Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Diritto privato e interessi generali. Profili storico-sistematici (di Giuseppe Portonera, Assegnista di ricerca in Diritto privato – Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)


La dialettica tra interessi individuali e interessi generali segna tradizionalmente una linea di confine tra diritto privato e diritto pubblico. Essa non si sviluppa, però, soltanto lungo il discrimen tra i settori dell’ordinamento, dal momento che, come branche del diritto pubblico possono farsi carico della tutela dei primi, così il diritto privato fornisce rappresentanza al punto di vista dei secondi. Oggetto dello studio è verificare, anche per mezzo di una indagine di tipo storico, fino a che punto il sistema di diritto privato possa offrire ospitalità a interessi generali: per essere più precisi, per quali ragioni e in quale estensione possa farsene carico in un modo che risulti compatibile con la logica interna del sistema.

Private law and public interests. Historical and systematic outlines

Traditionally, the dialectic between individual and public interests marks a dividing line between private and public law. However, the dialectic does not only develop along this line, for as branches of public law can assume the protection of the former, so private law provides representation to the latter. The study, built upon a historical investigation, aims to ascertain to what point the private law system can accommodate public interests. To be more precise, it seeks the reasons and the extent to which the private law system can provide representation to public interests in a way that is compatible with the inner logic of the system.

SOMMARIO:

1. La «grande dicotomia» tra diritto privato e diritto pubblico e lo spazio per gli interessi generali nel diritto civile. Il sostegno di un’indagine di tipo storico - 2. I codici civili come costituzioni delle società borghesi - 3. “Rottura” dell’unità sociale e diritto post-borghese. Il Codice civile del 1942 - 3.1. La novità della Costituzione repubblicana e i suoi riflessi sul sistema del diritto privato - 4. L’orizzonte europeo: il «diritto privato regolatorio». In particolare, la tensione tra le diverse politiche del diritto del consumo e la nuova frontiera della sostenibilità - 5. Di quali interessi generali possa farsi carico il diritto privato, e secondo quale modalità. Il caso paradigmatico della responsabilità civile, tra criterio di imputazione oggettiva e funzione punitiva - NOTE


1. La «grande dicotomia» tra diritto privato e diritto pubblico e lo spazio per gli interessi generali nel diritto civile. Il sostegno di un’indagine di tipo storico

Quella fra diritto pubblico e diritto privato è stata notoriamente definita come una, se non la, «grande dicotomia» del pensiero giuridico occidentale [1]. Le sue radici affondano nella civiltà romana, che, dopo aver “inventato” l’idea del diritto [2], ha avvertito la necessità di distinguere – riproducendo le espressioni del celebre frammento ulpianeo (D. I. 1. 2) – tra ciò che spetta «ad statum rei Romanae» e ciò che spetta «ad singolorum utilitatem». C’è stato un tempo in cui questa distinzione era assunta come una categoria a priori del pensiero giuridico: una necessità logica, se non addirittura ontologica, prima di ogni formalizzazione ordinamentale, e – soprattutto – indisponibile alla modellazione da parte del legislatore [3]. Oggi, invece, è diffusa l’idea che la distinzione tra diritto pubblico e diritto privato si arresti sul piano delle definizioni meramente stipulative, di per sé né vere né false, ma solo più o meno adeguate alla classificazione dei concetti [4]. Non si tratta di prospettive propriamente “riduzionistiche”, come tali intendendosi quelle che negano la distinzione postulando l’annullamento di un diritto nell’altro (e si discorrerà, alternativamente, di «primato del diritto pubblico» o, di converso, di «primato del diritto privato» [5]), bensì di posizioni che possono dirsi “relativizzanti”.

A disegnare questa evoluzione hanno concorso l’acquisizione di una consapevolezza circa l’intrinseca storicità dei concetti giuridici e una certa interiorizzazione del pensiero normativistico nella forma mentis del giurista europeo. Sul primo versante, il costante oscillamento del pendolo tra organizzazioni della società più o meno fondate sul decentramento dei processi decisionali – e che trovano usualmente delle sintesi sul piano istituzionale nei termini di “Stato” e “mercato” [6] – ha indotto a ritenere che ciò che è pubblico e ciò che è privato dipenda, in buona sostanza, da ciò che si vuole considerare pubblico e ciò che si vuole considerare privato in base alle circostanze sociali, economiche e politiche di un dato momento storico. Sul secondo versante, la concezione che il diritto sia essenzialmente un insieme di disposizioni ha potuto suggerire l’idea che faccia poca differenza che la norma abbia carattere pubblicistico o privatistico, essendo comunque sempre ricondotta entro il diritto positivo (positum) dello Stato [7]. I due versanti risultano peraltro integrabili nel momento in cui si osserva che il secondo, con la sua dimensione formalistica, offre una giustificazione strutturale del primo, più centrato invece sulla “sostanza” della regola. A ciò va, inoltre, aggiunta l’influenza esercitata dal modello di common law, nel quale la distinzione fra diritto pubblico e diritto privato è stata storicamente avvertita come meno netta [8], complice anche il principio di unitarietà della giurisdizione [9].

Da ciò che precede pare eccessivo, e in proposito si tornerà di seguito, ritrarre che il discrimen tra diritto privato e diritto pubblico sia soltanto, per così dire, una linea tracciata sulla sabbia. Specialmente nella modernità giuridica, infatti, i due ambiti risultano distinguibili secondo una serie di criteri, il più comune dei quali è quello che si appunta sulla diversa natura dell’interesse, privato/individuale o pubblico/generale, che viene di volta in volta in rilievo [10]. Semmai, è opportuno rifuggire da schematismi rigidi [11], del cui effettivo valore euristico può invero dubitarsi, riconoscendo anzitutto la correlazione necessaria fra dimensione privata e dimensione pubblica del diritto, ossia tra l’esistenza della trama dei rapporti tra privati e l’esigenza di attribuire a questi ultimi un riconoscimento pubblico [12].

Pertiene comunque agli studi di teoria generale l’indagine circa la natura e l’estensione della faglia che corre lungo i due termini della grande dicotomia [13]. Questo lavoro ha, invece, un respiro più contenuto. L’os­servazione che ne costituisce il punto di avvio può così riassumersi: la dialettica tra interessi individuali e interessi generali non si sviluppa soltanto lungo il discrimen tra i settori dell’ordinamento, dal momento che, come branche del diritto pubblico possono farsi carico della tutela dei primi (e si pensi all’interesse legittimo cosiddetto pretensivo nel diritto amministrativo e, sia pure in un senso diverso, ai reati punibili a querela di parte nel diritto penale), così il diritto privato fornisce rappresentanza al punto di vista dei secondi. È opportuno chiedersi, però, fino a che punto quest’ultimo possa offrire ospitalità a interessi generali: per essere più precisi, per quali ragioni e in quale estensione possa farsene carico in un modo che risulti compatibile con la logica propria del sistema di riferimento [14].

A sostegno di questa verifica, soccorre anche una ricerca di tipo storico, la quale non può essere certo svolta con completezza e gusto propriamente conoscitivo, bensì dipanata con riferimento costante al problema – prettamente giuridico – oggetto dell’indagine. Pertanto, la ricognizione e l’analisi dei presupposti sociali, economici, politici e filosofici che si sono succeduti nel tempo sarà ordinata alla ricostruzione delle modalità con cui le varie “stagioni” del diritto civile hanno interpretato e attuato il rapporto tra interessi individuali e interesse generale. Lungo questa via, si conta di rischiarare quei profili problematici che interpellano, ancora oggi, il giurista.


2. I codici civili come costituzioni delle società borghesi

L’indagine storica mostra che non sempre – e, dunque, non necessariamente – la sfera degli interessi privati e quella degli interessi pubblici sono apparse riconoscibili nella loro indipendenza. Di contro, si sono avute esperienze in cui le due sfere sono state ritenute armonizzabili al punto da renderle osmotiche. Nel giusnaturalismo medievale, ad esempio, i diritti individuali non erano soltanto preordinati al conseguimento del bene comune, ma riconosciuti in ragione di quest’ultimo. La proprietà, che è l’archetipo del diritto soggettivo, viene giustificata da San Tommaso d’Aquino alla stregua di un diritto “naturale” non nel senso in cui questo termine viene ormai comunemente impiegato – ossia come sfera di libertà che precede l’orga­niz­zazione politica e che da quest’ultima va difesa – bensì nel senso di essere conforme allo sfruttamento delle cose più compatibile con il bene comune, perciò corrispondendo alla migliore “natura” delle cose medesime [15].

Nella società borghese, questa armonia tra la sfera dell’interesse privato e quella dell’interesse pubblico è mantenuta, sia pure declinata da una prospettiva inversa: non è più, infatti, l’interesse privato a identificarsi con l’interesse pubblico, ma quest’ultimo a risultare, di “riflesso”, nel primo. L’ordine sociale è infatti fondato sul «postulato fisiocratico dell’esistenza di una legge naturale che produce la coincidenza dell’interesse individuale, liberamente perseguito, con l’interesse generale» [16] – postulato che viene recepito nel prodotto normativo per eccellenza di questo tempo: i codici civili. Questi ultimi, si è detto, sono state le costituzioni delle società borghesi, e i principi codicistici – proprietà privata, autonomia contrattuale, concorrenza, responsabilità centrata sulla colpa, libertà di testare – altro non erano che i canoni politici su cui le società del XIX secolo si fondavano [17]. Detto altrimenti, in un momento in cui il diritto pubblico era ancora e sostanzialmente soltanto norma di organizzazione delle istituzioni, i codici civili hanno tradotto il linguaggio politico delle libertà individuali nella forma giuridica del diritto soggettivo quale signoria del volere [18]. E il «significato costituzionale» [19] delle codificazioni privatistiche era confermato dall’attrazione nel loro ambito normativo di regole inerenti al rapporto tra il cittadino e il sovrano – e si pensi, tra le altre, alle norme sul godimento dei diritti civili, a quelle sulla cittadinanza, a quelle sulla famiglia, a quelle sull’espropriazione per pubblica utilità, per finire con le cosiddette preleggi, le quali hanno carattere generale e trasversale a ogni ramo dell’ordinamento, e sono state nondimeno sempre anteposte al codice civile [20]. Come ha scritto, tra i primi, Gioele Solari, i codici hanno insomma rappresentato «l’attuazione dell’idea individuale nei rapporti civili. […] [L]e Codificazioni miravano ad assicurare la libertà civile dell’individuo nella sua vita privata contro le indebite ingerenze del potere politico» [21], attestandosi così sul terreno della separazione tra Stato e società civile coltivata dal pensiero liberale classico [22].

Non che nelle codificazioni ottocentesche mancassero norme che facessero emergere un autonomo rilievo degli interessi generali. D’altronde, Settecento e Ottocento saranno pur stati «due secoli l’un contro l’altro armato», ma entrambi hanno concorso a definire il modello di società borghese: e se il primo ha spezzato i legami feudali, accelerato il passaggio dallo status al contratto e aperto la strada alla società industriale, il secondo ne ha temperato gli eccessi, rifiutandone le spinte di maggiore rottura, e ha ricostituito, sulle basi post-rivoluzionarie, l’equilibrio tra ordine e libertà [23]. Si pensi all’art. 1108 del Code Napoleon, il quale richiedeva, tra i requisiti indispensabili per la validità dell’obbligazione, la presenza di una «Une cause licite dans l’obligation»; o, ancora, all’art. 12 delle preleggi al codice civile del 1865, a norma del quale «in nessun caso, […] le private disposizioni e convenzioni potranno derogare alle […] alle leggi riguardanti in qualsiasi modo l’ordine pubblico ed il buon costume». Questo rilievo, però, espresso nella forma negativa del limite alla signoria del volere individuale, si connota peculiarmente là dove si pone mente al fatto che la società borghese si fondava su un’idea di “libertà ordinata” e non su una, per così dire, di “libertà libertaria” [24]. Nel­l’espressione di un limite, insomma, poteva scorgersi una conformazione che operava invero già sul piano interno dello stesso diritto, ossia di una determinazione del suo contenuto in funzione di determinati valori [25]: sicché, come nel giusnaturalismo medievale i diritti individuali venivano riconosciuti in ragione del bene comune, così nella società borghese – composta da “buoni cittadini”, con obblighi verso i consociati, la patria e Dio – non si concepiva un esercizio delle libertà incoerente con il quadro condiviso di valori morali (i boni mores) in cui era ben saldo l’orizzonte di riferimento [26].


3. “Rottura” dell’unità sociale e diritto post-borghese. Il Codice civile del 1942

Nel momento in cui le masse, portatrici di interessi antagonisti a quelli del gruppo sociale fino allora dominante, fanno il loro ingresso sulla scena politica, si consuma ciò che Massimo Severo Giannini ha definito come il passaggio dallo Stato monoclasse a quello pluriclasse [27]. In questo nuovo contesto – nel quale l’idillio borghese di una società coesa nei valori di fondo si rivela un’illusione, e nel quale, quindi, non è più possibile ridurre l’interesse generale a mero riflesso di quelli individuali – il piano normativo è divenuto il luogo della mediazione e della composizione tra interessi divergenti. Ne è stata conseguenza l’avvio di quel processo di giuridicizzazione dei rapporti sociali, che prosegue – sia pure, di volta in volta, con forme e modalità diverse – fino ad oggi. Suoi cardini sono stati, per un verso, l’espansione dei pubblici poteri (anche in campo economico) [28] e, per altro verso, una «politicizzazione del diritto» che è il riflesso «del pluralismo sociale nel tessuto dell’ordinamento» [29]. Se pure il diritto privato “monoclasse” borghese non può essere derubricato a mero mezzo di soddisfazione di interessi gretti ed egoistici (come prova il fatto che le infrastrutture di quell’ordine – su tutte: proprietà [30], contratto [31], impresa [32] – vengono ancora riconosciute come tasselli fondamentali dei sistemi liberal-democratici contemporanei [33]), nondimeno è chiaro che, in una società pluralista, non è più possibile «ridurre il diritto a mera tecnica di organizzazione sociale, misconoscendone la funzione di realizzare storicamente un sistema di valori distinto e sovraordinato ai valori puramente economici» [34].

