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G. Giappichelli Editore

Criticità dell'adozione e protezione del minore. Il problema del semi abbandono permanente e le sue possibili soluzioni (di Lucia Bozzi, Professoressa ordinaria di Diritto privato – Università degli Studi di Foggia)


Il contributo esamina criticamente le ragioni solitamente poste a fondamento dell’esigenza di una riforma dell’adozione e le conseguenti soluzioni proposte. In questo quadro viene dedicato un particolare spazio alla cd. “adozione mite”, della quale vengono messe in luce le non poche criticità sul piano applicativo, che inducono a dubitare della sua idoneità a rappresentare una soluzione davvero efficace al problema del semi abbandono permanente. In ultimo, si propone una riflessione priva di pregiudizi sull’affidamento, accennando anche alla possibilità e alle modalità di una eventuale protezione del soggetto che abbia appena compiuto la maggiore età.

Critical issues about the adoption and protection of the minor. The problem of semi-permanent abandonment and its possible solutions

The essay examines critically the grounds which are usually placed for explaining the need for adoption reform and the consequent proposed solutions. In this framework, a particular space is dedicated to the “adozione mite“, whereof the many critical issues on the application level are highlighted. These critical issues lead the author to doubt “adozione mite“ suitability to represent a truly effective solution to the problem of semi-permanent abandonment. Finally, the article proposes a reflection without prejudices on custody, also hinting at the possibility and modalities of possible protection of the subject who has just reached the age of majority.

SOMMARIO:

1. Crisi dell’adozione e soluzioni riformatrici - 2. Il problema del semi abbandono permanente e la soluzione/seduzione dell’adozione mite … e i suoi limiti - 3. Adozione e (desiderio di) genitorialità - 4. Protezione del minore e “valorizzazione” dell’affidamento. Il “prosieguo amministrativo” - NOTE


1. Crisi dell’adozione e soluzioni riformatrici

L’adozione non è affatto un tema negletto nel dibattito attuale. Di adozione si parla anzi molto e da tempo, auspicandone con forza una riforma. Tuttavia, prima di ragionare in merito alla opportunità e, soprattutto, al contenuto di una eventuale riforma, sembra opportuno tentare di chiarire i termini della questione, partendo da una analisi, per quanto assai sommaria, della situazione “concreta”. Con una premessa. Ogni intervento normativo in un ambito come quello della protezione del minore “sconta” – molto più che in altri settori, come per esempio il diritto dei contratti – il limite ontologico e quindi non emendabile della sua necessaria astrattezza. Il legislatore, in altri termini, non può che limitarsi ad indicare soluzioni generali, fondate su parametri valutativi inevitabilmente generici (come il superiore, o migliore, interesse del minore [1]) che poi il giudice dovrà declinare nel caso concreto, con una discrezionalità che non può essere solo tecnica ma (inesorabilmente) finisce con l’essere influenzata dalla sensibilità del giudicante e dal sentire sociale (che a sua volta influenzerà la sensibilità del giudicante). Le aspettative di una definitiva, o per lo meno ragionevolmente duratura, risoluzione in via legislativa dei molti problemi che attraversano gli strumenti a protezione del minore rischiano pertanto di rimanere deluse.

Dell’adozione, istituto ritenuto “in crisi” – sia per la progressiva e costante diminuzione dei minori adottabili come pure degli aspiranti genitori, sia per la ormai venuta meno corrispondenza dell’istituto al comune sentire sociale – si auspica, come detto, una riforma [2]. Il contenuto della stessa dovrebbe, tra l’altro, riguardare una estensione dei soggetti che possono richiedere di adottare, una apertura verso la c.d. adozione mite, uno snellimento della procedura. Per valutare la idoneità delle innovazioni proposte a risolvere (o almeno, at­tenuare la portata delle) ragioni di crisi appare necessario accennare, sia pure molto brevemente, a queste ultime.

In primo luogo occorre muovere dalla constatazione che il numero delle coppie di aspiranti genitori adottivi, per quanto in diminuzione, risulta tuttavia ancora largamente superiore al numero di bambini adottabili. Rimuovere i “paletti” che impediscono a non coniugati (e quindi, implicitamente, alle coppie dello stesso sesso) o a persone sole di adottare può essere, volendo, giustificato ritenendo tali “paletti” ormai estranei alla morale sociale e non funzionali a garantire il miglior interesse del minore, non certo per colmare una carenza numerica di aspiranti adottanti che non consente a tutti i bambini adottabili di essere adottati. È vero che vi è comunque un significativo numero di minori collocati in comunità o presso affidatari, non di rado per periodi assai più lunghi dei 24 mesi normativamente previsti. Tuttavia, la permanenza del minore al di fuori del proprio nucleo familiare non può essere evitata ampliando la platea dei soggetti che possono adottare (anzi, probabilmente il divario tra bambini adottabili e richiedenti sarebbe destinato ad aumentare). Il minore, infatti, non è (nella grande maggioranza dei casi) in istituto (o in affidamento familiare) perché non c’è una coppia che abbia i requisiti di cui all’art. 6 della l. 183/1984 disposta ad adottarlo [3], ma perché non è adottabile. La permanenza, più o meno lunga del minore, al di fuori della “famiglia” potrebbe essere pertanto evitata soltanto modificando i criteri per dichiarare lo stato di adottabilità e, in particolare, solo obliterando il diritto del minore a vivere all’interno della propria famiglia.

Coerentemente con i dicta della giurisprudenza [4], anche europea [5], lo stato di adottabilità è infatti dichiarato solo laddove la famiglia d’origine, anche allargata, sia o totalmente assente (per esempio, in caso di bambini abbandonati alla nascita) o irreversibilmente e assai gravemente deficitaria e ciò possa avere ripercussioni sulla salute fisica e psichica del minore e compromettere la sua crescita armoniosa. Non assume rilievo in tale valutazione lo stato di indigenza della famiglia, che dovrebbe in tal caso essere supportata dai servizi [6]. Risulta tuttavia difficile credere che la valutazione stessa non sia, almeno in parte, influenzata anche (e in maniera tutt’altro che trascurabile) da tale fattore, dal momento che i provvedimenti di allontanamento del minore fondati esclusivamente sul suo abbandono “morale” (al di là, ovviamente dell’ipotesi di violenza) sono più che rari, di “scuola”.

Il provvedimento che decide la adottabilità o il collocamento in affido del minore si fonda su un giudizio prognostico. Il rischio di “smarrire” il carpe diem [7] e quindi la cura in concreto del minore, posticipando un intervento “più deciso”, o rectius di fatto rischiando seriamente di precluderlo per sempre, posto che recidere il legame del minore con la propria famiglia diviene con il passare del tempo (e il conseguente intensificarsi dei rapporti) sempre più difficile, non è affatto meramente ipotetico [8]. Tuttavia sembra poco realistico immaginare che i giudici, anche laddove si tratti di un bambino molto piccolo e le carenze genitoriali e familiari appaiano assai significative e difficilmente reversibili, si pongano in contrasto con la giurisprudenza domestica ed europea ormai consolidata e scelgano di dichiararne l’adottabilità, a meno la situazione non appaia ictu oculi così grave da richiedere un provvedimento in tal senso. Più probabile un approccio ispirato alla “giustizia difensiva”, che decida, comunque, di non recidere il legame del minore con la propria famiglia.

