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G. Giappichelli Editore

Il divieto di pratiche commerciali scorrette nella formazione dell'accordo. Brevi osservazioni in tema di rinegoziazione (di Daniela Santarpia, Assegnista di ricerca in Diritto privato – Università degli Studi di Siena)


Le pratiche commerciali scorrette, nella loro eterogeneità, potrebbero esibire un fenomeno di graduale annichilimento del valore del consenso del consumatore in sede di formazione del contratto.

Assunta la descritta prospettiva problematica, l’autrice riflette sull’effettività del rimedio della rinegoziazione dei contratti di durata conclusi per effetto di una pratica commerciale ingannevole.

The prohibition of unfair commercial practices throughout contract formation. Brief remarks on renegotiation

Unfair commercial practices, in their heterogeneity, may produce phenomena of gradual annihilation of the consumer's consent value to reach the agreement.

Based on this premise, the author reflects whether the renegotiation is an effective remedy for long-term contracts obtained by misleading commercial practices.

COMMENTO

Sommario:

1. Il valore dell’accordo nello scenario della contrattazione consumeristica - 2. Le pratiche commerciali scorrette - 3. Segue. L’omissione ingannevole di informazioni - 4. La correzione del regolamento contrattuale e gli interessi delle parti - 5. Limiti e criticità del rimedio della rinegoziazione - 6. Una postilla - NOTE


1. Il valore dell’accordo nello scenario della contrattazione consumeristica

Nel polittico dei rimedi contro le pratiche commerciali scorrette a tutela dell’interesse individuale del singolo consumatore che ne sia rimasto concretamente leso [1], l’angolo visuale che si intende prescegliere orienta la riflessione verso la considerazione del fenomeno della formazione del contratto.

Il percorso di indagine, che si vuole tracciare nel presente scritto, rimanda alla più tradizionale delle riflessioni sistematiche: il riferimento corre al dibattito intorno al rapporto tra la volontà dei contraenti e la produzione degli effetti giuridici che dal contratto discendono. Si tratta di un tema ricorrente nella speculazione scientifica della metà degli anni Novanta del secolo scorso e che potrebbe sottendere, con sfumature e portata differenti, anche alcuni degli snodi problematici del «nuovo diritto dei contratti».

Benché la disciplina di diritto europeo sembrerebbe veicolare l’idea per cui i contratti tra consumatori e professionisti si caratterizzino per una perdita di rilevanza del momento della volontà dei contraenti, l’inter­prete è chiamato ad affrontare e risolvere i problemi che in concreto potrebbero affiorare in ordine alla tutela del volere preposta a garantire un ordinato sviluppo dell’autonomia privata.

L’emersione di questa esigenza di analisi è ulteriormente suffragata dalla previsione, a livello normativo, di tecniche di tutela volte a fronteggiare situazioni di asimmetria informativa o di squilibrio normativo e che il Legislatore ha indirizzato sul piano della sottoposizione a controllo del contenuto del contratto ovvero su quello della previsione del diritto di recesso [2] e dell’obbligo di informazione [3].

Dunque, la tendenza – da più voci sostenuta – di ridurre il contratto alla sua essenza, che ne ha suggerito l’assimilazione ad un vero e proprio osso di seppia [4], resta contraddetta dalla più convincente prospettiva che ha consentito di far emergere la necessità di una indispensabile valorizzazione della volontà dei contraenti [5].

Nella transizione al diritto europeo è stata individuata l’origine di un contratto in trasformazione; ciononostante non è dato rinunciare alle categorie giuridiche, in quanto esse assicurano la continuità dell’inter­pretazione del diritto [6]: in questo senso, è stato sapientemente osservato che il venire ad esistenza del contratto resta inscindibilmente connesso e avvinto all’accordo, dal quale il contratto non sopporterebbe di essere dissociato o disgiunto, senza vedere irrimediabilmente compromessa la sua stessa natura ed essenza [7].

Le pratiche commerciali scorrette potrebbero influenzare il procedimento di formazione della volontà del consumatore al punto da giustificare un ampliamento della protezione del consenso, mediante la tipizzazione del vizio rilevante e la susseguente previsione di rimedi effettivi a tutela della parte debole.

In particolare, il d.lgs. 7 marzo 2023, n. 26, in attuazione della direttiva (UE) 2019/2161, ha aggiunto al­l’art. 27, d.lgs. n. 206 del 2005 (c.d. Codice del consumo) il comma 15-bis, che – riproducendo quasi testualmente l’art. 11-bis della direttiva 2005/29/CE – elenca i rimedi a tutela del consumatore leso da pratiche commerciali sleali, ossia il risarcimento del danno e, ove applicabile, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto, fatti salvi ulteriori rimedi a disposizione del contraente debole [8].

Di fronte all’empiria che connota la novità legislativa, le suggestioni dell’interprete dovrebbero essere condizionate da un’oculata preoccupazione di ordine sistematico: il fine della direttiva del 2005 già menzionata si apprezza nella tutela della libertà di scelta del consumatore.

L’attitudine della pratica scorretta a falsare la decisione della parte debole pone in esponente il canone dell’autenticità della scelta su cui si regge la concezione tradizionale del negozio giuridico, la cui «innegabile utilità» e attualità sono capaci di dissipare gli «equivoci» che hanno tentato di decostruirne il quadro concettuale [9].

Ciò posto, la strutturazione di un adeguato ed efficace apparato rimediale a fronte della condotta illecita del professionista lesiva del consenso del consumatore appare condizionata dalla peculiarità che caratterizza la formazione del contratto asimmetrico. Essa esibisce un’inestricabile connessione tra la dimensione dinamica del procedimento di conclusione del contratto e quella statica del suo profilo precettivo, nel senso che non è dato distinguere il piano della qualificazione giuridica del fatto-contratto da quello della sua rilevanza, validità ed efficacia.

Risulta già sufficientemente definito il perimetro entro cui spazierà il presente contributo, che non vuole riesumare modelli legati a nostalgie volontaristiche che restano relegate al passato [10]. Una suddetta prospettiva non solo risulterebbe anacronistica, ma si rivelerebbe finanche fuorviante, dal momento che, già al tempo della modernità, quella proposta culturale che ha rappresentato la premessa per un nuovo obiettivismo contrattuale ebbe a precisare che la predisposizione di schemi diversamente vincolanti [11] «non implica[no] una vera e propria revoca in dubbio del significato e del valore dell’accordo, […] a meno che non si voglia costruire la categoria contrattuale sulla base di mere concettualizzazioni».

Anche se il contratto si caratterizza per trame obiettivanti, abiurando al modello della volontà come criterio causante, l’equilibrio tra il momento descrittivo e quello valutativo si radica sul significato che intende attribuirsi al concetto di accordo, che si riferisce non solo all’attività dichiarativa delle parti, ma – in uno ad essa – anche a quei fattori che, oggettivamente ricavabili, concorrono alla conclusione del contratto e alla costruzione del suo regolamento [12].

Queste premesse sono mosse dall’ambizioso intento di preservare lo scritto da ogni possibile critica in ordine ai rischi di un ingenuo, e superato, volontarismo, che incorrerebbe nel limite di voler ricercare nella manifestazione di volontà dei contraenti la risposta a problemi che invece dovrebbero essere correttamente ricondotti all’applicazione delle regole in punto di correzione del regolamento contrattuale.

Quando l’analisi condotta dall’interprete esaspera il profilo della funzionalità pratica degli istituti giuridici, l’aspetto problematico finisce per predominare sullo sforzo costruttivo [13] e il metodo giuridico si disgrega all’ombra della frantumazione dei diritti, per effetto della quale «la risoluzione dei problemi di disciplina, se si rinuncia al quadro sistematico, cade nell’arbitrio» [14].

Al fine di evitare che la «logica d’insieme della fenomenologia giuridica contemporanea» si disgreghi di fronte all’«iperspecialismo disciplinare» [15], il discorso vuole assumere, come angolo visuale privilegiato, quello che attiene alla dimensione di vincolo effettuale introdotto dall’atto di autonomia privata, dimensione individuata alla luce delle coordinate ermeneutiche rivenienti dalla normativa di settore e in considerazione della «capacità di sviluppo» della disciplina del contratto in generale.

Del resto, quando ci si interroga sulle tutele individuali esperibili dal consumatore leso da una pratica commerciale sleale, si sta proprio tentando di combinare scienza economica e teoria giuridica e di ricomporre innovazione europeista e tradizione nazionale.

Se si assume, come termine di riferimento del discorso, il controllo sul procedimento di formazione del contratto del consumatore, esso acquista rilevanza – in ipotesi patologiche – rifluendo verso il controllo sul contenuto e garantisce in questo modo al consumatore strumenti che preservano la libertà e la consapevolezza del suo consenso.

Anche nell’ambito della contrattazione consumeristica, l’accordo, per quanto «guidato» dal legislatore [16], resta comunque un connotato insopprimibile della categoria stessa del contratto, in quanto idoneo a veicolare non solo il principio della libertà e della giustizia degli scambi, ma anche quello della parità contrattuale [17].

A tal fine, la disciplina speciale di vocazione europea prevede che la formazione dell’accordo, quale atto finale della sequenza negoziale, sia aggravata da oneri formali e obblighi informativi, vale a dire da atti procedimentali funzionali proprio a far emergere la reale ed effettiva determinazione volitiva del consumatore in ordine alla convenienza e al contenuto dell’affare [18].

Se si parte dalla premessa per cui il vincolo negoziale è espressione dell’effettivo interesse sostantivo perseguito dalle parti, allora ogni considerazione sulla conclusione del contratto non può arrestarsi alla dimensione puramente morfologica, ma deve involgere anche il profilo assiologico-pratico dell’accordo.

L’accordo deve considerarsi essenziale nella misura in cui è idoneo a circoscrivere il contenuto stesso del contratto: quest’ultimo si compone della parte enunciativa di interessi e prescrittiva di regole [19] e si arricchisce, altresì, di quegli obblighi rivenienti dalla concretizzazione del generico obbligo di buona fede che, tradizionalmente, ha costituito il substrato teorico della casistica sulla culpa in contrahendo.

Il neoformalismo negoziale, che ha accompagnato l’emersione delle discipline contrattuali di settore, costituisce il punto di emersione della rilevanza differenziata che si è voluto attribuire agli interessi dei contraenti nella fase precontrattuale, oltre ad aver assicurato la qualità della contrattazione: in questo senso, esso può essere letto anche come un profilo della più ampia problematica delle pratiche commerciali scorrette, rispetto alla cui disciplina si impone una considerazione iniziale.

La tecnica procedimentale posta a presidio della formazione del contratto si mostrerà adeguata solo se sia effettivamente idonea allo scopo ad essa sotteso: vero è che le regole sulla fase che precede la conclusione del contratto intendono favorire la libera e consapevole determinazione volitiva del consumatore, conforman­dola a presupposti conoscitivi reali, ma la mancata predisposizione di un sistema chiaro e completo di rimedi impedisce di apprezzarne il condizionamento teleologico in punto di tutela del contraente debole.

La riflessione che in questa sede si propone vuole collocare la reazione specifica nei confronti delle pratiche commerciali sleali sul terreno della tutela individuale, con l’intento di scongiurare quello che è stato definito il rischio di «un manierismo informativo» [20], ma senza all’opposto cedere a un inconsiderato rimedialismo e opportunismo, privi di un supporto ordinamentale [21].

Sembra allora realistico assumere che le pratiche commerciali scorrette non rilevino tanto come forma di esercizio di un’attività economica; piuttosto, nella complessa dinamica negoziale, lo scrutinio a cui la legge le sottopone integra un tipico e rilevante aspetto del controllo della libertà contrattuale e, per l’effetto, uno strumento di esaltazione, e non di mortificazione, dell’autonomia privata.


2. Le pratiche commerciali scorrette

Nel solco di queste premesse, l’oggetto della riflessione riguarda il rapporto tra pratiche commerciali scorrette e contratto. Circoscrivere sin da subito l’àmbito dell’indagine significa scongiurare il rischio legato al difetto delle premesse: infatti, se l’analisi rinuncia alla previa concretizzazione delle ipotesi problematiche e, al contrario, si fonda sull’esasperazione della fattispecie rispetto all’effetto che essa è idonea a realizzare, allora la ricerca sarà condizionata negli esiti, che conseguentemente saranno discutibili.

Anche senza indulgere alla ricostruzione del substrato sistematico, ma già solo sul piano fenomenologico, potrebbe apparire opportuno procedere a una disarticolazione delle condotte integranti una pratica sleale, evidenziando come le soluzioni rimediali possano mutare in ragione del tipo di violazione posta in essere dal professionista, nonché in ragione delle specifiche modalità di conclusione del contratto.

L’esigenza di perimetrazione della fattispecie concreta, cui riferire queste brevi riflessioni, è il precipitato più evidente della tecnica di normazione: nel dettato legislativo, la definizione di slealtà appare vaga, elusiva o, com’è stato detto, povera di contenuto. [22]

La nozione di pratica commerciale scorretta è affidata a una clausola generale, la cui concretizzazione si realizza mediante un’integrazione valutativa del precetto normativo, che attribuisce all’interprete lo strumentario per accertare se la prassi seguita dall’impresa sia idonea a falsare la scelta economica del consumatore medio, producendo una decisione negoziale non autentica e, in ogni caso, non conforme all’utilità marginale che la parte debole intende realizzare mediante l’operazione economica concretamente posta in essere.