Di fronte al processo di profonda trasformazione dell’assetto socio-economico, dei rapporti politici e della cultura generale che ha avuto luogo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo [35], la reazione dei legislatori europei è stata quella di creare una sorta di doppio binario all’interno del sistema del diritto privato: si voleva mantenere la codificazione, in linea con l’esperienza storica, dominio dell’individualismo liberale, attribuendo invece la funzione di politica cosiddetta sociale alle leggi speciali [36]. Ma negare che il diritto privato nel suo complesso, e non solo nelle sue periferie, avesse un «compito sociale» era, come la dottrina di lingua tedesca più sensibile ai mutamenti socio-economici dei primi decenni del XX secolo ha messo prontamente in evidenza [37], un’ombra lunga proiettata da un faro ideologico ormai indebolito. Sarà perciò «l’immane cataclisma della conflagrazione mondiale», per citare Filippo Vassalli [38], a schiudere dolorosamente le porte di quel «secolo breve» in cui il riassestamento, sul piano politico, della relazione tra individuo e società ha avuto quale conseguenza la ridefinizione del contenuto e dello scopo delle regole di diritto privato: non più soltanto recepimento sul piano giuridico di un assetto “naturale” dei rapporti sociali ed economici, bensì anche strumento di loro modificazione in vista di obiettivi di giustizia o di utilità sociale.

Per quel che più direttamente ci riguarda, è evidente che la “nuova” codificazione italiana del 1942 – la cui commissione preparatoria fu presieduta proprio da Vassalli – esibisca un carattere “post-borghese” [39], come testimoniato dal fatto che, al contrario della codificazione del 1865, gli interessi generali ricevono riconoscimento non già nella filigrana della tutela di quelli individuali, ma reclamano la capacità di conformare la dinamica dei rapporti inter-personali [40].

Già sul piano della normativa delle fonti delle obbligazioni si assiste a un superamento delle categorizzazioni tradizionali, di derivazione romanistica, in favore di una elencazione “aperta” e “progressiva” (art. 1173 cod. civ.) [41]. All’interno di quest’ultima, il riferimento a «ogni altro atto o fatto idoneo» a produrre obbligazioni «in conformità dell’ordinamento giuridico» svincola le condizioni di genesi del vinculum iuris dalla sola signoria del volere, presidiata dal cosiddetto principio del contratto, al contempo non subordinandole esclusivamente all’eteronomia della legge – che può essere concepita, almeno in una certa misura, in funzione garantistica della libertà individuale (si veda ora l’art. 23 Cost.) – bensì rendendole permeabili a quelle istanze di tutela che emergono in una società complessa e dinamica, pluralistica e conflittuale [42].

Anche la scelta di far confluire la disciplina del diritto del lavoro e dell’impresa nell’unitaria codificazione civilistica può essere letta attraverso il prisma del rilievo attribuito al punto di vista dell’interesse generale. L’originaria impostazione del libro V era infatti segnata dall’aspirazione di indirizzare la nascente società industriale avanzata verso un modello di società pacificata di produttori [43], impiegando a tale scopo gli strumenti (nuovi) del diritto civile: la previsione di limiti all’esercizio dell’autonomia individuale attraverso norme inderogabili che si sostituiscono ad essa; l’attribuzione al giudice di poteri equitativi per la determinazione di elementi del contratto lasciati indeterminati dalle parti; l’incremento dell’autonomia collettiva quale fonte di disciplina di certi rapporti etc. [44].

Volgendosi al campo più propriamente privatistico, si individuano diverse ipotesi che assumono l’interesse generale come matrice di riferimento.

In primo luogo, l’interesse generale si pone quale limitazione del diritto individuale. Così è nel caso della proprietà: l’ordinamento non si premura più soltanto di istituire un sistema di riconoscimento pubblico del diritto soggettivo, elemento che già di per sé risponde a considerazioni di ordine generale, quali la certezza dei titoli proprietari e dunque la loro stabilità, per un verso, e la loro capacità di circolare più rapidamente sul mercato, per altro verso [45]; di converso, esso interviene direttamente sullo statuto normativo del diritto di proprietà, facendolo oggetto di precisi vincoli giustificati da principi di utilità sociale. Come chiarito dall’art. 832 cod. civ., il contenuto del diritto di proprietà resta sempre il potere di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, ma l’ordinamento non lo riconosce più in modo ab-solutus, attribuendo invece rilevanza al punto di vista degli obblighi nei confronti dei consociati e delle funzioni sociali che i beni possono svolgere [46]. Ciò si spiega alla luce del mutamento delle premesse filosofiche, fatte proprie dal legislatore storico, che fondano il principio della proprietà privata come elemento costitutivo dell’ordinamento giuridico, nonché dell’evoluzione in senso industriale del sistema economico in cui tale principio è destinato a operare [47].

Anche l’autonomia privata conosce vincoli nuovi [48], e tra i più vistosi può menzionarsi l’art. 1339 cod. civ.: pure in questo caso, l’interesse generale – individuato nella sottrazione alla fluttuazione del prezzo di certe categorie di beni o di servizi, secondo la legge della domanda e dell’offerta – va a limitare la libertà di contrattazione dei singoli [49].

In altri casi, quantitativamente non trascurabili, l’interesse generale è assunto come criterio di composizione del conflitto tra diritti individuali tra loro incompatibili. Così, viene ribadito – con un guadagno di chiarezza rispetto alla lettera dell’art. 1942 del codice del 1865 [50] – che l’acquirente di un bene immobile che ha trascritto per primo viene preferito, anche se l’acquisto è posteriore (art. 2644 comma 2 cod. civ.), perché il meccanismo di pubblicità immobiliare è posto a tutela dell’interesse generale alla sicurezza della circolazione di determinate categorie di beni e, in apicibus, a quella certezza dei traffici giuridici che il principio di derivazione giusnaturalistica del puro consensualismo – che si confà all’ideale del diritto soggettivo come signoria del volere – non è in grado di assicurare, e anzi, in una certa misura, addirittura minaccia [51].

Ancora, nel caso in cui taluno abbia adoperato una materia che non gli apparteneva per formare una nuova cosa, il risultato dell’iniziativa non concertata dei fattori di produzione (lavoro – materia prima) viene attribuita allo specificatore, salvo che il valore della materia sorpassi notevolmente quello della mano d’opera (art. 940 cod. civ.). La soluzione legislativa deriva da una precisa scelta che, seppur non originale sul piano storico, assume uno specifico valore proprio alla luce della temperie culturale coeva alla codificazione del ‘42, la quale – sull’onda lunga dell’incipiente industrializzazione – ha individuato l’interesse generale nella dinamizzazione dei processi creativi innescati dall’iniziativa privata e non nella tutela statica della proprietà [52].

Un discorso analogo va fatto, infine, per i cosiddetti acquisti a non domino, nei quali – pur mancando il tratto unificante di una categoria dogmatica omogenea [53] – si riscontra un coerente disegno di politica del diritto volto a favorire il commercio, anche quando ciò comporti il sacrificio dell’interesse del proprietario nei confronti del terzo acquirente. Come è stato osservato, «La protezione dell’acquisto del terzo inconsapevole della mancanza di legittimazione del suo dante causa non è perciò l’obiettivo finale della legge, ma rappresenta il medium attraverso cui viene realizzato il vero obiettivo di carattere generale della normativa sugli acquisti a non domino, ossia la tutela della circolazione dei beni» [54].

Al piano degli interessi generali può farsi riferimento anche a proposito dei meccanismi di riconoscimento della giuridicità dell’esercizio di libertà individuali, l’esigenza dei quali è maggiormente avvertita in un contesto sociale pluralista. L’esempio più importante è offerto dalla disciplina delle invalidità del contratto, che è stata costruita non soltanto recependo la classificazione dogmatica di ascendenza pandettistica [55], ma anche il punto di vista privilegiato dal diritto tedesco: quello di un controllo pubblico sul momento genetico dell’impegno negoziale [56]. È la presenza di un interesse generale a giustificare l’attribuzione della legittimazione all’azione di nullità a chiunque vi abbia interesse, nonché la rivelabilità officiosa della nullità da parte del giudice (art. 1421 cod. civ.), laddove il vizio che conduce all’annullamento del contratto può invece essere fatto valere «solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge» (art. 1441 cod. civ.) [57].

E si pensi, ancora, alla causa, che è il codificatore del ‘42 ha preso in considerazione non più quale elemento proprio dell’obbligazione, com’era con il codice del 1865, bensì quale requisito necessario del contratto (art. 1325 cod. civ.). La causa codicistica, nella sua dimensione “astratta”, è stata addirittura intesa come strumento di controllo dirigistico sull’autonomia privata, e per questo motivo ne è stata in seguito proposta una rilettura in chiave “concreta”, come sintesi degli effetti che le parti vogliono perseguire con l’eserci­zio di autonomia [58]. Tuttavia, nell’interpretazione – per così dire – “originalista” della causa come funzione “economico-sociale” [59] del contratto non si trova soltanto un istinto autoritario, bensì anche quell’esigenza che l’ordinamento ha di rendere meglio intelligibile una manifestazione di consenso [60], selezionando i contratti, nonché gli atti unilaterali (art. 1324 cod. civ.), cui attribuire la «forza di legge» (art. 1372 cod. civ.) secondo un parametro di regolarità sociale [61]. Allo stesso modo, l’art. 1322 comma 2 cod. civ., se per un verso riconosce la possibilità dell’esercizio dell’autonomia contrattuale secondo schemi innominati, per altro verso la subordina alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico [62]. Pur interpretando anche questa norma in senso “liberale”, e cioè intendendo il requisito della meritevolezza nel senso debole della “non immeritevolezza” [63], resta fermo che non a qualsiasi contratto, per il solo fatto di essere atto di autonomia, può essere attribuita rilevanza giuridica. Proprio perché si tratta pur sempre di una autonomia che chiede una tutela giuridica, infatti, essa deve rendersi disponibile a un controllo secondo la razionalità generale dell’ordinamento [64].


3.1. La novità della Costituzione repubblicana e i suoi riflessi sul sistema del diritto privato

Se disposizioni come quelle analizzate nel paragrafo precedente sono qualcosa in più che mere «gocce di olio sociale» fatte scivolare negli ingranaggi individualistici del diritto privato comune, in dottrina si è comunque affermato che il legislatore del ‘42 ha mancato l’occasione storica della nuova codificazione per sviluppare un prodotto normativo all’altezza del «compito sociale» del diritto privato. Sul piano dei presupposti politico-culturali, infatti, «le vecchie idee-forza erano sì logore, ma non erano ancora mature le nuove» [65], mentre sul piano della tecnica giuridica «non si è andati alla codificazione battendo l’unica strada seriamente percorribile: quella di una ricognizione convinta e approfondita della legislazione particolare da cui far spiccare lo statuto complessivo degli istituti onde poterli ritrarre nel codice in maniera realistica» [66].

È nei decenni successivi al secondo dopoguerra che l’interesse per la relazione tra interessi generali e interessi individuali ha guadagnato nuova attenzione, e l’ha guadagnata non più ai margini del diritto privato comune, bensì direttamente al cuore dell’attività legislativa e della ricerca scientifica.

All’origine di questo cambio di prospettiva sta la Costituzione repubblicana, con il nuovo modello di società e di relazioni tra l’individuo e la collettività cui essa ha messo capo. In seno all’Assemblea costituente, Giorgio La Pira aveva addirittura proposto di riconoscere espressamente la “finalizzazione” dell’esercizio dei diritti individuali al conseguimento del bene comune [67], secondo una prospettiva neo-giusnaturalista che richiamava peraltro l’esempio del costituente weimariano. Quest’ultimo, infatti, in riferimento all’archetipico diritto soggettivo, quello cioè di proprietà, aveva proclamato: «Eigentum verpflichtet. Sein Gebrauch soll zugleich Dienst sein für das Gemeine Beste» («La proprietà obbliga. Il suo uso deve essere allo stesso tempo al servizio del bene comune»: Art. 153). Benché la proposta di La Pira non ebbe seguito, la Costituzione ha reso manifesto il legame tra le libertà del singolo e gli obblighi del vivere in società, come si evince – solo per fare alcuni tra i più famosi esempi – dalla messa in rapporto tra diritti inviolabili e doveri inderogabili all’art. 2 e dalle notevoli limitazioni all’esercizio dell’iniziativa economica e al godimento dei beni di cui agli art. 41 e 42. Pur senza cadere nella trappola della funzionalizzazione, che gli anni immediatamente precedenti alla fase costituente avevano rivelato come mezzo di subordinazione della persona umana allo Stato totalitario, il nostro ordinamento costituzionale ha accolto l’idea che il riconoscimento e l’esercizio delle libertà individuali non è fine solo a sé stesso, ma concorre a organizzare un “migliore” modello di società. In ciò sta l’essenza del principio «solidaristico», ossia quello per cui l’esercizio delle libertà deve tenere conto anche del bene comune, perlomeno nel senso minimale – esplicitato dall’art. 41 comma2, con riguardo all’esercizio della libertà di intrapresa – di non perseguire il proprio interesse individuale in contrasto con l’utilità sociale e con l’interesse generale al rispetto della sicurezza, della libertà e della dignità umana [68].

Come ben noto, l’enunciazione dei valori costituzionali ha spiegato diversi effetti sul sistema del diritto privato [69].