Per altro verso, la preferenza, che provocatoriamente si potrebbe definire “pregiudiziale”, nei confronti della famiglia d’origine [9], nucleare e allargata [10], da un lato sembra smentire il ruolo assolutamente recessivo che si vuole talvolta assegnare alla famiglia biologica a favore di quella “sociale”. Dall’altro, pone alcuni interrogativi sui parametri (o, se si preferisce, sui limiti) del giudice nel valutare l’interesse del minore in situazioni per c.d. problematiche, laddove cioè non vi sia trascuratezza da parte della famiglia d’origine, ma semplicemente si “educhi” il minore, beninteso guardando a quello che si ritiene sia il suo interesse, impedendogli alcuni comportamenti, per esempio la frequentazione di soggetti dell’altro sesso, non in sintonia con la tradizione culturale della famiglia d’origine.

Certamente, al di là di simili interrogativi, solo all’apparenza banali ma che in realtà intersecano il problema dei limiti della libertà educativa, la preferenza per la famiglia d’origine rende l’adozione piena strumento cui ricorrere solo come extrema ratio, laddove non sia altrimenti possibile garantire adeguata assistenza al minore [11]. Il giudice non potrà cioè dichiarare lo stato di adottabilità nelle situazioni – e sono quelle più frequenti – di c.d. semi abbandono permanente, cioè quando una famiglia, anche se carente e con capacità di accudimento insufficienti e/o altalenanti, vi sia. È il caso, per esempio, dei figli di tossicodipendenti o alcoolizzati, la cui vita è disseminata di tentativi più o meno fruttuosi di disintossicazione. Oppure di figli di genitori affetti da disturbi psichici lievi. Ci si potrebbe chiedere se a determinare lo stato di semi abbandono permanente anziché di adottabilità sia il legame tra il minore e la famiglia d’origine o la circostanza che le carenze di questa non sono giudicate irreversibili (talvolta con un ottimismo che porta a dubitare dell’effettivo realismo della scelta) o così gravi da rendere preferibile l’allontanamento definitivo del minore [12]. Probabilmente si tratta di circostanze che possono concorrere, fermo restando che sembra sufficiente a orientare la scelta del giudice verso la non dichiarazione dello stato di adottabilità anche la presenza di una sola di esse.

In questo quadro appare impossibile non notare il “disallineamento” che si determina, rispetto alla dichiarazione di adottabilità tra adozione (piena) nazionale e internazionale e che porta a interrogarsi sulla considerazione unitaria che tali “tipi” di adozione ricevono. Lo stato di adottabilità è infatti dichiarato nel paese d’origine del minore ed è indimostrabile che siano state almeno tentate misure assistenziali volte a favorire la permanenza del minore all’interno della propria famiglia d’origine (ed anzi, al contrario, pare ragionevole presumere che tali misure non siano state tentate). Soprattutto, in contesti culturali nei quali è predominante la nozione di famiglia “molto allargata” (e quindi l’abbandono totale piuttosto raro), è quasi inevitabile chiedersi se tale dichiarazione non sia, nella migliore delle ipotesi, influenzata da una comparazione con il benessere economico e le opportunità indubbiamente maggiori che potrebbe avere il minore adottato da una famiglia del “ricco mondo occidentale” [13].


2. Il problema del semi abbandono permanente e la soluzione/seduzione dell’adozione mite … e i suoi limiti

Tornando alla adozione “nazionale”, è facile osservare che l’impostazione “bipolare” che vede da una parte l’adozione piena e dall’altra, ove non ne ricorrano i presupposti, come per esempio in caso di semi abbandono permanente, l’affidamento soffre di una certa rigidità [14] che, anche alla luce della recente sentenza della Consulta sulla adozione in casi particolari deve essere certamente ripensata [15]. In questa prospettiva è stata avanzata dalla dottrina la proposta, come sopra accennato, di “valorizzare” la c.d. adozione mite [16], una adozione cioè “giustificabile” sulla base dell’art. 44 della l. 183/1984 [17], che non recida il rapporto del minore con la famiglia d’origine [18].

Pur nella consapevolezza che sarebbe opportuno lasciare all’interprete l’onere di individuare gli strumenti nel caso concreto più appropriati a realizzare il miglior interesse del minore, senza “preferenze” precostituite [19], riguardo alla idoneità della adozione mite a risolvere il problema del semi abbandono permanente sembra legittimo nutrire qualche dubbio [20].

È sin troppo semplice, infatti, rilevare che perché l’adozione mite abbia un esito soddisfacente è necessario che tutte le parti siano molto disponibili a collaborare tra loro, e che siano in grado di farlo (al di là della buona volontà) senza porsi in competizione [21]. È necessario cioè che la famiglia di origine, pur non recidendo ogni legame con il minore, ma anzi continuando ad avere con lui contatti, sia consapevole che il minore è figlio degli adottanti e non pretenda quindi di inserirsi in scelte educative che magari non condivide e men che meno che tenti di “accaparrarsi” la simpatia del minore prendendo le sue parti in caso di, forse inevitabili, contrasti tra questi e la famiglia adottante.

Uno scenario quasi idilliaco, ci si potrebbe chiedere quanto realistico, posto che un simile atteggiamento richiederebbe notevole lucidità, grande consapevolezza (delle proprie capacità, dei propri limiti e della propria inadeguatezza), profonda maturità. Qualità in generale non facili da rinvenire e che forse potrebbe essere illusorio aspettarsi nelle situazioni che danno origine al semiabbandono permanente del minore: tossicodipendenza, lievi disagi psichici ...

Il buon esito della adozione mite richiede poi un atteggiamento collaborativo e comprensivo anche nella famiglia adottante, che dovrebbe accettare la inevitabile compresenza della famiglia di origine nella propria vita familiare. Una compresenza che, è inutile nasconderselo, potrebbe risultare tutt’altro che facile da gestire nel concreto, laddove si consideri che significa (o quanto meno potrebbe significare) una ingombrante presenza nelle scelte educative, in genere mai gradita ma che, nel caso di specie, potrebbe rivelarsi particolarmente problematica da “governare” proprio in ragione del probabilmente inadeguato grado di consapevolezza e maturità da parte della famiglia di origine. Nonché in ragione del non improbabile divario culturale ed economico tra le due famiglie – con possibili riflessi in termini scelte educative –, che pure potrebbe contribuire a non semplificare non solo i rapporti tra queste, ma anche tra il minore (“conteso” tra due mondi) e le stesse. Uno scenario forse descritto con tinte un po’ colorite, ma tutt’altro che meramente ipotetico se solo si pensa alla situazione di conflittualità che non di rado caratterizza i rapporti tra genitori separati rispetto alla educazione dei figli e che non si vede perché non dovrebbe verificarsi, e in termini forse ancora più problematici, rispetto a famiglie diverse, che non si sono mai “scelte” [22].

