore; dall’art. 23 del d.lgs. n. 58/1998 (T.U.F.), che, in materia di contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento, sancisce la nullità (3° comma) nel duplice caso dell’inosservanza della forma scritta e del rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente; dall’art. 127 del d.lgs. n. 385/1993 (t.u.b.) per il quale le nullità contrattuali, previste nel titolo in cui la disposizione è collocata, possono essere fatte valere solo dal cliente e nella formulazione risultante dalla modifica introdotta con il d.lgs. n. 141/2010, essere rilevate d’ufficio dal giudice.
L’esemplificativa menzione svolta è sufficiente per cogliere la variegata composizione della categoria, preferibilmente contrassegnata dalla locuzione “delle nullità” – e non “della nullità” – di protezione. In ogni caso, al di là della loro poliedrica sostanza, l’elemento sempre ricorrente, e pertanto distintivo, è rappresentato dalla limitata legittimazione attiva assegnata al soggetto “debole” del rapporto contrattuale, ritenuto meritevole di uno specifico ed incisivo strumento di presidio. Tale carattere endemico delle nullità di protezione, precipuamente consacrate alla tutela di un interesse individuale, deroga alla sistematizzazione generale dell’invalidità contrattuale sotto un triplice profilo: quello sostanziale, essendo di regola la tutela degli interessi singolari affidata all’annullabilità (artt. 1425 ss.). La legittimazione attiva, per cui la nullità comminata dall’art. 1418 cod. civ. può essere fatta valere da «chiunque vi abbia interesse», in conformità con la sua natura di rimedio tradizionalmente connesso alla tutela di interessi generali, e infine l’aspetto inerente al portato della declaratoria di nullità e, segnatamente, al rimedio restitutorio di quanto prestato in esecuzione del contratto (artt. 2033 ss.). Infatti, essendo la nullità di protezione posta a tutela dell’interesse individuale del contraente “debole”, degli effetti derivanti dalla sua dichiarazione, compresa la facoltà di ricorrere alla disciplina dell’indebito, solo questi può avvantaggiarsene rectius: farla valere [38].
In un’ottica di più ampio respiro, la Corte di cassazione si è soffermata sull’operatività della cosiddetta nullità selettiva derivante dall’invalidità del contratto-quadro stipulato tra intermediario finanziario ed investitore, risolvendo un contrasto interpretativo circa l’effettiva portata della fattispecie di cui all’art. 23 T.U.F. In particolare, il disaccordo concerneva la legittimità della limitazione degli effetti derivanti dall’accertamento della nullità del contratto-quadro ai soli ordini oggetto della domanda dell’investitore.
Sul punto, nella giurisprudenza di legittimità si erano fronteggiate due contrapposte linee interpretative: l’una [39], favorevole all’impiego della nullità selettiva con conseguente limitazione della declaratoria di invalidità ed estensione del rimedio restitutorio (art. 2033 cod. civ.) alle sole operazioni oggetto della domanda formulata dal cliente; l’altra [40], di segno contrario, incline ad estendere gli effetti della dichiarazione anche agli acquisti esclusi dalla causa petendi attorea, con tutte le conseguenze restitutorie e compensative fatte valere in via di eccezione o di domanda riconvenzionale.
Il fondamento del contrasto risiedeva in un’opposta prospettiva di lettura del congegno di tutela, ritenendo il primo orientamento che la necessità di protezione del contraente “debole” fosse sufficiente a giustificarne un’operatività a trecentosessanta gradi, anche in senso svantaggioso per la parte professionale del rapporto; postulando, invece, il secondo indirizzo un’operatività in senso più bilanciato del rimedio.
A fronte di ciò, una terza tesi identificava nel principio della buona fede il mezzo più adeguato per affrontare il tema dell’uso eventualmente distorsivo della nullità di protezione in funzione selettiva. Ed infatti, ad avviso di questo filone esegetico, detto canone consentiva, senza alterare il regime giuridico – con particolare riguardo all’unilateralità – dello strumento di presidio legislativamente contemplato, la ricostruzione dell’equilibrio delle posizioni contrattuali delle parti e la contestuale neutralizzazione di impieghi abusivi ad esclusivo detrimento di una di esse [41].
Le Sezioni Unite si inseriscono in quest’ultimo tracciato e giungono ad escludere le opzioni ricostruttive avulse dal canone di buona fede, le quali o consideravano legittima l’azione intrapresa dal contraente debole senza alcuna limitazione, o negavano la legittimità dell’uso selettivo delle nullità di protezione, aprendo alla ripetizione dell’indebito anche in relazione agli investimenti non selezionati dall’investitore ma travolti dalla nullità del contratto-quadro.
Ciò costituisce il portato della rilettura “in modo costituzionalmente orientato e coerentemente con i principi del diritto euro-unitario” dell’art. 23, comma 3, T.U.F., con specifico riguardo ai principi posti dagli artt. 2, 3, 41 e 47 Cost.
Alla luce di quanto affermato, l’approdo nomofilattico ha chiarito che:
i) della dichiarata invalidità del contratto-quadro può avvalersi soltanto l’investitore, sia sul piano sostanziale della legittimazione esclusiva che su quello sostanziale dell’operatività a suo esclusivo vantaggio e quindi la banca non è legittimata ad agire in via riconvenzionale, o in via autonoma, ex artt. 1422 e 2033 cod. civ.;
ii) l’uso selettivo del rilievo della nullità del contratto-quadro non contrasta con lo statuto normativo delle nullità di protezione, ma la sua operatività deve essere modulata e conformata dal principio di buona fede;
iii) al fine di modulare correttamente il meccanismo di riequilibrio delle posizioni contrattuali delle parti di fronte all’uso selettivo delle nullità di protezione, deve procedersi ad un esame degli investimenti complessivamente eseguiti, comparando quelli oggetto dell’azione di nullità, derivata dal vizio di forma del contratto-quadro, con quelli che ne sono esclusi e verificare se permanga un pregiudizio per l’investitore corrispondente al petitum azionato.
Nel caso in cui si accerti che gli ordini non colpiti dall’azione di nullità abbiano prodotto un rendimento economico superiore al pregiudizio confluito nel petitum, può essere opposta, ed al solo scopo di paralizzare gli effetti della dichiarazione di nullità degli ordini selezionati, l’eccezione di buona fede, al fine di non determinare un ingiustificato sacrificio economico in capo all’intermediario stesso. Più specificamente, l’effetto neutralizzante sarà totale, là dove il saldo sia positivo per il cliente; parziale, in caso contrario [42].
In senso generale, la forma è il veicolo attraverso il quale la volontà negoziale si esteriorizza, divenendo in tal modo conoscibile ai terzi [43].
Nel Codice civile, la disciplina contenuta nel IV Libro si occupa della specie della forma scritta, considerata nel capo dedicato ai requisiti essenziali del contratto (art. 1325, n. 4)) e in tre articoli contenuti in un’apposita sezione (artt. 1350-1352), per cui le operazioni negoziali concernenti diritti immobiliari, siano esse definitive o preliminari, devono stipularsi con atto pubblico o scrittura privata, a pena di nullità [44].
L’individuazione della forma da adottarsi è rimessa non solo alla legge, ma anche ai privati. L’art. 1352 cod. civ. stabilisce, infatti, che, se le parti hanno convenuto per iscritto una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si deve presumere che ciò sia stato espressamente voluto per la validità di questo.
La disposizione ha suscitato un vivace dibattito con riguardo a tre aspetti. Quanto alla natura giuridica della convenzione, non potrebbe trattarsi di un preliminare [45], posto che con la sottoscrizione della stessa le parti si obbligano esclusivamente ad impiegare per la stipula una forma prestabilita, con lo scopo di evitare incertezze sull’esistenza e sul contenuto dell’accordo [46]. Facendo leva sulla Relazione al codice, si tratterebbe di un contratto normativo e quindi sarebbe correttamente riconducibile tra le pattuizioni con cui i privati, in previsione di futuri rapporti, ne determinano antecedentemente la disciplina [47].
È stato inoltre precisato che il negozio ex art. 1352 cod. civ. avrebbe carattere bilaterale. Ed infatti, l’assunzione unidirezionale del vincolo si risolverebbe in una limitazione della libertà d’agire non motivata da un interesse rilevante per l’ordinamento giuridico [48].
Persistono dubbi, poi, nella possibilità di stipulare contratti in forme diverse da quelle contemplate dal Codice civile, anche se è prevalente l’opinione che le parti possano farlo purché ciò risponda al canone di meritevolezza [49]. Onde tale ambito, alla luce di quanto sopra affermato in ordine all’intimo legame tra il principio sancito dall’art. 1322, comma 2, cod. civ. ed il sistema dei valori tracciato dalla Carta fondamentale, rappresenterebbe un loro primo possibile contesto di operatività in punto di forma.
Perplessità sussistono altresì in merito agli effetti della violazione della pattuizione, ai fini dell’eventuale invalidità o inefficacia dell’atto successivamente concluso. Oppure, come diversamente può sostenersi, per la nullità dello stesso [50]. Un’ipotesi che trae fondamento dall’art. 1418, il quale non pone alcuna distinzione tra forma imposta dalla legge e forma convenzionale, parlando genericamente di “assenza di uno dei requisiti previsti dall’art. 1325”, tra i quali rientra la forma. Nonché dal tenore letterale dell’art. 1352 cod. civ., il quale prevede che la forma volontaria sia voluta per la “validità” del contratto. E, infine, dalla ratio della previsione, il cui scopo sotteso sarebbe quello di evitare che una forma diversa da quella stabilita possa rendere oscura la volontà o comunque dare luogo ad inconvenienti probatori. Per una differente prospettiva esegetica, stipulando il contratto in antitesi con quanto previamente sancito, le parti avrebbero derogato, sia pur implicitamente, al patto o, comunque, volontariamente rinunciato a far valere, in un ipotetico giudizio, il difetto di forma [51]. In senso critico, si può tuttavia rilevare che, dovendosi la convenzione ex art. 1352 cod. civ. stipulare “per iscritto”, le parti, al fine di sciogliere o modificare l’impegno assunto, non potrebbero agire per comportamenti concludenti, ma sarebbero tenute a perfezionare l’accordo impiegando la stessa forma (scritta) della pattuizione sulla quale intendono intervenire.
Al di là dell’esigua sistematizzazione esaminata, la forma è considerata dal Codice civile in maniera disorganica. Di essa si occupano, ad esempio, l’art. 1392 cod. civ., per il quale la procura non ha effetto se non conferita nella stessa forma del contratto che il rappresentante deve concludere. E ancora, ma nell’ambito del Libro II, l’art. 782 cod. civ., secondo cui la donazione, allo scopo di supplire alla debolezza causale che la connota e richiamare l’attenzione del disponente sulla sua portata, deve essere fatta per atto pubblico, sotto pena di nullità. La disposizione è stringente ed in rapporto di specialità reciproca con l’art. 1350 cod. civ. Ed infatti essa esclude il ricorso alla scrittura privata e letta con l’art. 769 cod. civ., eleva l’adozione della forma scritta a regola anche per i contratti obbligatori, là dove, per questa tipologia negoziale, il vincolo ex art. 1350 cod. civ. riguarda solamente locazioni immobiliari ultra-novennali e costituzioni di rendite vitalizie.
Ulteriori frammenti normativi sono rinvenibili nella disciplina del testamento (artt. 587 ss.), che, rispetto alla forma, traccia un regime di invalidità eccentrico, modulato in funzione della gravità dell’inosservanza. La finalità è quella di delineare, rispetto al contratto, un più ampio margine di salvezza del negozio che incorpora la volontà del defunto. Ai sensi dell’art. 606 cod. civ. è nullo il testamento olografo, quando manca l’auografia o la sottoscrizione del disponente; il testamento per atto di notaio, nel caso in cui difetti la redazione per iscritto, da parte del pubblico ufficiale, delle dichiarazioni del testatore, ovvero la sottoscrizione dell’uno o dell’altro. Per ogni altro vizio di forma, l’atto di ultima volontà può essere annullato, su istanza di chiunque vi abbia interesse. La relativa azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni ivi contenute.