Uno tra questi è stato quello di consentire una più matura comprensione di alcuni istituti civilistici [70], aprendo a quella esplicitazione di punti di vista valoriali che dalla dottrina tedesca è stata descritta come Materialisierung des Privatrechts [71]. Si pensi alla clausola generale di buona fede, che è stata valorizzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza del secondo dopoguerra grazie all’associazione – seppur svolta in alcune occasioni in modo sbrigativo e irriflessivo – con il principio di solidarietà costituzionale. Nella regola di buona fede si è scorto il meccanismo per l’eticizzazione dei rapporti tra creditore e debitore, non soltanto nella forma minima del divieto di abusare del proprio diritto (cui può ricondursi l’idea di correttezza in senso stretto), bensì in quella di obblighi che si aggiungono all’obbligo di prestazione, nel senso o di integrarlo (obblighi strumentali) o di affiancarsi ad esso, al fine di presidiare interessi diversi da quelli afferenti alla soddisfazione del diritto di credito (obblighi di protezione). Pur muovendosi sempre sul piano dei rapporti individuali, è indubbio che questo “arricchimento” del rapporto obbligatorio, che dunque non trova più la propria fonte esclusiva nell’accordo, sia conforme a un canone di interesse generale, dal momento che riflette quell’afflato solidaristico che è proprio del modello costituzionale di organizzazione sociale. Ancor più significativa è stata la possibilità di giustificare, proprio in ragione del principio di cui all’art. 2 Cost., l’estensione del regime degli obblighi di protezione anche nei confronti di terzi esposti al rischio specifico creato dal rapporto obbligatorio [72].

La penetrazione dei valori costituzionali nel tessuto dei rapporti individuali si è registrata anche con riferimento alla responsabilità civile [73]. Attenta dottrina, ad esempio, ha potuto impiegare il principio solidaristico, declinato nell’interesse generale ad allocare il costo del danno secondo il minimo inconveniente possibile per la società, quale criterio con cui ricondurre ad unità le due species di responsabilità civile, per colpa e oggettiva, facendone emergere il comune effetto di deterrenza nei confronti dell’evento distruttivo di ricchezza [74].

In altre occasioni, la novità della Costituzione è stata invece intesa in senso antagonistico al sistema del diritto privato come consegnato dalla storia. Alcuni studiosi hanno evocato la scelta in favore delle classi “subalterne”, che si assumeva «già operata dalla Costituzione repubblicana» [75], per battere la via del cosiddetto «uso alternativo del diritto», ossia del superamento, in chiave marxista, delle strutture economiche borghesi recepite dalla “sovrastruttura” codicistica [76]. Questa esperienza ha rappresentato, anche per il suo dichiarato retroterra ideologico, una delle punte di massima frizione tra interesse generale e interessi individuali all’interno del diritto privato, e certo ha contributo – tra le altre cose – a delineare un modello (anche questo) alternativo rispetto a quello di tradizione liberale (pur recepito senza incertezze dalla stessa Costituzione: art. 101) del rapporto tra interprete, specie se giudiziale, e legislatore [77].

Meno problematica, dal punto di vista delle fonti, seppur carica di risvolti politici, è stata l’espressione di quell’antagonismo nel campo del diritto positivo, ove il profluvio di leggi speciali ha inaugurato quella che è stata icasticamente definita come «età della decodificazione». In questo contesto, la legislazione ordinaria «può e deve perseguire dati fini, che, dunque, vengono sottratti alla scelta ed alla valutazione di convenienza dei privati. […] La selezione degli scopi rientra ormai nella competenza del legislatore, che perciò vuole in luogo dei privati o sollecita e promuove le loro volontà verso specifici traguardi» [78]. Il risultato è una vigorosa compressione dell’autonomia privata, che diviene oggetto di quelle che sono state definite, con accento critico, «regole di organizzazione guidate da uno scopo» [79].

L’esempio più vistoso è indubbiamente offerto dalla politica della “programmazione”, promossa dalle coalizioni di centrosinistra a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, la quale ha segnato il passaggio da un contesto in cui gli interventi pubblici assolvevano la funzione di limite esterno e negativo all’iniziativa economica privata, secondo la prospettiva dell’art. 41 comma2 Cost., a uno in cui essi operavano come mezzo di diretto conseguimento dei «fini sociali» (art. 41 comma3 Cost.) individuati dalla volontà formalizzata nel programma [80]. Pur facendo salva la struttura e la funzione dell’autonomia privata, quale criterio di qualificazione giuridica senza bisogno di alcuna giustificazione materiale (stat pro ratione voluntas), la programmazione ha introdotto una serie di pressanti vincoli alla sua esplicazione, per esempio restringendo la rilevanza giuridica dell’atto come fonte del regolamento posto in essere dalle parti e, corrispondentemente, allargando la portata della concorrente fonte di disciplina eteronoma [81]. Si pensi, a tal proposito, alla legge sull’equo canone (27 luglio 1978, n. 392), la quale fissava autoritativamente il contenuto economico del contratto di locazione: il proprietario dell’immobile restava libero di scegliere se e con chi stipulare il contratto, ma il suo interesse a conseguire le migliori condizioni contrattuali possibili (derivanti anche dal gioco della domanda e dell’offerta) veniva sacrificato di fronte a quello, giudicato preminente in quanto generale, a favorire l’accesso all’abitazione, anche per mezzo di un calmiere dei prezzi [82].

Non può, infine, non farsi cenno alla cosiddetta Drittwirkung, giacché la questione dell’efficacia dei principi costituzionali non solo nei rapporti verticali tra Stato e cittadino, ma anche in quelli orizzontali tra cittadino e cittadino, si interseca ovviamente con il nostro discorso. Proprio con riferimento a questo fenomeno, si fa pregnantemente parola di una “costituzionalizzazione” del diritto privato [83], sebbene appaia forse più preciso parlare di una sua ri-costituzionalizzazione nel segno dei nuovi valori ordinamentali, se si rammenta che la codificazione privatistica esprimeva già di per sé un «significato costituzionale» [84]. In particolare, il post-positivismo – che segna non l’abbandono tout court del positivismo, ma il suo superamento nella misura in cui istituzionalizza i valori morali nella carta costituzionale e allunga le vie della legittimazione delle norme – riconosce ai diritti fondamentali della persona, oltre la valenza classica di limiti del potere della maggioranza, la funzione di direttive oggettive di conformazione dell’ordinamento giuridico nel suo complesso, compreso pertanto il sistema di diritto privato [85]. In questo senso, i diritti fondamentali della persona finiscono per partecipare, pur con modalità ed estensioni differenti, sia della sfera relativa all’interesse individuale, sia di quella afferente all’interesse generale.

Proprio la Drittwirkung, allora, può espandere l’area di tutela degli interessi individuali, al contempo soddisfacendo in via mediata l’interesse generale: così è avvenuto nel momento in cui la giurisprudenza ha valorizzato il riconoscimento costituzionale dei diritti fondamentali della persona come mezzo per “liberare” l’art. 2059 cod. civ. dalle strettoie del solo illecito penalmente rilevante [86]. Essa può, però, porsi anche come momento di potenziale sconvolgimento intra-sistemico [87]. Così è, ad esempio, nel caso in cui il giudice cali, all’interno del rapporto contrattuale, un ideale di “giustizia contrattuale”, di cui si fa scopritore prima che interprete [88], con l’effetto di comprimere l’autonomia privata. Non è dubbio che una certa misura di “giustizia contrattuale” sia conforme all’interesse generale, come prova il fatto che il legislatore l’abbia filtrata in alcune disposizioni normative (rescissione, subfornitura, clausole vessatorie etc.). Tuttavia, l’autonomia è essa stessa un valore costituzionalmente tutelato, sia pure in assenza di una espressa previsione [89], costituendo pertanto un diaframma nei confronti dell’efficacia immediata o mediata in senso proprio di principi costituzionali altri [90]. In questo caso, allora, l’opera di mediazione tra l’interesse generale e quello individuale va lasciata al legislatore [91], sul quale peraltro ricade prioritariamente il dovere di dare attuazione al disegno costituzionale [92].


4. L’orizzonte europeo: il «diritto privato regolatorio». In particolare, la tensione tra le diverse politiche del diritto del consumo e la nuova frontiera della sostenibilità

Se la società moderna ha superato una certa indistinzione, propria della società borghese, tra i piani degli interessi privati e di quelli pubblici, un apparente salto all’indietro si è registrato con il diritto di derivazione europea. In particolare nella fase iniziale del processo di integrazione comunitaria, infatti, è riemersa la scelta di individuare l’ubi consistam dell’interesse generale nella garanzia del massimo grado di libertà individuale, specialmente quando questa si realizza nell’esercizio delle attività economiche. Non si tratta, come noto, di un recupero tout court del liberalismo borghese, né tantomeno dell’importazione sul continente europeo del liberalism di matrice anglosassone (che, pure, è opportuno ricordarlo, deve le sue fortune nel secondo Novecento a un gruppo di intellettuali austriaci [93]). Si tratta, invece, del modello, elaborato in seno al pensiero ordoliberale tedesco, di una «società basata sul diritto privato» (Privatrechtsgesellschaft[94], delle cui condizioni istituzionali – diritti di proprietà, iniziativa economica, concorrenza, certezza del diritto – lo Stato si fa garante. Non a caso, si è proposto di qualificare il diritto privato europeo come «diritto regolatorio» [95], mettendone in rilievo una funzione che – negli ordinamenti cosiddetti welfaristi – era attributo delle autorità pubbliche e oggetto di comandi e divieti [96].

La vocazione del diritto europeo a facilitare e incentivare le libertà individuali, servendo da ius commune di una società che su tali libertà sia basata [97], ha esercitato un’influenza positiva sui singoli ordinamenti nazionali, consentendo – tra le altre cose – di rivalutare, contro una sfortunata tendenza invalsa invece negli Stati nazionali del secondo dopoguerra, il legame tra libertà politica e libertà economica [98]. Calata nel contesto dell’ordinamento italiano, per esempio, quell’influenza ha sollecitato una rilettura teleologica dei poteri attributi dall’art. 41 comma3 Cost. alla legge, nel senso che i fini sociali, ai quali deve essere indirizzata dai pubblici poteri l’attività economica, non si individuano più con la programmazione dei risultati da conseguire con riferimento a determinate finestre temporali, ma con l’approntamento delle condizioni di garanzia strutturale inerenti al funzionamento del mercato in condizioni correttamente concorrenziali [99].

Tuttavia – complice anche una certa povertà analitica del diritto europeo, che non sembra riconoscere, quantomeno sul piano formale, la distinzione tra diritto privato e pubblico [100] – alle volte non risulta chiaro fin dove possa essere spinta la consonanza tra interesse generale e interessi privati, né in che modo veramente il rapporto tra i due si sviluppi. Si guardi, ad esempio, al prodotto normativo per eccellenza dell’Unione europea: il diritto dei consumatori. La dottrina più lucida ha da tempo avvertito una tensione, in seno a questo diritto secondo, tra due prospettive: l’una che guarda al consumatore come persona (muovendosi nei suoi confronti in un’ottica di protezione, alle volte persino paternalistica) e l’altra che pone il consumatore (più precisamente, le sue scelte di consumo) quale strumento per il perseguimento di obiettivi di concorrenza [101]. A ben vedere, il progressivo scivolamento dell’attenzione del legislatore europeo dal consumatore “debole” a quello “medio” pare aver preluso a un riallineamento degli obiettivi di politica del diritto dalla tutela della persona in quanto tale – cui assicurare capacità di preferenza in merito a modi, tempi e contenuti del consumo anche in quelle «situazioni in cui alla libertà di scelta non corrisponde un effettivo potere» [102] – alla garanzia delle condizioni di migliore efficienza del mercato [103].

Va da sé che il consumatore trae un beneficio prezioso da un adeguato sistema concorrenziale; tuttavia, se è l’interesse generale a costituire il punto di riferimento della disciplina, potrebbero pure autorizzarsi interpretazioni funzionalistiche che, nel nome dell’efficienza cui tendere per il guadagno sociale che ne consegue, finiscano per risultare favorevoli non al consumatore, bensì ad altri soggetti che operano sul mercato [104]. Si pensi, ad esempio, alla garanzia cosiddetta in forma specifica, che consente al consumatore di chiedere la riparazione del bene difettoso o la sua sostituzione (già art. 130 cod. cons., ora art. 135-bis cod. cons.). Non è indifferente che questa sia concepita come strumento nell’interesse (individuale) del consumatore ovvero nell’interesse (generale) dell’efficienza degli scambi: giacché solo nel primo caso, qualora il venditore non sia in grado di soddisfare adeguatamente questo interesse, il consumatore avrà diritto di essere rimesso nella condizione di ritornare sul mercato; di converso, nel secondo caso, la garanzia potrebbe finire per essere concepita come uno strumento per vincolare il consumatore al contratto, impedendogli di tornare sul mercato [105].

Peraltro, è da segnalare – perché rilevante ai fini del nostro discorso – un’ulteriore evoluzione dell’agenda politica dell’Unione Europea. Dopo un lungo periodo in cui la priorità era attribuita all’apertura dei mercati in senso concorrenziale, un’attenzione sempre maggiore è ormai riservata alla promozione della cosiddetta “sostenibilità”. Quest’ultima è, in verità, da sempre inscritta nel Trattato UE (art. 3 comma3), ma solo nel più recente passato – in concomitanza con l’emersione, nel dibattito pubblico, della questione del cosiddetto climate change e delle sue conseguenze sociali [106] – ha indotto l’UE ad assumere iniziative normative in proposito. Ad esempio, la Commissione europea ha avviato il processo di revisione della direttiva sui beni di consumo, segnalando la possibilità di rendere prioritaria l’opzione della riparazione del bene difettoso rispetto a quella della sua sostituzione (giacché quest’ultima è giudicata meno sostenibile sul piano ambientale), o persino di farne l’unico rimedio attivabile dal consumatore, ove questo abbia un costo minore o identico a quello della sostituzione [107]. Non più, dunque, una scelta tra i due rimedi alternativi, ma una gerarchizzata che si spiega in ragione della preminenza dell’interesse generale su quello individuale [108].