L’adozione mite può insomma rappresentare uno strumento utile alla protezione del minore – peraltro, come detto, nessuno strumento dovrebbe essere pregiudizialmente escluso – ma sembra dubbio che possa davvero risolvere la crisi dell’adozione. E cioè che possa sempre (o, almeno, in un numero davvero importante di casi) rappresentare un rimedio efficace e sicuro al problema del semiabbandono permanente e men che meno al progressivo calo delle adozioni, ovvero alla riduzione delle richieste di adozione – per le ragioni sopra esposte – e alla riduzione dei bambini adottabili, nonché al permanere dei bambini stessi in situazione di “affido”. È possibile che taluni genitori, ove fossero certi della possibilità di potere continuare ad intrattenere un rapporto con il proprio figlio, possano acconsentire alla sua adozione. È possibile, ma la spontanea adesione sarebbe, probabilmente, un fenomeno numericamente marginale. Per le stesse ragioni per le quali la “concreta gestione” della adozione mite sarebbe tutt’altro che agevole: un simile atteggiamento denota una consapevolezza, una maturità e una abnegazione non facili da trovare.


3. Adozione e (desiderio di) genitorialità

Soprattutto, occorre essere consapevoli che, nel caso di adozione mite, alla famiglia adottante sarebbe davvero richiesto uno sforzo enorme. Uno sforzo che solo una famiglia che avesse come unico scopo offrire accoglienza familiare a un minore che ne è privo sarebbe disposta (a provare) a dare. È vero che l’adozione è diretta a dare una famiglia al minore (e che quindi, ogni coppia di aspiranti genitori adottivi dovrebbe avere tale obiettivo) ma è inutile nascondersi che, dal punto di vista di coloro che desiderano adottare, l’adozione rappresenta in primo luogo uno strumento per soddisfare il proprio desiderio di genitorialità [23]. Un desiderio che non deve essere in alcun modo stigmatizzato, non solo più che legittimo e anzi “nobile”, ma soprattutto assolutamente “ancestrale” – legato a ragioni che sul piano personale si possono ellitticamente definire “affettive” e su quello più generale possono essere ricondotte ad una esigenza di perpetuazione della specie – e quindi, in una certa misura, irrazionale e insopprimibile. Un desiderio che, nonostante alcuni ambigui pronunciamenti giurisprudenziali [24], non è né può diventare un diritto ma che è a fondamento della maggior parte delle richieste di adozione.

La consapevolezza che, dal punto di vista di chi desidera adottare, l’adozione è in primo luogo strumento per soddisfare il proprio desiderio di genitorialità può forse aiutare ad affrontare problemi e prospettive di riforma dell’adozione con un approccio meno retorico. Collegare la diminuzione delle richieste di adozione (sia per quanto riguarda l’adozione nazionale sia per quanto riguarda quella internazionale) ai costi o alla lunghezza del procedimento non coglie la complessità del fenomeno. Il procedimento adottivo ha sempre presentato dei costi ed è sempre stato lungo, complesso, farraginoso. Ed è sempre stato anche “imprevedibile”, sia relativamente al se e al quando del suo momento costitutivo – ovvero se e quando sarà possibile adottare un bambino – sia nella fase successiva (relativamente cioè successo del procedimento stesso nel lungo termine).

Di nuovo sotto il sole c’è invece la crescente diffusione della procreazione medicalmente assistita (pma), che è oggettivamente in concorrenza con l’adozione [25]. Il ricorso alla pma non pare destinato, almeno nel breve termine, a diminuire e conseguentemente, le richieste di adozione continueranno, probabilmente, a decrescere. L’adozione mite, tuttavia, con il suo bagaglio di “complicazioni” ulteriori per la famiglia adottiva non sembra lo strumento più adatto per invertire il trend. Molti aspiranti genitori continueranno a ritenere la “gestione” del rapporto con il bambino nato in seguito a pma (a prescindere dalla circostanza che si tratterebbe, sempre o quasi, di un bambino, anche in caso di fecondazione eterologa, almeno per uno dei componenti della coppia, biologicamente proprio) meno difficile rispetto a quella con un bambino adottato, un bambino con un vissuto, per quanto breve, sicuramente problematico. E con qualche ragione, che sarebbe ipocrita negare. Le ontologiche difficoltà dell’adozione appaiono, quanto meno per la famiglia adottiva, amplificate in caso di adozione mite. In questo caso, infatti, non si tratta solo di consentire al nato di conoscere, ove possibile, le proprie origini, intese come identità dei genitori biologici (come ormai in molte esperienze anche in caso di pma) o di “raccontargli” la sua storia, ma di gestire una complessa “relazione triangolare” con la famiglia d’origine, nelle sue articolazioni e non solo con i genitori biologici [26]. Un compito, come detto, estremamente arduo, che richiede non solo un notevole sforzo ma anche non poca abnegazione.

In questa prospettiva appare quasi inevitabile interrogarsi sulle possibili ragioni che spingono a sollecitare l’adozione mite. L’oggettiva difficoltà di successo di tale “tipologia” adottiva porta infatti a dubitare che questa possa costituire una reale panacea alla crisi dell’adozione. L’adozione mite, tuttavia, non solo esprime in modo inequivocabile che con l’adozione il minore non “nasce” nella nuova famiglia – concezione tradizionale ormai superata, funzionale, forse, alle ragioni della coppia adottante più che a quelle dell’adottato – ma soprattutto spezza con decisione l’impostazione dell’adozione instar naturae. Con tutto il suo bagaglio di implicazioni. L’adozione instar naturae presuppone una coppia eterosessuale, stabile (nella previsione normativa, coniugata da tre anni, nella presunzione che ciò rappresenti un sintomo di stabilità), di età potenzialmente procreativa (in rapporto al minore da adottare). Se la famiglia adottiva non deve essere imitativa di quella biologica è invece necessaria e sufficiente una coppia, composta indifferentemente da soggetti di sesso diverso o dello stesso sesso, autenticamente disposta all’accoglienza, e forse addirittura una persona sola. Se la famiglia adottiva diventa “solo” un “luogo di affetti” [27], diviene allora gioco forza irragionevole (o almeno difficilmente giustificabile) non rendere il percorso adottivo accessibile quanto meno a tutte le coppie, e forse, come detto, addirittura a una persona sola [28]. Con riflessi sull’idea stessa di genitorialità, sempre più distaccata dalla sua dimensione imitativa di quella biologica, che si proiettano inevitabilmente anche sulla pma: l’approdo (o, almeno, il significativo passaggio) di un percorso ideologico di modifica della “famiglia” e della genitorialità che può piacere o meno ma che non è possibile ignorare.

L’altro punto fermo di ogni richiesta riformatrice, ovvero lo snellimento della procedura adottiva, appare invece piuttosto generico. O meglio, occorre chiedersi non tanto se sia, come quasi scontato, auspicabile, posto che quasi tutti gli “snellimenti” lo sono, ma piuttosto come possa essere concretamente realizzabile. Lo snellimento procedurale, con conseguente velocizzazione del percorso adottivo, generalmente (e genericamente) richiesto non si dovrebbe infatti attuare (neanche per chi lo reclama) a scapito né di una accurata ponderazione della situazione del minore prima di dichiararne lo stato di adottabilità né di una attenta valutazione dei requisiti di idoneità degli adottanti. Un obiettivo non certo agevole da realizzare. Anche perché se, come sembra, l’adozione mite diventerà prevalente, data la maggiore difficoltà intrinseca che questa presenta per gli adottanti, occorrerà valutarne l’idoneità con particolare attenzione. D’altro canto, e soprattutto, i bambini adottabili saranno probabilmente sempre più spesso bambini con “bisogni speciali”: disagi fisici e/o psichici, vissuto altamente traumatico, disturbi comportamentali, età (relativamente) avanzata. In questi casi (rectius, soprattutto in questi casi), perché l’adozione non vada incontro ad un quasi certo fallimento occorre che i genitori adottivi siano autenticamente consapevoli delle difficoltà che l’adozione stessa presenta, che abbiano un adeguato grado di “maturità” e che la stessa famiglia “allargata” dimostri volontà di accoglienza. Coniugare – senza peraltro l’ausilio di presunzioni [29] – la verifica di tali requisiti con uno “snellimento” della procedura, come detto, non sembra affatto operazione semplice.