Il legislatore sembra voler ancorare il giudizio di disvalore della condotta del professionista all’assunzio­ne di un parametro standardizzato, rappresentato dalla scelta del consumatore medio, limitando il proprio intervento ai casi in cui la pratica scorretta non abbia semplicemente sollecitato, ma addirittura forzato, una determinazione che il consumatore altrimenti non avrebbe assunto [23].

Lo scritto, in chiave propositiva, muove verso un tendenziale allontanamento dal riferimento, già positivizzato, al «consumatore medio» [24], dal momento che – se ci stiamo interrogando sui possibili rimedi individuali esperibili dal consumatore – la prospettiva deve necessariamente mutare: a questi fini la considerazione della rilevanza della prassi scorretta nella concreta dinamica negoziale non può più perimetrarsi ad uno standard, ma si inscrive nella verità del caso.

L’accertamento della concreta ed effettiva incidenza della pratica vietata sul consenso espresso dal consumatore non può essere affidato alla valutazione dell’ipotetica reazione del consumatore medio, ma deve essere condotto sulla base della concreta effettiva posizione di quel consumatore e delle circostanze concrete nelle quali si è concluso quel contratto [25].

Se il ragionamento vuole essere svolto dall’angolo visuale della formazione del contratto, il valore del consenso del consumatore in concreto inciso dalla pratica commerciale sleale potrebbe risultare gradatamente annichilito [26], fino a giungere alla considerazione di quei meccanismi in cui il fatto precede il diritto [27].

Il riferimento corre alla pratica commerciale scorretta della «fornitura non richiesta», che il Legislatore considera in ogni caso aggressiva per previsione legale tipica ex art. 26, co. 1, lett. f), Cod. cons. e rispetto alla quale l’art. 66-quinquies commina un regime privatistico c.d. speciale, in quanto derogatorio rispetto ai principi generali in tema di obbligazioni e contratti, e avente valenza latamente sanzionatoria.

L’economia del presente scritto impedisce anche solo di tratteggiare il dibattito registratosi in dottrina in ordine alla compatibilità della suddetta prassi con i cc.dd. schemi semplificati di conclusione del contratto [28], ma la citata pratica diventa sintomatica di come le particolarità extragiuridiche del contratto del consumatore abbiano richiesto, in questo caso, un intervento del Legislatore a sostegno della consapevolezza della scelta negoziale, che deve essere verificabile già in sede di manifestazione della volontà mediante la dichiarazione.

Difatti, il Legislatore settoriale ha espressamente previsto che l’assenza di una risposta da parte del consumatore, dopo che questi abbia ricevuto una fornitura non richiesta, non costituisce consenso, escludendo che possano essere attribuiti il valore di accettazione non solo all’assenza di risposta da parte del consumatore, ma «anche [ad] atti di utilizzazione, appropriazione e/o di disposizione della prestazione che – pur non sostanziandosi in dichiarazioni espresse o tacite indirizzate al proponente – a rigore sarebbero idonei a determinare il perfezionamento (per fatti concludenti) dell’accordo contrattuale» [29].

Usualmente, la prestazione non richiesta è corredata dalla richiesta di pagamento del corrispettivo o dalla previsione di oneri, variamente articolati, a carico del consumatore, al cui mancato assolvimento si ricollega, quoad effectum, la conclusione del contratto [30].

Ciò posto, dalla portata applicativa dell’art. 66-quinquies, Cod. cons. si ricava che il suddetto comportamento materiale del professionista integra una prassi contra legem, a cui non solo non può attribuirsi alcun valore negoziale, stante l’insussistenza di un rapporto di significazione univoco tra prestazione spontanea e volontà di vincolarsi [31], ma che non può nemmeno essere attratta all’area dell’indebito oggettivo e dell’arric­chimento ingiustificato.

Nel solco di queste considerazioni, la Corte di Cassazione [32] ha statuito che l’art. 66-quinquies, nella parte in cui prevede che «il consumatore è esonerato dall’obbligo di fornire qualsiasi prestazione corrispettiva», debba essere interpretato nel senso che egli sia esonerato non soltanto dall’obbligo di pagare il corrispettivo della fornitura ottenuta e mai richiesta, ma anche dall’esecuzione delle prestazioni restitutorie ex art. 2033 cod. civ. e/o quelle indennitarie ex art. 2041 cod. civ. per l’arricchimento conseguito attraverso la fruizione dei servizi e delle forniture ricevute.

Il polimorfismo che in concreto travolge l’autonomia privata [33] richiama una necessità: quando il principio di parità e di libera determinabilità del contenuto del contratto è tipicamente condizionato da necessità istituzionali o per ragioni imposte dall’economia, allora l’ordine giuridico deve correggere tale turbativa e, in questo modo, si tutela il contratto, come mezzo di scambio negoziato, per consentire al mercato di funzionare [34].

Benché l’essenza dell’innovazione, anche tecnologica, abbia posto una rimeditazione [35] della rappresentazione concettuale della fase di conclusione del contratto, essa non può affrancarsi dall’accordo delle parti, che rappresenta il fondamento necessario e logico di ogni operazione contrattuale [36].


3. Segue. L’omissione ingannevole di informazioni

Anche se non può revocarsi in dubbio la sapiente osservazione secondo cui «ben poco resti dell’ac­cordo, inteso in senso classico» [37], l’ampliamento dell’orizzonte ermeneutico non deve indurre ad abdicare ai concetti dogmatici [38].

Dopo aver adottato il metodo giuridico appena evocato, l’interprete è chiamato a saggiare se la semplificazione del procedimento di formazione cui soggiace il contratto del consumatore riscontri nella legge «un riequilibrio in tutele specifiche» [39], che possano assicurare alla dichiarazione di essere conforme a un ideale regolatorio [40].

In quest’ottica e con riferimento al caso in cui il consenso del consumatore sia stato in concreto inciso dalla pratica commerciale scorretta, appare ipotizzabile la previsione di una pluralità e flessibilità dei rimedi, tra l’altro rese necessarie dalla circostanza per cui la disciplina delle pratiche commerciali sleali accomuna categorie e concetti tra loro assai eterogenei [41].

Ciò posto, il rigore della riflessione impone di definire a quale condotta vietata al professionista si intende riferire il ragionamento che in questa sede si sta conducendo: una costruzione razionale complessiva del quadro dei rimedi non può esimersi dal differenziare le soluzioni a seconda della condotta vietata cui si intende reagire.

Esigenze di certezza applicativa inducono chi scrive a precisare che l’operatività del rimedio, su cui nel prosieguo ci si soffermerà, è limitata al caso in cui la pratica commerciale scorretta, sub specie di omissione ingannevole di informazioni, abbia condizionato la scelta economica del consumatore di concludere, a certe condizioni, un contratto a lungo termine con il professionista.

Ma, nell’ambito della proposta avanzata un ulteriore grado di differenziazione delle soluzioni deriva dal contenuto informativo che, in concreto, risulta non comunicato alla controparte, dal momento che ciascuna condotta omissiva determinerà nell’economia e nel contesto del contratto individualmente concluso dal consumatore uno specifico problema [42].

Certo, la prospettiva che tende a rifuggire dalla generalizzazione potrebbe celare, e di tanto si è consapevoli, gli inconvenienti propri di qualsivoglia approccio, per così dire, «situazionale», che tenti di ricostruire, in via inferenziale, la volontà dei contraenti.

Ciononostante, le potenzialità della suddetta proposta superano le criticità.

In funzione di una tutela privilegiata del consumatore [43], l’interesse di cui quest’ultimo è portatore potrebbe essere rimasto occulto in sede di formazione dell’accordo; pertanto, esso resta bisognoso di essere palesato e, comunque, restaurato nella sua effettività [44].

A ben vedere, l’omissione di informazioni integra di per sé una condotta sleale da parte del professionista, in quanto questi approfitta della razionalità limitata del consumatore. Però, la riprovevolezza del comportamento, pur potenzialmente idoneo a falsare la scelta del contraente debole, potrebbe non aver determinato in concreto la scelta del consumatore di concludere il contratto, rispetto alla quale – proprio perché resta impregiudicata la sua autenticità – è escluso qualsivoglia giudizio di (dis)valore.

Al contrario, la slealtà della pratica potrebbe aver determinato la decisione della parte debole di contrarre, non disponendo delle informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno per prendere una decisione consapevole. Così come la scorrettezza potrebbe anche solo aver alterato il senso dell’operazione economica, avendo messo in ombra o falsato elementi di conoscenza e di valutazione suscettibili di incidere sulla valutazione di convenienza dell’affare.

Rispetto alla prima ipotesi rappresentata, pur avendo l’omissione di informazioni impedito al consumatore di esprimere un consenso libero e consapevole, non può semplicisticamente concludersi nel senso dell’in­validità del contratto [45], argomentando in punto di assenza dell’accordo.

La soluzione dell’insussistenza dell’accordo, per quanto possa reputarsi coerente alla premessa, esibisce due errori di prospettiva: da un lato, propugnerebbe una declinazione eversiva del concetto di accordo pretendendo di considerare, quale elemento essenziale del contratto, non già il consenso, ma il consenso informato [46].

Dall’altro, essa estenderebbe l’ambito oggettivo dell’obbligo di cui è gravato il professionista, che – per espressa previsione legislativa – è limitato a quelle informazioni rilevanti di cui mediamente si ha bisogno ai fini di una decisione consapevole, «tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonché dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato» (art. 22 Cod. cons.).

Dunque, si considera condivisibile l’opinione di chi ritiene che «La disciplina delle pratiche commerciali scorrette non introduce un obbligo di informazione generalizzato a tutte le caratteristiche del prodotto o del­l’affare, o a tutti i vantaggi e rischi dell’operazione, ma il problema nell’ambito del quale gli obblighi informativi sono collocati rimane pur sempre quello della garanzia del consenso» [47].

Sulla base di questa premessa, quando le informazioni che, nella fattispecie concreta, vengono omesse integrano anche uno degli elementi essenziali del contratto, allora si intuisce facilmente la consequenziale sanzione che lo colpisce: la nullità per indeterminatezza/indeterminabilità dell’oggetto [48].

Passando a considerare la seconda ipotesi problematica prima tratteggiata sotto il profilo della formazione del contratto, deve osservarsi preliminarmente che è il legislatore a statuire ciò che deve rientrare nel contenuto del contratto. Pertanto, quando l’omissione ingannevole non riguardi direttamente la natura e l’oggetto dello stesso, ma soltanto elementi utili per valutare la convenienza dell’operazione e, in quanto tali, idonei ad influire sul consenso della controparte contrattuale, «appare arduo sostenere che sol per questo [sol perché inquinato qualitativamente], il consenso manc[hi] del tutto» [49].

Non può farsi a meno di rammentare che il fenomeno della formazione del contratto è oggettivamente complesso, soprattutto quando si realizza attraverso un procedimento in cui determinazione del contenuto e raggiungimento dell’accordo sono interdipendenti e reciprocamente condizionanti [50].

Dunque, deve prediligersi un approccio al tema dell’informazione «meno generalizzante» [51]: si è già tenuto conto, sia pur solo per cenni, dell’incidenza che la mancata rappresentazione da parte del professionista di elementi di conoscenza e/o di valutazione suscettibili di influenzare la decisione del consumatore di contrarre possa sortire sulla validità del contratto.

Si vuole ora condurre l’analisi verso la considerazione del caso in cui il professionista abbia violato le regole volte a promuovere la comunicazione delle condizioni e del contenuto contrattuale, così falsando in modo apprezzabile la scelta del consumatore che sarebbe stata comunque compiuta, sia pur a condizioni diverse.

La legge riconosce la portata antigiuridica della condotta del professionista, attribuendo rilievo proprio alla suddetta diversità di condizioni che il consumatore è stato indotto ad accettare.

Rispetto alla fattispecie appena delineata, si pone così la necessità di indagare il risvolto sanzionatorio che l’omissione di informazioni esibisce nel caso concreto, riflettendo sulla possibilità di reprimere la condotta del professionista in termini di correzione dello scambio.

Quando il professionista abbia omesso informazioni rilevanti che avrebbero determinato il consumatore a concludere il contratto a condizioni differenti, il profilo della mancata, o comunque incompleta, formazione del consenso rispetto ad alcune clausole, anche se non essenziali, richiama interventi diretti sul regolamento contrattuale.

Pertanto, tenendo conto dell’articolazione effettiva degli interessi divisati dai contraenti, può prospettarsi l’opportunità di un intervento sul contenuto del negozio con effetti immediatamente modificativi dello stesso.


4. La correzione del regolamento contrattuale e gli interessi delle parti

La disciplina delle pratiche commerciali sleali, in punto di riprovazione delle omissioni ingannevoli, intende assicurare la libertà nella formazione del contratto, che assume una particolare rilevanza nella misura in cui l’attuazione dell’interesse protetto del consumatore deve derivare direttamente dal consenso che, quando validamente espresso, è idoneo a far discendere gli effetti del contratto direttamente dal suo contenuto.

La formazione del consenso, intesa come fatto storico, non è facilmente apprezzabile nella dimensione fenomenica; ma essa appare, forse, difficile da sostenere anche in via sistematica. Ciononostante non si può rinunciare alla tutela della volontà, che «è da ritenersi a presidio di ogni strumento di autonomia» [52]. Quest’ultima si declina anche nella libertà di determinare il contenuto del contratto, la quale non esige necessariamente un paritario grado di partecipazione dei contraenti alla materiale creazione delle regole contrattuali, ma si traduce nella libertà di valutare, e quindi di scegliere, un certo contenuto, ossia un certo assetto di interessi di cui risultino ben individuati i diritti e i doveri che ne dovranno scaturire [53].