Questa opzione non è stata, infine, accolta nel testo della proposta di direttiva che ha fatto seguito alla consultazione promossa dalla Commissione. Essa non ha ottenuto, infatti, il sostegno della maggioranza degli Stati membri, i quali hanno fatto leva sull’aumento dei costi sostenuti dagli operatori, che verrebbe peraltro probabilmente incorporato nel prezzo finale di vendita del prodotto e dunque, in ultima istanza, scaricato sul consumatore [109]. La giustificazione in termini economicisti è certamente comprensibile, ma tradisce un punto di vista unilaterale tipico delle negoziazioni politiche che si sviluppano in seno alle istituzioni europee. Di converso, è sul diverso piano della razionalità del diritto che è opportuno muoversi. Se la sostenibilità è la grande questione dei tempi presenti, infatti, il diritto privato non può disinteressarsene né ritenersene intangibile, sicché non è una sorpresa che nel suo ambito faccia ingresso l’apprezzamento dell’interesse generale a uno sviluppo sostenibile, quale suo nuovo «compito sociale» [110]. È sempre bene ricordare, però, che il diritto privato si misura con le sfide della contemporaneità non alla maniera degli altri settori dell’ordinamento, bensì fornendo un contributo precipuo: nel caso che ci occupa, esso può consentire di mettere in presa diretta la questione della sostenibilità con la persona, senza che il rapporto sia mediato da considerazioni strumentali relative al mercato o alle condizioni generali dell’ecosistema [111].

Proprio questo carattere precipuo deve informare la mediazione tra l’interesse generale e quello individuale, suggerendo, ad esempio, l’adozione di incentivi di mercato alla riparazione in luogo della sostituzione o della risoluzione del contratto: e si pensi, allora, alla possibilità – che era stata valutata dalla stessa Commissione in sede di consultazione pubblica – di estendere il periodo di garanzia legale nel caso in cui il consumatore attivi il rimedio della riparazione, oppure di consentire una riparazione a prezzo agevolato – come alternativa all’acquisto di un nuovo bene – nel caso di esaurimento del periodo di garanzia.

Altra strada che merita di essere esplorata, per la mediazione elastica (anche se non scevra da controversi aspetti etici [112]) tra interesse privato e generale, è poi quella del cosiddetto nudging, nel quale si ritrova – sia pure filtrata dagli studi di behavioral economics e con la struttura peculiare dell’opt-out – una prospettiva ben nota al giurista italiano, ossia quella di incentivazione delle condotte umana propria del diritto cosiddetto promozionale [113].


5. Di quali interessi generali possa farsi carico il diritto privato, e secondo quale modalità. Il caso paradigmatico della responsabilità civile, tra criterio di imputazione oggettiva e funzione punitiva

L’excursus che abbiamo svolto prova che il rapporto tra interessi privati e interessi generali viene declinato secondo prospettive ricavate dal più generale orientamento di politica sociale ed economica dominante in ciascuna fase storica. Né potrebbe essere altrimenti, giacché il diritto privato è esso stesso prodotto sociale, e riceve dunque i suoi contenuti dall’esperienza umana che è chiamato a ordinare. Così, se lo Stato monoclasse ha potuto trattare gli interessi generali quasi come epifenomeno della tutela degli interessi privati, lo Stato pluriclasse (e poi pluralista) ha dovuto scandire i diversi piani, così da rendere possibile quel­l’ope­ra di mediazione del conflitto sociale che proprio l’interesse generale imponeva di svolgere [114]. E se con l’avvento del diritto europeo questa scansione in piani è divenuta più incerta, nondimeno essa resta ancora necessaria: in primo luogo, come direttiva commessa al legislatore; in secondo luogo, e di conserva, come parametro di interpretazione per sciogliere potenziali ambiguità dei testi normativi.

Come si è già scritto, non accedere a letture “liquidatorie” dei confini non significa anche irrigidirsi in sterili schematismi. Di converso, significa riconoscere che il confine esprime un valore: che è quello di restituire l’esistenza di un ordine tra materie diverse, così da rappresentare icasticamente il senso stesso di un ordinamento [115]. Per quel che più direttamente ci riguarda, all’esito della nostra ricerca ci appaiono due le questioni che si impongono all’attenzione del giurista. La prima, che involge la definizione degli spazi reciproci tra i termini della «grande dicotomia» pubblico-privato, ha a che fare con il tipo di interessi generali di cui il diritto civile può farsi carico. La seconda, interna al sistema di diritto civile, ha invece per oggetto il modo con cui quell’interesse generale, una volta accolto, può trovare espressione. A entrambe le questioni non può fornirsi una soluzione aprioristica: nell’un caso, perché si deve tenere conto della mutevole incidenza di fattori ideologici, culturali e sociali in senso ampio, nonché delle esigenze pratiche di una determinata fase storica [116]; nell’altro, perché la scienza giuridica più consapevole, pur mantenendo ferma l’esigenza di un discorso razionale e controllabile, non tratta le categorie alla stregua di noumeni, ma le sottopone al vaglio dei problemi, ammettendone di conseguenza una relativizzazione [117].

Rifiutare l’apriorismo non equivale, però, a rifugiarsi in una sorta di agnosticismo, che induca a ritenere ogni risposta, per il sol fatto di essere possibile, anche accettabile. Quanto al rapporto tra diritto pubblico e diritto privato, il confine, pur mobile, non è anche labile, e va preservato poiché consente di evitare l’annul­la­mento della società nello Stato o la liquefazione dello Stato nella società: esiti opposti – il primo totalitario, il secondo premoderno – ma ugualmente indesiderabili [118]. Dalla prospettiva del civilista, si tratta perciò di individuare quel «nucleo non comprimibile» [119] che è costitutivo del sistema stesso: il che si traduce, con un gioco di parole, nella ricerca di ciò che è “privato” nel diritto privato [120]. Peraltro, il discrimine tra ambiti del diritto pubblico e ambiti del diritto privato, pur non misconoscendo «la mixité e le intersections tipiche di una multidimensional distinction» [121], trova a tutt’oggi evidente riscontro nell’esperienza giuridica complessivamente intesa, e cioè nel suo momento scientifico, in quello didattico e infine in quello interpretativo-applicativo.

Quanto all’espressione degli interessi generali in seno al diritto privato, ciò deve avvenire in forme e modalità che risultino compatibili con la logica interna del sistema stesso, e i cui tratti definitori possono ritrovarsi, ancora oggi, nella dogmatica del Codice. Difatti, se quest’ultimo ha perso il suo «significato costituzionale», nondimeno conserva una forte valenza politico-culturale come deposito della tradizione giuridica nazionale, al contempo offrendo, sul piano della tecnica, una selezione di principi e di categorie ordinatorie in grado di garantire il primato dell’argomentazione giuridica sulla contingenza delle valutazioni politiche [122]. Per di più, la relativizzazione, anche storica, delle categorie incontra un limite di flessibilità che, se non si vuol fare violenza anzitutto al principio di verità della forma giuridica, finisce per sottrarle a una assoluta malleabilità secondo le opinioni o le mode del momento.

Si è già fatto l’esempio della responsabilità civile, la quale – essendo tra i più “pubblici” degli istituti di diritto civile, e dunque assidendo al crocevia delle questioni venute in rilievo – ben si presta a fungere da paradigma. Posta di fronte al problema dei costi sociali dei danni tipici della civiltà industriale e di massa, la dottrina più avvertita ha saputo superare il dogma individualista del «senza colpa, nessuna responsabilità», scoprendo la giustificazione del criterio di imputazione oggettiva direttamente nel presidio dell’interesse generale (l’allocazione del costo del danno presso colui è in grado di evitarlo nel miglior modo possibile [123]). Ciò è stato foriero di un riallineamento di prospettive di giustizia: nella responsabilità oggettiva, a risultare preminente non è tanto quella giustizia commutativa che pure storicamente segna tutto il sistema del diritto privato, ma una giustizia di tipo distributivo, la quale viene di solito considerata attributo del diritto pubblico. Si presti, però, attenzione al punto qualificante di questo passaggio: il diritto civile, per il tramite dell’istituto in parola, si fa carico dell’interesse generale alla prevenzione dell’evento distruttivo di ricchezza, ma sempre secondo una logica che è compatibile con il proprium di questo sistema, che nel caso di specie è quella del­l’obbligazione di risarcimento del danno.

Diversa è la questione, invece, dell’ascrivibilità di una funzione punitiva alla responsabilità civile, che alcune fughe in avanti giurisprudenziali, peraltro a valle di precise sollecitazioni dottrinali e ambigui segnali legislativi, hanno riproposto quale mezzo di repressione di condotte sociali indesiderabili e nocive, alla maniera degli strumenti del diritto penale o del diritto amministrativo sanzionatorio. Pure ammettendo che di questo interesse generale possa farsi carico il diritto civile [124], e dunque risolvendo positivamente la prima delle domande su esaminate, comunque l’idea di una responsabilità “ultra-riparatoria” in funzione punitiva non risulta persuasiva [125]. Vi si oppone, infatti, il limite del danno come perdita da riparare, che risulta sottratto non solo all’interprete nel caso concreto, ma anche al legislatore sul piano generale e astratto. Sicché, se proprio oltre questo limite si vorrà andare, l’eccedenza che così verrà a prodursi non sarà parte del rimedio risarcitorio, ma altro da esso: sarà ciò che può essere descritto nei termini di una sanzione di diritto civile, che a sua volta può essere distinta, come abbiamo altrove proposto, in “pena privata” o “danno punitivo” proprio in ragione del tipo di interesse (rispettivamente, individuale o generale) presidiato. Pertanto, la questione non tocca lo statuto della responsabilità civile, e semmai indirizza lo studioso, che voglia individuare forme di espressione compatibili con i limiti del sistema, verso l’analisi di altri istituti [126].

 


NOTE

[1] N. Bobbio, La grande dicotomia: pubblico/privato, ora in Id., Stato, governo, società. Per una teoria generale della politica, Torino, 1985, 3 s.

[2] A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, 2017, 5 s.

[3] G. Radbruch, Rechtsphilosophie, Leipzing, 1932, 122-127, citato in N. Bobbio, La grande dicotomia, cit., 4.

[4] Così, testualmente, B. Sordi, Diritto pubblico e diritto privato. Una genealogia storica, Bologna, 2020, 13, sulla scorta di L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia. Teoria del diritto, I, Roma-Bari, 2007, 802. Ma si veda già S. Romano, L’ordinamento giuridico, Pisa, 1917, ora Macerata, 2008, 23 s., il quale, pur ammettendo la distinzione, ne negava la struttura dicotomica, sino ad affermare la subordinazione del diritto privato a quello pubblico. Invita comunque «a considerare con una certa cautela le espressioni che assegnano alla distinzione in esame un rilievo solo ‘stipulativo’», A. Travi, Recensione a B. Sordi, Diritto pubblico e diritto privato, in Jus, 2022, 235, «se non altro perché l’analisi giuridica non è mai soltanto un misurarsi con problemi che vivono di una concretezza odierna, ma è anche una ragione di continuità con esperienze e riflessioni precedenti, da confrontare in ogni momento con le situazioni nuove che si vengono a presentare nella società».

[5] Per i riferimenti: S. Pugliatti, Diritto pubblico e diritto privato, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, § 21 e § 22, appunto titolati, rispettivamente, «Il primato del diritto pubblico» e «Il primato del diritto privato». Menzione particolare merita la radicale posizione di Bruno Leoni, nel cui pensiero – come sottolinea M. Stoppino, La grande dicotomia diritto privato – diritto pubblico e il pensiero di Bruno Leoni, in Il Politico, 1982, 115 s., spec. 119-122 – la riduzione di tutto il diritto al solo diritto privato si risolve nel «rifiuto del diritto pubblico», ossia nella negazione della dignità giuridica alle norme organizzative del potere di matrice statuale.

[6] La relazione tra “stato” e “mercato”, se concettualmente può assumersi anch’essa come dicotomica, si presenta nel suo inveramento storico come di reciproca contaminazione, appunto mai cristallizzata nei suoi approdi e per tale ragione in costante tensione. Proprio sul piano del cosiddetto «neo-istituzionalismo» (o Reflexives Recht secondo l’espressione tedesca), un tentativo di sintesi è stato delineato da L. Mengoni, La questione del «diritto giusto» nella società post-liberale, in Id., Scritti. Metodo e teoria giuridica, a cura di C. Castronovo, A. Albanese, A. Nicolussi, Milano, 2011, 66, per il quale l’espressione virgolettata «descrive un nuovo tipo di self-restraint del diritto dello Stato, cioè un tipo di intervento non più diretto, ma indiretto, indirizzato non a regolare con norme rigide e particolareggiate di comportamento i rapporti socio-economici, ma piuttosto a predisporre le nervature istituzionali di processi di autoregolazione sociale, a definire, correggere e ridefinire, quando occorra, istituzioni sociali funzionanti come sistemi autoregolatori».

[7] Cfr. H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Torino, 2021, 366 s., ove si incontra anche un rilievo critico circa il «dualismo» fra diritto pubblico e diritto privato, il cui carattere viene definito come «ideologico». N. Irti, Codice civile e società politica, Roma-Bari, 1995, 89-91, ricorda che già in un saggio più risalente (tradotto in lingua italiana con il titolo appunto di Diritto pubblico e diritto privato, in Riv. intern. fil. dir., 1924, 340 s.), Kelsen aveva espresso una analoga posizione scettica, commettendo la questione della qualità intrinseca e originaria di certi interessi a «un punto di vista metagiuridico» e volgendo «il dualismo di diritto pubblico e diritto privato […], da antitesi transistematica, in distinzione intrasistematica, pensata e definita nell’unità del diritto statale» (così Irti). È bene evidenziare, peraltro, che il rilievo critico espresso nella Dottrina pura è rivolto principalmente a certe conseguenze, che ben possono dirsi ideologiche, che si vorrebbero trarre da questo dualismo: per un verso, una sottrazione dei poteri pubblici, almeno in certe condizioni, al primato della legge, e, per altro verso, la negazione di un grado di “politicità” del diritto privato.