4. Protezione del minore e “valorizzazione” dell’affidamento. Il “prosieguo amministrativo”

A questo punto appare provocatoriamente possibile chiedersi se, piuttosto che ragionare su una riforma dell’adozione non sia preferibile guardare con intenti riformatori alla protezione del minore complessivamente intesa. Non è detto, infatti, che l’adozione sia sempre lo strumento preferibile, o, rectius, realisticamente più praticabile, per garantire tale protezione. Occorrerebbe allora, forse, prestare maggiore attenzione all’esigenza di una revisione, senza pregiudizi, dell’affidamento [30], pur nella consapevolezza che l’istituto non può certo rappresentare “la chiave di volta di tutti i problemi dell’infanzia e della famiglia con problemi” [31]. Una valutazione “spregiudicata” dell’affidamento, invece, rimane spesso “sullo sfondo”. A torto. La “galassia affidamento” necessiterebbe infatti della massima attenzione, se non altro perché, nelle sue varie declinazioni, l’istituto sembra destinato a (quanto meno) mantenere il proprio rilievo, posto che risulta poco realistico ipotizzare che, adozione mite o meno, si riesca ad evitare il suo utilizzo per un ampio numero di minori.

In questa prospettiva, una riflessione meriterebbe senz’altro la questione dei minori stranieri non accompagnati. La loro situazione presenta tuttavia caratteri di specificità – si tratta infatti, nella maggior parte dei casi, di “grandi minori” (cioè soggetti assai vicini alla maggior età), spesso non “abbandonati”, ma che anzi mantengono rapporti significativi con la famiglia d’origine, – che ne rendono impossibile una trattazione unitaria con quella dell’affidamento “nazionale”. In questo ambito, fermo restando che sarebbe fortemente auspicabile che l’affido fosse davvero temporaneo – e che per dare un fondamento ragionevole a tale auspicio appare necessario coinvolgere nell’intervento a protezione del bambino anche tutto il “mondo” del bambino, accompagnando quindi la sua famiglia d’origine (in modo sinergico e funzionale all’accompagnamento del bambino stesso) –, sembrerebbe comunque quanto mai opportuno (e anzi indifferibile) riflettere senza pregiudizi sulla necessaria temporaneità dell’affido [32]. È infatti legittimo chiedersi se prevedere (e quindi regolamentare) un affido senza limiti temporali, sine die, non solo possa rappresentare un mai disprezzabile esercizio di realismo, ma soprattutto possa risultare in molti casi funzionale al miglior interesse del minore, che (specie ove in età relativamente “avanzata”) potrebbe essere riluttante al coinvolgimento in una esperienza adottiva (sempre ammesso che una opportunità di adozione concretamente si presenti).

Come pure sembrerebbe necessario riflettere sulla situazione e sulla protezione del soggetto che abbia appena compiuto la maggiore età [33]: non più un minore che suscita una generale empatia e simpatia e che è quasi istintivo volere proteggere ma un neo maggiorenne necessariamente (e precocemente) considerato (anzi obbligato ad essere) “adulto”. In questi casi è possibile assicurare all’ex minore il diritto ad essere accompagnato verso l’effettiva autonomia tramite il “prosieguo amministrativo”. L’istituto è espressamente previsto nell’art. 13, comma 2 della l. 47/2017, c.d. legge Zampa, ai sensi del quale “Quando un minore straniero non accompagnato, al compimento della maggiore età, pur avendo intrapreso un percorso di inserimento sociale, necessita di un supporto prolungato volto al buon esito di tale percorso finalizzato all’autonomia, il tribunale per i minorenni può disporre, anche su richiesta dei servizi sociali, con decreto motivato, l’affidamento ai servizi sociali, comunque non oltre il compimento del ventunesimo anno di età”. La collocazione – una legge in tema di immigrazione – e l’incipit della disposizione, che esplicitamente si riferisce al “minore straniero non accompagnato” rendono tuttavia la citata previsione normativa non esportabile al minore italiano. Per quest’ultimo, l’unico dato normativo disponibile è contenuto nel R.D.L. 1434/34. La legge, in realtà dedicata alla creazione del Tribunale dei minorenni, attribuisce a questo anche la possibilità di assumere misure amministrative e prevede che queste cessino “in ogni caso …al compimento del ventunesimo anno d’età” e che “I minorenni già rieducati che non possono convenientemente essere assistiti dalla famiglia o da altre persone o istituti di cui all’art. 23, sono ammessi in appositi pensionati giovanili”, la cui organizzazione “deve consentire e favorire il collocamento dei minorenni al lavoro”. Un dato normativo scarno, datato e, soprattutto, dettato essenzialmente per finalità assolutamente diverse – e cioè “rieducative” del minore – “adattato” e utilizzato dalla giurisprudenza con finalità, invece, protettive del minore stesso.           In prospettiva de iure condendo, una legge che recepisse la prassi giurisprudenziale – che prevede un affidamento del minore ai servizi sociali e la prosecuzione del progetto educativo già avviato – e “stabilizzasse” la sperimentazione promossa dal Ministero del lavoro [34], potrebbe essere senz’altro utile, se non altro a conferire a questa certezza e uniformità. Inoltre, dal momento che risulta estremamente raro che gli “ex minori” abbiano raggiunto una effettiva e completa autonomia già al compimento del diciottesimo anno di età, si potrebbe ipotizzare di considerare il prosieguo amministrativo automaticamente applicabile, se non sempre (come auspicabile) almeno nei casi di affidamento in comunità, cioè laddove, a differenza di quanto presumibilmente accade a chi è affidato a famiglie, al compimento del diciottesimo anno di età potrebbe davvero non esserci nessuno a sostenere l’ex minore. In questi casi, il progetto individualizzato di accompagnamento all’autonomia potrebbe essere formulato di concerto tra il minore, il soggetto affidatario e i servizi sociali competenti, “saltando” il passaggio giudiziale, sulla cui effettiva utilità è possibile interrogarsi. Sempre nella consapevolezza della scarsità “cronica” delle risorse (ma anche della miopia di ogni soluzione assunta a prescindere da una valutazione d’im­patto anche, e anzi soprattutto, a lungo termine) si potrebbe considerare l’opportunità di estendere il progetto di autonomia fino al compimento del 25 anno di età, magari prevedendo un contributo economico man mano decrescente. Si eliminerebbe così un iter burocratico probabilmente di dubbia utilità, realizzando anche un effettivo “alleggerimento” per i tribunali. Temi in fondo poco esplorati dalla dottrina, che inducono a chiedersi se concentrare ogni interesse in merito alla protezione del minore sulla riforma dell’adozione corrisponda davvero a una prospettiva puerocentrica.