La costruzione del regolamento contrattuale ad opera delle parti è attività sorretta dalla disciplina delle pratiche commerciali sleali, suscettibile di essere apprezzata nei termini di un intervento legislativo sulla giustizia del contratto, che è innanzitutto procedurale, per poi riverberarsi sul contenuto.

In questa dimensione, la tutela dell’interesse alla partecipazione consapevole alla formazione del contratto diventa indirettamente mezzo per la realizzazione di un equo assetto degli interessi reciproci e della proporzionalità dei sacrifici.

Occorrerebbe chiedersi se le cautele apprestate dal Codice del consumo al fine di conciliare il difetto di potere contrattuale delle parti, soprattutto nella fase delle trattative, con lo schema dell’atto di autonomia privata, come regola costruita e adottata dalle parti in cooperazione, siano idonee a realizzare la tutela del consumatore, assorbendo il problema della giustizia sostanziale del contenuto del contratto.

Soltanto dopo aver riletto il fenomeno sotteso alla contrattazione consumeristica alla luce della dialettica tradizionale «fatto-effetti del contratto», sarà dato comprendere le ragioni che giustificano il rimedio della ri­negoziazione [54] come tecnica di tutela individuale dell’interesse del consumatore e, non si esclude, eventualmente anche di quello del professionista.

Alla luce di questa premessa, si vuole saggiare l’opportunità di un rimedio che tuteli il consumatore che sia rimasto concretamente leso da una pratica commerciale scorretta, dispiegando le sue potenzialità proprio sul piano della correzione del regolamento contrattuale. A ben vedere, anche il rimedio del «risarcimento del danno ha sostanzialmente una funzione correttiva del contratto» [55] nel caso di responsabilità precontrattuale da contratto valido, ma sconveniente, che è fattispecie assimilabile proprio a quella che in questa sede si sta esaminando. Ma, appare discutibile l’attitudine del rimedio risarcitorio ad assicurare il rispetto dei principi di effettività, proporzionalità e capacità dissuasiva [56], che devono caratterizzare le misure nazionali con cui gli Stati reprimono le violazioni del diritto europeo e, in particolare, delle norme che tutelano i consumatori nella loro relazione con i professionisti.

Ma, affinché la scelta tra i rimedi concretamente esperibili dalla parte debole non sia questione di opportunità, ma di coerenza con il dato normativo, deve forse considerarsi che proprio la protezione del consenso continua a rappresentare la sola tecnica attraverso la quale la giustizia contrattuale si invera [57], in quanto quest’ultima presuppone che entrambi i contraenti abbiano concorso, anche eventualmente secondo gradi di partecipazione diversamente calibrati, alla costituzione del rapporto.

Se si considera che il sistema di tutela consumeristica si propone come scopo la protezione di un «interesse al contratto» [58], allora potrebbe attribuirsi al consumatore uno specifico rimedio che gli consente di valutare la portata delle informazioni omesse dal professionista in sede di conclusione del contratto, valorizzarle e svolgere una nuova e ulteriore attività decisionale e dispositiva alla luce di un rinnovato apprezzamento soggettivo.

Dunque, il consumatore potrebbe valutare l’opportunità della rinegoziazione del contratto, che, fortificando il valore dell’autonomia privata, sottrae il regolamento negoziale all’attività correttiva del giudice, il quale – per mezzo dell’interpretazione del contratto, in uno alla considerazione della comune intenzione delle parti [59] – potrebbe solo accertare la imprescindibile volontà dei contraenti tesa alla conservazione dell’assetto di interessi da loro predisposto e diretta al raggiungimento di un risultato pratico [60].

Il rimedio della rinegoziazione può dar luogo a un intervento sul contenuto del contratto e si apprezza la sua attitudine a realizzare l’effettività della tutela al ricorrere di due condizioni: la sua operatività presuppone la conclusione tra le parti di un contratto a esecuzione prolungata nel tempo, che, in quanto tale, opera anche come strumento di programmazione e realizzazione dell’attività economica dei contraenti.

All’un tempo, la prospettazione del suddetto rimedio troverebbe giustificazione nel caso in cui la sussistenza del comportamento omissivo da parte del professionista si commisura ed è in stretto e immediato rapporto con l’assetto di interessi perseguito dalle parti, nel senso che essa sollecita un rimodellamento del regolamento contrattuale affinché sia preservata la rilevanza giuridica della relazione instaurata per il conseguimento del risultato contrattuale.

Nel caso in cui la pratica commerciale sleale si sia sostanziata in un’omissione che – senza riguardare gli elementi essenziali del contratto – abbia condizionato la scelta del consumatore di accettare un determinato contenuto del contratto di durata concluso con il professionista, la tesi del rimedio dell’auto-integrazione appare corroborata dalle previsioni degli artt. 1432 e 1430 cod. civ. e, ai confini con la disciplina dei vizi della volontà, dell’art 1450 cod. civ., che testimoniano, a livello sistematico, la legittimità di un intervento correttivo sul contratto alla presenza di un vizio di carattere genetico riconducibile alla manifestazione del volere.

Assumendo altresì la prospettiva dell’analisi economica, il rimedio si apprezzerebbe nella sua razionalità, in quanto idoneo a contemperare l’interesse di entrambe le parti alla conservazione del vincolo contrattuale: quello del professionista fondata su ragioni di efficienza economica [61], dal momento che in determinati contesti imprenditoriali il contratto funge da strumento giuridico imprescindibile di programmazione dell’at­tività [62]; ma anche quello del consumatore, la cui esigenza di consumo può trovare adeguato soddisfacimento solo a mezzo di un adempimento durevole, cosicché la durata finisce per impingere nella causa del contratto [63].

Allo stesso tempo, si deve tener conto del fatto che il consumatore non ha solo un diritto al semplice consenso, ma il suo interesse alla conservazione del contratto dipende direttamente da «un vero e proprio diritto alla disponibilità attuale della prestazione» [64].

Dunque, il rimedio prospettato è stato definito di auto-integrazione, volendosi alludere, con quest’espres­sione dotata di un’immediata efficacia descrittiva, a un fenomeno di correzione del regolamento contrattuale che si compie sul piano dell’assetto complessivo degli interessi del contratto, «nel rispetto di un equilibrio che il contratto non ha realizzato in partenza», ma che potrebbe conseguire proprio mediante un nuovo esercizio, questa volta consapevole, dell’autonomia privata [65].

Si tratta di un’espressione che non è nuova al dibattito scientifico, ma nella riflessione che rimonta a Stefano Rodotà, sulla ricostruzione sistematica dell’integrazione del contratto, l’auto-integrazione individua quel procedimento per mezzo del quale «le lacune aperte da una carente regolamentazione privata possano essere eliminate in virtù della forza espansiva del regolamento medesimo» [66], volendo così alludere alla c.d. interpretazione integrativa [67].

Al fine di verificare la coerenza, in termini di politica del diritto, della soluzione dell’auto-integrazione, può essere utile ripercorrere le trame della giurisprudenza della Corte di giustizia che già ha prospettato il medesimo rimedio, seppur in relazione a quello che è stato definito il post-vessatorietà [68].

È di tutta evidenza che il problema che in questa sede si sta indagando, ossia l’incidenza di una pratica commerciale sleale sulla formazione dell’accordo, sia ontologicamente distante dal fenomeno relativo alle sorti del contratto a seguito della caducazione di una clausola abusiva e rispetto al quale, da ultimo, è stato proposto un sistema rimediale che esalta le potenzialità dell’autonomia negoziale.

Una breve rassegna giurisprudenziale in argomento costituirà la premessa per riflettere sulla possibilità di riproporre la suddetta soluzione anche in relazione al caso in cui la condotta scorretta del professionista abbia influenzato la scelta del consumatore in ordine al contenuto del contratto, incidendo sulla formazione dell’ac­cordo.

Tradizionalmente, la Corte di Lussemburgo si è mostrata assolutamente «inflessibile rispetto alla legittimità di qualsiasi forma, benché minima, di interpolazione del regolamento negoziale, nel caso in cui quel che resta del contratto si regga in piedi con le proprie forze» [69].

Solo quando la pura disapplicazione della clausola vessatoria pregiudicherebbe la salvezza dell’intero contratto perché la clausola involge un essentiale negotii, allora emerge l’esigenza che la lacuna, determinatasi per effetto dell’accertata vessatorietà, sia colmata.

Normalmente, la necessità di una ristrutturazione o, se si vuole, di una conformazione del regolamento contrattuale [70] è stata soddisfatta facendo ricorso all’(etero)integrazione del contratto mediante il diritto dispositivo; ma, da ultimo e a più riprese, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha proposto la rinegoziazione, quale tecnica rimediale che riaccredita il ruolo dell’autonomia privata anche nella fase patologica del rapporto e come strumento capace di ovviare alla lacuna sopravvenuta realizzando una tutela reciproca degli interessi in gioco.

La strada della correzione del regolamento contrattuale è stata ritenuta pienamente coerente con gli obiettivi della direttiva 93/13/CEE, il cui sistema non può ostare a che le parti di un contratto pongano rimedio al carattere abusivo di una clausola «modificandola per via contrattuale» [71] o rendendola oggetto di una transazione novativa [72], quando essa è idonea a ripristinare l’equilibrio tra gli obblighi e i diritti delle parti derivanti dal contratto.

La validità dell’accordo novativo è subordinato alla sussistenza di un consenso libero e consapevole del consumatore circa l’effetto preclusivo discendente dall’accordo stesso, che pertanto «riproduce lo stigma di una trattativa individuale» [73], all’esito della quale il contratto è sanato dalle parti.

La Corte di giustizia ha manifestato la decisa propensione a valorizzare una costruzione postuma del regolamento contrattuale rimessa all’autonomia delle parti, allorquando ha riconosciuto al giudice nazionale il potere di rinviare le parti ad una trattativa [74], «[nel caso in cui] il contratto non possa sussistere dopo la soppressione della clausola vessatoria e non esista alcuna disposizione di carattere nazionale di natura suppletiva» [75].


5. Limiti e criticità del rimedio della rinegoziazione

La relazione tra disciplina delle pratiche commerciali sleali e disciplina delle clausole vessatorie si presta ad essere ricostruita in termini di complementarità dei rimedi e di interferenza degli ambiti di controllo [76].

Se si condivide l’assunto, si può ragionare sull’operatività delle soluzioni già apprestate dalla giurisprudenza rispetto al problema delle conseguenze legate alla caducazione di una clausola vessatoria anche nel caso in cui una pratica commerciale ingannevole abbia inciso non tanto sulla sua decisione di concludere il contratto, quanto sulla scelta di aderire al contenuto di determinate clausole del relativo regolamento.

Sia l’una che l’altra questione devono muovere da una premessa: ogni atto di autonomia privata, dunque anche quello che, per le sue caratteristiche, è regolato dalla disciplina consumeristica, deve essere inteso come una sintesi tra il suo contenuto e gli effetti che da esso discendono [77]: il contratto è la risultante del profilo strutturale dell’accordo in uno alla sua dimensione funzionale e dinamica [78].

La considerazione rappresenta la premessa sistematica sulla quale si innesta la soluzione rimediale che in questo scritto si intende promuovere. La stretta commisurazione tra volontà delle parti ed effetti del negozio costituisce il sostrato logico non solo della questione relativa all’integrazione del contratto, ma anche di quella relativa alla possibilità di una «riedizione» del regolamento contrattuale, sulla premessa della legittimità del principio giuridico della revisione del rapporto [79].

Il rigore e la serietà dell’analisi tengono sempre vivo lo scetticismo dell’interprete, che non può ignorare che questo meccanismo rimediale è tale da celare più di una criticità, di cui peraltro sembra avere contezza anche la Corte di giustizia quando essa prospetta questa soluzione per il caso del post-vessatorietà.

L’opzione rimediale dell’auto-integrazione, sperimentata dalla giurisprudenza per ovviare alla lacuna determinatasi a seguito della caducazione della clausola vessatoria, è stata instradata anche dalla considerazione dei limiti che si riconoscono alla soluzione dell’etero-integrazione mediante il diritto dispositivo.

In primo luogo, l’applicazione in via suppletiva del diritto dispositivo non necessariamente realizza un modello di regolamentazione ideale, anzi esso «non è per sua vocazione ineluttabilmente pro-consumer» [80]. L’integrazione, oltre ad avere una discutibile efficacia dissuasiva, potrebbe finire per ridurre a un’ipotesi velleitaria la volontà dei contraenti [81].

In realtà, anche all’ombra del rimedio dell’auto-integrazione potrebbe annidarsi quest’ultima criticità, di cui sembra essere consapevole anche la Corte di Giustizia, la quale – quando propizia la soluzione della correzione del contratto attraverso l’esercizio dell’autonomia negoziale – precisa che la tutela sarà effettiva solo quando il rinnovato assetto di interessi sia accettato delle parti per effetto di una scelta autonoma e consapevole.

Per queste ragioni, nello scenario del post-vessatorietà, la correzione del contratto opera a condizione che, da un lato, la rinuncia da parte del consumatore a far valere il carattere abusivo derivi dal suo consenso libero e informato e che, dall’altro, la nuova clausola modificatrice non sia essa stessa abusiva [82], oltre al fatto che una proposta modificativa poco trasparente potrebbe peraltro integrare una pratica commerciale scorretta [83].