Anche nel Libro V vi sono riferimenti alla forma. A tal proposito, vengono in rilievo gli artt. 2332, comma 1), cod. civ., che commina la nullità dell’atto costitutivo di S.p.a. per il quale non sia stata adottata la forma dell’atto pubblico, e l’art. 2296 cod. civ., che pone un onere di forma scritta – atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata – per l’iscrizione nel registro delle imprese.
Il ruolo dell’istituto non è invariabilmente quello costitutivo dell’atto di autonomia poiché al medesimo è assegnata anche funzione probatoria. È quanto emerge dall’art. 2725 cod. civ. secondo cui, quando in forza di legge o volontà delle parti, un contratto deve essere provato per iscritto, la testimonianza è ammessa solo nell’ipotesi in cui il contraente abbia perduto il documento, senza sua colpa.
Tradizionalmente, l’analisi della materia è scandita dal confronto di due impostazioni in ordine alla sussistenza del principio della libertà di forma. L’una [52], ad esso favorevole, ritiene che i vincoli esaminati siano eccezionali, protesi verso una più sicura determinazione ed una maggiore riflessiva formulazione della volontà dei contraenti, nel solco dei canoni della certezza del diritto e della solidarietà sociale. L’altra [53] lo nega in radice giungendo ad identificare, sulla base dell’art. 1325 cod. civ., una duplice struttura contrattuale: debole, risultante dalla combinazione di accordo, causa ed oggetto, e forte, rispetto alla quale verrebbe in considerazione anche l’elemento formale. Una tesi molto acuta che, tuttavia, si imbatte nello sbarramento della essenzialità della forma del contratto quando è prescritta dalla legge a pena di nullità (art. 1325 n. 4), per quanto la stessa sia sempre elemento imprescindibile del fenomeno negoziale, essendo il veicolo attraverso il quale la volontà dei privati si manifesta all’esterno.
Le strettoie di un’analisi così diretta e delle sue conseguenze applicative, evidenziano l’opportunità di un mutamento prospettico in senso funzionale ed assiologico. A tale riguardo, è stato condivisibilmente osservato che: «i limiti all’esercizio del diritto alla realizzazione di attività o al compimento di un atto sono da sottoporre al giudizio di costituzionalità non tanto per il quantum, ma soprattutto per l’an; vanno pertanto individuati e valutati i rispettivi fondamenti a confronto con le norme e i valori costituzionali» [54].
Nel solco di tale cambiamento, le impostazioni tradizionalmente collegate al tema in esame risultano opinabili sotto molteplici profili. Un primo aspetto di criticità risiede nel preteso accostamento tra eccezionalità ed inderogabilità delle disposizioni sulla forma [55], con nullità di ogni patto derogatorio. In senso critico può rilevarsi, innanzitutto, che la violazione della disciplina legale della forma non è invariabilmente connessa alla nullità [56], e, in secondo luogo, che la deduzione del suo carattere inderogabile a partire dalla comminatoria della sanzione, e non piuttosto da un’indagine funzionale, si risolve in un’indebita inversione logica. Ecco che «la funzione della norma non si ricava dalla «sanzione» nullità, ma è la nullità che deve essere giustificata in base alla funzione (preindividuata) dalla norma» [57].
Non è condivisibile, poi, l’idea che per l’autonomia privata la forma costituisca mero vincolo, posto che al suo fondamento si pongono sovente interessi di rango comparabile (o addirittura superiore) alla prima. Un approccio più equilibrato è suggerito anche dall’art. 41, 2° comma, Cost. per il quale l’iniziativa economica è sì presidiata, ma deve comunque svolgersi in modo da non compromettere sicurezza, libertà e dignità umana [58]; una visione, questa, che trova nella forma un sicuro ancoraggio in funzione garantista [59].
È altresì insoddisfacente ridurre l’analisi all’esangue binomio regola-eccezione sul presupposto dell’esistenza del principio di libertà delle forme. Sotto tale profilo, è quindi apprezzabile la posizione di quanti rifiutano una tale semplificante determinazione, giungendo ad affermare che la norma di cui all’art. 1325 n. 4), cod. civ. è «suscettibile di applicazione analogica, e capace di esprimere principi generali» [60] da evincersi dalle altre norme sulla forma contemplate dall’ordinamento. Tuttavia, l’aspetto di maggiore criticità di questa raffinata teorizzazione può rintracciarsi nella svalutazione del momento sistematico connotante, per il principio di unitarietà dell’ordinamento, la valutazione di ogni regola giuridica, di talché: «Eccezionale è la norma che si presenta tale nel contesto delle regole generali e delle altre leggi, cioè dell’intero ordinamento storicamente condizionato» [61].
La natura eccezionale o meno di ciascuna regola legale deve, quindi, essere vagliata dall’interprete non con riguardo all’art. 1325 n. 4) cod. civ. o al principio di libertà della forma, quanto, piuttosto, agli interessi su cui la stessa si basa, testandone meritevolezza, compatibilità e coerenza con altre ipotesi pure fondate su valori essenziali del sistema. Tutto ciò in una prospettiva precipuamente teleologica, in accordo con quanto stabilito in materia processuale dall’art. 121 c.p.c.
Questa è, peraltro, l’impostazione che emerge da alcuni recenti arresti della giurisprudenza di legittimità. Quello relativo alla forma del patto fiduciario [62], cioè dell’accordo con cui, in linea di massima, taluno (il fiduciario) si obbliga a gestire un bene immobile di cui sia già titolare (fiducia statica), o all’uopo alienatogli (fiducia dinamica) da un altro soggetto (il fiduciante), per conto di quest’ultimo ed a trasferirlo a lui nuovamente ovvero ad un terzo (il beneficiario). Il fenomeno è complesso e non agevolmente riducibile ad una definizione adeguata a ricomprendere tutte le sue possibilità. Anche il dibattito in ordine alla natura giuridica, individuata in quella di un patto autonomo o accessorio al trasferimento immobiliare (eventuale), riverbera la poliedricità della materia.
Con riguardo alla questione evocata, si contrapponevano due indirizzi. L’uno, minoritario [63], riteneva che l’accordo fiduciario non richiedesse forma scritta a fini di validità, ben potendo detto requisito venire soddisfatto da una successiva dichiarazione unilaterale con cui il fiduciario si fosse impegnato a trasferire determinati beni al fiduciante, in attuazione del pactum [64]. L’altro [65], prevalente, subordinava la rilevanza della convenzione fiduciaria alla circostanza che i soggetti l’avessero affidata ad un atto scritto. La premessa risiedeva nell’equiparazione di quest’ultima al preliminare, con conseguente operatività del vincolo per relationem (art. 1351 cod. civ.) [66].
Le Sezioni Unite tracciano una soluzione inedita. Dopo aver dichiarato l’inapplicabilità al patto fiduciario dell’art. 1351, rilevano che l’eventuale dichiarazione scritta contenente l’impegno al ritrasferimento, varrebbe quale promessa ex art. 1988 cod. civ.; la sua funzione sarebbe, dunque, di attenuare l’onere probatorio di colui a favore del quale è stata fatta. L’esito interpretativo fonda su tre connotati del patto fiduciario, essendosene constatata la distanza intercorrente con il preliminare, calibrato su un diverso assetto di interessi [67]; il più idoneo accostamento al mandato senza rappresentanza ad acquistare, con derivante estensione del regime libero della forma per quest’ultimo sostenuto dall’orientamento esegetico prevalente [68]; da ultimo, ed è la considerazione di maggior rilievo ai fini che in questa sede interessano, un non trascurabile risvolto concreto, per cui – osservano le Sezioni Unite – «condizionare all’osservanza della forma scritta la validità del patto fiduciario significherebbe praticamente escludere la rilevanza pratica della fiducia in molte ipotesi di fiducia cum amico, dato che la formalità del patto finirebbe quasi sempre per incidere sulla dimensione pratica del comportamento, escludendone la fiduciarietà dal punto di vista della morfologia del fenomeno empirico».
Il secondo arresto di rilievo concerne la forma del contratto-quadro di investimento [69]. Nello specifico, si dubitava della portata dell’art. 23 del d.lgs. n. 58/1998 ed in particolare della occorrenza della firma dell’intermediario ai fini di validità del negozio. La Cassazione nella sua massima composizione ha abbracciato la soluzione negativa, sulla scorta di un duplice apprezzamento. In primo luogo, si è osservato che il vincolo legale di forma andrebbe inteso «secondo quella che è la funzione propria della norma e non automaticamente richiamando la disciplina generale sulla nullità». In secondo luogo – e conseguentemente – è stata valorizzata la finalità di presidio dell’interesse del contraente debole, da cui l’imprescindibilità della sua sola firma per il soddisfacimento della prescrizione [70].
L’interpretazione del contratto [71] può definirsi quale operazione di accertamento della portata semantica delle clausole negoziali, tesa alla identificazione del loro contenuto [72], dei loro effetti e del regime applicabile, imprescindibile prodromo dell’(eventuale) attività di integrazione (art. 1374 cod. civ.) [73]. Interpretare il contratto, atto di autonomia per eccellenza mediante il quale le parti dispongono della loro sfera giuridica, significa accertare il significato di ciò che le parti hanno disposto, ossia accertare il contenuto sostanziale del contratto [74], e dunque l’intento pratico da loro perseguito [75].
Il procedimento consta di una serie di indagini da compiersi in virtù degli artt. 1362 ss. del Codice civile, di talché il relativo vaglio sembrerebbe connotato da discrezionalità tecnica. Tale operazione è, senza dubbio, condizionata dalla riconduzione del contratto ad un dato tipo negoziale, valutazione da svolgersi in via ufficiosa e, talvolta, in senso contrario a quanto ipotizzato dalle parti.
Come anticipato, l’interpretazione, da un lato, e l’integrazione del contratto, dall’altro, sono attività contigue. Con riferimento a quest’ultima, si suole distinguere tra integrazione suppletiva [76], diretta a colmare eventuali lacune nel regolamento contrattuale, ed integrazione cogente [77], tesa invece alla sostituzione delle clausole negoziali contrarie a norme imperative con quelle imposte dalla legge (artt. 1339, 1419 cod. civ.) [78].
Fondamento normativo dell’integrazione è l’art. 1374 cod. civ. per il quale: «Il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità».
Nell’ordine disegnato dall’enunciato, lo spazio riservato all’equità è residuale, essendo la stessa collocata in posizione subordinata alla legge, contro la quale non può mai operare.
Il Codice civile non specifica in cosa essa consista, limitandosi a stabilire che il giudice, chiamato a svolgere una valutazione secondo tale canone, sia tenuto ad adottare, nel quadro del sistema assiologico tracciato dalla Carta fondamentale, la soluzione meno gravosa per l’obbligato, se il contratto è gratuito, ovvero, in caso di onerosità, quella in grado di assicurare un ragionevole contemperamento degli interessi in gioco.
Per altro verso, al di fuori delle ipotesi in cui puntuali norme di legge facciano ad essa richiamo (es. art. 1384 cod. civ. in punto di riduzione della clausola penale manifestamente eccessiva), è controversa l’ammissibilità di un intervento correttivo con modifica del contenuto o degli effetti del contratto. Secondo l’orientamento attualmente più diffuso, quando non è espressamente evocata, l’equità può operare solo in via sussidiaria e suppletiva rispetto all’autonomia privata, al fine di colmare (eventuali) lacune del contratto [79].
Le regole di interpretazione del contratto poste dal Codice civile vengono tradizionalmente distinte in soggettive ed oggettive. Le prime tendono all’individuazione della comune intenzione delle parti. L’art. 1362 cod. civ. prevede, a tale riguardo, che: «Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto».
Alla luce di tale disposizione, dunque, la ricerca della comune intenzione delle parti [80] fonda sul tenore letterale del contratto, nonché sul complessivo comportamento dalle medesime tenuto in epoca precedente e successiva alla stipula. Là dove la portata semantica ricavabile dal dato testuale sia contraddetta dal significato tratto dal contegno dei contraenti, sarà quest’ultimo a prevalere [81].