[8] Sarebbe eccessivo, invece, affermare che la distinzione semplicemente non esiste: M. Freedland, The Evolving Approach to the Public / Private Distinction in English Law, in M. Freedland, J. Auby (a cura di), The Public Law Private Law Divide: Une Entente Assez Cordiale?, Portland, Or., 2006, 93 s.; M. Serio, La distinzione tra diritto privato e diritto pubblico nel common law inglese, in G.A. Benacchio, M. Graziadei (a cura di), Il declino della distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, Atti del IV Congresso nazionale SIRD Trento, 24-26 settembre 2015, Trento, 2016, 79 s.

[9] È stato A.V. Dicey, Introduzione allo studio del diritto costituzionale, Bologna, 2003, 279 s., a introdurre nella cultura giuridica d’oltremanica l’idea che la creazione di tribunali specializzati per il diritto amministrativo, sul modello degli ordinamenti francesizzanti, fosse antitetica al Rule of law, in quanto reputata elemento di rottura del principio di uguaglianza di fronte alla legge.

[10] Cfr. S. Pugliatti, Diritto pubblico e diritto privato, cit., 736 s. Sebbene già Ulpiano, come già ricordato, avesse individuato, quale discrimen tra diritto privato e pubblico, la natura dell’utilitas (cioè il tipo di interesse che viene in rilievo), questo criterio ha assunto appunto il suo valore determinante nella temperie della modernità, come da ultimo sottolineato in B. Sordi, Diritto pubblico e diritto privato, cit., 97 s.

[11] D’altronde – come ha messo in evidenza, proprio rispetto al frammento ulpianeo, V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli, 1994, 29 – il criterio dell’interesse non va esasperato, o meglio va accolto con «qualche delucidazione: infatti il concetto stesso del diritto, come complesso di norme avente per iscopo la conservazione e il perfezionamento di una società, esclude che ne facciano parte disposizioni prive d’interesse sociale; mentre per converso non vi è norma posta nell’interesse collettivo dalla quale i singoli non traggano un vantaggio, talvolta inestimabile (si pensi alle norme che organizzano la costituzione politica, o a quella che vieta l’omicidio)». Sempre S. Pugliatti, Diritto pubblico e diritto privato, cit., 697, nt. 6, ricorre alla familiare metafora «dell’unico tronco e dei due rami, intesa a rappresentare l’unità fondamentale e la possibilità di una distinzione interna».

[12] A. Nicolussi, Il tavolare nel sistema della tutela dei diritti, in Territorio + diritto = Tavolare, Atti del convegno tenutosi a Rovereto il 7 Novembre 2009, Trento, 2011, 39, ove viene peraltro riportata la citazione di Jean Bodin «nihil publicum esse potest ubi nihil sit privatum» (République, libro I, cap. 2, ed., in I sei libri dello Stato di Jean Bodin [a cura di M. Isnardi e continuata da D. Quaglioni], I, Torino, 1988, 178) che esprime sia l’idea della correlazione riferita nel testo, sia la necessaria distinzione tra le due sfere, che pure serve, in una certa misura, a costituirle reciprocamente, come riconosce anche M. Moran, The Mutually Constitutive Nature of Public and Private Law, in A. Robertson, H. Wu Tang (a cura di), The Goals of Private Law, Portland, Or., 2009, 17 s.

[13] E si guardi, soprattutto, alla già ricordata opera di Bobbio sulla «grande dicotomia». Più di recente: I. Pupolizio, Pubblico e privato. Teoria e storia di una grande dicotomia, Torino, 2019. Per degli studi sviluppati con sensibilità di civilista: F. Galgano, Pubblico e privato nell’organizzazione giuridica, in Contr. Impr., 1985, 357 s.; U. Breccia, L’immagine che i privatisti hanno del diritto pubblico, in Riv. crit. dir. priv., 1989, 191 s.; G. Alpa, Diritto privato e diritto pubblico. Una questione aperta, in Econ. dir. terz., 1999, 311 s.; Id., Dal Diritto pubblico al Diritto privato, I e II, Modena, 2017; A. Zoppini, Il diritto privato e i suoi confini, Bologna, 2020. Da un punto di vista attento alla comparazione giuridica: N. Jansen, R. Michaels, Private Law and the State: Comparative Perceptions and Historical Observations, in RabelsZ, 2007, 345 s. e H. Collins, On the (In)compatibility of Human Rights Discourse and Private Law, in H.-W. Micklitz (a cura di), Constitutionalization of European Private Law, Oxford, 2014, 36-38.

[14] La prospettiva che così si delinea è una di conservazione dell’autonomia del diritto privato, al contempo riconoscendo che esso «si spiega anche alla luce di ragioni che non sono le sue proprie» (C. Castronovo, Responsabilità civile, Milano, 2018, 111), e dunque la sua integrazione in più ampio contesto di dialettica tra diversi fenomeni sociali. Nella cultura di common law, la polarizzazione tra autonomists e instrumentalists è avvertita persino più intensamente, riproducendo, con riferimento al sistema di diritto privato, l’opposizione più generale tra formalists e anti-formalists, come evidenzia, tra gli altri, G. Calabresi, An Introduction to Legal Thought: Four Approaches to Law and to the Allocation of Body Parts, in Stanford L. Rev., 2003, 2114 s. Tra gli autonomists va annoverato Ernest J. Weinrib (The Idea of Private Law2, Oxford, 2012 e, più recentemente, Reciprocal Freedom. Private Law and Public Right, Oxford, 2022), mentre tra gli autori associati all’instrumentalism può ovviamente menzionarsi Richard A. Posner (Economic Analysis of Law9, Boston, 2014). Una posizione mediana tra i due estremi, proprio in riferimento alla relazione tra diritto privato ed espressione degli interessi generali, si trova in H. Dagan, The Limited Autonomy of Private Law, in Am. J. Comp. Law, 2008, 809 s., e G. Teubner, State Policies in Private Law? A Comment on Hanoch Dagan, ivi, 835 s. Più di recente, sono gli studiosi – principalmente statunitensi e canadesi – che si riconoscono nella cosiddetta corrente della New Private Law Theory [da non confondere con l’omonimo indirizzo europeo, a proposito del quale si rinvia a S. Grundmann, H.-W. Micklitz, M. Renner (a cura di), New Private Law Theory. A Pluralist Approach, Cambridge, 2021] a tracciare un corso intermedio tra autonomism e instrumentalism: A.S. Gold, Internal and External Perspectives: On Methodology in the New Private Law, in A.S. Gold, D.B. Kelly, J.C.P. Goldberg, E.L. Sherwin, H.E. Smith (a cura di), The Oxford Handbook of the New Private Law, New York, 2020, 3 s.; P.B. Miller, The New Formalism in Private Law, in Am. J. Juris., 2021, 175 s.

[15] La giustificazione offerta da San Tommaso si fonda su basi che si potrebbero definire funzionalistiche. Primo: ognuno ha una cura migliore delle proprie cose; se la proprietà fosse comune, volentieri verrebbe evitato il lavoro, lasciando ad altri il compito di curarsene. Secondo: in un sistema che riconosce la proprietà privata, gli affari vengono svolti in modo ordinato, giacché ciascuno è responsabile per qualcosa, laddove se tutti fossero responsabili per tutto, regnerebbe la confusione. Terzo: la pace sociale regna là dove ciascuno si accontenta del suo, giacché l’esperienza mostra come i grandi conflitti scoppiano per i beni posseduti in comune o indivisibilmente (Summa Theologiae, IIa IIae, q. 66, a. 2, responsio). Sintetizza Italo Mancini (Il mio e il tuo esterni. Quale necessità?, in Jus, 1979, 287), che «I motivi tomistici per razionalizzare la proprietà privata sono legati a tre “più”. Nel sistema a regime privato la gente è “più sollecita”, “tratta più ordinatamente le cose umane”, “vive più in pace”». La stessa Dottrina sociale della Chiesa (cap. IV, III, a-b), che è grandemente tributaria della tradizione tomistica, oggi chiarisce che diritto primario, ossia “naturale” nel senso di inscritto nella natura dell’uomo, è la destinazione universale dei beni, e che la proprietà privata è un diritto secondario che, nel contesto del comune diritto di tutti ad usare i beni dell’intera creazione, si riconosce come garanzia di un retto ordine sociale e che, proprio ai fini di una politica economica autenticamente sociale e democratica, può essere regolato.

[16] L. Mengoni, Proprietà e libertà, in Metodo e teoria giuridica, cit., 74. Lo “spirito dei tempi”, con precipuo riferimento al­l’esercizio della libertà contrattuale, è catturato dal noto dictum del giudice inglese sir George Jessel in Printing and Numerical Registering Co v Sampson (1875) 19 Eq 462: «if there is one thing which more than another public policy requires it is that men of full age and competent understanding shall have the utmost liberty of contracting, and that their contracts when entered into freely and voluntarily shall be held sacred and shall be enforced by Courts of justice».

[17] Così, il Codice civile francese è stato riconosciuto come «la constitution civile de la France» (secondo la definizione resa celebre da Jean Carbonier, riportata da B. Sordi, Diritto pubblico e diritto privato, cit., 106) e, allo stesso modo, il Codice italiano del 1865 «divenne, ben più dello Statuto albertino, la vera costituzione dell’Italia unita» [C. Salvi, La giusprivatistica fra codice e scienza, in A. Schiavone (a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, Roma-Bari, 1990, 235]. Di converso, il Codice civile tedesco (BGB), che pure era stato acclamato nel giorno della sua entrata in vigore dalla Juristenzeitung con il motto «Ein Volk. Ein Reich. Ein Recht» (lo ricorda L. Mengoni, L’Europa dei codici o un codice per l’Europa?, in Metodo e teoria giuridica, cit., 319), non riuscì a «conquistare la Germania come invece a suo tempo il Code civil il popolo francese», perché privo del­l’«appassionato appello alla cosciente ed operante responsabilità collettiva dei cittadini che è […] presente nelle costituzioni e nei codici di quelle nazioni che hanno appena raggiunto una nuova comunità di valori» (F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno, con particolare riguardo alla Germania, Milano, 1980, II, 192-193). È opportuno sottolineare che tra codificazione ed espressione dei valori della società borghese sta un legame storico, che si giustifica in ragione del dominio di quei valori nel momento in cui il processo di codificazione si è spiegato [si vedano, tra gli altri, i saggi di G. Tarello, D. Corradini in S. Rodotà (a cura di), Il diritto privato nella società moderna, Bologna, 1971]. Se non è dubbio che la tecnica della codificazione fosse consona all’interesse alla chiarezza e certezza del diritto cui aspirava la società borghese, in quanto funzionale alla pretesa capitalistica di prevedibilità e calcolabilità (doveroso, in proposito, il rinvio a M. Weber, Economia e società. Diritto, III, Roma, 2016, 299), non è però «corretto dedur[r]e un rapporto di implicazione reciproca tra codificazione e capitalismo. Ancora una volta deve parlarsi di concomitanza temporale, nella quale ciascuno dei due elementi ha esercitato influenza promozionale sull’altro, e di momento storico nel quale lo spirito del tempo si manifesta omogeneamente, senza un prima e un dopo, nei vari ambiti nei quali la vicenda umana si esprime e si svolge» (C. Castronovo, Il capitalismo come vicenda giuridica, in Rel. ind., 1983, 192).

[18] Le codificazioni ottocentesche hanno filtrato i postulati del giusnaturalismo moderno – ossia i valori della società borghese conformi a quelli dell’Europa cristiana – nelle forme (solo apparentemente neutrali dal punto di vista assiologico) della dogmatica giuridica (P. Grossi, L’Europa del diritto, Roma-Bari, 2007, 140 s.). Pertanto, come spiega L. Mengoni, Diritto e tecnica, in Metodo e teoria giuridica, cit., 45, questo tipo di positivismo, sebbene teoricamente e metodologicamente formalistico, risultava compatibile con un controllo “valutativo” del contenuto della legge, giacché la sua giustificazione formale mediante il controllo di coerenza con la razionalità del sistema giuridico era in grado di garantirne anche il fondamento morale. Particolarmente significativa è la scelta operata dal Codice civile austriaco (ABGB) di elevare «i principi del diritto naturale» a criterio per la soluzione di lacune legislative, là dove non possa giungere la analogia legis (§ 7), così accantonando il modello rivoluzionario del référé législatif in favore del riconoscimento di un momento di autonomia decisionale del potere giudiziario. Sul § 7 dell’ABGB, con precipuo riferimento all’interpretazione che di esso ha fornito la coeva civilistica lombardo-veneta, si veda ora P. Mastrolia, La civilistica lombardo-veneta durante la Restaurazione. Un anonimo Compendio di diritto civile austriaco tra giusnaturalismo e positivismo giuridico, in Historia et Ius, 2023, 15 s.

[19] Così M. Giorgianni, Il diritto privato e i suoi attuali confini, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, 399. Si può osservare che, a seguito dell’Unità d’Italia, il neonato regno ritenne sufficiente estendere d’emblée lo Statuto albertino a tutto il territorio nazionale, ma avvertì invece l’esigenza di dotarsi di un nuovo – e appunto unitario – codice civile.

[20] N. Irti, Codice civile e società politica, cit., 40. Rileva R. Nicolò, Diritto civile, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, 905 che gli istituti codicistici più importanti, una volta assunti in forma astratta, «si ponevano come situazioni normative di carattere generale, non necessariamente ancorate all’individuo e alla sua attività, ma suscettibili di essere utilizzate anche al di là dell’ambito dei rapporti privati».

[21] G. Solari, Filosofia del diritto privato. Individualismo e diritto privato, I, Torino, 1959, 57. Sempre nell’ABGB si legge che «ogni uomo, in virtù dei suoi diritti innati, che vengono resi manifesti dalla ragione, ha diritto di essere trattato come persona» (§ 16): una disposizione dal tenore dichiarativo tipico delle carte costituzionali.