Ancor più nitidamente, la giurisprudenza mostra qualche riluttanza rispetto alle potenzialità legate alla rinnovazione delle trattative, nella misura in cui – in sede di rinegoziazione – potrebbe riproporsi lo squilibrio informativo tra le parti, e, per l’effetto, lo squilibrio normativo del contratto rinegoziato.

Per ovviare al suddetto inconveniente, la Corte di giustizia precisa che la rinegoziazione può operare, purché il giudice determini il quadro delle trattative che le parti instaureranno e queste siano volte a stabilire tra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti un equilibrio reale [84].

Adottate queste coordinate ermeneutiche nell’analisi della contrattazione incisa da una pratica commerciale legata all’omissione di informazioni, si vuole proporre il rimedio della rinegoziazione come strumento di tutela effettiva del consumatore precisando che se ne può propugnare l’operatività unicamente rispetto ai contratti a lungo termine (si ribadisce, conclusi per effetto della slealtà del professionista).

La conservazione del contratto propiziato dal suddetto rimedio risulta congeniale all’interesse del consumatore, per il soddisfacimento del quale la durata (del contratto, appunto) costituisce una necessità giuridica. Il contenuto del contratto, che anche quando «sia sorto, perfezionato e completo (almeno) formalmente, esteriormente (se si vuole), per vicende successive o per l’affiorare, al di là della completezza formale, di elementi non validi e quindi destinati a cadere, [potrebbe] trov[arsi] a presentare taluni vuoti nella sua struttura» [85].

Ma, quando la lacuna così determinatasi deriva dal modo in cui le parti hanno costruito il regolamento e dalla volontarietà con cui le stesse hanno fissato taluni elementi [86], essa non è riducibile al fenomeno dell’in­tegrazione, dal momento che si è presenza di una mera alterazione «quantitativa» degli effetti del contratto, che «qualitativamente» sono, in qualche modo, comunque riconducibili alla voluntas delle parti [87].

La tendenza a prediligere – specie nella dimensione europea – la strada dell’auto-integrazione si giustifica alla luce delle potenzialità correttive che l’esercizio dell’autonomia privata potrebbe dispiegare sul regolamento contrattuale, in vista proprio del soddisfacimento degli interessi dei contraenti e, in particolare di quello del consumatore.

Il difetto di negoziazione espone lo statuto dello scambio a una revisione: ma, deve affrontarsi in termini problematici l’opportunità di affidare la suddetta operazione di modifica del regolamento all’opera del giudice, ritenendo preferibile coinvolgere il consumatore stesso, la cui scelta economica, in concreto falsata dalla condotta sleale del professionista del consumatore medio, dipende sempre dalle utilità che egli intende soddisfare.

Del resto, la disciplina di divieto delle pratiche commerciali scorrette tutela proprio la libertà economica del consumatore, che si presenta anche come componente essenziale del modello ideale di economia del mercato [88]. Al contempo, ma in un’ottica di microanalisi, si deve considerare il profilo personalistico che questa libertà assume nella specificità della singola operazione di scambio: essa si declina come libertà di scelta del consumatore, che in concreto è stata compromessa dalla prassi commerciale sleale.

Nel contesto della negoziazione, una scelta è autentica se è atta a soddisfare utilità concretamente valutate; ma, considerato che le utilità sono per definizione un elemento soggettivo, esse possono essere conosciute solo interrogando il consumatore [89] e rimettendo a quest’ultimo il potere di correggere il regolamento contrattuale mediante un consapevole esercizio dell’autonomia privata.

La differente soluzione dell’etero-integrazione, che – se del caso – potrebbe realizzarsi solo nella forma dell’integrazione equitativa (sempre che all’equità di cui all’art. 1374 cod. civ. possa riconoscersi una funzione correttiva [90]), appare strada non percorribile [91], «perché giudicata inidonea a sostituire all’equilibrio formale che il contratto determina tra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti un equilibrio reale» [92] ed anche perché l’integrazione equitativa verrebbe a postulare un criterio valutativo, esterno al contratto, ed espressivo di interessi con questo incompatibili [93]. In questo senso, il giudice non può imporre autoritativamente delle vicende modificative che non sono nella sua disponibilità [94].

Pur ritenendo, con convinzione, che il giudice «“non può mettere i piedi nel piatto” e modificare d’impe­rio le condizioni dello scambio» [95], anche la soluzione della rinegoziazione, espressione dell’autonomia privata, non deve alimentare facili entusiasmi.

Qualora si decidesse di annoverare, tra le tutele individuali esperibili dal consumatore, anche quella che si realizza per mezzo della rinegoziazione, occorre tener conto opportunamente di tutte le problematicità connesse alla previsione del suddetto rimedio, affinché questa soluzione non presti il fianco a critiche che ne possano minare la coerenza sistematica.

Al di là della difficoltà di individuare il fondamento normativo dell’obbligo di rinegoziare, residuerebbero, in ogni caso, almeno altre due questioni da risolvere: la prima attiene alla ricostruzione della rinegoziazione come situazione giuridica soggettiva e alla definizione del suo contenuto; l’altra riguarda le possibili conseguenze che si determinano nel caso in cui le parti non abbiano raggiunto l’accordo sul contratto rinegoziato.

Si è detto che, se la rinegoziazione non può essere imposta al professionista, ma, al contrario, le parti possono decidere liberamente di ridefinire il contenuto di un contratto, «si è in presenza di un fenomeno, che, in linea di massima, non assume una particolare rilevanza giuridica» [96].

Affinché la rinegoziazione sia una soluzione rimediale effettiva e ne possa essere scongiurata l’inconsi­stenza giuridica [97], occorrerebbe anche chiedersi quale sia il contenuto di quell’obbligo, ossia se esso si arresti al livello dell’instaurazione delle trattative solo potenzialmente produttiva dell’accordo modificativo oppure si estenda fino a ricomprenderne la conclusione [98].

La risposta a quest’interrogativo condizionerà la risposta al secondo dei quesiti prospettati, riguardante l’individuazione dello strumento di tutela cui possa fare ricorso il consumatore nel caso in cui il professionista si rifiuti di rinegoziare o le trattative non esitino nel raggiungimento dell’accordo modificativo [99].

Oltre a queste difficoltà più squisitamente sistematiche, la soluzione rimediale della rinegoziazione ne esibisce un’altra, che potrebbe finire per incidere sul tasso di immediata, e possibilmente incontroversa, idoneità ad applicarsi ai casi concreti.

Come già detto, nella fase delle trattative instaurate in sede di rinegoziazione (o meglio di negoziazione, se si assume che, rispetto al contratto concluso per effetto della pratica commerciale scorretta, nessuna trattativa si sia validamente dispiegata nella fase precontrattuale), la scelta del consumatore potrebbe nuovamente essere condizionata dalla superiorità del professionista, impedendogli di maturare un consenso ponderato, e la rinegoziazione potrebbe non essere, nuovamente, il prodotto di una trattativa individuale quando il consumatore non abbia potuto concorrere a definire il contenuto dell’accordo correttivo.

Proprio per ovviare a questo inconveniente, la Corte di Giustizia [100] ha condizionato l’operatività del rimedio dell’auto-integrazione alla predisposizione del quadro delle trattative ad opera del giudice, tentando di coniugare l’ordine imposto con l’ordine negoziato.

Dunque, dopo aver saggiato e bilanciato potenzialità e criticità della rinegoziazione, essa potrà risultare certamente rimedio effettivo e proporzionale che si realizza mediante un meccanismo che pone i contraenti di fronte a una regola creata e non di fronte a una regola trovata: l’auto-integrazione, esercitata dai contraenti, consente al contratto di produrre i suoi effetti; il contratto è il suo oggetto e alla sua costruzione partecipa.


6. Una postilla

Anche a voler ritenere che «non sia più tempo di diritto privato generale» [101] o che, in maniera più convincente, «nuovi siano i luoghi di una parte generale del contratto» [102], ciononostante deve affermarsi – e senza la preoccupazione che questo ragionamento si esponga all’empiria di un travaso causale di norme e principi [103] – che tra contratto e accordo «non c’è sineddoche: qui la parte, ossia l’accordo, è proprio il tutto. Ogni fuga o congedo da esso minerebbe alle fondamenta la categoria stessa del contratto, determinandone la dissoluzione» [104]. E la particolare modalità di formazione dei contratti tra professionista e consumatore, se del caso per effetto di una pratica commerciale sleale, impone la necessità di un’operazione di ricostruzione e ricostituzione dell’accordo.

Muovendosi entro il perimetro delle suggestioni rivenienti da quella concezione novecentesca secondo cui il volontarismo è temperato, ma non escluso, dai principi della responsabilità e dell’affidamento [105], quest’operazione diventa sintomatica del fatto che «la fortezza del dogma del consenso rimarrà ancora a lungo inespugnata» [106], anche per l’acquisita idoneità a mettere ordine nelle relazioni tra la realtà economica e quella normativa.

Sull’onda della tradizione, la volontà del consumatore si ammanta di un nuovo significato: essa «corrisponde alla pretesa di conformità della dichiarazione, di cui consta il contratto, al parametro normativo».

Sulla base di questa premessa e valorizzando la teoria del negozio giuridico che sopravvive nella sua attualità [107] ben oltre la sola valenza storiografica alla quale si vorrebbe tentare di ridurla [108], volontà del consumatore e dichiarazione del professionista potranno combaciare, anche se tale coincidenza «non è uno stato di fatto da cui l’interprete debba muovere (come accadeva nel tempo dell’ermeneutica, nel quale la dichiarazione era per l’appunto uno stato di fatto), ma è il dover essere da perseguire nell’attuazione del sistema di tutele del consumatore» [109].

Cogliendo le suggestioni di chi teme che la fenomenologia del postmoderno si sostanzi, in realtà, in una sorta di «regressione premoderna», non si può fare a meno di condividere l’idea per cui «i codici e le categorie giuridiche del diritto privato moderno, ancorché profondamente rivisitate, svolgono ancora un ruolo fondativo del “sistema”» [110].

Nell’ambito di un diritto, quello consumeristico, che tradizionalmente ha «commisura[to] i rapporti tra gli uomini alla loro appartenenza ad un ceto o ad un gruppo» [111] e ha esaltato il soggetto come momento sistematico [112], potrebbe ritenersi che si stia forse inverando il ritorno, seppure secondo logiche ispiratrici e finalità profondamente differenti, a quel movimento ‘from status to contract’ [113] che aveva segnato il passaggio dalla civiltà giuridica del medioevo a quella moderna democratico-liberale.

Se, come è apparso a Filippo Vassalli, di fronte ai mutamenti della realtà il diritto civile ha il compito di trasformare i dati della vita in schemi di pensiero [114], gli attuali fenomeni di circolazione della ricchezza impongono di continuare a considerare il contratto, a cui il sistema giuridico si è sempre mostrato proclive [115], lo schema più idoneo alla realizzazione degli interessi dei privati.


NOTE

[1] Si rinvia a C. Granelli, Pratiche commerciali scorrette: le tutele, in Enc. dir., I tematici, I. Il contratto, diretto da G. D’Amico, Giuffrè Francis Lefebvre, 2021, 826 ss., spec. 838 ss., il quale – come si evince dalla denominazione della voce – svolge il delicato compito di coordinare il generale divieto di pratiche commerciali scorrette con il sistema, plurale ed eterogeneo, dei rimedi azionabili dal singolo consumatore.

[2] Nel diritto europeo formale, la previsione del diritto di recesso a favore del consumatore dilata la durata della fase formativa del vincolo e, riguardata secondo una logica funzionale, costituisce espressione della rilevanza del consenso interno: si rimanda alla successiva nota n. 18. Cfr. G. De Cristofaro, La disciplina unitaria del «diritto di recesso»: ambito di applicazione, struttura e contenuti essenziali, in Id. (a cura di), I «princìpi» del diritto comunitario dei contratti. Acquis communautaire e diritto privato europeo, Giappichelli, 2009, 351 ss., il quale, riflettendo sulle molteplici manifestazioni del diritto di recesso esercitato dal consumatore, ritiene che la conclusione dell’accordo sia una fattispecie a formazione progressiva «da considerarsi ancora in itinere (nonostante l’incon­tro delle volontà delle parti eventualmente già verificatosi) fino alla scadenza del termine concesso al consumatore per l’eser­cizio dello ius poenitendi».

[3] In questo senso, C. Scognamiglio, I contratti d’impresa e la volontà delle parti contraenti, in P. Sirena (a cura di), Il diritto europeo dei contratti d’impresa. Autonomia negoziale dei privati e regolazione del mercato, Giuffrè, 2006, 493 ss., che – dall’angolo visuale della rilevanza della volontà delle parti contraenti e nella prospettiva del diritto europeo dei contratti – conduce un’acuta riflessione sul tema dell’interpretazione dei contratti unilateralmente d’impresa.

[4] C. Castronovo, Un contratto per l’Europa. Prefazione a Id. (a cura di), Principi di diritto europeo dei contratti. Parte I e II, Giuffrè, 2001, XXVI.