Quanto all’interpretazione dell’elemento letterale, di particolare rilievo è, senza dubbio, l’art. 1363 cod. civ. per il quale «Le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto» [82], onde occorre conferire a ciascuna parte del testo un significato che sia coerente con quello delle altre [83].
Sempre nella prospettiva individualizzante dell’interpretazione soggettiva del contratto, occorre considerare l’art. 1364 cod. civ. per il quale «Per quanto generali siano le espressioni usate nel contratto, questo non comprende che gli oggetti sui quali si sono proposte di contrattare», nonché i successivi articoli 1365, secondo cui «Quando in un contratto si è espresso un caso al fine di spiegare un patto, non si presumono esclusi i casi non espressi, ai quali, secondo ragione, può estendersi lo stesso patto», e 1366 in virtù del quale «Il contratto deve essere interpretato secondo buona fede».
I canoni ermeneutici previsti nelle successive disposizioni possiedono, invece, matrice squisitamente oggettiva, fondando su dati estrinseci alla volontà contrattuale cristallizzata nelle clausole negoziali. L’operatività di tali regole presuppone l’ambiguità ed oscurità del testo contrattuale, ovvero la sussistenza di peculiari circostanze poste dal legislatore a fondamento di specifici correttivi esegetici.
In un’ottica oggettivistica devono essere specificamente riguardati gli artt. 1367, 1368, 1369, 1370 e 1371 cod. civ. [84].
Nel confronto tra i canoni soggettivi ed oggettivi, la Corte di cassazione, riconoscendo una preferenza ai primi, ha forgiato il principio del “gradualismo”, di talché le norme di interpretazione oggettiva possono essere applicate solo là dove l’operatività di quelle soggettive abbia fallito il proprio scopo di chiarificazione [85]. L’assioma fonda sul rapporto di sussidiarietà tra i criteri interpretativi. Imprescindibile punto di partenza è il dato letterale quindi, se la portata testuale è prima facie ben definita, non vi sarebbe bisogno di ricorrere agli altri criteri interpretativi (“in claris non fit interpretatio”) [86]. Detto approdo esegetico è stato recentemente ripreso ed implementato da parte della Suprema Corte. Ed infatti, in alcune pronunce, pur dando conto dell’orientamento precedentemente consolidato [87] (per cui, come detto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il primario strumento è quello letterale), la Cassazione [88] ha affermato che il senso letterale riconducibile alle clausole negoziali deve essere vagliato alla luce dell’intero contesto contrattuale, formato dal rapporto tra le singole parole che compongono la clausola e da quello reciproco tra le clausole stesse (art. 1363 cod. civ.) [89]. Sotto altro profilo, pur assumendosi l’elemento letterale a fondamento dell’operazione di esegesi negoziale, la Suprema Corte ribadisce l’importanza dell’impiego degli ulteriori canoni, tra cui, specialmente, quello funzionale ex art. 1369 cod. civ., e, ancora, il criterio della buona fede o correttezza ex art. 1366 cod. civ. [90].
Il primo consente di accertare il significato dell’accordo in coerenza appunto con la relativa ragione prativa o causa concreta.
Quanto al secondo, la buona fede o correttezza (in senso oggettivo) è generale metro di condotta oggetto di specifici obblighi (artt. 1337, 1175, 1375 cod. civ.), onde i soggetti coinvolti in una trattativa, parti di un rapporto contrattuale o anche semplicemente obbligatorio sono tenuti a mantenere contegni leali, in applicazione della solidarietà sociale (art. 2 Cost.) [91], volti alla salvaguardia dell’altrui utilità, nei limiti di un ragionevole sacrificio [92], anche a prescindere dall’esistenza di specifiche previsioni contrattuali o legislative. Dalla sua inosservanza può discendere un danno risarcibile [93].
Ciò posto, il criterio esegetico statuito dall’art. 1366 cod. civ. si sostanzia nella lealtà, e, dunque, nel divieto, da un lato, di suscitare falsi affidamenti e di approfittare dei medesimi, e, dall’altro, di contestare legittime e ragionevoli aspettative della controparte [94]. La sua operatività impedisce la formazione di soluzioni esegetiche sofisticate, incoerenti con lo scopo pratico perseguito con l’accordo negoziale [95].
Secondo l’orientamento più diffuso, il criterio esegetico ex art. 1366 cod. civ. ricopre una posizione centrale, perno del rinnovato approccio giudiziario sulle operazioni negoziali il quale, facendo leva sull’evoluzione del concetto di causa, risulta essere più penetrante rispetto al passato.
Per altro verso, la necessità di utilizzare in maniera combinata i diversi canoni esegetici del contratto emerge, in maniera nitida, dallo stesso art. 1362 cod. civ. per il quale – come sopra specificato – l’accertamento della comune intenzione delle parti presuppone non solo la considerazione del senso letterale delle parole utilizzate dalle parti, ma anche dai comportamenti tenuti dalle medesime tenuti, nonché degli altri elementi indicati nelle disposizioni del Codice civile sin qui evocate [96].
La considerazione isolata del dato letterale rischia di condurre ad una visione statica del regolamento negoziale, con possibile frustrazione della realizzazione della finalità perseguita dai contraenti [97].
Per l’art. 1366 cod. civ. il contratto deve essere interpretato secondo buona fede [98], canone che risulta, in virtù della sua natura e collocazione intermedia nell’ambito dei criteri di interpretazione, di non agevole ricostruzione sistematica [99].
L’interpretazione secondo buona fede costituisce primaria regola che nella prospettiva della “solidarietà contrattuale”, si specifica «nel significato di lealtà, che si sostanzia nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte» [100].
L’impiego della buona fede nell’interpretazione del contratto implica, in primo luogo, assegnare alle clausole negoziali una portata semantica conforme a lealtà, al precipuo scopo di non suscitare falsi affidamenti e tutelare quelli già ingenerati reciprocamente tra le parti del contratto [101], con il limite della diligenza dell’uomo medio [102].
In questo senso, la “buona fede interpretativa” in quanto connotato di un approccio “interno”, è indissolubilmente legata alla volontà reale delle parti ed al significato obiettivo dell’accordo, pur se socialmente anomalo [103].
Una differente opinione, incentrata sulla valorizzazione della “ragionevolezza” e sulla sua identificazione con la buona fede interpretativa, «interpretare il contratto secondo buona fede o correttezza, vuol dire che il contratto deve essere interpretato secondo ragionevolezza, cioè, esplicitando il contenuto tenendo conto che esso risponde – o deve rispondere – ad equità e giustizia. Interpretare il contratto secondo buona fede, in definitiva, significa attribuire al contratto un contenuto equo e giusto, nei limiti in cui la forma e ancor più il comportamento complessivo dei contraenti, lo consenta» [104]. In altri termini viene evocata una concezione squisitamente oggettiva di “ragionevolezza”, che si pone in termini eccentrici rispetto alla volontà delle parti. Pur intervenendo nell’operazione esegetica di ricostruzione della volontà dei contraenti, condotta secondo buona fede, la ragionevolezza non può essere intesa esclusivamente quale limite di rilevanza, in termini di meritevolezza, dell’affidamento coltivato.
In questa direzione, il collegamento “solidaristico” tra l’art. 1366 cod. civ. e l’art. 2 Cost. [105] impone al giudice di ricostruire la volontà delle parti dall’insieme degli elementi a sua disposizione (testuali, comportamentali, ecc.), così da conformarla, per quanto possibile, ai valori ed ai principi costituzionali, tra cui quello concernente il presidio degli interessi reciproci dei contraenti e quello tendente ad assicurarne un equilibrato contemperamento, in relazione alla tipologia di regolamento che le parti hanno inteso delineare. Volendo garantire il legame tra la comune intenzione delle parti e il criterio di conservazione di cui all’art. 1367 cod. civ., ove sussistesse un’ambiguità in punto alla natura del contratto, o una sua clausola risultata particolarmente oscura, si dovrebbe preferire l’esito interpretativo che consenta, allo stesso tempo, di mantenere inalterato il contratto, o la clausola, e di tutelare le posizioni delle parti. Ciò sull’implicito postulato che, in sede di formazione della volontà negoziale, i contraenti tentano di raggiungere un’armoniosa composizione dei rispettivi interessi, in relazione alla tipologia di contratto e agli effetti che intendono realizzare con quella specifica operazione economico-giuridica. È cioè necessario che, tra i plurimi significati compatibili con le caratteristiche del tipo di negozio voluto dalle parti e con gli elementi emergenti dagli atti, si compia l’esegesi “più equilibrata” nell’ottica di effettiva concretizzazione dei canoni costituzionali. Da quanto appena asserito, emerge come non si possa escludere una funzione latamente “conformativa” [106] o “valoristica” dell’interpretazione secondo buona fede [107], nella misura in cui, in mancanza di elementi chiari ed univoci, il giudice ricostruisce la comune volontà dei contraenti nel quadro del sistema assiologico della Costituzione, e dunque orientandola verso un ragionevole contemperamento degli interessi in gioco.
Ciò posto, si comprende come lo spartiacque tra attività di interpretazione e di integrazione del contratto sia sempre più sfumato [108], anche là dove si consideri l’apporto riconducibile alla buona fede e correttezza ex art. 1375 cod. civ. [109]. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, la distinzione teorica tra i due piani non può obliterare l’esito unitario di conformazione del contratto, potendo lo stesso, in concreto, contrastare con la visione unilaterale di una o di entrambe le parti ed (eventualmente) dedotta in giudizio [110].
La logica sottesa al meccanismo di esegesi contrattuale sin qui descritta è quella dell’interpretazione costituzionalmente orientata [111], alla quale può ricondursi, alla luce del parametro di ragionevolezza, anche la tutela dell’affidamento [112]. Di talché, non è consentito avallare soluzioni ermeneutiche che scindano la forma dalla sostanza dell’operazione negoziale e cristallizzata nella causa concreta (o ragione pratica) del contratto.
Pertanto, se il collegamento tra il criterio in questione e la causa concreta impedisce di giustificare un’interpretazione «estranea allo scopo pratico che lo stipulato contratto in argomento era funzionalmente volto a realizzare», d’altro canto, nel ricercare questo scopo pratico valorizzando ogni elemento – testuale o meno – del rapporto tra le parti, in caso di dubbi interpretativi, il giudice deve presupporre, salva la prova contraria, che le parti abbiano inteso addivenire ad una pattuizione conforme alle norme imperative ed ai canoni costituzionali.
Viene a determinarsi una circolarità del procedimento interpretativo, così che «il significato di ciò che le parti hanno concordato non può essere adeguatamente accertato se non si tiene conto della ragione pratica dell’affare, ossia della causa concreta […] la ragione pratica dell’affare, a sua volta, può essere identificata solo considerando il contenuto dell’accordo in cui si rivela il disegno unitario del contratto» [113].
Il criterio di interpretazione funzionale, di cui vi sono tracce negli artt. 1369 e 1366 cod. civ. [114], consente al giudice di valorizzare la ragione pratica del contratto e di identificare gli interessi per la soddisfazione dei quali le parti avevano inteso concluderlo [115]. Anche sul piano esegetico, acquista primario rilievo la causa concreto del contratto, dovendo il procedimento interpretativo tendere a precisarne l’economia emergente «dall’articolata complessità delle clausole» [116].
L’art. 1369 cod. civ. rappresenta un fondamentale criterio logico di interpretazione il quale, alla luce dei canoni di ragionevolezza ed adeguatezza che lo innervano, suggerisce di porre in stretta connessione la causa ed il contenuto del contratto di talché la sua portata applicativa va ben oltre la semplice funzione di chiarire il significato di “termini” ed “espressioni” plurivoche, assumendo valenza generale e sistematica [117].
L’interpretazione funzionale si correla alla comune intenzione dei contraenti rappresentata dall’intento pratico che emerge dal testo e dagli altri elementi che accompagnano la conclusione del contratto, facendo emergere l’interesse specifico di cui una delle due parti si è fatta carico. Emerge nitidamente la natura soggettiva del criterio in esame, essendo il medesimo finalizzato a ricercare l’effettiva volontà delle parti e non ad imporre un significato obiettivo del contratto.