[22] Cfr. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, 2005, 85 s.

[23] Cfr. F. Wieacker, Il modello dei codici civili classici e lo sviluppo della società moderna, in Id., Diritto privato e società industriale, Napoli, 1983, 8-11.

[24] Si ha buon gioco nel ricordare che uno dei padri del liberalismo classico, Adam Smith (la cui influenza fu rapidamente avvertita anche nella Francia del XVIII-XIX secolo: R. Whatmore, Adam Smith’s Role in the French Revolution, in Past & Present, 2002, 65 s.), non ha scritto soltanto il testo fondativo della scienza economica moderna (The Wealth of Nations, 1776), ma anche una Theory of Moral Sentiments (1759) in cui emerge la trama di una condotta sociale virtuosa all’interno della quale si spiega l’attività individuale, compresa quella imprenditoriale. Per Smith, la coscienza di ogni uomo – che egli descrive nei termini di uno «spettatore imparziale» – fa risaltare l’ingiustizia di quei comportamenti che violano i diritti fondamentali (vita, libertà, proprietà), sicché, per un verso, anima la tendenza comune a simpatizzare con chi rispetta le leggi e, per altro verso, nutre un senso di decenza che induce a non commettere atti illeciti o illegali. Si veda, in proposito, A. Zanini, Adam Smith. Morale, jurisprudence, economia politica, Macerata, 2014, 119 s. La stessa teoria della vincolatività dell’impegno contrattuale, in Smith, partecipa della dimensione etica del suo pensiero, e viene pertanto giustificata non in ragione del dogma della volontà (come faranno invece i liberali e giusnaturalisti continentali), ma in ragione dell’affidamento che la promise suscita nel suo destinatario: P.S. Atiyah, The Rise and Fall of Freedom of Contract, Oxford, 1979, 82-83, con citazioni da un’altra importante opera di Smith, Lectures on Jurisprudence (1763).

[25] Cfr. A. Zoppini, Il diritto privato e i suoi confini, cit., 181-182.

[26] D’altronde, secondo G. Ripert, Le Regime Democratique et le droit civil moderne, Paris, 1948, riportato in F.sca Benatti, Un diritto privato neofeudale?, in Banca borsa tit. cred., 2023, 83, i principi fondamentali dei rapporti di diritto privato, come recepiti dalla codificazione, erano quelli dettati dalla tradizione, imposti dalla morale, aventi una utilità confermata dall’esperienza. Più di recente, si veda W. Röpke, Al di là dell’offerta e della domanda. Verso un’economia umana, Soveria Mannelli, 2015, 113: «Dobbiamo onestamente ammettere che l’economia di mercato ha un fondamento “borghese” e insistere in quest’affermazione. L’eco­no­mia di mercato può prosperare soltanto in una società in cui siano vivi alcuni principi fondamentali, che danno consistenza e colore alla trama dei rapporti sociali: l’iniziativa individuale, il senso di responsabilità, l’indipendenza ancorata alla proprietà, l’equilibrio e l’audacia, il calcolo e il risparmio, l’organizzazione individuale della vita, l’inserimento nella comunità, il sentimento della famiglia, della tradizione e della continuità storica e, in più, menti aperte alla realtà presente e all’avvenire, un’equilibrata tensione tra l’indi­viduo e la comunità, dei solidi legami morali, il rispetto dell’intangibilità della moneta, il coraggio di affrontare virilmente i rischi della vita, il senso dell’ordine naturale delle cose ed una solida gerarchia dei valori».

[27] M.S. Giannini, Diritto amministrativo3, I, Milano, 1993, 48.

[28] Da ultimo, a proposito dell’«espansione del diritto», che tra gli anni ’60 del XIX secolo e gli anni ’20 del XX secolo è seguita al «coinvolgimento del popolo nelle questioni pubbliche», e che «ha inevitabilmente portato a richieste crescenti nei confronti dello Stato: in quanto fornitore di servizi, di garante di standard minimi di sicurezza e regolatore delle attività economiche», si veda J. Sumption, L’impero del diritto, Soveria Mannelli, 2022, 7 s. (le citazioni sono a 10).

[29] C. Castronovo, Il capitalismo come vicenda giuridica, cit., 199.

[30] Osserva A. Gambaro, La proprietà. Beni, proprietà, possesso2, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2017, 212, che «nelle costituzioni moderne la proprietà entra come istituzione indispensabile dell’ordinamento complessivo […]. Nel sistema del diritto civile la proprietà è egualmente considerata una istituzione indispensabile nel senso che senza di essa il sistema civilistico sarebbe necessariamente altro rispetto a quello che è».

[31] In riferimento alla «funzione sociale» del contratto, si vedano R. Sacco, G. De Nova, Il contratto4, Torino, 2016, 18: «L’au­to­nomia contrattuale viene garantita al singolo operatore […], ma l’interesse che rende razionale la norma è l’interesse generale, indivisibile, alla manutenzione di un corretto meccanismo di mercato»; e A. Albanese, L’uguaglianza formale e sostanziale nel mercato tra libertà e giustizia «contrattuale», in Per i cento anni dalla nascita di Renato Scognamiglio, I, Napoli, 2022, 6: «La possibilità di regolare mediante contratti i rapporti con altri soggetti, che godono della medesima capacità e dei medesimi diritti, è […] espressione di quei principi di libertà e uguaglianza, che costituiscono il fondamento degli ordinamenti democratici. Il contratto rappresenta infatti uno strumento essenziale di partecipazione alla vita economica e sociale, attraverso il quale i cittadini direttamente concorrono alla costruzione delle regole della convivenza civile, e in questo modo svolge una funzione fondamentale non soltanto per lo sviluppo della personalità dei singoli, ma anche per il benessere della società nel suo complesso».

[32] G. Oppo, Le ragioni del diritto: il diritto commerciale, in Jus, 1996, 69-71.

[33] Cfr. F. von Hayek, Diritto, legislazione e libertà, tr. it. a cura di L. Infantino, P.G. Monateri, Milano, 2022, 211. Per H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, cit., 370, «quello che si dice diritto privato, quel complesso di norme al cui centro è l’istituto giuridico della proprietà individuale o privata, […] è una forma di produzione di norme giuridiche individuali adeguata al sistema economico capitalistico. Essa risponde al principio dell’autodeterminazione ed in questo senso ha carattere democratico». Il carattere “democratico” del diritto, seppur in riferimento all’istituto del contratto e al fenomeno del “contrattualismo”, è segnalato anche in W. Cesarini Sforza, Il diritto dei privati (1929), ora Macerata, 2022, 111.

[34] L. Mengoni, Forma giuridica e materia economica, in Id., Diritto e valori, Milano, 1985, 158. Recentemente, sul saggio di Mengoni si è soffermato, valorizzandone il tratto di modernità e attualità, S. Grundmann, Societal Order and Private Law, in New Private Law Theory, cit., 131 s., spec. 152-155.

[35] Con particolare riferimento al contesto italiano, si veda la descrizione di A. Belfiore, Interpretazione e dommatica nella teoria dei diritti reali, Milano, 1979, 246.

[36] Come ricorda S. Solimano, Un secolo giuridico. Legislazione, cultura e scienza del diritto civile in Italia e in Europa (1814-1916), in E. Tavilla (a cura di), Tempi del diritto. Età medievale, moderna, contemporanea, Torino, 2018, 379-380, fa eccezione il tentativo di riforma del Codice civile italiano del 1865 voluto dal Ministro della giustizia Nicolò Gallo, il quale – già nel 1906 – intendeva colmare un avvertito scarto tra il Codice e la realtà del mondo contemporaneo. Gallo affidò il compito della riforma a una commissione composta da trenta giuristi, tra i quali figuravano personalità come quelle di Vittorio Polacco (vd. la nota successiva) e di Cesare Vivante, che in una prolusione del 1898 aveva denunciato «I difetti sociali del Codice di commercio» (il testo si legge ora in Riv. it. scienze giur., 2012, 11 s.), successivamente dedicandosi anche al rilievo de Le nuove influenze sociali del diritto privato (Roma, 1903, 5 s.); in Vivante, come sintetizza T. Ascarelli, La dottrina commercialistica italiana e Francesco Carnelutti, in Id., Problemi giuridici, II, Milano, 1959, 985, «Un effettivo liberalismo si univa a un solidarismo che guardava con simpatia all’ascesa delle classi proletarie, nella fiducia in un progresso economico largamente fondato sulla libera iniziativa». La morte improvvisa di Gallo, avvenuta nel 1907, fece naufragare il progetto, che non fu ripreso dai suoi successori al Ministero della Giustizia.

[37] Il «compito sociale» del diritto privato è il titolo del celebre lavoro di Otto von Gierke: Die Soziale Aufgabe Des Privatrechts, Berlin, 1889. Sempre nell’area culturale di lingua tedesca, vanno almeno ricordati ancora Anton Menger (Über die Sozialen Aufgaben der Rechtswissenschaft, Wien, 1895; Das bürgerliche Recht und die Besitzlosen Volksklassen: eine Kritik des Entwurfs eines Bürgerlichen Gesetzbuches für das Deutsche Reich4, Tübingen, 1908), fautore del cosiddetto “socialismo giuridico” che venne successivamente giudicato da Friedrich Engels e da Karl Kautsky come una versione fragile del (vero) socialismo, e Joseph Unger, che si fece promotore di una riforma in senso “sociale” dell’ABGB (Sulla revisione del codice civile universale, trad. it. a cura di F. Forlani, Milano, 1904). La questione della “socializzazione” del diritto privato fu centrale anche in Francia: Léon Duguit pose al centro del suo pensiero un’essenza sociale e comunitario-collettivistica del diritto (Les transformations générales du droit privé dépuis le Code Napoléon2, Paris, 1920), mentre Raymond Saleilles e François Gény, peraltro tra i padri del diritto comparato come autonoma disciplina, si concentrarono sul ruolo dell’abuso del diritto e dell’interpretazione evolutiva come mezzi per “socializzare” il diritto (S. Solimano, Un secolo giuridico, cit., 375-377). Come rileva con accento critico R. Nicolò, Diritto civile, cit., 919, la coeva scienza giuridica italiana ha invece vissuto con un certo distacco i fermenti culturali che attraversavano il dibattito negli altri paesi. Per esempio, uno dei nomi più autorevoli del tempo, Vittorio Polacco, pur attento alla «questione sociale» («La funzione sociale dell’odierna legislazione civile» è il titolo della prelezione letta nel 1885 nell’Università di Camerino, e successivamente raccolta in Id., Opere minori, II, Modena, 1929), si mantenne fedele all’ideale liberale della codificazione quale perno del sistema civilistico (e costituzionale), cui allora la legislazione cosiddetta sociale andava soltanto affiancata (sul punto si vedano ora S. Mazzamuto, A. Nicolussi, F. Piraino, Vittorio Polacco, Napoli, 2023, 21 s., 114 s., spec. 118-119: «Il diritto codiciale costituisce per lui la parte nobile irrinunciabile rispetto alla quale i diritti secondi, anziché interagire con esso come nella metodologia contemporanea, svolgono la loro specialità senza intaccare il diritto primo gelosamente custodito nel codice»). D’altronde, come sottolinea S. Solimano, Un secolo giuridico, cit., 367, nella maggioranza dei giuristi italiani più attenti alla questione in esame si riscontra, più che un’adesione al «socialismo giuridico», un atteggiamento di «solidarismo» di spirito conservatore-borghese, di cui già Gioele Solari [Socialismo e diritto privato. Influenza delle odierne dottrine socialiste sul diritto privato (1906), ed. postuma a cura di P. Ungari, Milano, 1980] aveva segnalato gli autonomi caratteri costitutivi [per un’ulteriore contestualizzazione della distinzione tra «socialismo giuridico» e «solidarismo»: P. Grossi, L’Europa del diritto, cit., 189-198; M. Stronati, Il socialismo giuridico e il solidarismo, in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Diritto, 2012, qui consultabile: https://www.treccani.it/enciclopedia/il-socialismo-giuridico-e-il-solidarismo
_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Diritto%29/
(ultimo accesso: 08.09.2023)]. Maggiormente connotata in senso “socialistico”, seppur non immune da certe interne contraddizioni (A. di Majo, Enrico Cimbali e le idee del socialismo giuridico, in Quad. fior., 1974-1975, 383 s., spec. 417 s.; A. Belfiore, Interpretazione e dommatica nella teoria dei diritti reali, cit., 228-231), è invece l’opera di Enrico Cimbali (La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali, con proposte di riforma della legislazione civile vigente, Torino, 1885, 19074), il quale aveva anche auspicato il sorgere di una scuola “nazionale” del diritto civile, esortando ad abbandonare «l’infausto vezzo di redigere empiricamente vasti commentari sul modello dei francesi o di riprodurre leggermente i sistemi nebulosi elaborati e confezionati in Germania» (Id., Lo studio del diritto civile negli Stati moderni, Roma, 1881, 27).

[38] F. Vassalli, Della legislazione di guerra e dei nuovi confini del diritto privato, in Id., Studi giuridici, II, Milano, 1960, 337. Gli effetti della legislazione di guerra sul sistema di diritto civile hanno costituito oggetto di studio privilegiato anche di Francesco Ferrara, del quale possono vedersi: Influenza giuridica della guerra nei rapporti civili, in Id., Scritti giuridici, I, Milano, 1954, 33 s., e Diritto di guerra e diritto di pace, ivi, 70 s. Può rilevarsi come sia Vassalli sia Ferrara, scrivendo nel medesimo torno di tempo, abbiano rintracciato nelle regole imposte dal conflitto militare e mediate dalle leggi speciali principi «fecondi» per il diritto “comune”. Alcuni tra i più significativi provvedimenti afferenti alla legislazione di guerra sono analizzati in A. Somma, Verso la grande trasformazione. Il primo conflitto mondiale e la disciplina dell’ordine economico nell’esperienza italiana, in Historia et Ius, 2019, 14 s. Per gli analoghi sviluppi nel common law inglese, si può consultare P.S. Atiyah, The Rise and Fall of Freedom of Contract, cit., 593 s.