[5] Nell’economia del presente scritto non è dato nemmeno accennare al dibattito sull’essenzialità dell’accordo, (dibattito) vivace e costruito per successive repliche tra N. Irti, Scambi senza accordo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, II, 347 ss. e G. Oppo, Disumanizzazione del contratto?, in Riv. dir. civ., 1998, I, 525 ss.; nuovamente N. Irti, «È vero, ma …» (replica a Giorgio Oppo), in Riv. dir. civ., 1999, I, 273 ss., nonché Id., Lo scambio dei foulards (replica semiseria al Prof. Bianca), in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, II, 601 ss., in risposta a C.M. Bianca, Diritto civile. 3. Il contratto2, Giuffrè, 2000, 43 ss., il quale, da ultimo, controbatte in Id., Acontrattualità dei contratti di massa?, in Vita not., 2001, I, 1120 ss. Condivisibilmente, U. Majello, Essenzialità dell’accordo e del suo contenuto, in Riv. dir. civ., 2005, II, 117, afferma che – nel caso di scambi che si realizzano senza trattativa – «non convince [però] l’opinione secondo cui in questi diversi casi non sia ipotizzabile l’accordo per il fatto che non vi è stato spazio per la contrattazione». Dal canto suo, G. Benedetti, Diritto e linguaggio. Variazioni sul “diritto muto”, in Europa dir. priv., 1999, I, 137 ss., spec. 140, ritiene che disorienti questa presa di congedo dal contratto, che l’Autore considera disincantata e subitanea.

[6] Cfr. T. Ascarelli, Certezza del diritto e autonomia delle parti, in Dir. dell’economia, 1956, 1238 ss., poi in Id., Problemi giuridici, I, Giuffrè, 1959, 113 ss.

[7] Così V. Scalisi, La conclusione del contratto tra regole e principi, in Id., Il contratto in trasformazione. Invalidità e inefficacia nella transizione al diritto europeo, Giuffrè, 2011, 330. In termini simili, G.B. Ferri, Considerazioni sul problema della formazione del contratto, in Riv. dir. comm., 1969, I, 187 ss., poi in Id., Saggi di diritto civile, Maggioli, 1983, 239 ss. Restano fondamentali le intuizioni di Ar. Dalmartello, Contratti d’impresa, in Enc. giur., IX, Treccani, 1988, 6 s., secondo il quale l’attività negoziale, attraverso cui si manifesta la vitalità dell’impresa, ha richiesto un particolare sforzo ricostruttivo in ordine alla determinazione del contenuto normativo dei contratti d’impresa. L’Autore evidenzia che da suddetta considerazione sono state tratte deduzioni, a volte, non condivisibili. In particolare, da questo rilievo si è passati ad affermare che nella contrattazione d’impresa si invererebbe il superamento del requisito del consenso, nel senso che si realizzerebbe «il superamento parziale o totale dello stesso requisito individualistico della ‘volontà’», dal momento che, in questo procedimento di formazione del contratto, la conoscenza effettiva del regolamento contrattuale è sostituita dalla mera conoscibilità (in questo senso C. Angelici, La contrattazione d’impresa, in B. Libonati e P. Ferro-Luzzi (a cura di), L’impresa, Giuffrè, 1985, 191). Ad avviso di Dalmartello, «non è esatto che la mera conoscibilità – con contestuale esclusione di effettiva conoscenza – escluda anche e necessariamente la volontà (il consenso)» cosicché «non riteniamo che le modalità della contrattazione in serie possano giustificare una tale concezione del contratto d’impresa, da portarlo addirittura al di fuori di quella che è la nozione generale di contratto (art. 1321 cod. civ.) nel nostro ordinamento» [cors. orig.].

[8] L’art. 27, comma 15-bis, d.lgs. n. 206 del 2005 prevede che «I consumatori lesi da pratiche commerciali sleali possono altresì adire il giudice ordinario al fine di ottenere rimedi proporzionati ed effettivi, compresi il risarcimento del danno subito e, ove applicabile, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto, tenuto conto, se del caso, della gravità e della natura della pratica commerciale sleale, del danno subito e di altre circostanze pertinenti. Sono fatti salvi ulteriori rimedi a disposizione dei consumatori».

[9] Cfr. il saggio di G.B. Ferri, Equivoci e verità sul negozio giuridico e sulla sua causa, in Riv. int. fil. del dir., 2008, II, ora in Id., Il silenzio e le parole nella cultura del civilista, Giuffrè Francis Lefebvre, 2021, 237 ss.

[10] Cfr. R. Scognamiglio, Lezioni sul negozio giuridico, rist. inalterata, Cacucci, 1962, 274 ss., il quale, in chiave realistica, chiarisce che il superamento della teoria volontaristica non significa nemmeno l’adesione all’opposta concezione dichiarazionista. «[…] l’affermazione secondo cui il negozio non è per il nostro diritto un atto di volontà non equivale all’altra che il diritto si disinteressi totalmente dell’elemento psicologico. […] Significa ancora, praticamente, che il negozio va riferito al suo soggetto non solo secondo il criterio psicologico che pure normalmente ha vigore, ma altresì, e si potrebbe dire in generale, secondo un criterio oggettivo di autoresponsabilità desunto dall’esperienza sociale, rispetto al quale, dunque, il difetto del volere non presenta un valore assoluto».

[11] S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Giuffrè, 1969 (rist. integrata, Milano, 2004), 13 ss., si riferisce al contratto imposto, al contratto regolato, al contratto per adesione, quali fenomeni unificati sotto il segno dell’oggettivazione: anche se, in ipotesi siffatte, l’accordo non si realizza secondo lo schema tradizionale, ciò non impedisce di ravvisarne la, pur sempre essenziale, sussistenza. Del resto, anche rispetto al contratto concluso per effetto del confronto dialogico tra proposta e accettazione, deve osservarsi che la molteplicità delle dichiarazioni, a lora volta espressive di contrapporti interessi strumentali, si ricompone nella necessaria unità dell’operazione contrattuale: così P. Schlesinger, Complessità del procedimento di formazione del consenso e unità del negozio contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1964, II, 1345 ss. Critico nei confronti di Rodotà si mostra G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Giuffrè, 1966, 303 ss., il quale – con riferimento alle disposizioni degli artt. 1341 e 1342 cod. civ. – ritiene che «Non è [pertanto] sulla precostituzione della regola che si può far leva al fine di individuare un limite all’autonomia individuale. La reale portata del fenomeno, anche per l’eventuale valore derogativo del principio dell’accordo (che è alla base dell’istituto contrattuale), non può certo cogliersi, se si prescinde da una indagine volta a mettere in luce quelle caratteristiche di generalità ed uniformità che delle condizioni di contratto fissano non solo l’ambito di espansione, ma spiegano e giustificano il meccanismo del loro operare. La constatazione di un differente grado di partecipazione dei contraenti alla materiale creazione delle regole contrattuali non è di per sé sufficiente, come abbiamo visto, a “toccare” il valore dell’accordo. […] Il problema vero è anzi quello di ricercare il fondamento del carattere vincolante di queste regole per colui che contratta con l’imprenditore», che – secondo l’Autore – va rintracciato nella «tipicità» non delle rispettive posizioni dei contraenti, «ma emerge dal necessario criterio di normalità, cui tutta l’opera­zione contrattuale si ispira».

[12] Nel pensiero dei fautori della Willenstheorie, la dichiarazione costituisce un momento essenziale del negozio giuridico: così F.C. von Savigny, System des heutigen Rӧmischen Rechts, III, Veit, 1840, 98 s. L’idea è condivisa da B. Windscheid, Diritto delle Pandette (trad. it. a cura di C. Fadda e P.E. Bensa), I, 1, Utet, 1902, 266, il quale definisce il negozio giuridico come una dichiarazione di volontà. Però, quando l’Autore costruisce la ben nota teoria della presupposizione, egli ribadisce certamente il ruolo della volontà, ma mostra al contempo una certa inclinazione ad adottare una prospettiva in qualche modo non troppo lontana da quelle che saranno le derive oggettivistiche della teoria del negozio giuridico: «una presupposizione può risultare voluta, non solo dal restante contenuto della dichiarazione di volontà, ma anche dalle circostanze, che l’accompagnano, senza che essa sia espressamente manifestata come voluta» (ivi, 400).

[13] Così R. Nicolò, Diritto civile, in Enc. dir., XII, Giuffrè, 1964, 919, che discute dell’«impostazione più aperta» della dottrina civilistica, «tale da far posto, senza per questo abdicare al rigore scientifico delle indagini dottrinali, a una penetrante e spregiudicata analisi degli aspetti sostanziali del fenomeno giuridico».

[14] Lucidamente G. Benedetti, La categoria generale del contratto, in Riv. dir. civ., 1991, I, 673.

[15] La riflessione è sapientemente condotta da C. Salvi, Diritto postmoderno o regressione premoderna?, in Europa dir. priv., 2018, III, 865 ss., spec. 882. Se la medesima sensibilità permeasse il discorso sulla formazione del contratto del consumatore, non potrebbe mancarsi di osservare che la teorica del procedimento non induce «frantumazione del contratto, ma diversità, di tecniche, nell’unità, del contratto»: così G. Benedetti, La formazione del contratto e l’inizio di esecuzione. Dal codice civile ai principi di diritto europeo dei contratti, in Europa dir. priv., 2005, II, 309, spec. 322 [cors. orig.].

[16] Si rinvia a A.M. Benedetti, Autonomia privata procedimentale. La formazione del contratto fra legge e volontà delle parti, Giappichelli, 2002, 262 ss., che riflette sul valore dell’accordo: con riferimento al contratto con i consumatori, l’Autore ritiene che «il procedimento [di conclusione del contratto] diventa terreno non più di regole solo formali; ma anche di precise regole sostanziali, volte ad anticipare la protezione del contraente debole alla fase di formazione del vincolo».

[17] G. Benedetti, La formazione del contratto e l’inizio di esecuzione, cit., 334. In senso contrario, già negli anni Sessanta del secolo scorso, P. Vitucci, I profili della conclusione del contratto, Giuffrè, 1968, 40 ss., il quale ritiene che «la via del contratto non passa necessariamente attraverso l’accordo delle parti, e che l’esigenza di questo si pone solo in una determinata serie di casi».

[18] Secondo G. Benedetti, La formazione del contratto, in C. Castronovo e S. Mazzamuto (a cura di), Manuale di diritto privato europeo, II. Proprietà Obbligazioni Contratti, Giuffrè, 2007, 347 ss., spec. 348, nel solco della maturazione della dogmatica rinnovata del consenso, l’analitica delle tecniche mediante le quali può dirsi che esso sia raggiunto disvela una «compenetrazione funzionale» tra il profilo interno e quello esterno (del consenso, appunto).

[19] A. Cataudella, Sul contenuto del contratto, rist. inalterata, Giuffrè, 1974, 160 ss.

[20] V. Roppo, L’informazione precontrattuale, in P. Sirena (a cura di), Il diritto, cit., 147 ss.

[21] Si tratta della preoccupazione che agita la speculazione di S. Mazzamuto, Il contratto di diritto europeo4, Giappichelli, 2020, 39 ss.

[22] M. Libertini, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Contr. impr., 2009, I, 73 ss., spec. 96.

[23] A. Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, in Riv. dir. priv., 2010, III, 54.

[24] S. Pagliantini, In memoriam del consumatore medio, in Europa dir. priv., 2021, I, 1 ss., il quale stigmatizza il consumatore medio nei termini in cui la positivizzazione del suddetto «soggetto-tipo» potrebbe risultare il frutto di una scelta di politica del diritto, non sempre corroborata da una conseguenziale utilità: sul punto, appare discutibile l’idoneità della nozione sia a razionalizzare il bisogno di protezione, sia a compendiare un’«oggettività valutativa» che possa essere funzionale ad assicurare l’effettività delle tutele.

[25] In questi termini C. Camardi, Pratiche commerciali scorrette e invalidità, in Studi in onore di Cian, I, Cedam, 2010, 374. L’Autrice si sofferma a ragionare sulle possibili interconnessioni tra la disciplina del contratto in generale e quella di settore e, al fine di scongiurare che si realizzi un’eterogenesi dei fini delle suddette normative, ha cura di individuare il rispettivo ambito applicativo e la relativa propensione finalistica. «Mentre il codice di consumo opera dal punto di vista della mera astratta idoneità di una pratica ad indurre i consumatori a prendere una decisione che altrimenti non avrebbero preso, così assumendo ad oggetto di tutela giuridica la trasparenza del mercato attraverso la regolazione delle condotte delle imprese. Del tutto diversamente, il codice civile opera dal punto di vista della concreta distorsione della volontà negoziale, così assumendo ad oggetto di tutela giuridica la continuità dei traffici commerciali attraverso la garanzia della validità ed efficacia dei contratti e la conservazione dei medesimi, a meno che non sia accertata direttamente l’avvenuta conclusione per effetto di condotte riprovevoli di un contraente» (ivi, 377).

[26] L’espressione riprende il titolo dell’interessante riflessione di T. dalla Massara, Il consenso annichilito. La critica radicale del contratto in Siegmund Schlossmann, il Mulino, 2021, il quale, attraverso l’opera di S. Schlossmann, Der Vertrag del 1876, allestisce «un ragionamento critico intorno al senso della vincolatività dell’accordo, alle sue premesse e alla sua portata» (ivi, 9).

[27] Cfr. F. Piraino, Le prassi contra legem e la conclusione del contratto: le «prestazioni non richieste», in Europa dir. priv., 2016, I, 58, che descrive la prestazione non richiesta come integrante «un’attività materiale, di regola posta in attuazione di un negozio, [che] assume la veste di impulso di un procedimento di conclusione del contratto».

[28] F. Piraino, Le prassi, cit., 59.

[29] G. De Cristofaro, Fornitura non richiesta (Art. 66-quinquies, Codice del consumo), in G. D’Amico (a cura di), La riforma del Codice del consumo. Commentario al D.lgs. n. 21/2014, Cedam, 2015, 429 s.

[30] Sul punto, diffusamente, F. Piraino, Le prassi, cit., 74 ss.