Alla luce di quanto esposto, risulta indiscutibile la centralità del criterio funzionale e delle due norme cui lo stesso è legato. Ed infatti, in modo non dissimile da quanto previsto dall’art. 1371 cod. civ., è fondamentale per il giudice comprendere l’effettiva portata dell’operazione contrattuale posta in essere dalle parti nonché, in virtù della causa concreta identificata, delle singole clausole dell’accordo negoziale [118]. Uno squilibrio economico eccessivo tra le prestazioni contrattuali, potrà essere considerato ragionevole e dunque non censurabile, laddove si accerti che, sotto il profilo causale, quella sproporzione trova giustificazione in un interesse non patrimoniale di una delle parti, ovvero in un interesse patrimoniale emergente da un rapporto contrattuale collegato o, ancora, nello spirito di liberalità di uno dei contraenti.
Il superamento del gradualismo interpretativo impone un’applicazione sincretica e contingente dei diversi criteri esegetici, onde il principio di conservazione del contratto non può ritenersi avulso rispetto alla comune volontà, dal principio di buona fede o dal criterio di cui all’art. 1369 cod. civ.
L’interpretazione del contratto possiede notevoli risvolti pratici. Fulcro dell’indagine ermeneutica della convenzione privata è la comune intenzione delle parti, pertanto all’interprete, e in primo luogo al giudice, sarebbe precluso arrestarsi alla sua portata letterale. Secondo una più evoluta prospettiva esegetica, il testo costituisce un punto di partenza che, però, deve essere raccordato con ulteriori elementi, quale, ad esempio, la condotta tenuta dalle parti prima, durante e dopo la stipula (arg. ex art. 1362, comma 2, cod. civ.).
Questa impostazione metodologica è stata ribadita dalla giurisprudenza di legittimità in occasione di una recente pronuncia [119]. L’arresto concerne un procedimento ex art. 2932 cod. civ. intrapreso per ottenere l’esecuzione in forma specifica di un preliminare di compravendita immobiliare.
Nel delineare la soluzione della controversia, la Suprema Corte ha preliminarmente offerto dei chiarimenti sull’ambito applicativo dell’art. 1362 cod. civ., sciogliendo il dubbio se la chiarezza prima facie del documento contrattuale impedisse, o meno, al giudice di condurre l’analisi interpretativa su piani diversi da quello testuale.
In linea con le precedenti decisioni intervenute in materia, la Cassazione ha affermato che l’art. 1362 cod. civ. impone di ricostruire la volontà delle parti muovendo dal testo contrattuale e verificando che questo sia coerente non solo con la causa, ma anche con le dichiarate intenzioni dei contraenti. Orbene, – aggiunge la Corte – è necessario seguire «un percorso non semplicemente lineare che muova dal testo per risalire all’intenzione, ma un processo circolare, il quale impone all’interprete di compiere l’esegesi del testo; ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti; verificare se l’ipotesi di comune intenzione ricostruita in base al testo sia coerente con le parti restanti del contratto e con la condotta delle parti».
Il significato delle dichiarazioni negoziali non è un prius, ma l’esito di un processo ermeneutico che non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole, dovendosi piuttosto estendere alla considerazione di tutti gli ulteriori elementi – testuali ed extra-testuali – indicati dal legislatore. Ciò anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare, non bisognose di approfondimenti interpretativi. È possibile, infatti, che un’espressione dapprincipio inequivoca non appaia più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione, o se posta in relazione al comportamento complessivo tenuto dai contraenti.
Altresì significativa è un’ordinanza [120] con la quale la Cassazione ha applicato il criterio di buona fede di cui all’art. 1366 cod. civ. La vicenda processuale era incentrata sull’interpretazione della clausola – peraltro di largo impiego pratico – con cui un promittente venditore si era impegnato ad estinguere, a propria cura e spese, l’ipoteca gravante sul bene oggetto del preliminare, prima del rogito notarile definitivo.
Non è revocabile in dubbio che l’interpretazione condotta dal giudice di legittimità abbia preso le mosse dall’art. 2878 cod. civ., il quale elenca cause di estinzione delle ipoteche di varia natura: alcune, relative al credito e al rapporto garantito; altre, concernenti il dato formale dell’iscrizione; altre ancora, riguardanti vicende del bene assoggettato alla garanzia. Disomogeneità, queste, che ne riverberano le peculiarità sistemiche, quali l’accessorietà e l’essenza costitutiva della relativa iscrizione.
Ciò posto, la Suprema Corte è giunta a ritenere contraria a buona fede l’interpretazione della clausola contrattuale che le assegni il significato di ritenere necessario, ai fini dell’adempimento dell’obbligo assunto dal promittente venditore, anche il completamento della formalità della cancellazione dell’ipoteca (ex art. 2878, n. 1), cod. civ.), anziché considerare sufficiente l’estinzione per pagamento dell’obbligazione garantita (ex art. 2878, n. 3), cod. civ.). Ciò, tuttavia, ove l’adempimento sia accompagnato dal consenso alla cancellazione della formalità rilasciato dal creditore ipotecario con atto autenticato da notaio, che abbia avviato la relativa formalità presentando al conservatore l’atto su cui la richiesta è fondata.
Il canone ermeneutico di buona fede è stato impiegato dalla Suprema Corte anche in merito all’interpretazione della clausola “pagamento a prima richiesta e senza eccezioni” contenuta in un contratto autonomo di garanzia [121]. La problematica diviene particolarmente incalzante nel caso in cui il creditore, giovandosene, provveda ad esercitare il proprio diritto, pur sapendo che l’obbligazione principale è estinta, o, addirittura, illecita. In questa circostanza, la buona fede, espressione del principio di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), dovrebbe rendere legittima l’exceptio doli sollevata dal garante che voglia opporsi alla richiesta di pagamento.
Questa è proprio la conclusione raggiunta dalla Suprema Corte, per la quale l’inopponibilità delle eccezioni di merito concernenti il rapporto principale non può comportare un’incondizionata sudditanza del garante ad ogni pretesa del creditore. Sicché al primo è riconosciuta la possibilità di avvalersi dell’exceptio doli, che lo pone al riparo da eventuali escussioni abusive o fraudolente. L’esperibilità del rimedio, non impedito dunque dalla clausola “pagamento a prima richiesta e senza eccezioni”, è subordinato all’allegazione della condotta abusiva del beneficiario della garanzia, il quale, nel richiedere la tutela giudiziale del proprio diritto, ne abbia fraudolentemente taciuto sopravvenienze modificative o estintive, ovvero lo abbia esercitato all’esclusivo fine di arrecare pregiudizio ad altri.
[1] Il cui autore può essere il legislatore o, in una prospettiva contrattuale, le parti. A tale ultimo riguardo cfr. Cass. civ., S.U., 29 gennaio 2021, n. 2143, in De Jure, 2020 per la quale l’attività interpretativa evolutiva è consentita nella misura in cui rispetti i limiti di tolleranza ed elasticità del significato testuale, escludendosi che essa possa configurare “un’attività direttamente creativa”.
[2] Sui risvolti che l’emergenza pandemica ha avuto sull’intricato sistema delle fonti e, in particolare, sul ruolo della Corte dei conti si v. G. Villanacci, Le insidie del neocontestualismo nella rinnovata funzione di controllo della Corte dei conti, in Rivista della Corte dei conti, 1, 2022, 4.
[3] Tale disposizione, a seguito della riforma costituzionale apportata con l. cost. n. 3/2001, statuisce che: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
[4] Secondo cui: “Sono fonti del diritto: 1) le leggi; 2) i regolamenti; 3) le norme corporative [n.d.r. numero da considerarsi abrogato a seguito della soppressione dell’ordinamento corporativo]; 4) gli usi”.
[5] Numerosi esempi di interpretazioni adeguatrici si rinvengono nelle sentenze della Corte costituzionale “interpretative” di accoglimento, con le quali si evita di dichiarare costituzionalmente illegittima una disposizione nella sua interezza e ci si limita a dichiarare illegittima una delle sue possibili interpretazioni, ovvero di rigetto, con cui la Corte evita di dichiarare costituzionalmente illegittima una disposizione interpretandola in modo tale che sia conforme a Costituzione, o ancora nelle ordinanze con cui i giudizi comuni respingono un’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata da una parte, adducendo che la questione è manifestazione infondata dal momento che la disposizione tacciata di incostituzionalità è suscettibile di una interpretazione conforme a Costituzione. L’interpretazione adeguatrice risponde alla finalità di evitare l’insorgere di antinomie tra norme di diverso grado gerarchico, ma anche tra norme particolari e principi generali e generalmente producono un effetto di conservazione dei documenti normativi, fondando sul (duplice) dogma della coerenza logica e della coesione assiologica dell’ordinamento.
[6] Il riferimento è alla Costituzione e al diritto sovranazionale così come si evince dal citato art. 117, comma 1, Cost.
[7] Si v. G. Villanacci, Al tempo del neoformalismo giuridico, Torino, 2016, 9 ove si aggiunge: “Si pensi, a titolo puramente esemplificativo e non esaustivo alle ipotesi di nullità per difetto di forma scritta nei contratti di subfornitura o di locazioni abitative che nella loro versione originaria comportavano la caducazione del contratto, in gravissimo pregiudizio del contraente che si vedeva privato degli effetti del negozio del quale avrebbe senz’altro preferito la prosecuzione; alla mancanza di un’espressa previsione normativa che legittimi l’individuo al risarcimento del danno ambientale in tema di pregiudizio arrecato all’ecosistema; ad una prestazione ancora possibile sul piano oggettivo ma del tutto inutile per chi la riceve a seguito di circostanze imprevedibili che compromettano in modo irreparabile lo scopo alla stipula o, ancora, a tutte quelle sopravvenienze non espressamente contemplate dalla legge, inidonee in omaggio al principio di intangibilità del contratto a pregiudicare l’assetto pattuito e che tuttavia meritano di essere prese in considerazione allorquando determinino uno stravolgimento delle condizioni originariamente previste sulle quali si è formato l’originario consenso”.
[8] G. Villanacci, op. ult. cit., 10.
[9] Così G. Villanacci, L’equilibrio contrattuale nella rinnovata interpretazione dinamica evolutiva, in Jus civile, 6, 2021, 1642.
[10] L’art. 1322, comma 2, cod. civ. stabilisce che: “Le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela”. Tale disposizione presiede, dunque, al potere riconosciuto ai privati di dare vita a schemi contrattuali atipici, ossia diversi da quelli specificamente contemplati dall’ordinamento. La sua interpretazione è, da sempre, al centro di un vivace dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza. Il confronto ermeneutico è stato ravvivato dall’introduzione dell’art. 2645-ter cod. civ. (avvenuta ad opera dell’art. 39-novies, d.l. 30 dicembre 2005, n. 237, conv. in l. 23 febbraio 2006, n. 51) per cui sono trascrivibili gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novant’anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c.
[11] Così G. Villanacci, Al tempo del neoformalismo giuridico cit., 32 ed ivi nota 24 secondo cui: “Interessanti considerazioni sulla distinzione tra meritevolezza e liceità si rinvengono in Cass. 2 luglio 1975, n. 2578, in Riv. dir. comm., II, 1976, 263; Cass. civ. 5 gennaio 1994, n. 75, in Foro it., I, 1994, 413; id. in Contratti, 1994, 264. Idem, 10 ove si legge: “Nell’indagine assume rilievo l’interpretazione del concetto di meritevolezza che, in un sistema precipuamente formalistico caratterizzato dalla pedissequa aderenza al dato formale, rappresenta una vera e propria valvola di sfogo nella catalogazione delle posizioni degne di essere salvaguardate”.
[12] Il riferimento è alla dottrina di Emilio Betti il quale aveva comunque ritagliato uno spazio di autonomia alla meritevolezza intendendola quale limite positivo della corrispondenza del contratto agli interessi consolidati nell’esperienza sociale, da affiancare al limite negativo rappresentato dall’illiceità.
[13] In tal senso, ad esempio, V. Roppo, Il contratto, seconda ed., in Trattato di diritto privato a cura di G. Iudica e P. Zatti, Giuffrè, 2011, 402-403.