NOTE

[1] Sul punto L. Lenti, Note critiche in tema di interesse del minore, in Riv. dir. civ., 2016, I, 86 ss.

[2] E. Quadri, Verso una riforma dell’adozione?, in Giustiziacivile.com, editoriale del 3 ottobre 2016; A. Morace Pinelli, Per una riforma dell’adozione, in Fam.dir., 2016, 719 ss.

[3] A. Morace Pinelli, op. cit., 727, il quale sottolinea come, nell’interesse del minore, l’adozione del singolo costituisca alternativa preferibile al ricovero in istituto.

[4] Ex multis, Cass., 7 ottobre 2014, n. 21110; Cass., 18 dicembre 2015, n. 25526; Cass., 13 gennaio 2017, n. 782; Cass. 27 marzo 2018, n. 7559; Cass., 22 agosto 2018, n. 20954; Cass., 3 ottobre 2019, n. 24791; Cass., 13 febbraio 2020, n. 3643; Cass., 13 febbraio 2020, n. 3654; Cass., 25 gennaio 2021, n. 1476, “il giudice chiamato a decidere sullo stato di abbandono del minore, e quindi sulla dichiarazione di adottabilità, deve accertare la sussistenza dellinteresse del medesimo a conservare il legame con i suoi genitori biologici, pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali, costituendo ladozione legittimante un‘extrema ratio cui può pervenirsi nel solo caso in cui non si ravvisi tale interesse”; Cass., 17 febbraio 2021, n. 4220; Cass., ord. 14 settembre 2021 n. 24727, “la seria disponibilità a prendersi cura del minore manifestata dai parenti entro il quarto grado (nella specie, i nonni) che abbiano instaurato e coltivato rapporti significativi con il bambino, può valere ad integrare il presupposto giuridico per escludere lo stato di abbandono, ove concretamente accertata e verificata”. Nello stesso senso Cass.,15 dicembre 2021, n. 40308, per cui “Il prioritario diritto del figlio di vivere con i suoi genitori e nellambito della propria famiglia, impone particolare rigore nella valutazione dello stato di adottabilità dello stesso, ai fini del perseguimento del suo superiore interesse, potendo questo diritto essere limitato solo ove si configuri un endemico e radicale stato di abbandono, la cui dichiarazione va reputata, alla stregua della giurisprudenza costituzionale, della Corte Europea dei diritti delluomo e della Corte di giustizia, come “extrema ratio” a causa della irreversibilità incapacità dei genitori e dei parenti di allevarlo e curarlo per la loro totale inadeguatezza”; Cass., 4 maggio 2022, n. 14077, “In tema di accertamento dello stato di adottabilità, posto che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità costituisce solo una “soluzione estrema”, essendo il diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia dorigine, quale ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, tutelato in via prioritaria dallart. 1 della L. n. 184 del 1983 il giudice di merito deve operare un giudizio prognostico teso, in primo luogo, a verificare leffettiva ed attuale possibilità di recupero delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento sia alle condizioni di lavoro, reddituali ed abitative, senza però che esse assumano valenza discriminatoria, sia a quelle psichiche, da valutarsi, se del caso, mediante specifica indagine peritale, estendendo detta verifica anche al nucleo familiare, di cui occorre accertare la concreta possibilità di supportare i genitori e di sviluppare rapporti con il minore, avvalendosi dellintervento dei servizi territoriali”.

[5] Corte Eur. Dir. Uomo, 21 gennaio 2014, Zhou c. Italia, ric. 3373/ 11; Corte Eur. Dir. Uomo, 16 luglio 2015 – Ric. n. 9056/14 – Akinnibosun c. Italia; Corte Eur. Dir.Uomo, 13 ottobre 2015, ric. 52557/14, S.H. c. Italia; Corte Eur. Dir. Uomo, Corte eur. dir. uomo, 20 gennaio 2022 – ric. n. 60083/19 – D.M. ed N. c. Italia.

[6] Secondo la chiara indicazione degli artt. 30 e 31 della Costituzione e dell’art. 1 della l. 4 maggio 1984, n. 183, secondo cui “2. Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la ((responsabilità)) genitoriale non possono essere di ostacolo al­l’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto”.

[7] P. Morozzo della Rocca, Abbandono e semiabbandono del minore nel dialogo tra CEDU e Corti nazionali, in Nuova giur. civ. comm., 2020, I, 835, “se la natura residuale dell’adozione dovesse essere intesa nel senso di non potervi ricorrere se non in presenza del danno grave e attuale, si rischierebbe di fare incancrenire contesti familiari nei quali sono già chiari sia il grave pericolo per lo sviluppo del minore ancora in tenera età, sia l’inidoneità dei genitori biologici, conferendo fama di virtù a lentezze e indugi che in realtà denotano un’assenza di responsabilità e una capacità di immedesimazione parziale (magari solo verso gli adulti) o assente. Insomma, il rischio è quello di smarrire il carpe diem e con esso la cura in concreto del minore, pur di essere fedeli a un protocollo che si fa sempre meno compatibile con la tirannia dei tempi del minore e delle sue fragilità”.

[8] Il caso deciso da Corte Eur. Dir. Uomo,12 febbraio 2019 – Ricorso n. 63289/17 – Causa Minervino e Trausi contro Italia, per quanto concluso poi con una adozione, appare emblematico. La cronistoria: nel 2008 la famiglia è presa in carico dai servizi sociali, nel 2009 il Tribunale per i minorenni dispone il collocamento dei minori in una struttura idonea a causa delle difficoltà della famiglia, nel 2012 i minori sono affidati ai servizi sociali, nel luglio 2014, il Tribunale sospende la potestà genitoriale dei ricorrenti, conferma il collocamento dei bambini e incarica i servizi sociali di individuare delle famiglie affidatarie. Nel febbraio 2015 il Procuratore chiede una pronuncia di decadenza della potestà genitoriale dei ricorrenti e l’apertura della procedura per la dichiarazione dello stato di adottabilità dei bambini, nell’aprile 2015, il Tribunale conferma la sospensione della potestà genitoriale dei ricorrenti, nel luglio 2015, il Tribunale per i minorenni dichiara lo stato di adottabilità dei minori.

[9] Sul punto v. G. Ballarani, P. Sirena, Il diritto dei figli di crescere in famiglia e di mantenere rapporti con i parenti nel quadro del superiore interesse del minore (art. 315 bis c.c., inserito dall’art. 1, comma 8°, l. n. 219/2012), in Nuove leggi civ. comm., 2013, 534 ss.; A. Finessi, Adozione legittimante e adozione c.d. mite tra proporzionalità dell’intervento statale e best interest of the child, in Nuove leggi civ.comm., 2020, 1343 ss.; M.C. Bianca, L’interesse del minore alla propria famiglia: un interesse ancora in attesa di piena tutela, in The best interest of the child, a cura di M. Bianca, Sapienza Università Editrice, 2021, 255 ss., il quale sottolinea come “il diritto del minore di crescere in famiglia sia un diritto della personalità, in quanto tutela un interesse essenziale dell’es­sere umano nel tempo della sua formazione, e come il legame con i genitori debba essere salvaguardato comunque fin che non s’im­ponga la tutela di un preminente interesse del minore, come l’interesse a non essere oggetto di violenza” (256). E. Quadri, Una riflessione su “l’interesse del minore e il suo diritto a crescere in famiglia”, ivi, 261 ss.