[31] Come precisato da G. De Cristofaro, Fornitura, cit., 430, la previsione dell’art. 66-quinquies, Cod. cons., non preclude del tutto la possibilità che l’offerta contrattuale, che accompagna la fornitura non richiesta, possa essere validamente accettata dal consumatore per mezzo di una dichiarazione espressa, per effetto della quale l’accordo contrattuale deve considerarsi perfezionato.

[32] Cass. 12 gennaio 2021, n. 261 (ord.), in Nuova giur. civ. comm., 2021, III, 575 ss., con nota di G. De Cristofaro, Il regime privatistico “speciale” delle c.d. forniture non richieste: la prima presa di posizione della Suprema Corte.

[33] G. Benedetti, Diritto e linguaggio, cit., 137 ss., nonché Id., Tutela del consumatore e autonomia contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, I, 27 ss., il quale – mostrando di essere sensibile all’idea che Habermas ha formulato con riferimento al pensiero moderno – ha affermato che il fenomeno del polimorfismo, alla cui avanzata resiste incolume la figura del contratto, pone l’interprete di fronte alla necessità di calibrare la propria speculazione ai ritmi imposti all’autonomia dei privati dal mercato, (ritmi) che inducono una «sfumata gamma di figure contrattuali e di procedimenti di formazione del contratto».

[34] Così si legge in G. Benedetti, Tutela, cit., 26 s., [cors. orig.], il quale afferma che il protagonismo dell’impresa non deve far dimenticare al giurista che nell’ordine positivo il contratto è valore primario e «in questa direzione l’istanza del giurista ha ad essere che il contratto sia sempre più contratto» (ivi, 30 e 32) [cors. orig.]. In termini parzialmente dissimili si legga G. Guizzi, Il divieto delle pratiche commerciali scorrette tra tutela del concorrente e tutela del mercato: nuove prospettive (con qualche inquietudine) nella disciplina della concorrenza sleale, in Riv. dir. comm., 2010, IV, 1125 ss., il quale descrive in termini di complementarità il rapporto tra la tutela del mercato concorrenziale (e le disposizioni poste a presidio del suo corretto funzionamento) e la tutela dei consumatori che la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette si propone di comporre.

[35] A ben vedere, la riflessione sull’irriducibilità del contratto dall’accordo non appartiene solo alla contemporaneità, ma precorreva già nella speculazione di A. Cicu, Gli automi nel diritto privato, Società editrice Libraria,1901, ora in Id., Scritti minori, II, Giuffrè, 1965, 315, il quale, all’inizio del Novecento, supera i dubbi legati alla caratterizzazione del contratto automatico come scambio senza accordo attribuendo allo stesso il carattere della realità: «nello scambio dell’oggetto contenuto nell’automa colla moneta gettatavi dall’utente viene ad esistenza un contratto di compra-vendita che si perfeziona non in virtù di semplice consenso, ma in virtù di un atto cui l’offerente, legem dicens, attribuisce forza perfezionativa del contratto». Nell’ambito del dibattito sui rapporti tra autonomia privata e ordinamento giuridico, E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico2, Utet, 1955, (3^ rist. corretta della 2a ed. a cura di G. Crifò e con introduzione di G.B. Ferri, E.S.I., 2002,), 45, testo e sub nota 45, ricorda quanto ci narra Erodoto (IV, 196), tra l’altro corrispondente alla testimonianza di un navigatore veneziano del secolo XV, Alvise da Cà da Mosto, circa lo schema (i.e. cerimoniale) per mezzo del quale avveniva la forma più rudimentale dello scambio di merci: la permuta del sale e dell’oro. Entrambi i contraenti, l’uno in assenza dell’altro, deponevano in un luogo, rispettivamente e reciprocamente, l’oro e il sale, fino a quando la quantità di cose «messe a riscontro» fosse – a giudizio di ciascuno – «sufficiente a comperare la quantità [delle cose] corrispondente». Anche se la permuta si realizzava in assenza delle parti, essa è – secondo Betti – fondato sull’accordo, «raggiunto [il quale], entrambe le parti mostr[a]no, nel concludere il contratto, piena consapevolezza del suo valore impegnativo». In argomento, specificamente sui rapporti tra autonomia privata e ordinamento giuridico, restano fondamentali gli scritti di R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico2, Jovene, 1969 (rist., Jovene, 2008), 138 ss.; nonché G.B. Ferri, Il negozio giuridico tra libertà e norma4, Maggioli, 1992, 56 ss. Così B. De Giovanni, Fatto e valutazione nella teoria del negozio giuridico, Jovene, 1958 (rist., E.S.I., 2016), 115, sintetizza il problema del riconoscimento giuridico dell’autono­mia privata: «il negozio potrà essere pensato o come fatto peculiare, dotato solo strutturalmente di autonome caratteristiche, ma logicamente compreso nella funzione del fatto; o come valore, e in tal caso è necessario affermare, senza incertezze, il suo significato di criterio qualificante» [cors. orig.].

[36] G.B. Ferri, Considerazioni, cit., 187 ss.

[37] Il riferimento corre a A. di Majo, L’accordo, in Lezioni sul contratto. Raccolte da A. Orestano, Giappichelli, 2009, 10, il quale – con riferimento, in particolare, al fenomeno delle condizioni generali di contratto – ritiene che, anche in tal caso, resta impregiudicata la tenuta del principio consensuale, affidata al valore e al significato di comportamenti così assunti nei rapporti sociali ed economici. In parziale disaccordo, M. Orlandi, La forma dei contratti di massa, in Studi in onore di Giuseppe Benedetti, II, E.S.I., 2008, 1251 ss., spec. 1267, descrive efficacemente gli scambi di massa nei termini di «una falsa metafora negoziale»: «[P]ossiamo ancora convertire il fatto concludente (la cliccata, l’introduzione della moneta) in una dichiarazione di volontà, nel senso della elementare libertà del sì o del no; ma non crederemmo seriamente che il contraente possa accompagnare al proprio contegno ulteriori precisazioni di senso o – magari – accettazioni mirate delle clausole generali. Consenso sì; ma ristretto e impoverito allo scambio materiale».

[38] Esemplare è l’insegnamento di L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Giuffrè, 1996, passim, in particolare 49 ss.

[39] G. Benedetti, Diritto e linguaggio, cit., 149.

[40] Si tratta del nuovo paradigma assunto dalla dichiarazione nei rapporti di consumo: così E. Scoditti, Contratto e teoria del negozio giuridico, in Enc. dir., I tematici, I. Il contratto, diretto da G. D’Amico, Giuffrè Francis Lefebvre, 2021, 427 ss.

[41] G. De Cristofaro, Il divieto di pratiche commerciali sleali, in Id. (a cura di), Le “pratiche commerciali sleali” tra imprese e consumatori, Giappichelli, 2007, 125.

[42] C. Camardi, Pratiche commerciali, cit., 381.

[43] Cfr. le lucide osservazioni svolte da N. Lipari, Per una revisione della disciplina sull’interpretazione e sull’integrazione del contratto?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, III, 711, spec. 720 ss. Già G. Oppo, Profili dell’interpretazione oggettiva del negozio giuridico, Zanichelli, 1943, 102 s., con riferimento alla regola contenuta nell’art. 1370 cod. civ., osserva che «essa riposa su un fondamento meramente equitativo», sottolineando come la sua giustificazione sia quella di «proteggere il contraente economicamente più debole nei contratti a serie». In tal senso, secondo l’Autore, si tratta di «una norma di interpretazione integrativa, [che] si applica solo in quanto non sia individuabile una volontà concreta, e non può prevalere ad essa» (ivi, 109).

[44] La considerazione riprende le riflessioni puntualmente svolte da S. Pagliantini, In memoriam, cit., 27, con riferimento alla portata correttiva della c.d. interpretatio in favorem. Sulla portata dell’art. 35, Cod. cons., si legga A. Iuliani, La trasparenza consumeristica nell’interpretazione della Corte di Giustizia e della dottrina, in Foro it., 2020, 1, IV, 45 ss.

[45] La tesi, qui contestata, è sostenuta da A. Gentili, Disinformazione e invalidità: i contratti di intermediazione dopo le Sezioni Unite, in Contratti, 2008, IV, 399. L’Autore ha, da ultimo, sostenuto che il diritto dei consumi «non si accontenta più – come nel diritto del Codice civile – della mera capacità di intendere e volere, ma chiede per la sussistenza del vincolo l’effettività dell’intendere (vedi le disposizioni qui ricordate sulla rilevanza sostanziale degli obblighi informativi) e l’effettività del volere (vedi le conferme del contratto, i consensi espressi, la possibilità del recesso da consensi affrettati)»: così Id., Introduzione a A. Catricalà e M.P. Pignalosa (a cura di), Saggi di diritto dei consumi, Giappichelli, 2020, 7.

[46] G. D’Amico, Formazione del contratto, in Enc. dir., Annali II-2, Giuffrè, 2008, 590.

[47] C. Camardi, Pratiche commerciali, cit., 379.

[48] G. D’Amico, Formazione, cit., 590, che propone l’esempio dell’omessa indicazione del prezzo o del modo per determinarlo.

[49] Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724, in Foro it., 2008, 3, I, 784 ss. Sapientemente, U. Majello, Essenzialità, cit., 126 s., nonché sub nota 16, osserva che lo scambio funzionalmente non può realizzarsi senza che vi sia accordo, con la precisazione per cui il contenuto essenziale dell’accordo è soltanto quello che fa riferimento alla causa e all’oggetto «intesi, più che come requisiti strutturali del contratto (distinti dall’accordo), come requisiti essenziali del contenuto dell’accordo, [che] attribuiscono a quest’ultimo una maggiore efficienza causale» (ivi, 133 s.). Ciò posto, il sacrificio della libertà di trattativa non necessariamente sfocia nella compromissione della libertà di decisione, ad esempio ogniqualvolta l’esistenza dell’accordo, in punto di causa e oggetto, sia desumibile o da fatti concludenti o dalla sottoscrizione di moduli o formulari predisposti.

[50] Cfr. G.B. Ferri, Considerazioni, cit., 187 ss.

[51] R. Alessi, I doveri di informazione, in C. Castronovo, S. Mazzamuto (a cura di), Manuale, cit., 402.

[52] R. Sacco, in R. Sacco, G. De Nova, Il contratto3, Utet, 2004, 248.

[53] Cfr. G.B. Ferri, Causa e tipo, cit., 301 ss.

[54] In argomento, resta fondamentale lo studio di F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Jovene, 1996, passim.

[55] Così L. Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, in Banca borsa, 1997, I, 19.

[56] F. Cafaggi, P. Iamicelli, The principles of effectiveness, proportionality and dissuasiveness in the enforcement of EU consumer law: The impact of a triad on the choice of civil remedies and administrative sanctions, in European Review of Private Law, 2017, 25, III, 575.

[57] S. Pagliantini, Tutela del consumatore e congruità dello scambio: il c.d. diritto all’equità nei rapporti contrattuali, in A. Barba (a cura di), La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti (L. 30 luglio 1998 n. 281), Jovene, 2000, 348.

[58] La sopravvivenza del contratto resta la cifra caratterizzante il diritto contrattuale dei consumatori: in questo senso, art. 6.1, direttiva 93/13/CEE, nonché l’art. 36, comma, Cod. Cons. Cfr. anche Corte Giustizia UE 15 marzo 2012, causa C-453/10, § 31. Con estrema lucidità, G. D’Amico, L’integrazione (cogente) del contratto mediante il diritto dispositivo, in G. D’Amico e S. Pagliantini, Nullità per abuso ed integrazione del contratto. Saggi2, Giappichelli, 2015, 53, sub nota 44, mette in luce come la conservazione del contratto non realizza necessariamente il massimo effetto utile della disciplina preposta alla tutela contrattuale dei consumatori. L’Autore dubita del fatto che il mantenimento in vita del contratto costituisca soluzione in ogni caso da preferire, «per lo meno quando le parti operino in un mercato concorrenziale» [cors. orig]. Nell’ambito della disciplina del contratto in generale, il principio di conservazione del contratto, evocato nella rubrica dell’art. 1367 cod. civ., opera sul piano dell’interpretazione del contratto ed interviene ad agevolare la costruzione dell’atto «privilegiando il significato che si impone, alla stregua di una valutazione – condotta sotto un particolare profilo – dell’attività negoziale dei privati in termini di regolarità e normalità» [così C. Scognamiglio, L’inter­pre­tazione, in E. Gabrielli (a cura di), I contratti in generale2, II, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno, E. Gabrielli, Utet, 2006, 1105.]. Però, non può instaurarsi alcuna utile interferenza tra l’applicazione del principio di conservazione del contratto, come criterio ermeneutico, e la consacrazione dello stesso principio, come regola per gestire le disfunzioni sopravvenute del sinallagma: C. Grassetti, Conservazione (principio di), in Enc. dir., XI, Giuffrè, 1961, 176, precisa che «quando si insegna che l’esigenza della conservazione dei valori nel mondo del diritto si fa valere in sede ermeneutica in un adattamento integrativo della formula (e quindi della fattispecie) del negozio, e in sede di trattamento giuridico può attuarsi in una modificata valutazione, quale si ha nella conversione, si fa richiamo a due fenomeni che operano in due campi ben distinti, quello della interpretazione e quello della efficacia».