[14] F. Gazzoni, Atipicità del contratto, giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli interessi, rist., Vicalvi (Frosinone), 2017 secondo cui: “(…) il giudizio condotto in sede di analisi circa la meritevolezza dell’interesse appare qualitativamente diverso rispetto a quello di liceità. Mentre quest’ultimo ha la funzione di salvaguardare l’ordinamento giuridico dalla presenza di accordi impegnativi i cui contenuti siano in contrasto con i propri canoni regolamentari (attesa l’unicità del criterio valutante, che è appunto quello elaborato dall’ordinamento giuridico, e, come tale, si pone dalla sua parte e non dalla parte dei privati), l’altro giudizio (quello di meritevolezza) ha diversa portata non incentrandosi nella difesa dei principi fondamentali dell’ordinamento, ma piuttosto nella valutazione dell’idoneità dello strumento elaborato dai privati ad assurgere a modello giuridico di regolamentazione degli interessi, vista l’assenza di una preventiva opera di tipizzazione legislativa, intesa come mera predisposizione di una certa serie (più o meno variabile) di schemi. Ciò che si risolve (…) nella conformità dell’atto non (ancora) ad una serie di norme imperative in senso stretto, di carattere, per così dire, regolamentare, ma piuttosto nella conformità a tutte quelle norme inderogabili di carattere, per così dire, procedimentale e formale che attengono al riconoscimento dello strumento pattizio come strumento giuridico”. E ancora: “Non è dubbio allora che è necessario distinguere, proprio nel quadro di una corretta considerazione della funzione autonoma dei due diversi concetti, il giudizio che attiene al tipo da quello che attiene alla causa e, di conseguenza, distinguere il giudizio di meritevolezza da quello di liceità”.
[15] In tal senso, significativo è quanto di recente affermato da Cass., S.U., 24 settembre 2018, n. 22437, in Resp. civ. Prev., 2019, 163 ss., secondo la quale il giudizio di meritevolezza “guarda […] alla complessità dell’ordinamento giuridico, da assumersi attraverso lo spettro delle norme costituzionali, in sinergia con quelle sovranazionali […] e segnatamente delle Carte dei diritti, le quali norme non imprimono all’autonomia privata una specifica ed estraniante funzionalizzazione, bensì ne favoriscono l’esercizio, ma non già in conflitto con la dignità della persona e l’utilità sociale (artt. 2 e 42 cost.), operando, dunque, in una prospettiva promozionale e di tutela”.
[16] In tal senso C.M. Bianca, Diritto civile, III, 413-414. Nel medesimo solco G. Villanacci, Al tempo del neoformalismo cit., 11 e 29 ss.
[17] Secondo E. Minervini, La «meritevolezza» del contratto. Una lettura dell’art. 1322, comma 2, c.c., Torino, Giappichelli, 2019, 13 ss., nonché A. Guarneri, Il contratto immeritevole e il raoio di Occam, in N. giur. civ., 2018, 255 ss. variamente individuati: i) nell’impiego responsabile alla creazione di valori produttivi: così F. Lucarelli, Lesione d’interesse e annullamento del contratto, Milano, Giuffrè, 1964, rist. anastatica, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2009, 229 ss., in particolare 238-239; ma soprattutto Id., Solidarietà e autonomia privata, Napoli, Jovene, 1970, 171; ii) nelle linee di politica economica generale: così G. Cotturri, Intervento, in Aspetti privatistici della programmazione economica (Atti della tavola rotonda di Macerata, 22-24 maggio 1970), II. Interventi, Giuffrè, Milano, 1971, 94 ss., in particolare 98-99; iii) nelle direttive di politica economica: così A. Cataudella, Il richiamo dell’ordine pubblico ed il controllo di meritevolezza come strumenti per l’incidenza della programmazione economica sull’autonomia privata, in Aspetti privatistici della programmazione economica (Atti della Tavola rotonda di Macerata, 22-24 maggio 1970), I. Relazioni e comunicazioni, Milano, 1971; iv) nel pieno sviluppo della persona umana nonché la preservazione dell’ambiente: così G. Lener, Ecologia, persone, solidarietà: un nuovo ruolo del diritto civile, in Tecniche giuridiche e sviluppo della persona a cura di N. Lipari, Bari, 1974, 339-340, 342 ss. per cui sono immeritevoli i contratti “volti alla produzione di beni superflui, da imporre al consumo mediante la creazione di bisogni artificiali o volti alla troppo rapida obsolescenza di beni ancora pienamente capaci di servire all’uso cui sono destinati”. Sul punto, si v. anche M. Pennasilico, Dal “controllo” alla “conformazione” dei contratti, in Contr. impr., 2020, 823 ss.
[18] M. Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, Giuffrè, 1975, 98-99 il quale obietta al timore liberale dell’accentuazione dei poteri del giudice, in primo luogo, che il giudizio di non contrarietà ai fini individuati dalla Costituzione non è fondato su parametri più generici e imprecisi di altri criteri diffusi nella legislazione e, in secondo luogo, che la limitazione dei poteri del giudice si pone in contrasto con i dati ricavabili dal sistema.
[19] P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, quarta ed., IV, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2020, 104 per cui: “Una lettura dell’art. 1322 cod. civ. alla luce dei principi fondamentali, ed in particolare di quelli contenuti negli artt. 2, 3, e 41 cost., conduce ad affermare che la valutazione dell’atto di autonomia sia ‘positiva’ – e, dunque, che esso sia meritevole – soltanto se l’atto concreto è idoneo alla attuazione di valori fondamentali; tale controllo s’impone all’interprete”. Sotto altro profilo, alla luce dell’evoluzione del sistema giuridico prodotta dal processo di armonizzazione europea, il giudizio di meritevolezza troverebbe talune ulteriori linee direttive tanto nel criterio quantitativo della proporzionalità, quanto nei criteri qualitativi della ragionevolezza e dell’adeguatezza, i quali impongono un bilanciamento tra interessi disomogenei e dunque non comparabili: così P. Perlingieri, «Controllo» e «conformazione» degli atti di autonomia negoziale, in Rass. dir. civ., 2017, 382.
[20] P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale cit., 105 ss.
[21] A. Baldassarre, Diritti della persona e valori costituzionali, Torino, 1997, 288: “Le libertà costituzionali (…) sono innanzitutto valori e, come tali, si inseriscono nella tavola dei valori di riferimento attraverso cui opera la «legalità costituzionale». In questa, anzi, occupano il posto più importante in relazione al processo di ricomposizione del contrasto fra legalità (rispetto ai fini) e legittimità (rispetto ai valori) di cui consta la giurisdizione costituzionale”.
[22] Si v. A. Baldassarre, Diritti della persona cit., 279 per il quale, nell’ambito di un panorama di valori materialmente intrecciati, il particolare ordinamento da applicare può essere determinato solo caso per caso attraverso un bilanciamento dei valori coinvolti ed una loro successiva ponderazione con la particolare struttura materiale della fattispecie. Per quanto concerne l’operatività del meccanismo nell’ambito del diritto civile, che qui interessa, sia consentito il rinvio a G. Villanacci, La ragionevolezza nella proporzionalità del diritto, Torino, 2020.
[23] La dicotomia legalità-legittimità è ispirata a quanto espresso da A. Baldassarre, Diritti della persona cit., 285, 287 che la riferisce al rapporto tra legge ordinaria e Costituzione.
[24] Cfr. Cass. civ. n. 22950/15.
[25] Ex plurimis Cass. civ. n. 4222/17 e 3080/13.
[26] Cass. civ. n. 14343/09.
[27] In tal senso, Cass. civ., 28 aprile 2017, n. 10509.
[28] Cass. civ., 17 febbraio 2017, n. 4222.
[29] Il riferimento è a Cass. civ. n. 10509/2017 cit. Il ragionamento della Corte prende le mosse dalla qualificazione della clausola claims made inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile come patto atipico.
In merito Sezioni Unite: n. 22437/2018 in cui
[30] Cass. civ., Sez. un., 24 settembre 2018, n. 22437.
[31] Cass. civ., 19 giugno 2009, n. 14343.Anche in questa occasione la Suprema Corte si serve della clausola di meritevolezza come porta d’ingresso dei principi costituzionali al fine di istituire un giudizio di valore che investe il contenuto del contratto e, per di più, la Corte lo fa rivendicando espressamente un tale compito: i <<fondamenti costituzionali dell’autonomia negoziale offrono all’interprete le indispensabili coordinate, alle quali attingere per esprimere sui singoli e concreti atti di autonomia quei giudizi di valore che l’ordinamento affida loro. Ci si riferisce ai controlli di “meritevolezza di tutela degli interessi” (art 1322 c.c.) e di “liceità” (spec. art. 1343 c.c.) che devono essere condotti, per quanto qui interessa, alla stregua dell’art. 2 Cost., il quale tutela i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà>>. La clausola sul divieto di ospitalità viene, quindi, reputata priva di effetti perché in conflitto insanabile con l’adempimento del dovere di solidarietà, che può anche comportare l’ospitalità di terzi per fare fronte alle altrui difficoltà oppure per dare corpo ai vincoli familiari, fondati tanto sul matrimonio quanto sulle convivenze, o a quelli amicali.
[32] G. Oppo, Adempimento e liberalità, Milano, 1947, 264 ss.
[33] M. Girolami, L’artificio della causa contractus, Padova, 2012, 107.
[34] In tal senso V. Roppo, Il contratto cit., 693.
Da un punto di vista di interconnessioni tra rami dell’ordinamento, è opportuno ricordare che l’art. 14, l. 11 febbraio 2005, n. 15 ha inserito nella l. 241/1990 l’art. 21-septies che disciplina la nullità del provvedimento amministrativo. A differenza del sistema delle invalidità disegnato dal Codice civile, nel diritto amministrativo la nullità ricopre un ruolo ancillare rispetto all’annullabilità (di cui al successivo art. 21-octies l. 241/1990).
[35] L’“inefficacia originaria” si ha “quando il fattore che la determina è già esistente al tempo della conclusione del contratto, onde questo nasce inefficace fin dall’inizio”: così V. Roppo, Il contratto cit., 690. È, invece, assoluta l’inefficacia “che può generalmente farsi valere sia fra le parti, sia dai terzi, sia contro i terzi”: idem 691.
[36] V. Roppo, Il contratto cit., 694.
[37] Si v. ancora V. Roppo, Il contratto cit., 696.
[38] Cass. civ., S.U., n. 28314/2019 che ha posto il seguente principio di diritto: «La nullità per difetto di forma scritta, contenuta nell’art. 23, comma 3, del d.lgs. n. 58/1998, può essere fatta valere esclusivamente dall’investitore con la conseguenza che gli effetti processuali e sostanziali dell’accertamento operano soltanto a suo vantaggio. L’intermediario, tuttavia, ove la domanda sia diretta a colpire soltanto alcuni ordini di acquisto, può opporre l’eccezione di buona fede, se la selezione della nullità determini un ingiustificato sacrificio economico a suo danno, alla luce della complessiva esecuzione degli ordini, conseguiti alla conclusione del contratto-quadro».
[39] Cass. civ. n. 6664/2018.
[40] Cass. civ. n. 8395/2016.
[41] Cass. civ., ord. nn. 12388, 12389, 12390/2017 e n. 23927/2018.
[42] «Limitatamente a tali ipotesi, l’intermediario può opporre all’investitore un’eccezione, qualificabile come di buona fede, idonea a paralizzare gli effetti restitutori dell’azione di nullità selettiva proposta soltanto in relazione ad alcuni ordini. L’eccezione sarà opponibile, nei limiti del petitum azionato, come conseguenza dell’azione di nullità, ove gli investimenti, relativi agli ordini non coinvolti dall’azione, abbiano prodotto vantaggi economici per l’investitore. Ove il petitum sia pari od inferiore ai vantaggi conseguiti, l’effetto impeditivo sarà integrale. L’effetto impeditivo sarà, invece, parziale, ove gli investimenti non colpiti dall’azione di nullità abbiano prodotto risultati positivi ma questi siano di entità inferiore al pregiudizio determinato nel petitum. L’eccezione di buona fede operando su un piano diverso da quello dell’estensione degli effetti della nullità dichiarata, non è configurabile come eccezione in senso stretto non agendo sui fatti costitutivi dell’azione (di nullità) dalla quale scaturiscono gli effetti restitutori, ma sulle modalità di esercizio dei poteri endocontrattuali delle parti. Deve essere, tuttavia, oggetto di specifica allegazione».