[10] Intesa, almeno, riferita ai parenti entro il quarto grado, così come implicitamente stabilito nella legge sull’adozione, che all’art. 9 prevede che solo chi non abbia questo grado di parentela e accolga il minore per più di sei mesi debba segnalarlo al Tribunale dei minorenni; sul punto v. M. Dogliotti, F. Piccaluga, L’art. 8 della legge sull’adozione prima e dopo la riforma del 2001, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 593 ss., par. 10.

[11] Cfr. sul punto v. M. Dogliotti, F. Piccaluga, op. cit.

[12] Sul punto P. Morozzo della Rocca, op. cit., 831 ss.

[13] Corte Eur. Dir. Uomo,12 febbraio 2019 – Ricorso n. 63289/17 – Causa Minervino e Trausi contro Italia, cit., “la Corte rammenta che il fatto che un bambino possa essere accolto in un ambiente più favorevole alla sua educazione non può, di per sé, giustificare che venga sottratto di forza alle cure dei suoi genitori biologici. Un’ingerenza simile nel diritto dei genitori, riconosciuto dal­l’art. 8 della Convenzione, di godere di una vita familiare con il proprio figlio, deve risultare anche «necessaria» per altre circostanze”. Così anche Cass., 25 gennaio 2021, n. 1476, ove in motivazione “L’adozione del minore – alla quale la dichiarazione dello stato di adottabilità è prodromica – recidendo ogni legame con la famiglia di origine, costituisce, dunque, una misura eccezionale cui è possibile ricorrere, non già per consentirgli di essere accolto in un contesto più favorevole, così sottraendolo alle cure dei suoi genitori biologici, ma solo quando si siano dimostrate impraticabili le altre misure, positive e negative, anche di carattere assistenziale, volte a favorire il ricongiungimento con i genitori biologici, ivi compreso l’affidamento familiare di carattere temporaneo, ai fini della tutela del superiore interesse del figlio”. In dottrina C.M. Bianca, op. cit., 257 “L’allontanamento del minore dalla propria famiglia è giustificato e necessario solamente quando egli si trovi in una situazione di abbandono, quando cioè non riceve dai suoi genitori o dai parenti tenuti a provvedervi l’adeguata assistenza morale e materiale. La mancanza della sola assistenza materiale non integra la situazione di abbandono e l’adozione o l’affidamento familiare di un minore che abbia con i genitori un significativo rapporto affettivo costituiscono violazione del suo diritto di crescere nella propria famiglia e sono pertanto, oltre che illegittimi, illeciti”. Inevitabile qualche dubbio sulla applicazione di tali parametri alla dichiarazione di adottabilità quale presupposto della adozione internazionale.

[14] J. Long, I confini dell’affidamento e dell’adozione, in Dir. fam., 2007, 1432 ss., A. Finessi, Adozione legittimante e adozione c.d. mite tra proporzionalità dell’intervento statale e best interest of the child, in Nuove leggi civ.comm., 2020, 1343 ss.; E. Battelli, Il diritto del minore alla famiglia tra adottabilità e adozione, alla luce della giurisprudenza CEDU, in Dir. fam. e delle pers., 2021, 838 ss., par. 2.; L. Lenti, Diritto della famiglia, in Tratt. Dir. priv. a cura di G. Iudica, P. Zatti, Milano, 2021, 1037 ss.

[15] Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79, par. 5.2. “Al dato legislativo, che evoca i lineamenti di un istituto marginale e peculiare, è subentrata un’evoluzione del diritto vivente, che ha iniziato a valorizzare alcune specificità di tale adozione [adozione in casi particolari] e ad ampliarne gradualmente il raggio applicativo”, cosicché l’adozione in casi particolari non può più considerarsi ipotesi eccezionale rispetto alla “preferibile” adozione piena.

[16] A. Morace Pinelli, op. cit., 727 ss.; F. Zanovello, Semiabbandono e interesse del minore alla conservazione dei legami familiari. La Cassazione ribadisce il ricorso all’adozione “mite”, in Fam. Dir., 2021, 597; S. Corso, Sfumature applicative dell’ado­zione mite, tra conferma di una soluzione e attesa di un ripensamento, in Fam. Dir., 2022, 246 ss.

[17] Il leading case è rappresentato da Trib. Min. Bari 7 maggio 2008, in Fam. Dir., 2009, 393, con commento di S. Caffarena, L’adozione “mite” e il “semiabbandono”: problemi e prospettive. Diversa l’impostazione di Cass., 16 aprile 2018, n. 9373 e di Cass., 27 settembre 2013, n. 22292, ove in massima “In tema di adozione in casi particolari, il presupposto per l’adozione di cui al­l’art. 44, primo comma, lett. d), della legge 4 maggio 1983, n. 184, va individuato nella impossibilità di affidamento pre-adottivo, nozione che attiene solo all’ipotesi di mancato reperimento (o rifiuto) di aspiranti all’adozione legittimante, e non a quella del contrasto con l’interesse del minore, essendo le fattispecie previste dalla norma tassative e di stretta interpretazione”. Decisamente “aperta” all’adozione mite “tramite il ricorso” all’art. 44 l. 183/1984, Cass. 25 gennaio 2021, n. 1476, per la quale “la pluralità di modelli di adozione presenti nel nostro ordinamento [impone] ormai … di valutare, di volta in volta, tenendo conto delle peculiarità del caso concreto, il ricorso al modello di adozione che non recida in toto i rapporti del minore con la famiglia di origine, piuttosto che il ricorso all’adozione “legittimante… la previsione di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 44, lett. d), può, nei singoli casi concreti e previo compimento delle opportune indagini istruttorie, costituire un idoneo strumento giuridico per il ricorso alla cd. ‘adozione mite’, al fine di non recidere del tutto, nell’accertato interesse del minore, il rapporto tra quest’ultimo e la famiglia di origine”. Osserva M. Renna, Forme dell’abbandono, adozione e tutela del minore, in Nuova giur. civ. comm., 2019, II, 1372, “rispetto allo stato normativo domestico attuale, tali soluzioni per essere praticabili devono passare necessariamente da una riforma legislativa che – magari nel solco di quanto riconosciuto attraverso il diritto alla continuità affettiva con la l. 19.10.2015, n. 173 – perimetri una nuova modalità adottiva, circoscrivendone presupposti ed effetti”. Anche C. Rusconi, La continuità degli affetti nella disciplina dell’affidamento e dell’adozione. Significati, sistema e prospettive, in Jus online, 2021, 144-145, evidenzia la problematicità della figura, infatti “Se è vero che l’art. 44 non richiede in assoluto lo stato di abbandono, questo presupposto è recuperato dal comma 1 lett. d), in modo implicito ma preciso, quando fa riferimento all’impossibilità di affidamento preadottivo. Nel sistema della l. 183/1984 la prospettiva dell’affidamento preadottivo si apre solo in esito alla verifica della adottabilità del minore. In realtà, nelle situazioni che sono riportate all’adozione mite, ciò che propriamente è “impossibile” non è il solo affidamento preadottivo, …, ma in radice la stessa adozione (piena), sicché se la legge avesse voluto ammettere l’applicazione in esame dell’art. 44, comma 1 lett. d), avrebbe dovuto semplicemente parlare di impossibilità di adozione (piena)”. Anche E. Tuccari, L’adozione non può essere sempre “mite”, in I nuovi orientamenti della Cassazione civile, a cura di C. Granelli, Milano, 2020, 155, ritiene indispensabile l’intervento del legislatore e rileva che “Si tratterebbe, com’è chiaro, di una riforma molto ambiziosa – volta ad invertire sostanzialmente anche il rapporto fra l’istituto (finora) generale dell’adozione “legittimante” e quello (finora) eccezionale dell’adozione “in casi particolari” nell’ambito del procedimento (in ogni caso, come si è visto, sistematicamente marginale) dell’adozione di minore – per aggiornare, potenzialmente sotto diversi profili, l’attuale dato normativo alla realtà dei nostri giorni”.