[39] Scrive L. Mengoni, Le obbligazioni, in Obbligazioni e negozio, cit., 362, che, specialmente nel libro IV, «Il passaggio dallo Stato liberale classico al moderno Stato sociale, concomitante al passaggio da un’economia individualistica a un’economia di massa, è ben visibile». Cfr., altresì, S. Pugliatti, Interesse pubblico e interesse privato nel libro delle obbligazioni, in Id., Diritto civile. Metodo, teoria, pratica, Milano, 1951, 167 s.

[40] Certo, se oggi è possibile apprezzare la capacità di mediazione codicistica fra interessi individuali e interessi generali propria, ciò è dovuto all’evoluzione in senso liberale e costituzionale del quadro giuridico-politico italiano, giacché a ben altro giudizio si sarebbe invece mossi ove quest’ultimo fosse rimasto segnato dalle impostazioni autoritarie e organicistiche coltivate dai cosiddetti giuristi di regime e, ancor prima, dalle scuole di indirizzo nazionalistico. Esemplare è il trattamento riservato alla disciplina della famiglia, la cui autonomia di fronte allo Stato veniva negata dalla concezione di matrice neo-hegeliana riconducibile, nella dottrina italiana, soprattutto all’opera di Antonio Cicu (Il diritto di famiglia. Teoria generale, Roma, 1914, 85 s., 106 s., citato da L. Mengoni, Successioni per causa di morte, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu-Messineo-Mengoni, Milano, 1999, 15 testo e nt. 34, ove si mette però in rilievo la distorsione in chiave nazionalistica del pensiero di Hegel). Questa concezione aveva peraltro un riflesso sul discrimen tra diritto privato e diritto pubblico: Cicu rifiutava, infatti, la collocazione del diritto di famiglia nell’ambito del diritto privato, senza perciò spingersi ad annoverarlo tra le espressioni del diritto pubblico, preferendo commetterlo a un tertium genus, i cui caratteri erano pur tuttavia accentuatamente pubblicistici. L’autonomia della famiglia è stata solennemente ribadita dalla Costituzione (art. 29), senza che ciò abbia comportato – come lo stesso Cicu invece paventava (Il diritto di famiglia nello Stato fascista, in Jus, 1940, 371 s.) – la decostruzione in senso volontaristico dell’istituto, giacché contro di essa fa muro proprio la concezione “neo-istituzionale” accolta dalla nostra carta costituzionale (L. Mengoni, La famiglia in una società complessa, in Iustitia, 1990, 3 s.; A. Nicolussi, La famiglia: una concezione neo-istituzionale?, in Europa dir. priv., 2012, 169 s.; A. Renda, Il matrimonio civile. Una teoria neoistituzionale, Milano, 2013), e nel cui solco si è collocato l’adeguamento legislativo del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975, n. 151) e della filiazione (l. 10 dicembre 2012, n. 219 e d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154). Semmai a quella decostruzione dovesse giungersi, insomma, non sarebbe a causa della costituzionalizzazione della famiglia come «società naturale». Analogamente al contesto italiano (S. Pugliatti, Diritto pubblico e privato, cit., 713; M. Giorgianni, Il diritto privato e i suoi attuali confini, cit., 413), in quello tedesco del secondo dopoguerra si è reagito alla strumentalizzazione politica della famiglia operata dallo stato nazionalsocialista con una riaffermazione della collocazione del diritto di famiglia nel diritto privato (Entpolitisierung o Entstaatlichung des Familienrechts), all’in­segna di una restaurazione del primato della Privatautonomie e della Selbstverwaltung: cfr. S. Simitis, Familienrecht, in D. Simon, (a cura di), Rechtswissenschaft in der Bonner Republik. Studien zur Wissenschaftsgeschichte der Jurisprudenz, Frankfurt am Main, 1994, 392. Di interesse è anche la diversa questione relativa alla codificazione dei diritti della personalità nell’ordinamento giuridico fascista, che aveva attirato le obiezioni di chi, come Eduardo Piola Caselli, riteneva che «il regolamento della protezione dei diritti della personalità appartiene al diritto pubblico, cioè al diritto penale e al diritto amministrativo e politico, giacché la difesa privata della persona fisica non può assumere cittadinanza in un diritto, come il diritto fascista, che respinge in toto la concezione giusnaturalistica del diritto privato» (F. Degni, Le persone fisiche e i diritti della personalità, in Tratt. dir. civ. Vassalli, II, Torino, 1939, 164-165, riportato in G. Resta, Autonomia privata e diritti della personalità, Napoli, 2005, 181, nt. 156, di cui si vedano anche le pagine 176-181 per cenni alla coeva esperienza nazionalsocialista).

[41] A. Nicolussi, Le obbligazioni, Milano, 2021, 20. L. Mengoni, Le obbligazioni, cit., 368-369, precisa che la funzione di apertura del sistema delle fonti propria dell’art. 1773 cod. civ. non apparteneva all’intenzione del legislatore storico, il quale intendeva piuttosto la terza classe menzionata dalla norma in parola come «affermazione del positivismo statalistico», ossia, allo stesso modo della classificazione gaiana, quale sintesi terminologica delle variae causarum figurae diverse dal contratto e dal fatto illecito e però sempre previste dalla legge. È stata invece la dottrina ad affermare, con una interpretazione evolutiva del sintagma «ordinamento giuridico», una portata innovativa della disposizione «non solo in senso formale, ma pure nel senso sostanziale di abbandono del principio di tipicità delle fonti. E anche qui non si è mancato di collegare l’innovazione al passaggio dall’economia preindustriale, in cui il detto principio assolveva una funzione di garanzia dei proprietari, all’economia moderna di produzione in massa e alle connesse esigenze di libertà del mercato».

[42] Sul tema delle fonti la letteratura di riferimento è ovviamente vastissima. Con peculiare riferimento all’“apertura” del sistema delle fonti delle obbligazioni, è preziosa la consultazione dei classici studi di A. Di Majo, Delle obbligazioni in generale (Art. 1173 – 1176), in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, Bologna, 1988, 171 s., e U. Breccia, Le obbligazioni, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 1991, 108 s. Sulle potenzialità di un sistema di tipicità evolutiva delle fonti di obbligazione, in riferimento proprio all’organizzazione e alla soluzione di alcuni problemi socio-economici della modernità, si veda ora A. Nicolussi, L’obbligazione oltre il principio del contratto. Comportamenti socialmente tipici e relazioni di affidamento, in Per i cento anni dalla nascita di Renato Scognamiglio, cit., 698-699.

[43] L. Mengoni, Le obbligazioni, cit., 362.

[44] Cfr., con riferimento rispettivamente al diritto del lavoro e al diritto commerciale, C. Scognamiglio, Il diritto civile ed il diritto del lavoro, in V. Roppo, P. Sirena (a cura di), Il diritto civile e gli altri, Atti del Convegno. Roma, 2-3 dicembre 2011, Milano, 2013, 5 s., e M. Libertini, Diritto civile e diritto commerciale. Il metodo del diritto commerciale in Italia, ivi, 181 s.

[45] Cfr. A. Nicolussi, Il tavolare nel sistema della tutela dei diritti, cit., 38, in riferimento al sistema del tavolare vigente in alcuni territori italiani che hanno subito l’influenza culturale mitteleuropea, e del quale si valorizza una «doppia valenza tra la dimensione privata e quella pubblica» del diritto, «che si articola in un intreccio fra privatezza del diritto soggettivo e pubblicità organizzata dallo stato del diritto stesso con riflessi di diritto processuale privato».

[46] Si guardi anche all’art. 845 cod. civ., ove è stabilito che «La proprietà fondiaria è soggetta a regole particolari per il conseguimento di scopi di pubblico interesse» nei casi legalmente previsti. È opportuno sottolineare che, pur in assenza di un aggancio testuale in tal senso, la dottrina italiana faceva riferimento alla funzione sociale della proprietà già prima dell’avvento della Costituzione repubblicana: si vedano, ad esempio, F. Vassalli, Il diritto di proprietà, in Atti del I congresso giuridico italiano, Roma, 1933, 405 s., S. Pugliatti, Strumenti tecnico-giuridici per la tutela dell’interesse pubblico nella proprietà, in La concezione fascista della proprietà privata, Roma, 1939, 183 s., L. Barassi, Il diritto di proprietà e la funzione sociale, ivi, 191 s.

[47] L. Mengoni, Proprietà e libertà, cit., 77. Aggiunge I. Mancini, Il mio e il tuo esterni, cit., 296, che là dove la proprietà «sembra aver perduto tutto l’entroterra delle motivazioni teologiche e di quelle giusnaturalistiche», essa «si presenta come una funzione del sistema economico (e quindi tale da essere direttamente giustificata dalla capacità di farlo funzionare)».

[48] M. Giorgianni, Il diritto privato e i suoi attuali confini, cit., 410-411.

[49] Si è trattato, come ricorda la stessa Relazione al Codice (n. 168), dell’estensione ai contratti di diritto comune di una norma originariamente pensata per clausole del contratto individuale di lavoro difformi dal contenuto del contratto collettivo (l. 3 aprile 1926, n. 563).

[50] Lo mette in rilievo la stessa Relazione al Codice civile (n. 1068): «Gli effetti positivi e negativi della trascrizione sono determinati dall’art. 2644 del cod. civ., che riproduce sostanzialmente la norma dell’art. 1942 del codice del 1865, con lievi modificazioni che tendono ad agevolarne la retta comprensione. […] [L]’altra modificazione apportata nel secondo comma, quale all’espressione “verso il precedente proprietario” si è sostituita l’altra “verso il suo autore”, è intesa a chiarire che la trascrizione anteriore assicura la prevalenza in confronto di chi abbia causa della stessa persona, mentre la pubblicazione dell’acquisto da chi non abbia assicurato con la pubblicità il proprio lascia esposto l’acquirente a soggiacere nei confronti di colui che, mediante una pubblicazione posteriore alla sua, ma a carico di un autore più remoto, si assicurasse la prevalenza del suo autore immediato».

[51] A. Nicolussi, Il tavolare nel sistema della tutela dei diritti, cit., 39-40, rileva però l’insufficienza, a tale scopo, del regime pubblicitario di marca francese, il quale opera una «separazione tra diritti soggettivi e beni che, da un lato, porta a un catasto con funzioni pubblicistiche di tipo tributario e, dall’altro, a una pubblicità che non offre certezza giuridica, laddove una pubblicità costitutiva a base reale sollecita un approccio sistematico che esige il coordinamento tra tavolare e catasto all’insegna del collegamento necessario tra beni e diritti che si vuol realizzare». Nel sistema del tavolare italiano, che si distingue da quello vigente nei sistemi tedesco e austriaco, infatti, l’intavolazione è un elemento esterno che concorre direttamente col contratto (consensuale) di compravendita a formare la fattispecie del trasferimento e quindi a determinare il contenuto (e non solo l’esistenza) dell’effetto traslativo. Sulla dialettica tra interessi privati e interessi generali nel sistema della pubblicità legale, doveroso il rinvio a S. Pugliatti, La trascrizione. La pubblicità in generale, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu-Messineo, Milano, 1957, 218-222 (cui adde Id., La trascrizione. L’organizza­zione e l’attuazione della pubblicità patrimoniale, testo curato e aggiornato da G. Giacobbe, M. La Torre, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu-Messineo-Mengoni, Milano, 1989, 301, richiamato anche da G. Petrelli, Pubblicità legale e trascrizione immobiliare tra interessi privati e interessi pubblici, in Rass. dir. civ., 2009, 689 s.). Da ultimo, a proposito del rapporto tra consensualismo, trascrizione e bisogni economico-sociali, si veda C. Rusconi, Consensualismo, principio dell’iscrizione e polifunzionalità della pubblicità tavolare, Napoli, 2022, 26, testo e nt. 71.

[52] A. Belfiore, I beni e le forme giuridiche di appartenenza. A proposito di una recente indagine, in Riv. crit. dir. priv., 1983, 903 s.; A. Nicolussi, Lesione del potere di disposizione e arricchimento. Un’indagine sul danno non aquiliano, Milano, 1998, 320, ove la ricostruzione della genesi della disposizione sullo sfondo del problema, già noto al diritto classico romano, del conflitto di interessi tra proprietario e specificatore. D’altronde, anche Isaia 29,16 ammonisce: «Forse che il vasaio è stimato pari alla creta?».

[53] Cfr. L. Mengoni, Gli acquisti «a non domino»3, Milano, 1975, 379.

[54] A. Nicolussi, Lesione del potere di disposizione e arricchimento, cit., 40, sulla scorta di L. Mengoni, Gli acquisti «a non domino», cit., 30 s. e 318-319.

[55] Come è noto, il codice del 1865, sulla scia della tradizione francese, adottava una generica categoria di “nullità”, che la dottrina aveva successivamente distinto, in via esegetica, tra assoluta e relativa, a seconda della legittimazione della relativa azione. La pandettistica tedesca ha invece costruito un concetto generale di invalidità (Ungültigheit), entro il quale rientrano la nullità (Nichtigkeit) e l’annullabilità (Anfechtbarkeit) propriamente dette.

[56] V. Scalisi, Il contratto in trasformazione. Invalidità e inefficacia nella transizione al diritto europeo, Milano, 2011, 155 s. Questo punto di vista, come ricorda A. Albanese, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Napoli, 2003, 27, era stato peraltro già stato accreditato nel diritto “vivente” italiano precedente alla codificazione del 1942.