[59] In dottrina è dibattuta la questione se – con riferimento alla categoria dei contratti del consumatore – l’interpretazione possa essere affidata ai criteri ermeneutici di natura soggettiva previsti dal codice civile o se gli stessi si pongano addirittura fuori quadro: la risposta negativa discenderebbe dall’inutilità di una ricerca, per la comprensione della portata del contratto, della comune intenzione delle parti ex art. 1362 cod. civ., in concreto insussistente se si considera che la legge prescrive l’adozione di particolari modalità di conclusione del contratto, il cui contenuto normativo è normalmente predisposto o comunque determinato dal solo professionista. Nel solco di questa considerazione, N. Irti, Testo e contesto. Una lettura dell’art. 1362 codice civile, Cedam, 1996 (2^ rist., 2020), 77 ss., ritiene che il fenomeno dei contratti di massa «è segnato da un’estrema contrazione espressiva» e si caratterizza per una «rigida tipizzazione dei comportamenti, ciascuno dei quali, per le regole proprie del mercato, ha soltanto un significato». Conseguentemente, «la tutela della parte, debole o forte che sia, non è legata alla ricerca della comune intenzione, alla consueta dialettica tra contegno complessivo e senso letterale della parole, ma alla disciplina legislativa del mercato» [cors. orig.]. Al contrario, appare preferibile la tesi di C. Scognamiglio, I contratti d’impresa, cit., 499 s., il quale osserva che «non sembra (tuttavia) che si possa negare, nella contrattazione standard, l’esistenza né di una comune intenzione né quella di un accordo. Anche nei contratti standard, infatti, come è stato rilevato da tempo, è dato ravvisare quel contegno dell’aderire che costituisce, appunto, il presupposto minimo essenziale, ma anche quello sufficiente, per configurare l’accordo. Il testo contrattuale, pure predisposto in termini generali ed uniformi ed in assenza di una fase di trattative tra le parti, viene sottoposto infatti ad una manifestazione di volontà dell’altra parte, che è chiamata a decidere se renderlo, o meno, per sé vincolante». Diversa è la prospettiva di A. Gentili, Senso e consenso. Storia, teoria e tecnica del­l’interpretazione dei contratti. II. Tecnica, Giappichelli, 2015, 636, il quale – sulla base del presupposto per cui, a parere dell’Autore, il senso e il ruolo dell’intenzione comune è «inconsistente» ai fini dell’interpretazione di qualsiasi contratto – afferma che «dove manca una elaborazione negoziata del testo (ma sussiste adesione) si parte dalla lettera, la si mette a fuoco con le tecniche usuali, e sullo sfondo del contesto, come sempre».

[60] F. Kessler, Contracts of Adhesion – Some Thoughts about Freedom of Contract, in Columbia Law Review, 1943, 43, 5, 629 ss., spec. 633, «Handicapped by the axiom that courts can only interpret but cannot make contracts for the parties, courts had to rely heavily on their prerogative of interpretation to protect a policy holder».

[61] Del resto, la stessa ‘natura dell’impresa’ si esplica proprio mediante la conclusione di contratti destinati a durare nel tempo, che rappresentano «lo strumento esclusivo o tipico dell’esercizio dell’attività»: il riferimento è alla teoria di R. Coase, La natura dell’impresa, in Id., Impresa, mercato e diritto, il Mulino, 1995, 79 ss. (versione italiana di R. Coase, The nature of the firm, in The Firm, the Market and the Law, University of Chicago Press, 1988).

[62] A. Jannarelli, La disciplina dell’atto e dell’attività: i contratti tra imprese e tra imprese e consumatori, in N. Lipari (a cura di), Trattato di diritto privato europeo. III. L’attività e il contratto, Cedam, 2003, 64 ss.

[63] Secondo G. Oppo, I contratti di durata, in Riv. dir. comm., 1943, I, 143 ss. e 227 ss., nonché ivi, 1944, II, 17 ss., ora in Id., Obbligazioni e negozio giuridico. Scritti giuridici. III, Cedam, 1992, 200 ss., spec. 249, a cui si deve il più pregevole sforzo ricostruttivo della categoria dei contratti di durata, «[d]all’attinenza della durata alla causa, propria dei nostri rapporti, deriva che, quando il contratto abbia per contenuto la ripetizione di prestazioni che potrebbero, isolatamente prese, costituire l’oggetto di altrettanti contratti ad esecuzione istantanea, la durata introduce nel contratto (…) un elemento atipico rispetto al contratto ad esecuzione istantanea, che lo allontana dallo schema causale di quest’ultimo». L’Autore ha delineato «i caratteri sistematici essenziali della categoria». Innanzitutto, si richiede l’elemento della durata dell’adempimento (e non semplicemente del rapporto), che attiene alla causa del contratto; alla durata corrisponde – sotto il profilo funzionale – un interesse o bisogno durevole, che il contratto intende soddisfare; l’utilità durevole è proporzionale alla durata del rapporto; è necessario, altresì, che la prestazione sia determinata in funzione della durata stessa e, in concreto, la prestazione può essere continuativa, periodica o reiterata.

[64] P. Barcellona, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Giuffrè, 1969, 75.

[65] C. Castronovo, Un contratto, cit., XXXVII, definisce in questi termini l’auto-integrazione, anche se l’Autore ritiene che essa possa realizzarsi mediante il ricorso alla buona fede.

[66] S. Rodotà, Le fonti, cit., 4. Più di recente, N. Lipari, Per una revisione, cit., 733 s., osserva che la nostra esperienza giuridica ci viene consegnando «meccanismi di varia natura», attraverso i quali «il contratto tende ad acquisire un equilibrio che in origine non aveva e non solo sul piano degli obblighi accessori, ma in un quadro di complessivo assetto degli interessi direttamente implicati o anche indirettamente incisi». In quest’ottica, all’Autore «sembra che vada una volta per tutte superata la distinzione tra equità correttiva e equità integrativa, così come forse anche quella tra autointegrazione ed eterointegrazione. Il sistema di integrazione del contratto, inteso come strumento di raccordo tra gli interessi direttamente disciplinati dai contraenti e quelli a più ampio spettro incisi dalla pattuizione, muove sempre dall’interno dell’atto di autonomia, ritenuto meritevole di essere salvaguardato senza arroccarsi entro gli spazi alternativi del recesso o della nullità, ma individua la soluzione finale sul piano degli effetti in base a criteri determinativi, ad indici di valore, diciamo più genericamente a fonti, estranei alla struttura del contratto».

[67] Secondo S. Rodotà, Le fonti, cit., 94 ss., l’interpretazione integrativa «opererebbe nel senso di rendere esplicito ciò che, tuttavia, già appartiene alla logica interna del contratto». Ma, proprio quella dottrina ha sottolineato come l’auto-integrazione, nel senso appena esplicitato, non ha ragion d’essere nel nostro ordinamento, per due ragioni: da un lato, «l’esigenza proprio dell’interpretazio­ne integrativa è già soddisfatta dall’interpretazione senza aggettivi», come procedimento inteso a svolgere tutte le potenzialità del regolamento contrattuale, portando a mettere in luce anche il contenuto implicito dello stesso; dall’altro, la trasposizione dell’inter­pretazione integrativa, di origine germanica (§§ 157 e 242, nonché § 306, Abs. 2, B.G.B.), nel nostro ordinamento sarebbe impedita, o comunque di problematica realizzazione, in ragione dell’autonoma portata applicativa dell’art. 1374 cod. civ. In termini parzialmente dissimili, G.B. Ferri, Causa e tipo, cit., 291 ss.: «se attraverso la interpretazione si deve riuscire a fissare il senso giuridico della operazione contrattuale, appare chiaro come il problema della integrazione non abbia una sua autonomia, rispetto a quello della interpretazione. L’integrazione, infatti, quand’anche la si differenzi dall’interpretazione integrativa, non si pone come criterio sostitutivo dell’interpretazione; essa trova applicazione laddove il concreto regolamento contrattuale, pur presentando lacune e incertezze, sia esattamente individuabile». In questo senso anche C. Scognamiglio, L’integrazione, in E. Gabrielli (a cura di), I contratti in generale2, II, cit., 1151, che vede «nell’interpretazione e nell’integrazione due momenti affini, anche se non sovrapponibili, del processo di recezione della regola privata nell’ordinamento». In tema di contratti dei consumatori, sulla contiguità tra interpretazione e integrazione del contratto riflette anche S. Pagliantini, L’interpretazione dei contratti asimmetrici nel canone di Gentili e della Corte di Giustizia (il dopo Radlinger aspettando le clausole floor, sullo sfondo del nuovo art. 1190 Code civil), in Contratti, 2016, XI, 1029 ss., il quale ritiene che – proprio a partire della premessa di un’integrazione che instrada l’interpretazione – la valenza euristica del canone dell’interpretazione in favorem potrebbe essere immiserita da una qualificazione dell’art. 35, comma, Cod. cons. come norma residuale e non di risultato, per cui resta opportuno «reiventare[re] il senso più favorevole, leggendolo come il maggior effetto utile» [S. Pagliantini, Interpretazione (ed integrazione) dei contratti asimmetrici (Atto secondo), in Contratti, 2016, XII, 1147, spec. 1158].

[68] S. Pagliantini, Post-vessatorietà ed integrazione del contratto nel decalogo della CGUE, in Nuova giur. civ. comm., 2019, III, 561 ss.

[69] S. Pagliantini, A. Palmieri, Il post-vessatorietà come una «Baustelle im Dunkeln»?, in Foro it., 2021, 5, IV, 294.

[70] V. Scalisi, Autonomia privata e regole di validità: le nullità conformative, in Riv. dir. civ., 2011, I, 725 ss., ora in Id., Il contratto, cit., 386 ss.

[71] Corte giust. UE 29 aprile 2021, in C-19/20, (§ 49), in www.curia.europa.eu.

[72] In questo senso, già Corte giust. UE 9 luglio 2020, in C-452/18, in Nuova giur. civ. comm., 2021, II, 253 ss., con nota di M.F. Campagna, Negozio con effetti novativi e clausole abusive.

[73] S. Pagliantini, L’effettività della tutela consumeristica in stile rococò: massimo e minimo di deterrenza rimediale tra una Corte di giustizia epigona in Dedalo e delle sez. un. 19597/20 sotto scacco di un rinvio pregiudiziale, in Foro it., 2021, 10, V, 276.

[74] Il rinvio alle trattative sembrerebbe evocare l’istituto della c.d. proposta conciliativa del giudice prevista dall’art. 185-bis c.p.c. e che è espressione di quella preferenza verso lo strumento conciliativo manifestata dal nostro legislatore sin dai tempi della prima riforma del processo del lavoro operata dalla legge n. 533/1973. Sull’art. 185-bis c.p.c., si legga S. Caporusso, La risoluzione giudiziale delle controversie e la proposta di conciliazione del giudice, in Aa.Vv., Processo civile e soluzioni alternative delle liti, a cura di P. Gianniti, Aracne, 2016, 656 ss.

[75] Corte giust. UE 25 novembre 2020, causa C-269/19, in Contratti, 2021, III, 273 ss., con nota di A.M.S. Caldoro.

[76] A. Gentili, Introduzione, cit., 8.

[77]In dottrina, tra chi sostiene la separazione tra piano del contenuto e piano degli effetti si segnalano C.M. Bianca, Diritto civile. 3. Il contratto3, Giuffrè Francis Lefebvre 2019, 288 ss.; F. Carresi, Il contenuto del contratto, in Riv. dir. civ., 1963, I, 365 ss., propone di far prevalere, come carattere che individua il contenuto, l’aspetto teleologico su quello funzionale; A. Cataudella, Sul contenuto, cit., 47 s., secondo il quale «il regolamento dettato dalle parti, appunto perché costituisce l’oggetto della valutazione dell’ordi­namento, si contrappone agli effetti, che di questa valutazione sono l’espressione». Ma, in tal modo resta compromessa la possibilità di ricondurre immediatamente gli effetti giuridici al contenuto negoziale: così M. Cassottana, Causa ed «economia» del contratto: tendenze dottrinali e modelli di sentenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1979, II, 832, sub nota 77. Si leggano, altresì, i rilievi di E. Guerinoni, Incompletezza e completamento del contratto, Giuffrè, 2007, 102 s., il quale ritiene che «il contenuto […] consiste nel detto, nel voluto dalle parti; distinto da questo sono gli effetti che a tale voluto l’ordinamento ricollega» [cors. orig.]. In posizione critica, la sostanziale svalutazione della distinzione tra contenuto ed effetti è sostenuta da A. di Majo, L’esecuzione del contratto, Giuffrè, 1967, 191 ss.; F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, Giuffrè, 1970 (rist., Key, 2019), 185 ss., ritiene impossibile una contrapposizione tra contenuto ed effetti negoziali; invece, G.B. Ferri, Causa e tipo, cit., 269, la considera finanche «inutile», una volta individuata la portata degli artt. 1322, 1340, 1368 e 1374 cod. civ.

[78] Cfr. P. Schlesinger, Complessità, cit., 1345 ss. Nello stesso senso P. Perlingieri, Appunti sull’inquadramento della disciplina delle c.d. condizioni generali di contratto, in Aa.Vv., Condizioni generali di contratto e tutela del contraente debole. Atti della Tavola rotonda tenuta presso l’Istituto di diritto privato dell’Università di Catania, Giuffrè, 1970, 28, il quale dimostra quanto sia controproducente la completa scissione tra fattispecie e rapporto e, a proposito della discussione intorno alla natura del negozio come manifestazione di volontà o regolamento d’interessi, osserva che la norma sancita dall’art. 1374 cod. civ. consente di ridimensionare la portata del dibattito e di superare l’impasse.