[18] Per E. Quadri, op. cit., 12, “la conservazione di una qualche relazione personale con la famiglia di origine, nell’ottica di quella che viene indicata come adozione “aperta” (riecheggiante la c.d. open adoption dell’ambiente nordamericano), non [manca] di essere, già allo stato, caldeggiata addirittura con riferimento all’adozione “piena”, evidentemente con analoghe – forse ancora più accentuate – esigenze di regolamentazione”. Osserva U. Salanitro, L’adozione mite tra vincoli internazionali e formanti interni, in Corr. giur., 2021, 1072-1073, che anche in caso di adozione piena il mantenimento del legame con la famiglia d’origine potrebbe essere realizzato “se si valorizza la regola posta a favore degli affidatari dall’art. 5-ter, L. n. 184/1983, introdotto con la riforma della L. n. 173/2015, la quale garantisce “la continuità delle positive relazioni socio affettive”: tale regola, se posta testualmente a garanzia del rapporto con gli affidatari in caso di adozione a terzi o di ritorno alla famiglia di origine, non può che essere a fortiori riconosciuta ai familiari naturali, già de iure condito, nel caso in cui il rapporto con il minore sia giudicato positivo o comunque non negativo per la sua crescita”. La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione con l’Ordinanza interlocutoria n. 230 del 5 gennaio 2023 ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 2, 3, 30 e 117 Cost. la questione di costituzionalità dell’art. 27, c. 3, l. n. 184 del 1983 nella parte in cui stabilisce che con l’adozione legittimante derivante dall’accertamento dello stato di abbandono e dalla dichiarazione di adottabilità, cessano irreversibilmente i rapporti dell’adottato (e conseguentemente del minore adottabile per effetto della dichiarazione di adottabilità) con la famiglia di origine estesa ai parenti entro il quarto grado (art. 10 c.4 l. n. 184 del 1983), escludendo la valutazione in concreto del preminente interesse del minore a non reciderli, secondo modalità stabilite in via giudiziale”.

[19] Corte cost. 28 marzo 2022, n. 79, 5.2.1 “Il minore non abbandonato, ma i cui genitori biologici versino in condizioni che impediscono in maniera permanente l’effettivo esercizio della responsabilità genitoriale (cosiddetto «semi-abbandono permanente»), può sfuggire al destino del ricovero in istituto o al succedersi di affidamenti temporanei, tramite l’adozione in casi particolari, che viene applicata sul presupposto dell’impossibilità di accedere all’adozione piena (art. 44, comma 1, lettera d), impossibilità dovuta proprio alla mancanza di un abbandono in senso stretto. L’adozione in casi particolari, che non recide i legami con la famiglia d’origine, consente, pertanto, di non forzare il ricorso all’adozione piena. Quest’ultima, in difetto di un vero e proprio abbandono, andrebbe a ledere il «diritto al rispetto della vita familiare» dei genitori biologici, come sottolinea la Corte EDU, la quale cautamente suggerisce proprio il percorso della «adozione semplice» (…). Inizia, dunque, a rovesciarsi – come osserva la giurisprudenza di legittimità (…) – l’originaria raffigurazione dell’istituto in esame quale extrema ratio rispetto all’adozione piena”. P. Morozzo della Rocca, Sul­l’adozione da parte degli affidatari dopo la L. n. 173/2015, cit., 611 ss., U. Salanitro, op.cit., 1074.

[20] Sul punto cfr. anche E. Tuccari, op. cit., 145 ss.; M. Dogliotti, Maternità surrogata e riforma dell’adozione piena. Dove va la Cassazione? E cosa farà la Corte costituzionale? Commento a Cass. SSUU, 30 dicembre 2022, 38162 e Cass., 5 gennaio 2023, n. 230, in Fam.dir. 2023, 449-450. Criticamente verso l’adozione mite già A. Scalisi, L’adozione mite: una prospettiva non necessaria né utile, in www.personaedanno.it, 12.11.2008. Assai critica anche la posizione espressa dalla Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie (Anfaa) in una lettera aperta ai magistrati minorili, reperibile sul sito della stessa e datata Milano 13-14 novembre 2009. Tra le molte criticità che l’adozione mite presenterebbe, l’Anfaa sottolinea come “Ciò su cui, soprattutto, occorre riflettere seriamente è che la diffusione generalizzata dell’adozione mite e consensuale, ispirata prevalentemente – se non esclusivamente – alla valorizzazione della «mediazione familiare» e della preservazione della «continuità degli affetti», avrebbe inevitabilmente una pesante ricaduta negativa sulla responsabilizzazione delle famiglie biologiche, oltre a incentivare un sostanziale disimpegno delle istituzioni, con il risultato finale di privare un numero imprecisato di minori della possibilità di accedere alla più completa adozione legittimante”. Per una attenta ricostruzione delle varie posizioni, specie critiche, v. E. Battelli, L’adozione mite come diritto del minore: tra identità e opportunità, in The best interest of the child, a cura di M. Bianca, cit., 293 ss.

[21] L. Lenti, Diritto della famiglia, cit., 1044 ss.

[22] Della difficoltà di rapporto tra le due famiglie sembra consapevole il legislatore, che nell’art. 4, c. 2, della l. 149/2001, prevede che “Il servizio sociale, nell’ambito delle proprie competenze, su disposizione del giudice ovvero secondo le necessità del caso, svolge opera di sostegno educativo e psicologico, agevola i rapporti con la famiglia di provenienza ed il rientro nella stessa del minore secondo le modalità più idonee, avvalendosi anche delle competenze professionali delle altre strutture del territorio e dell’opera delle associazioni familiari eventualmente indicate dagli affidatari”. La gestione di tali rapporti in caso di adozione mite, invece, sarebbe attualmente rimessa integralmente alle “parti”.

[23] P. Morozzo della Rocca, Riflessioni sul rapporto tra adozione e procreazione medicalmente assistita, in Dir. fam., 2005, 211 ss., osserva “il desiderio di genitorialità è comunque la base di un equilibrato approccio culturale all’adozione, che rifugge la motivazione puramente filantropica della carità sociale”.

[24] Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162.

[25] F.D. Busnelli, Il diritto della famiglia di fronte al problema della difficile integrazione delle fonti, in Riv. dir.civ., 2016, P. 1469 ss.; P. Morozzo della Rocca, Riflessioni sul rapporto tra adozione e procreazione medicalmente assistita, in Dir. fam., 2005, 211 ss. A. Nicolussi, Lo sviluppo della persona umana come valore costituzionale e il cosiddetto biodiritto, in Eur. dir. priv., 2009, 1 ss., par. 2, “la fecondazione eterologa – ponendosi oggettivamente in concorrenza con l’adozione – sacrifica l’interesse all’ado­zione di bambini in stato d’abbandono nel cui favore è stata introdotta l’adozione speciale”; L. Lenti, Diritto della famiglia, cit., 1047 ss.