[43] Cfr. F.S. Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, 9° ed. ristampa, Jovene, Napoli, 2012, 135 per il quale: «Questa [la forma], portando nel mondo esteriore la volontà del soggetto, la perfeziona, rendendola idonea a produrre gli effetti che si propone, ad assumere rilevanza giuridica. (…) Forma è l’espressione della volontà e, come tale, non può mancare in nessun negozio».
[44] Le disposizioni in materia di forma del contratto sono profondamente connesse alla disciplina della trascrizione (artt. 2643 ss. c.c.). Questo legame sistematico emerge nitidamente dall’art. 2643 c.c., che contiene un’elencazione in gran parte ricalcata su quella dell’art. 1350 c.c., nonché dall’art. 2657 cod. civ. per il quale: «La trascrizione non si può eseguire se non in forza di una sentenza, di atto pubblico o di scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente».
[45] A. Genovese, Forme volontarie nella teoria dei contratti, Padova, 1949, 70 ss.
[46] In tal senso, R. Scognamiglio, Dei contratti in generale, artt. 1321-1352, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja, G. Branca, Bologna-Roma, 1970, 456; L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, 1948, 459.
[47] L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico cit., 458-459.
[48] G. Mirabelli, Dei contratti in generale, in Comm. cod. civ., Torino, 1980, 218.
[49] F. CARRESI, Il contratto, in Trattato dir. civ. comm. a cura di A. Cicu, F. Messineo, Milano, 1987, 373.
[50] G. Mirabelli, Dei contratti in generale cit., 218; L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico cit., 458; F. Messineo, Il contratto in generale, in Tratt. dir. civ. comm. a cura di A. Cicu, F. Messineo, Milano, 1968, 154 ss.
[51] M. Nuzzo, Sulla rilevabilità d’ufficio del difetto di forma convenzionale, nota a Cass. 9 febbraio 1980 n. 909, 2239; A. Liserre, voce Forma degli atti, I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, vol. XIV, 5; M. Giorgianni, voce Forma degli atti (dir. priv.), in Enc. dir., Milano, 1968, vol. XVII, 1002-1003.
[52] Per tutti si v. C.M. Bianca, Il contratto cit., 245.
[53] N. Irti, Del falso principio di libertà delle forme. Strutture forti e strutture deboli, in La forma degli atti nel diritto privato. Studi in onore di M. Giorgianni, Napoli, 1988, 452 ss.
[54] P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale cit., 168 ove si evidenzia che: «Un’indagine del genere è per lo più sfuggita all’attenzione della dottrina ed è questa la ragione principale della tralaticia qualifica di eccezionalità delle regole statuenti forme legali degli atti negoziali».
[55] M. GiorgiannI, Forma degli atti (dir. priv.), in Enc. dir., XVII, Milano, 1968, 994-1001.
[56] Come emerge dal menzionato art. 606 cod. civ. in punto di testamento.
[57] P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale cit., 169 e Idem, Forma dei negozi e formalismo degli interpreti, ESI, Napoli, 1987, 19 ss. e 117 ss.
[58] P. Perlingieri, o.u.c., 35 ss.
[59] Si v. Corte cost., 23 novembre 1994, n. 398, in Nuova giur. civ. comm., 1996, I, 58 in merito alla funzione di garanzia svolta dalla forma scritta per il licenziamento individuale.
[60] N. Irti, o.u.c., 20.
[61] P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale cit., 174.
[62] Cass. civ., Sez. un., 6 marzo 2020, n. 6459.
[63] Inaugurato da Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633.
[64] Secondo questa prospettazione, la dichiarazione unilaterale con cui il soggetto, riconoscendo il carattere fiduciario della precedente intestazione, prometteva il passaggio del bene al fiduciante, aveva un proprio rilievo quale autonoma fonte dell’obbligazione del promittente, purché integrata dall’enunciazione dell’impegno e del contenuto della prestazione. A fondamento, veniva evocata la disciplina del mandato senza rappresentanza all’acquisto di beni immobili, rispetto al quale era stata esclusa la necessità della forma scritta.
[65] Ex multis Cass. civ., sez. II, 25 maggio 2017, n. 13216; Cass. civ., sez. I, 17 settembre 2019, n. 23093.
[66] L’applicazione di detta disposizione al patto fiduciario fondava, in primo luogo, sulle affinità strutturali tra quest’ultimo ed il contratto preliminare, discendendo da entrambi un obbligo di trasferimento immobiliare. In secondo luogo, sulla valorizzazione dell’influenza operativa intercorrente tra gli artt. 1351 e 2932 cod. civ. Tuttavia, quest’ultimo argomento era inaccettabile, risolvendosi in quella che i logici definiscono la “fallacia dell’affermazione del conseguente”.
[67] A tale riguardo, nella sentenza a S.U. in esame si afferma che: «nel preliminare l’effetto obbligatorio è strumentale all’effetto reale, e lo precede, nel contratto fiduciario l’effetto reale viene prima, e su di esso s’innesta l’effetto obbligatorio, la cui funzione non è propiziare un effetto reale già prodotto, ma conformarlo in coerenza con l’interesse delle parti. Ne consegue che, mentre l’obbligo di trasferire inerente al preliminare di vendita immobiliare è destinato a realizzare la consueta funzione commutativa, la prestazione traslativa stabilita nell’accordo fiduciario serve, invece, essenzialmente per neutralizzare il consolidamento abusivo di una situazione vantaggiosa per il fiduciario a danno del fiduciante». E ancora che: «l’obbligo nascente dal contratto preliminare si riferisce alla prestazione del consenso relativo alla conclusione di un contratto causale tipico (quale la vendita), con la conseguenza che il successivo atto traslativo è qualificato da una causa propria ed è perciò improntato ad una funzione negoziale tipica; diversamente, nell’atto di trasferimento del fiduciario – analogamente a quanto avviene nel mandato senza rappresentanza (art. 1706, comma 2) – si ha un’ipotesi di pagamento traslativo, perché l’atto di trasferimento si identifica in un negozio traslativo di esecuzione, il quale trova il proprio fondamento causale nell’accordo fiduciario e nella obbligazione di dare che da esso origina».
[68] Sul punto, le S.U. asseriscono che il mandato senza rappresentanza ad acquistare «costituendo lo strumento tipico dell’agire per conto (ma non nel nome) altrui, non solo può piegarsi alle esigenze di un pactum fiduciae che contempli l’obbligo del fiduciario di ritrasferire al fiduciante un diritto, ma si pone anzi come figura negoziale praticamente meglio idonea ad assorbire, senza residui e senza necessità di ulteriori combinazioni, (…) quel determinato intento». Ad ulteriore conforto, si rileva che: «la dottrina, dal canto suo, evidenzia come mandato (in nome proprio) e negozio fiduciario si presentino entrambi come espressioni della interposizione reale di persona: in particolare, con specifico riguardo all’ipotesi, che qui viene in rilievo, del soggetto che abbia acquistato un bene utilizzando la provvista di altri e per seguire le istruzioni ricevute, essa perviene alla conclusione che tale posizione può essere qualificata come mandato e come fiducia, ma che le norme applicabili sono comunque le stesse».
[69] Cass. civ., Sez. un., n. 898/2018.
[70] Le S.U. richiamate hanno posto il seguente principio di diritto: «Il requisito della forma scritta del contratto-quadro relativo ai servizi di investimento, disposto dal D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 23, è rispettato ove sia redatto il contratto per iscritto e ne venga consegnata una copia al cliente, ed è sufficiente la sola sottoscrizione dell’investitore, non necessitando la sottoscrizione anche dell’intermediario, il cui consenso ben si potrebbe desumere alla stregua di comportamenti concludenti».
[71]Sul punto si v. L. Bigliazzi-Geri, L’interpretazione del contratto, in Commentario al Codice Civile già diretto da P. Schlesinger, Milano, Giuffrè, 2013, 61 ss.; C.M. Bianca, Il contratto, Milano, 2019, 373 ss.; V. Roppo, Il contratto, seconda ed., Milano, Giuffrè, 2011, 439 ss.; M. Bessone, La disciplina generale del contratto, Torino, 2013, 175 ss.; M.C. Diener, Il contratto in generale, Giuffrè, 2011, 493 ss.
[72]Il contenuto del contratto è l’insieme delle pattuizioni che determinano diritti ed obblighi delle parti, prestazioni e modalità per la loro esecuzione. Può parlarsi anche di regolamento contrattuale come «sistemazione degli interessi delle parti», quale insieme di regole pattuite dalle parti per disciplinare i propri interessi ex art. 1322 cod. civ. Il risultato di insieme è il “programma” contrattuale, in senso giuridico, ma anche economico cui il primo è strumentale. Il contenuto dell’accordo esteriorizza e oggettivizza le volontà delle parti determinandone la sintesi. Al riguardo, si v. R. Alessi, La disciplina generale del contratto, Torino, 2015.
[73] In astratto, l’interpretazione non si confonde mai con l’integrazione, costituendone un momento preliminare. Si v. S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Roma, 2004; G. Gabrielli, Norme imperative e integrazione del contratto, Milano, 1994; C. Scognamiglio, L’integrazione, in I contratti in generale, Torino, 1999, 1019 ss.; A. Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano, 1967, 148 ss.; F. Ziccardi, L’integrazione del contratto, 1969, 108 ss.
Peraltro, v’è da dire che integrazione ed interpretazione oggettiva si avvicinano. L’integrazione, in termini generali, presuppone una lacuna nel regolamento, l’interpretazione oggettiva si spiega con una particolare oscurità o necessità ermeneutica del contratto. D’altronde, l’integrazione, così come anche l’interpretazione oggettiva, possono porsi anche in termini correttivi a tutela tanto di interessi generali (come nel caso dell’operatività del principio di conservazione degli atti), quanto particolari (cioè delle parti del contratto).
[74] In questi termini Cass. Civ., sez. III, 7 marzo 2023, 6727.
[75] Quel che presiede all’organizzazione nella quale propriamente consiste il sistema, è da sempre l’interpretazione, che rispetto al sistema opera secondo un dispositivo discorsivo: l’interpretazione produce organizzazione, la quale istituisce un determinismo che rende necessaria nuova interpretazione che produce a sua volta nuova organizzazione, ecc. In questo senso, la complessità del sistema non comporta un conflitto con l’attività interpretativa ma rende solo necessario un adeguamento degli strumenti concettuali da porre a fondamento dell’attività interpretativa perché possa essere adeguata alla complessità e innovatività contemporanea, procedendo, alla c.d. ricerca della giusta soluzione del caso, mediante la riorganizzazione del tessuto normativo. Così, M. Barcellona, Un’altra complessità, l’orizzonte europeo e i problemi della causa, in Juscivile, 2016, 5, 360.
[76] S. Pagliantini, G. D’amico, “Nullità per abuso e integrazione del contratto”, Torino, 2013, 216 ss.; F. Caringella, G. De Marzo, “Manuale di diritto civile”, “Il contratto”, 2008, 649; F. Cacciafava, “Contratti”, Milano, 2012, 61; F. Bocchini, R. Quadri, Diritto privato, Torino, 2016, 951 ss.
[77] V. Roppo, Il contratto cit., 471 ss.
[78] Il termine “legge” deve essere inteso in senso lato con riferimento a qualsiasi normativa stabilmente ed istituzionalmente vigente indipendentemente dal livello e la fonte di provenienza compresi i principi: P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, 2006, 545. I principi, quindi, sono idonei ad integrare il contratto; questo vale innanzitutto per i principi costituzionali e per i principi di diritto comunitario, specialmente se contenuti nei Trattati, che sono direttamente applicabili nel nostro ordinamento, purché non siano in contrasto con i valori fondamentali della Carta costituzionale. Si vedano al riguardo: S. Rodotà, op. ult. cit., 118 ss.; P. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità, Napoli, 2001; E. Cannizzaro, Il principio della proporzionalità nell’ordinamento internazionale”, Milano, 2000.