[79] Cfr. F. Macario, Revisione e rinegoziazione del contratto, in Enc. dir., Annali II-2, Giuffrè, 2008, 1026 ss. In questo senso, anche R. Tommasini, Revisione del rapporto (diritto privato), in Enc. dir., XL, Giuffrè, 1989, 104, spec. 106, fornisce della revisione del rapporto una lettura di teoria generale, che consente all’Autore di declinarla come «fatto giuridico e come effetto giuridico». Al contrario A. Gentili, La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione e rinegoziazione del contratto, in Contr. impr., 2003, II, 667, spec. 669, ritiene che riproduzione, rinnovazione e rinegoziazione rappresentano delle semplici fattispecie più che un istituto del diritto privato, che non è possibile individuare nella sua unitarietà, ma nemmeno è utile farlo – secondo l’Autore – «non potendosi per tal via giungere ad alcun risultato pratico».

[80] S. Pagliantini, A. Palmieri, Il post-vessatorietà, cit., 296.

[81] C. Castronovo, Il negozio giuridico dal patrimonio alla persona, in Europa dir. priv., 2009, I, 100, osserva che l’oggettiva­zione dello scambio, non potrà mai obliterare l’accordo delle parti, che è il risultato di manifestazioni di volontà; al contrario, secondo F. Galgano, La categoria del contratto alle soglie del terzo millennio, in Contr. impr., 2000, II, 926, il contratto ha perso molti dei suoi connotati di volontarietà.

[82] Corte giust. UE 9 luglio 2020, causa C-452/18, punti 1) e 2) del dispositivo.

[83] Cfr. M.F. Campagna, Negozio, cit., 261.

[84] Corte giust. UE 25 novembre 2020, causa C-269/19, § 42.

[85] G.B. Ferri, Causa e tipo, cit., 287. Sulla base di questa premessa, ma per effetto di uno sviamento di prospettive, si è erroneamente accostato il fenomeno dell’integrazione a quello della conversione del contratto.

[86] Cfr. G.B. Ferri, Causa e tipo, cit., 288, sub nota 287.

[87] Lo stesso può dirsi con riferimento all’ipotesi di nullità parziale del contratto. La considerazione svolta nel testo è suggestionata dal raffinato studio di G. Satta, La conversione dei negozi giuridici, Società Editrice Libraria, 1903 (rist., E.S.I., 2022), 15 ss., il quale, a proposito della conversione del contratto, ritiene che essa sia esclusa nell’ipotesi in cui «il negozio giuridico si restringa quantitativamente nella efficacia sua, pur rimanendone immutato l’organismo» [cors. orig.].

[88] Così M. Libertini, Sulla nozione di libertà economica, in Contr. impr., 2019, IV, 1255 ss.

[89] A. Gentili, Pratiche, cit., 43.

[90] In questo affermativo, già L. Mengoni, Problemi di integrazione della disciplina dei «contratti del consumatore» nel sistema del codice civile, in Scritti in onore di Pietro Rescigno, III, Giuffrè, 1998, ora in Id., Metodo e teoria giuridica. Scritti, I, a cura di C. Castronovo, A. Albanese, A. Nicolussi, Giuffrè, 2011, 352, secondo cui – nella disciplina dei contratti del consumatore e sia pur con riferimento al destino del contratto in presenza di una clausola vessatoria – l’equità allarga i poteri del giudice non solo in funzione integrativa (delle lacune) del contratto, ma anche in funzione correttiva del suo contenuto mediante caducazione delle clausole giudicate vessatorie. Invece G. D’Amico, L’integrazione, cit., 48 ss., argomenta puntualmente l’inesistenza di un generale potere equitativo del giudice di correggere il regolamento contrattuale. Anche A. D’Adda, Regole dispositive in funzione «conformativa» ovvero una nuova stagione per l’equità giudiziale?, in A. Bellavista, A. Plaia (a cura di), Le invalidità del diritto privato, Giuffrè, 2011, 385 ss. esclude un potere giudiziale di integrazione equitativa del contratto.

[91] Cfr. Corte giust. UE 3 ottobre 2019, causa C-260/18, § 62, in Foro it., 2020, 1, IV, 24 ss., con nota di A. Palmieri, Il ruolo trainante della Corte di giustizia nella messa in opera della disciplina sulle clausole abusive. Spunti dal caso «Dziubak» e dintorni, ove al punto 3) del dispositivo si legge che “l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che esso osta a che sia posto rimedio alle lacune di un contratto, provocate dalla soppressione delle clausole abusive contenute in quest’ultimo, sulla sola base di disposizioni nazionali di carattere generale che prevedono l’integrazione degli effetti espressi in un atto giuridico mediante, segnatamente, gli effetti risultanti dal principio di equità o dagli usi, disposizioni queste che non sono né di natura suppletiva né applicabili in caso di accordo tra le parti del contratto».

[92] Cfr. Corte giust. UE 29 aprile 2021, in C-19/20, § 83.

[93] S. Pagliantini, Tutela, cit., 345-346.

[94] Per S. Rodotà, Le fonti, cit., 225, «l’equità è un criterio di giudizio che non può essere adoperato in relazione a qualsiasi profilo del contratto, ma unicamente per far assumere rilevanza regolamentare a talune circostanze di esso». Al contrario, secondo A. Gentili, La replica, cit., 670, il quale ritiene che la revisione giudiziale del contratto non possa mai costituire concretizzazione del­l’esecuzione forzata dell’obbligo di rinegoziare, ma sia piuttosto integrazione equitativa del patto, alternativa e non attuativa della rinegoziazione. La considerazione – a parere dell’Autore – si giustifica alla luce della considerazione per cui si tratterebbe «semplicemente dell’ovvia applicazione alla negoziazione circa la modifica di un contratto già concluso, dei consueti principi di ogni trattativa». Ma, il ragionamento potrebbe esporsi a una critica: esso potrebbe essere condiviso solo nella misura in cui si adotti una prospettiva di analisi puramente empirica. Al contrario, l’adozione di una metodologia giuridica che propugni un procedimento conoscitivo fondato non sull’astrazione dei concetti, ma sull’esame del «problema» e la comprensione del contesto sospingerebbe l’inter­prete a considerare la necessità di una ricostruzione del «sistema», in punto di sistematica del fenomeno della rinegoziazione (si allude alla riflessione sulla dogmatica giuridica condotta da L. Mengoni, Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico, in Jus, 1976, I-II, 3 ss.).

[95] P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, in Giur. it., 1999, I, 231 [cors. orig.].

[96] Così O.T. Scozzafava, Appunti sulla rinegoziazione, in Riv. crit. dir. priv., 2021, I, 129.

[97] In questi termini, M. Barcellona, Appunti a proposito di obbligo di rinegoziare e gestione delle sopravvenienze, in Europa dir. priv., 2003, III, 467 ss., spec. 501, il quale si spinge a ridurre la vivacità del dibattito dei giuristi nazionali, e non solo, intorno ai temi della revisione, della rinegoziazione e dell’obbligo di rinegoziare all’esigenza da questi avvertita di appagare lo spirito, prevedendo – con uno sconsolante sarcasmo – che «l’obbligo di rinegoziazione troverà sempre maggiore fortuna nei sistemi giuridici contemporanei: fa sentire più buoni e non costa nulla».

[98] Già nell’intendimento della Corte di giustizia (Corte giust. 25 novembre 2020, causa C-269/19) non si comprende se le trattative postume siano un mero auspicio o sostanzino il contenuto di un ordine del giudice, non fornendo la giurisprudenza alcuna risposta alla questione volta a stabilire cosa il giudice possa fare, se le parti non rinegoziano.

[99] F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, Giappichelli, 2015, 594, ritiene che «nell’ottica della conciliazione di conservazione e adeguamento, sembra più congruo un obbligo di rinegoziare che si arresti alla necessità di instaurare le trattative necessarie a concordare le modifiche e poi di intraprenderle con determinazione, in ossequio alla buona fede. Se la rinegoziazione costituisce una forma di esaltazione dell’autonomia privata, il contenuto dell’obbligo che la presidia deve essere tale da limitarsi a sollecitare l’auto­determinazione delle parti e non già anche da renderla un atto dovuto negli esiti, sino al punto di attivare meccanismi rimediali surrogatori dell’accordo negoziale».

[100] Così Corte giust. UE 25 novembre 2020, causa C-269/19, § 42.

[101] M. Libertini, Alla ricerca del “diritto privato generale” (Appunti per una discussione), in Riv. dir. comm., 2006, I, 541 ss.

[102] In tal senso, S. Pagliantini, I nuovi luoghi di una parte generale del contratto e la Cattedrale dei contratti bancari, in Contratti, 2018, III, 253 ss.

[103] C. Camardi, L’autonomia privata fra codice civile e statuti speciali. La parte generale del contratto e le prospettive di riforma, in E. Navarretta (a cura di), La funzione delle norme generali sui contratti e sugli atti di autonomia privata. Prospettive di riforma del Codice civile, Giappichelli, 2021, 57.

[104] Così V. Scalisi, La conclusione, cit., 330. V. anche P.G. Monateri, La sineddoche, Giuffrè, 1984, 189 ss.

[105] «Tanto [è] vero che [il principio della responsabilità e quello dell’affidamento] si applicano solo nelle situazioni anormali o eccezionali, in cui vi è mancanza o vizio del volere e l’una ovvero l’altro per un verso sono dovuti a dolo o colpa del dichiarante, per l’altro non sono riconoscibili dalla controparte»: così L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Morano, s.d. [ma 1948], (rist., E.S.I., 2011), 85, nonché 67 ss. A sostegno della considerazione svolta nel testo milita il pensiero di M. Dossetto, Condizioni generali di contratto, in Noviss. Digesto it., III, Utet, 1957, 1109 ss., spec. 1110 s., nonché A. Genovese, Le condizioni generali di contratto, Cedam, 1954, 46 ss., i quali – con riferimento alle condizioni generali di contratto – ebbero a sostenere che i limiti all’efficacia di queste ultime si spiegano proprio in ragione del principio della volontà temperato da quello della responsabilità [enfasi aggiunta].

[106] Così G. Gorla, Il dogma del «consenso» o «accordo» e la formazione del contratto di mandato gratuito nel diritto continentale, in Riv. dir. civ., 1956, II, 923 ss., che – pur riconoscendo la necessità del consenso come ragione ultima del vincolo giuridico – tenta di dimostrare che il consenso non è uno e uniforme per tutti i tipi di affari, «ma è strutturalmente diverso per ciascun tipo, in quanto ne rappresenta il contenuto, i caratteri e gli effetti giuridici particolari e, in definitiva, la stessa “causa” della promessa». La critica di Gorla al concetto giusnaturalistico di consenso come base dell’obbligazione contrattuale si spiega anche alla luce della definizione di «causa contrattuale» proposta dal medesimo Autore: si rinvia a Id., Il contratto. Problemi fondamentali tratti con il metodo comparativo e casistico. I. Lineamenti generali, Giuffrè 1955, 199 ss., nonché 463 ss.

[107] Cfr. G.B. Ferri, La volontà privata e la teoria del negozio giuridico, in Dir. giur., 1997, ora in Id., Il potere e la parola e altri scritti di diritto civile, Cedam, 2008, 339 ss., che riflette sul ruolo della volontà nella teoria del negozio giuridico, dimostrando come l’una e l’altra non siano temi demodés. Anzi, perentoriamente afferma che «nel valore che l’autonomia dei privati esprime, resta evidentemente fondamentale il ruolo che sono chiamate a svolgere, la volontà, la libertà e consapevolezza che alla sua realizzazione debbono presiedere» [cors. orig.].

[108] Esclusivamente in questo senso, N. Irti, Il negozio giuridico come categoria storiografica, in Id., Letture bettiane sul negozio giuridico, Giuffrè, 1991, 43 ss., ora in Destini dell’oggettività. Studi sul negozio giuridico, Giuffrè, 2011, 62 ss.

[109] E. Scoditti, Contratto, cit., 430.

[110] C. Salvi, Diritto postmoderno, cit., 865 ss.

[111] N. Lipari, Introduzione a Id. (a cura di), Diritto privato europeo, I, Cedam, 1997, 11.

[112] Secondo G.B. Ferri, La «cultura» del contratto e le strutture del mercato, in N. Lipari (a cura di), Diritto privato europeo e categorie civilistiche, E.S.I., 1998, 155 s., spec. 163 ss., nemmeno il diffondersi di «individualità plurali», espressivo dell’emersione di nuove forme di status, riesce a scardinare la cultura del contratto.

[113] Si allude alla nota formula di H.S. Maine, Ancient Law, Murray, 1861 (trad. it. di V. Ferrari, Diritto antico, Giuffrè, 1998), 91 ss. e 129 s.

[114] Così F. Vassalli, Arte e vita nel diritto civile (prolusione romana del 1930, poi pubblicata in Riv. dir. civ., 1931, I, 109-27, ora in Id., Studi giuridici, II, Giuffrè, 1960, 395 ss., spec. 399).

[115] P. Rescigno, Situazione e status nell’esperienza del diritto, in Riv. dir. civ., 1973, I, 209 ss., spec. 222, ritiene preoccupante la propensione ad una fuga dal contratto, che – secondo M. Barcellona, Diritto, sistema e senso. Lineamenti di una teoria, Giappichelli, 1966, 359 s. – non potrebbe in concreto mai compiersi in un’economia di mercato, che «per un verso è l’esito delle singole contrattazioni (non c’è mercato senza scambi, e quindi senza contratti), per un altro verso è anche la misura delle singole contrattazioni (= ogni trattativa si intraprende sulla base delle condizioni di mercato)».