[26] Chiarissima sul punto la S.C., nella ordinanza interlocutoria n. 230 del 5 gennaio 2023, cit., per la quale “La concreta valutazione del preminente interesse del minore anche in condizioni di particolare criticità, da svolgersi all’esito di un esame accurato del contesto familiare può condurre, anche quando si decida per il modello più radicale di genitorialità adottiva, a dover preservare la continuità relazionale, nei limiti imposti dalle esigenze del caso concreto, con i parenti entro il quarto grado, pur se ritenuti inidonei a svolgere un’effettiva funzione vicariante ove la definitiva recisione di tutti i legami con tale contesto familiare originario risulti pregiudizievole per lo sviluppo della personalità del minore”.

[27] Cass., 21 giugno 2016, n. 19599, “La famiglia è sempre più intesa come comunità di affetti, incentrata sui rapporti concreti che si instaurano tra i suoi componenti: al diritto spetta di tutelare proprio tali rapporti, ricercando un equilibrio che permetta di contemperare gli interessi eventualmente in conflitto, avendo sempre come riferimento, ove ricorra, il prevalente interesse dei minori”.

[28] A. Figone, Il definitivo riconoscimento dell’adozione mite, in Fam. dir., 2022, 782, osserva “L’elaborazione dell’adozione ‘mite’ nei termini sopra rappresentati si inquadra nell’ambito di un orientamento più generale, finalizzato ad attribuire uno status ‘paragenitoriale’, accanto ad una genitorialità sociale, in situazioni, connotate da un progetto familiare non realizzabile attraverso il concepimento di figli in modo naturale. È appena il caso di ricordare come, proprio sulla base dell’art. 44, lett. d), L. n. 184/ 1983 sia stata riconosciuta la genitorialità all’interno delle coppie same sex, per ragioni fisiologiche inca– paci di procreare”. Cfr. anche la citata ordinanza n. 230 del 25 gennaio 2023, per la quale “all’interno del sistema normativo della genitorialità adottiva, introdotta dalla legge n. 184 del 1983 …i modelli di genitorialità adottiva sono predeterminati in modo rigido sia in relazione alle condizioni di accesso che in relazione agli effetti del conseguimento dello status filiale” e ancora “Il determinismo della norma censurata [art. 27 l. 184/1983] contrasta con la necessità di una pluralità di modelli adottivi flessibili pur nella predeterminazione legislativa che consentano di adeguare alla concretezza delle situazioni, lo statuto protettivo del minore da adottare, tenuto conto dell’evoluzione del contesto sociale e degli approdi più accreditati e recenti delle scienze sociali…. La giurisprudenza di legittimità e di merito ha da tempo intrapreso il percorso di avvicinamento delle norme in tema di adozione, fondate su un sistema sostanzialmente monista (con il microsistema delle adozioni in caso particolare in posizione marginale rispetto all’adozione legittimante ad un sistema pluralistico che, valorizzando proprio le aperture normative dell’adozione in casi particolari, sia capace di adeguare i modelli di genitorialità adottiva alla molteplicità delle nuove situazioni che vengono ad emersione giurisprudenziale, sia che si tratti di situazioni legate ad una condizione di carenza di cure o di semi abbandono del minore; si che si tratti di nuovi modelli di genitorialità sociale (coppie omoaffettive) cui dare riconoscimento e tutela”.

[29] Cass., 13 gennaio 2017, n. 782, “Il ricorso alla dichiarazione di adottabilità di un figlio minore è …consentito solo in presenza di fatti gravi, indicativi in modo certo dello stato di abbandono, morale e materiale, che devono essere specificamente dimostrati in concreto, senza possibilità di dare ingresso a giudizi sommari di incapacità genitoriale non basati su precisi elementi idonei a dimostrare un reale pregiudizio per il figlio. Di tali elementi il giudice di merito deve dare conto sulla scorta di una valutazione resa all’attualità”.

[30] M. Dogliotti, Adozione “forte” e “mite”, affidamento familiare e novità processuali della riforma del 2001, finalmente operative, in Fam. dir., 2009, 428; Id, Adozione legittimante e adozione mite, affidamento familiare e novità processuali, in Prosp. ass., 2009 n. 165.

[31] A.C. Moro, Non mitizziamo l’affido, in Il bambino incompiuto, 1984, n. 3, in Una nuova cultura dell’infanzia e dell’adole­scenza, Scritti di Alfredo Carlo Moro scelti e annotati da L. Fadiga, Puer-Franco Angeli, 2006, 99 ss.

[32] J. Long, op. cit., spec. par. 3.a) e 4. La L. ritiene che “rilevanti argomenti di natura sostanziale sconsiglino oggi l’introduzione di un affidamento sine die. Il primo ordine di questioni sorge in conseguenza del fatto che l’affidamento non modifica gli status dei soggetti coinvolti, lasciando, quindi, privo di qualunque regolazione giuridica un consolidato rapporto di carattere familiare: il minore permarrebbe in una situazione di incertezza e di instabilità in merito al proprio status personale, non acquisterebbe né diritti successori, né alimentari nei confronti della famiglia di accoglienza…Il secondo ordine di questioni sorge a causa dell’appartenenza del minore, da un punto di vista giuridico, a due diverse famiglie, i cui ruoli appaiono in concreto di difficile definizione, con prevedibile massiccio ricorso alla giurisdizione in ogni caso di contrasto tra i soggetti coinvolti”. Quanto al primo ordine di problemi, l’affidamento, più che incertezza e instabilità in merito allo status del minore, sembra piuttosto escludere suoi diritti successori o alimentari nei confronti della famiglia di accoglienza, ma questo “svantaggio” dovrebbe essere valutato e bilanciato con il “vantaggio” derivante dalla continuazione del legame genitoriale con la propria famiglia. Quanto alle difficoltà derivanti dalla “appartenenza” del minore a due diverse famiglie, è possibile osservare che si tratterebbe, probabilmente, di difficoltà meno gravi rispetto a quelle che potrebbero sorgere in caso di adozione mite.

[33] V. E. Battelli, Il diritto del minore alla famiglia, cit., par. 3.

[34] È stata promossa dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali nell’ambito del Fondo per la Lotta alla Povertà e all’Esclu­sione Sociale, in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti, una sperimentazione che prevede una serie di interventi in favore di coloro che, al compimento della maggiore età, vivono fuori dalla famiglia di origine sulla base di un provvedimento dell’autorità giudiziaria. Sono destinatari della sperimentazione sia i ragazzi interessati da un provvedimento di prosieguo amministrativo, sia coloro che non ne sono beneficiari. L’obiettivo generale del progetto è quello di accompagnare i neomaggiorenni all’autonomia attraverso la creazione di supporti necessari per consentire loro di costruirsi gradualmente un futuro e di diventare adulti dal momento in cui escono dal sistema di tutele. Sul punto cfr. Report sperimentazione care leavers. La seconda annualità gennaio 2022, reperibile sul sito del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.