[79] L’equità integrativa del contratto ricorre quando la legge consente al giudice di sopperire ad una incompleta determinazione del contenuto contrattuale, esprimendo stime, fissando prezzi ed assegnando valori alle prestazioni delle parti. Sull’equità quale fonte di integrazione del contratto si v. a F. Gazzoni, Equità ed autonomia privata, 1970, 11 ss.; F. Galgano, Dialogo sull’equità fra il filosofo del diritto ed il giurista positivo, 401 ss.; G. Tucci, L’equità nel codice civile e l’arbitrato di equità, 1998, 471 ss.
[80] Fine ultimo dell’interpretazione, secondo la dottrina tradizionale: ex plurimis, G. Oppo, Profili dell’interpretazione oggettiva del negozio giuridico, Bologna, 1943, 3; E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, 352; R. Scognamiglio, Contratti in generale, terza ed., in Trattato Grosso-Santoro Passarelli, Torino, 1972, 182, pur non mancando una differente opinione secondo cui la “comune intenzione dei contraenti” costituisce canone interpretativo e non fine dell’interpretazione. Sul punto, anche N. Irti, Testo e contesto, Padova, 1996.
[81] In questo senso la chiarezza non va intesa in senso meramente lessicale, ma in relazione alle intenzioni dei contraenti Cass. civ., 9 dicembre 2014, n. 25840, in Foro it., 2015, 10, I, 3284. Al riguardo, secondo un primo orientamento, il senso letterale delle parole deve ritenersi il criterio fondamentale e prioritario, con la conseguenza che, ove le espressioni usate nel contratto siano di chiara ed inequivoca significazione, la ricerca della comune volontà è esclusa (Cass. civ., 29 settembre 2005, n. 19140, in Mass. Foro it.); secondo altra impostazione, il giudice non può mai prescindere dalla ricerca della comune intenzione delle parti, rispetto alla quale il senso letterale delle parole adoperate dai contraenti si pone come il primo degli strumenti di interpretazione Cass. civ., 25 febbraio 1982, n. 1198, in Mass. Foro it.
[82]Ne deriva che, in tale prospettiva, il significato delle parole utilizzate nel testo contrattuale e, quindi, il valore da attribuire alla dichiarazione negoziale, deve essere ricercato in ogni parte e in ogni parola che compone il testo contrattuale e non in una parte soltanto, quale una singola clausola contrattuale, dovendo il giudice, ai sensi dell’art. 1363 c.c., collegare e raffrontare tra loro frasi e parole, come anche il contesto relazionale delle parti, al fine di chiarire il significato del regolamento contrattuale: Cass. civ., 28 agosto 2007, n. 18180, in Danno e resp., 2008, 752, con nota di I. Confortini; Cass. civ., 22 dicembre 2005, n. 27479, in Obbl. e contr., 2006, 553, con nota di Gennari; Cass. civ., 16 giugno 2003, n. 9629, in Giust. civ., 2004, I, 2334; Cass. civ-, 17 febbraio 2010, n. 3685, in Orient. giur. lav., 2010, 28; Cass. civ., 22 febbraio 2007, n. 4176, in Arch. giur. op. pubb., 2007, 252.
[83]F. Astone, Art. 1363, in Comm. Gabrielli, Torino, 2011, 452 ss.; A. Gentili, Senso e consenso, II, Torino, 2015, 563. Contra sembra porsi Cass. civ., 31 maggio 2011, n. 12037, in Giuda dir., 2011, 42, 23. Si v., poi, G. Giacobbe, L’interpretazione del contratto, in Diritto civile, a cura di Lipari e Rescigno, III.2, Milano, 2008, 568, che, a fronte della chiarezza del testo, sembra escludere l’interpretazione sistematica.
[84] L’art. 1367 cod. civ. pone il principio della conservazione del contratto e stabilisce che la clausola si interpreta nel senso in cui è valida o è efficace, anziché in quello per il quale sarebbe invalida o inefficace. Parimenti, l’art. 1368 cod. civ. la clausola ambigua si interpreta secondo ciò che generalmente si pratica nel luogo in cui il contratto è stato concluso, ovvero laddove uno dei contraenti sia un imprenditore, nel luogo in cui è situata la sede dell’impresa. Con l’art. 1370 cod. civ. il legislatore precisa che le clausole che pongono condizioni generali di contratto si interpretano, nel dubbio, contro l’autore della clausola, ossia nel senso più favorevole all’altro contraente, che è quello più debole. Se il contratto rimane ancora oscuro, il contratto a titolo oneroso si interpreta nel senso che realizza l’equo contemperamento degli interessi delle parti, ossia il migliore equilibrio possibile tra prestazione e controprestazione; il contratto a titolo gratuito si interpreta nel senso meno gravoso per il contraente obbligato (art. 1371 c.c.). L’art. 1369 c.c., poi, dispone che le espressioni contrattuali che possono avere più sensi devono, nel dubbio, essere intese nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto.
[85] La finalità del principio espresso dalla giurisprudenza era quella di evitare che il giudice potesse finire per sostituire la propria opinione alla volontà effettiva delle parti: in questo senso, si v. Cass. civ., 11 maggio 1971, n. 1341, in Giur. it., 1973, I, 1, 691; sotto altro profilo, si intendeva evitare la pretestuosa censura delle pronunce che avessero fatto riferimento al solo criterio dell’interpretazione letterale.
[86] In tal senso Cass. civ., 8 novembre 2013, n. 25243, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 296, con nota di FOGLIA; Cass. civ., 21 maggio 2019, n. 13603, in Giust. civ., mass. 2019, ha sottolineato che: «il ricorrente in cassazione il quale deduca che l’interpretazione di un contratto è avvenuta in violazione degli artt. 1366 e 1369 cod. civ. ha l’onere di indicare, a pena di inammissibilità del gravame, l’elemento semantico di tale contratto che, essendo oggettivamente incerto nel suo significato, rende non sufficiente, per la ricerca della volontà comune delle parti, l’utilizzo del criterio c.d. letterale e necessaria, invece, l’applicazione di quelli della buona fede o della funzione del contratto».
[87] Fatta eccezione per qualche pronunzia di segno diverso, ad es., Cass. civ., 10 ottobre 2003, n. 15150, in Giust. civ. mass., 2003, 10; Cass. civ., 23 febbraio 1993, n. 12758, in Giust. civ., 1994, I, 1925.
[88] Si veda, in particolare, Cass. civ., 6 luglio 2018, n. 17718, in Giust. civ., mass. 2018; Cass. civ., 22 ottobre 2014, n. 22343, in Giuda al dir., 2014, 57, 28 con nota di PIRRUCCIO, ma ancora prima Cass. civ., 19 maggio 2011, n. 10998, in Giuda al dir., 2011, 24, 65 per cui: «se è vero che l’elemento letterale assume funzione fondamentale, il giudice, nel rispetto del c.d. principio del gradualismo, deve allora se del caso fare ricorso anche agli ulteriori criteri di interpretazione, e in particolare a quelli, anch’essi in realtà primari criteri d’interpretazione soggettiva, dell’interpretazione funzionale ex art. 1367 cod. civ. e dell’interpretazione secondo buona fede o correttezza ex art. 1366 cod. civ. Il principio di tali criteri consente di accertare il significato dell’accordo alla stregua della relativa ragione prativa o causa concreta». In dottrina, avverso il gradualismo si vedano: C.M. Bianca, Il contratto cit.; Id., Sulla «sussidiarietà» dei criteri legali di interpretazione non letterale del contratto, in Studi in ricordo di Alberto Auricchio, Napoli, 1974, 129 ss., ed ora in Id., Realtà sociale ed effettività della norma, I, Milano, 2002, 253 ss., da cui sono tratte le ulteriori citazioni; G. Oppo, Profili dell’interpretazione oggettiva del negozio giuridico, cit., 17 ss.; R. Sacco, in R. Sacco, G. De Nova, Il contratto, 4° ed., Torino, 2016, 1354 ss.; A. Gentili, Senso e consenso, cit., 615 ss.; V. Rizzo, Interpretazione dei contratti e relatività delle sue regole, Napoli, 1985, 188 ss.; A. Scalisi, La comune intenzione dei contraenti, Milano, 2003, 10 ss.; M. Pennasilico, Metodo e valori nell’interpretazione dei contratti. Per un’ermeneutica contrattuale rinnovata, Napoli, 2011, 229 ss.; Id., Contratto e interpretazione. Lineamenti di ermeneutica contrattuale, Torino, 2012, 3; E. Cabobianco, La determinazione del regolamento, in Trattato diretto da V. Roppo, II. Regolamento, Milano, 2006, p. 308 ss.; V. Calderai, Interpretazione dei contratti e argomentazione cit., 65 ss.
[89] Cass. civ., 28 agosto 2007, n. 18180, in Giust. civ., 2008, 3, I, 684; Cass. civ., 22 dicembre 2005, n. 28479, in Obbl. e contr., 2006, 6, 553.
[90] Tali criteri debbono essere infatti correttamente intesi quali primari criteri d’interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del contratto, avendo riguardo allo scopo prativo perseguito dalle parti, e dunque alla causa concreta. In tal modo: Cass. ci., 23 maggio 2011, n. 11295, in Giust. civ., 2012, 2, I, 430; Cass. civ., 19 maggio 2011, n. 10998.
[91] Cass. civ., 31 maggio 2010, n. 13208, in Giust. civ., 2011, 12, I, 2925; Cass. civ., 18 settembre 2009, n. 20106; Cass. civ., 5 marzo 2009, n. 5348, in Giust. civ. mass., 2009, 3, 391.
[92] Cass. civ., 15 febbraio 2007, n. 3462, in Giust. civ. mass., 2007, 6.
[93] Cass. civ., 10 novembre 2010, n. 22819, in Vita not., 2011, 1, 357.
[94] Cass. civ., 25 maggio 2007, n. 12235, in Rass. dir. civ., 2008, 4, 1134.
[95] Cass. civ., 23 maggio 201, n. 11295; con riferimento alla causa concreta del contratto autonomo di garanzia, Cass. civ., Sez. Un., 18 febbraio 2010, n. 3947, in Giust. civ. mass., 2010, 2, 237.
[96] A. Morace Pinelli, In claris non fit interpretatio: un brocardo che non trova asilo nel nostro ordinamento giuridico, in Giur. it., 1994, I, 1, 1164 ss.; G. Giacobbe, L’interpretazione del contratto, 558; G. Mirabelli, Dei contratti in generale, 3° ed., in Comm. cod. civ. Utet (artt. 1321-1469), Torino, 1980, 207; E. Cabobianco, La determinazione del regolamento, p. 311 ss., il quale intende il significato letterale come propedeutico ad ogni altra indagine. In giurisprudenza, si v. Cass. 20 gennaio 1984, n. 511, in Giust. civ. rep., 1984; Cass. civ., 12 luglio 1980, n. 4480, in Giust. civ., 1980, I, 2413.
[97] D. Achille, Metodo dell’interpretazione contrattuale e diritto effettivo, in Riv. dir. civ., 1, 2017, 164.
[98] Il criterio della buona fede, si pone come criterio generale che va applicato sia con riguardo all’effettivo intento delle parti, come con riguardo all’attribuzione di senso al contratto nella difficoltà di individuarne l’intento effettivo. Ciò in quanto, secondo una ricostruzione, infruttuosamente esperiti i criteri soggettivi, prima di passare a quelli oggettivi il giudice dovrà valutare il significato che ciascuna delle parti poteva ragionevolmente aspettarsi in una negoziazione corretta o poteva lealmente attendersi che l’altra condividesse.
[99] La natura, soggettiva o oggettiva, del criterio ha diviso la dottrina, anche se allo stato deve ritenersi prevalere la tesi che assume la natura “soggettiva” del criterio, valorizzando lo stesso il significato che le parti hanno legittimamente creduto di attribuire al regolamento contrattuale: in tal senso, C.M. Bianca, Il contratto cit., 415; R. Scognamiglio, Contratti in generale cit., 184 ss. La relazione ministeriale al codice civile, al n. 622, invece, dava conto del fatto che la norma collocata nell’art. 1366 che fissa il principio dell’interpretazione secondo buona fede costituiva il «punto di sutura» tra il momento soggettivo ed oggettivo dell’interpretazione; nel senso che rappresenta, invece, una tipologia di criterio “oggettivo”, si vedano F. GALGANO, Il negozio giuridico, 2° ed., in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2002, 471; V. Roppo, Il contratto cit., 477, il quale ritiene di dover qualificare il criterio ermeneutico come oggettivo sul rilievo che il significato attribuito secondo buona fede non corrisponde alla comune intenzione delle parti in quanto, utilizzando siffatto criterio, «si attribuisce al contratto il significato su cui una parte aveva fatto legittimo affidamento»; F. Ziccardi, Interpretazione del negozio giuridico cit., 6; Id., Le norme interpretative speciali, Milano, 1972, 36; L. Bigliazzi-Geri, L’interpretazione del contratto cit., 346; C. Grassetti, voce Interpretazione dei negozi giuridici inter vivos, in Nov. Dig., VIII, Torino, 1962, 907. In giurisprudenza, che il canone ermeneutico della buona fede andasse catalogato fra i criteri di c.d. “interpretazione oggettiva” era pacifico nella giurisprudenza più risalente (Cass. 11 giugno 1991, n. 6610; Cass. 20 gennaio 1989, n. 345; Cass. 5 aprile 1984, n. 2204, Cass. 19 luglio 2004, n. 13392). Oggi, l’insegnamento della Suprema Corte è invece nel senso che, “pur assumendo l’elemento letterale funzione fondamentale nella ricerca della reale o effettiva volontà delle parti, il giudice deve in proposito fare (…) applicazione altresì degli ulteriori criteri di interpretazione, e in particolare di quelli dell’interpretazione funzionale ex art. 1369 cod. civ., e dell’interpretazione secondo buona fede o correttezza ex art. 1366 cod. civ. Tali criteri debbono essere infatti correttamente intesi quali primari criteri d’interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del contratto, avendo riguardo allo scopo pratico perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto e quindi alla relativa causa concreta. L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza ex art. 1366 cod. civ., quale criterio d’interpretazione del contratto (fondato sull’esigenza definita in dottrina di ‘solidarietà contrattuale’), si specifica in particolare nel significato di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte. A tale stregua esso non consente di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte, e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell’accordo negoziale”. Così, testualmente, Cass. 6 maggio 2015, n. 9006, in Resp. civ. e prev., 2015, 4, 1293. In senso conforme, ex plurimis, Cass. civ., 14 marzo 2016, n. 4967, in Riv. dir. not., 2016, 2, 318.
[100] C.M. Bianca, Il contratto cit., 415. In tal senso sembra anche porsi una recente pronuncia di legittimità la quale in motivazione ha affermato che «ove l’interpretazione delle clausole di un contratto presenti dei margini di ambiguità, dovrà comunque essere preferita l’interpretazione più rispondente alla buona fede» (così Cass. 27 agosto 2014, n. 18349, inedita, la quale inoltre richiama Cass. 12 novembre 2009, n. 23941, in Giur. it., 2010, 1560 ed in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 448). M. Grondona, Diritto dispositivo contrattuale. Funzione, usi, problemi, Torino, 2011, 355 per cui: «la buona fede interpretativa ha (o almeno a mio avviso dovrebbe avere) un ruolo primario nella ricostruzione del regolamento contrattuale da parte dell’interprete, e più in generale del giudicante»; nonché, Id., Comune intenzione delle parti e principio di buona fede nell’interpretazione del contratto: un osservatorio sull’autonomia privata, in Ann. fac. giur. univ. Genova, 2002-2003, 210 ss. E. Navarretta, I contratti d’impresa e il principio di buona fede, in P. Sirena (a cura di), Il diritto europeo dei contratti d’impresa. Autonomia negoziale dei privati e regolazione del mercato, in Atti del convegno di studio tenutosi a Siena il 22-24 settembre 2004, Milano, 2006, 542.
[101]Al riguardo, C.M. Bianca, La nozione di buona fede cit., 211, il quale afferma che «il canone di lealtà (…) si concretizza in tre principali comportamenti negativi, e cioè il non suscitare falsi affidamenti, il non speculare sul falsi affidamenti e, ancora, il non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nell’altra parte».
[102]C.M. Bianca, Il contratto cit., 423. Nella diversa prospettiva dell’esercizio del diritto di recesso e dell’abuso del diritto, conducendo a valorizzare il dovere di coerenza delle parti al fine ultimo, sembra, di giustificare e fondare il controllo giurisdizionale sulle modalità e finalità dell’esercizio del diritto di recesso F. Gambino, Il dovere di coerenza nell’atto di recesso (note sull’abuso del diritto), in Scritti in onore di Antonino Cataudella, Napoli, 2013, 1021 ss. Al riguardo, pur con riferimento alla risoluzione del contratto, D. Achille, Clausola risolutiva espressa, buona fede in executivis e controllo giudiziale sull’inadempimento, in Giur. it., 2016, 2367 ss. Al riguardo, poi, va ricordato che, secondo altre impostazioni, il canone interpretativo in questione va ricondotto allo stato psicologico dei contraenti nell’intendere il contratto: G. Stolfi, Il principio di buona fede, in Riv. dir. comm., 1964, I, 167; secondo altri ancora, alla soggettiva opinione o non falsa credenza o non ignoranza di una o più circostanze di fatto e di diritto: R. Sacco, La buona fede nella teoria dei fatti giuridici, Torino, 1950, 12 ss., ovvero ancora alla tutela dell’affidamento: G. Cian, Forma solenne e interpretazione del negozio, Padova, 1969, 71.
[103] In questo senso, assume dunque fondamentale rilievo che il contratto venga interpretato avuto riguardo alla sua ratio, alla sua ragione pratica, in coerenza con gli interessi che le parti hanno specificamente inteso tutelare mediante la stipulazione contrattuale: si v. Cass. civ., 19 marzo 2018, n. 6675, in Giust. civ. mass. 2018; Cass., 22 novembre 2016, n. 23701, in Giust. civ. mass. 2017.
[104]Così, A. Scalisi, La comune intenzione cit., 203; nel medesimo senso, C. Scognamiglio, L’interpretazione, in I contratti in generale a cura di Gabrielli, II, nel Trattato dei contratti diretto da P. Rescigno, Torino, 2000, 924, e già Id., Interpretazione del contratto cit., 350 ss.; G. Criscuoli, Buona fede e ragionevolezza, in Riv. dir. civ., 1984, I, 732.
[105] F.D. Busnelli, Note in tema di buona fede ed equità, in Riv. dir. civ., 2001, I, 544; F. Prosperi, La buona fede tra regola di condotta e regola di validità nella tutela del contraente debole, in Studi in memoria di Vincenzo Ernesto Cantelmo, II, Napoli, 2003, 575; U. Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio. I. Il comportamento del creditore, in Trattato di diritto civile Cicu-Messineo, Milano, 1974, 36. Diversamente L. Mengoni, Autonomia privata e costituzione, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, I, 9; in giurisprudenza Cass., 7 ottobre 2008, n. 24733, in Notiz. giur. lav., 2008, 805 per cui: «operando come criterio di reciprocità nei rapporti tra debitore e creditore, enuncia un dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost. ed impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire così da preservare i reciproci interessi».
[106] Così P. Perlingieri, Interpretazione e qualificazione: i profili dell’individuazione normativa, in Id., Il diritto dei contratti fra persona e mercato. Problemi di diritto civile, Napoli, 2003, 5 ss.; E. Cabobianco, La determinazione del regolamento cit., 304; M. Pennasilico, Metodo e valori dell’interpretazione cit., 216 ss.; ID., Contratto e interpretazione cit., 30.
[107] Contra C.M. Bianca, La nozione di buona fede cit., 211; D. Achille, op. ult. cit., 173-175.
[108] In questo senso, tra gli altri, A. Gentili, Senso e consenso cit., 583; Id., art. 1362, in Comm. Gabrielli. Torino, 2011, 388; A. Scalisi, La comune intenzione cit., 192 ss.; P. Gallo, Contratto e buona fede cit., 531.
[109] Peraltro, è la stessa Corte di cassazione che, in alcuni casi, in modo espresso sovrappone i piani: così Cass. civ., 4 luglio 2014, n. 15392, in Giust. civ. mass., 2014, il quale ha sottolineato che: «in tema di compravendita di immobili, qualora il contratto preliminare preveda l’obbligo del promissario acquirente di sostenere l’onere delle spese per la redazione delle tabelle millesimali, ancora da ultimare al momento della stipula dell’atto, il promittente venditore è tenuto alla consegna degli elaborati tecnici necessari alla stesura definitiva delle stesse, desumendosi tale obbligo non dall’art. 1477, comma 3., c.c., il quale riguarda i soli documenti che rendano agevole la fruizione della cosa venduta, ma dall’interpretazione secondo buona fede della volontà negoziale, espressione dell’interesse del compratore ad avere a disposizione le tabelle ed a conoscerne l’intero processo formativo al fine di controllare l’esercizio dei poteri dell’assemblea e la corretta ripartizione delle spese condominiali».
[110] Il ragionamento interpretativo del giudice che valorizza e argomenta in termini di correttezza e buona fede indice sulla ricostruzione della volontà comune delle parti, in modo non dissimile, ancorché su piani differenti, da quanto accade laddove si riscontri una lacuna ovvero ancora una contrarietà al principio di buona fede nella comune volontà delle parti.
[111] Meccanismo ermeneutico che, da un punto di vista generale, come noto, impone al giudice, prima di sollevare la questione di legittimità costituzionale, di tentare l’individuazione di un significato della disposizione che sia compatibile con il sistema assiologico delineato dalla Carta fondamentale. Operazione che fonda sull’implicito presupposto per cui il legislatore, nell’emanare una legge, lo abbia fatto nel rispetto dei principi costituzionali.
[112] Inteso come affidamento dell’uomo medio: Cass. civ., 12 marzo 2014, n. 5782, in Mass. Foro it., 2014, 192.
[113] Così C.M. Bianca, Il contratto cit., 434; A. Gentili, Senso e consenso cit., 599.
[114] Così C.M. Bianca, Il contratto cit., 433. Contra C. Scognamiglio, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Padova, 1992, 331 ss.
[115] C.M. Bianca, Il contratto, 433. Secondo altri, invece, l’interpretazione funzionale va intesa come lo strumento che consente di far emergere gli scopi o le finalità ulteriori perseguite da una delle parti del contratto: così M. Mantello, Interpretazione funzionale e rischio contrattuale, Napoli, 2003, 338 ss.
[116] G. Alpa, Unità del negozio e principi di ermeneutica contrattuale, in Giur. it., 1973, I, 1, 1507 ss.; C.M. Bianca, Il contratto cit., 433.
[117] Così E. Cabobianco, La determinazione del regolamento cit., 345.
[118] È evidente il nesso inscindibile tra causa concreta del contratto e procedimento ermeneutico, atteso che, come chiaramente evidenziato in dottrina, il «significato di ciò che le parti hanno concordato non può essere adeguatamente accertata se non si tiene conto della ragione pratica dell’affare, ossia della causa concreta»: così C.M. Bianca, Causa concreta del contratto e diritto effettivo cit., 258; negli stessi termini, Id., Il contratto cit., 404. Si v. anche G. Alpa, Unità del negozio cit., 1507 e C. Scognamiglio, Interpretazione del contratto cit., 330 ss.; E. Navarretta, Le ragioni della causa e il problema dei rimedi. L’evoluzione storica e le prospettive nel diritto europeo dei contratti, in Studi in onore di Cesare Massimo Bianca, III, Milano, 2006, 648; M. Pennasilico, Contratto e interpretazione, 30.
[119] Cass. Civ., sez. II, 15 settembre 2022, n.27186.
[120] Cass. civ., ord. 24 giugno 2022, n. 20434.
[121] Cfr. Cass. civ., 22 novembre 2022, n. 32720.