[57] Al di fuori di questo spazio di rilevanza giuridica, e là dove l’ordinamento non adotti l’extrema ratio della sanzione penale (come, ad esempio, avviene con i cosiddetti reati-contratto), stanno atti che si rivestono di “giuridicità” solo se i loro autori spontaneamente scelgono di restare ai patti. Per fare un esempio: non è che i privati non possano reciprocamente impegnarsi stipulando un contratto che, ai sensi dell’art. 1343 cod. civ., abbia causa contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume; solo che, là dove l’ordinamento sia richiesto di tutelare l’esecuzione di un contratto con causa illecita, esso rifiuterà il proprio intervento. Con questa chiave può interpretarsi anche l’art. 2035 cod. civ., che fa da pendant all’art. 1343 cod. civ. nella parte in cui questo tutela i boni mores: come è noto, l’irripetibilità di quanto prestato in esecuzione di una prestazione immorale è tradizionalmente intesa nei termini di una pena privata, ossia di «misura sanzionatoria a carico dell’autore della prestazione eseguita per uno scopo turpe, in quanto soggetto che l’ordinamento reputa indegno di ricevere protezione giuridica» (così, ex multis, Cass. 5 agosto 2020, n. 16706, in Fall., 2021, 503 s., con nota di S. Delle Monache, Buon costume e fallimento). A ben vedere, pur non mettendo in discussione il disfavore che la norma esibisce nei confronti della prestazione immorale, la configurazione in termini effettivamente sanzionatori va incontro a ostacoli di tipo logico-sistematico. È agevole osservare, infatti, che si cade in contraddizione là dove si ritenga di punire la condotta dell’autore della prestazione irripetibile, salvo dover riconoscere che l’effetto giuridico ridondi a beneficio dell’accipiens che può essersi macchiato di una indegnità pari, se non maggiore, di quella del solvens: come evidenzia E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, Milano, 2010, 239 [sulla scorta di U. Breccia, Causa, in G. Alpa, U. Breccia, A. Liserre (a cura di), Il contratto, III, in Tratt. Bessone, Torino, 1999, 317], sarebbe irragionevole «una regola che, a parità di turpitudine, consolida il depauperamento del solvens e l’arricchimento dell’accipiens», sicché «in termini di moralità, […] ripetibilità e irripetibilità sembrano infine equivalersi». La mancata afflizione dell’accipiens troverebbe pertanto la propria giustificazione soltanto sul piano storico, come invero sostiene S. Delle Monache, Della irrepetibilità delle prestazioni “ob turpem causam” nel sistema del diritto italiano, in Riv. dir. civ., 2002, 725, nt. 95, per il quale un «certo margine di iniquità […] appare iscritto, per così dire, nel dna della regola stessa, così come testimoniato dalla massima che tradizionalmente la esprime [in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis]». Se, però, si è disposti a procedere al di là dell’interpretazione storicamente condizionata, si può ritenere, seguendo D. Carusi, Contratto illecito e soluti retentio. L’art. 2035 cod. civ. tra vecchie e nuove «immoralità», Napoli, 1995, passim, spec. 15 s., e Id., Illiceità del contratto e restituzioni, in Riv. dir. civ., 2000, 495 s., che l’art. 2035 cod. civ. sia strumento non per sanzionare una condotta immorale già consumata, bensì per impedirne una ulteriore, quale sarebbe l’«abusivo» impiego dell’azione restitutoria da parte di chi prima attribuisce un prezzo a ciò cui è immorale dare prezzo, e poi vorrebbe farsi restituire tale prezzo. Il che, a ben vedere, non significa certo riconoscimento, ancorché minimo, della giuridicità della vicenda negoziale a monte (pena un’antinomia con l’art. 1343 cod. civ.), ma rifiuto dell’ordinamento di essere, in qualsiasi modo, in essa coinvolto. Come è stato scritto, «Chi sta ai patti […] immorali, agisce a suo totale pericolo, quando rispetta la parola data. La legge lo abbandona al suo destino: si disinteressa dell’ingiustizia che si consuma per tramite dell’esecuzione di un accordo, il quale è, per definizione, fuorilegge» (U. Breccia, Causa, cit., 323 s., a commento del § 817 co. 2 BGB, il quale estende peraltro la regola dell’irripetibilità anche alla prestazione illecita per causa diversa dalla immoralità). In altre parole, si delinea una logica esattamente inversa a quella che sorregge l’art. 2034 cod. civ.: se, in quest’ultimo caso, l’ordina­mento interviene per stabilizzare l’avvenuto trasferimento patrimoniale, nel caso dell’art. 2035 cod. civ. esso si mantiene totalmente al di fuori della vicenda, lasciando che questa sia regolata in base alla “legge” esclusiva dell’accordo tra le parti.

[58] G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966 (si veda anche Id., L’”invisibile” presenza della causa del contratto, in Eur. dir. priv., 2002, 897 s.). Il riconoscimento della teorica della causa in concreto si è avuto, in giurisprudenza, con Cass. 8 maggio 2006, n. 10490, in Corr. giur., 2006, 1718 s., con nota di F. Rolfi, La causa come «funzione economico-sociale»: tramonto di un idolum tribus?, per la quale «un’ermeneutica del concetto di causa che, sul presupposto della obsolescenza della matrice ideologica che configura la causa del contratto come strumento di controllo della sua utilità sociale, affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che, a tacer d’altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato)».

[59] L’espressione della funzione “economica-sociale” attribuita alla causa viene fatta risalire, come ben noto, a Emilio Betti, del quale può vedersi, con particolare riferimento alla questione affrontata nel testo, la voce enciclopedica Negozio giuridico, in Enc. Treccani, XXIV, Roma, 1934, 505 s., che così si apre: «Gl’interessi e i rapporti che il diritto privato disciplina esistono nella vita sociale indipendentemente dalla tutela giuridica; l’iniziativa privata è il congegno motore di ogni consapevole regolamento di essi, in quanto si esplica non solo nell’aspirare a dati scopi pratici, ma anche nel foggiarsi i mezzi corrispondenti, prima di qualsiasi intervento del diritto. Ora, mezzi di tal natura sono per eccellenza i negozî giuridici». Questi ultimi, prosegue Betti, «sogliono avere la loro genesi nella vita di relazione: sorgono e si sviluppano spontaneamente sotto la spinta dei bisogni, per adempiere svariate funzioni economico-sociali, fuori dall’ingerenza di ogni ordine giuridico. […] Per il fatto di essere riconosciuti dal diritto, i negozî non cambiano la loro intima natura: solo, le sanzioni sociali sono in parte assorbite e sostituite, in parte fiancheggiate e rafforzate da una sanzione più energica e sicura: quella del diritto». Nondimeno, «se i privati sono padroni di perseguire, mercé la loro autonomia, gli scopi pratici meglio rispondenti ai loro interessi, l’ordine giuridico resta arbitro di valutare tali scopi alla stregua dell’utilità sociale. È ovvio, infatti, che il diritto non può prestare il suo appoggio all’autonomia privata per il conseguimento di qualunque scopo essa si proponga». Evidenzia N. Irti, Letture bettiane sul negozio giuridico, Milano, 1991, 32-39, che il «contributo più prezioso delle pagine bettiane» non va tanto individuato «nell’acre polemica contro il “dogma della volontà”, né nell’introduzione d’un vocabolario teleologico, quanto nella scelta d’un nuovo angolo d’indagine: il processo, per cui il diritto dello Stato entra in rapporto con gli atti di autonomia privata». Sulla concezione bettiana dell’autonomia privata, con spunti critici sull’impiego giurisprudenziale della causa in concreto, si sofferma da ultimo V. Bachelet, Emilio Betti e il suo tempo, con una chiosa sull’impiego della causa concreta a tutela dell’equilibrio contrattuale, in Pol. dir., 2023, 77 s., spec. 99 s.

[60] Cfr. E. Navarretta, Causa e giustizia contrattuale a confronto: prospettive di riforma, in Riv. dir. civ., 2006, 411 s., spec. 431 s.: «La causa […] supporta e arricchisce l’interpretazione dell’atto di autonomia privata; semplifica l’accertamento della liceità; offre una garanzia minima di serietà del vincolo e, indirettamente, predispone un termine di paragone che consente di verificare più agevolmente se il contratto abbia funzionato o sia in condizione di funzionare nella fase del rapporto».

[61] Questa esigenza si mantiene viva anche in riferimento alla nozione di «causa concreta». Si veda, da ultimo, F.sco Benatti, Che ne è oggi del testo del contratto?, in Banca borsa tit. di cred., 2021, 14-15, che ne mette infatti in rilievo l’irrinunciabilità della «funzione sua tipica di verifica della ragione degli spostamenti patrimoniali e delle attribuzioni dei reciproci vantaggi e svantaggi, utilità e disutilità nel rispetto della volontà “vera” delle parti, come soggetti consapevoli e capaci di essere attenti ai loro interessi, privando di validità o efficacia quei contratti che realizzino scambi con prestazioni illecite, irrisorie, capricciose o futili secondo il parametro dell’art. 1174 cod. civ.».

[62] La meritevolezza sembra, insomma, porsi come limite positivo (conformativo) all’autonomia privata: P. Barcellona, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969, 220; F. Galgano, Il negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu – Messineo, Milano, 2002, 102; G. Di Rosa, Il contratto. Appunti di parte generale, Torino, 2021, 62 s.; F. Piraino, Meritevolezza degli interessi, in Enc. dir., I tematici, I, Milano 2021, 689 s., 697 s. Più di recente, il criterio degli «interessi meritevoli di tutela» è stato adottato dall’art. 2645-ter cod. civ., sebbene alla stregua di parametro «in ragione del quale l’atto può aspirare a conseguire un effetto che deroga al principio di indisponibilità del carattere universale della responsabilità patrimoniale» (A. Renda, Donation-based crowdfunding, raccolte fondi oblative e donazioni “di scopo”, Milano, 2021, 486-487).

[63] Cfr. C.M. Bianca, Diritto civile. Il contratto3, III, Milano, 2019, 412-414.

[64] Cfr. A. Nicolussi, Le restituzioni de iure condendo, in Europa dir. priv., 2012, 795, nt. 24, ove la segnalazione dell’opposta posizione di V. Roppo, Il contratto2, Milano, 2011, 345-346, il quale ammette la validità dei contratti con «causa futile», ossia privi di alcuna utilità sociale. D’altronde, persino là dove si è scelto di fare a meno della causa (come nel caso dei progetti di costruzione di un diritto europeo autenticamente sovranazionale, su cui C. Castronovo, Un contratto per l’Europa, in Principi di diritto europeo dei contratti, I e II, ed. it. a cura di C. Castronovo, Milano, 2001, XXIII s., o, più di recente, della riforma del diritto delle obbligazioni francese, su cui F. Benatti, Note sulla riforma del libro III del Codice Civile Francese: molto rumore per nulla?, in Banca borsa tit. cred., 2016, 627 s., spec. 631), ciò non ha avuto come conseguenza la sterilizzazione dell’esigenza di controllo che l’istituto in parola assicura. Sul punto, cfr. U. Breccia, Morte e resurrezione della causa: la tutela, in S. Mazzamuto (a cura di), Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, Torino, 2002, 241 s.

[65] R. Nicolò, Codice civile, in Enc. dir., VII, 1960, 248.

[66] C. Castronovo, Alle origini della fuga dal Codice. L’assicurazione contro gli infortuni tra diritto privato generale e diritti secondi, in Jus, 1985, 34.

[67] Come ricorda C. Pinelli, “Diritto di essere se stessi” e “pieno sviluppo della persona umana”, in Rivista AIC, 2021, 316 s., La Pira (I sottocommissione, seduta del 1° ottobre 1946) aveva proposto di far precedere il catalogo dei diritti di libertà da questo articolo: «L’autonomia dell’uomo e le singole libertà in cui essa si concreta sono garantite dalle norme seguenti e debbono essere esercitate per l’affermazione e il perfezionamento della persona in armonia con le esigenze del bene comune e per il continuo incremento di esso nella solidarietà sociale». Sul concetto di “finalizzazione” che faceva da sfondo a questa proposta si vedano, tra gli altri, M. Cartabia, La fabbrica della costituente: Giuseppe Dossetti e la finalizzazione delle libertà, in Quad. cost., 2017, 471 s., e – più in generale – F. Pizzolato, Finalismo dello Stato e sistema dei diritti nella Costituzione italiana, Milano, 1999. Questa concezione non fu accolta nel testo della Costituzione per le opposizioni dei rappresentanti delle culture laiche, condivise in verità anche da altri giuristi cattolici, come ad esempio Leopoldo Elia, per il quale «una tendenza a finalizzare le libertà poteva riuscire pericolosa, anche se per i proponenti la Costituzione si rivolgeva alla persona, e non solo allo Stato. Il silenzio sull’uso della libertà scongiura al massimo grado il rischio di ogni giudizio calato dall’alto» (riportato in C. Pinelli, “Diritto di essere se stessi”, cit., 317). Purtuttavia, sottolinea M. Cartabia, La fabbrica della costituente, cit., 479-480, l’essenza della concezione – ossia «l’idea della strutturale limitatezza delle libertà individuali e il rifiuto della loro assolutizzazione» – è entrata a far parte della interpretazione dominante della carta costituzionale.

[68] Cfr. L. Mengoni, I diritti sociali, in Metodo e teoria giuridica, cit., 133. Si veda, inoltre, C. Castronovo, Problema e sistema nel danno da prodotti, Milano, 1979, 598, nt. 114, ove la precisazione che «ribadire che la concezione solidaristica attiene al momento dell’esercizio delle situazioni soggettive» consente di metterne in evidenza la distanza «dall’idea della funzionalizzazione di esse, teorizzata dai regimi totalitari. La chiave personalistica, oltre che solidaristica, della nostra Costituzione impedisce di giungere a tale risultato. Sarebbe del resto contraddittorio che il potenziamento della solidarietà si convertisse nel misconoscimento di esse». Sul personalismo come matrice fondamentale della nostra Costituzione, si veda, da ultimo, l’approfondito studio di E. Caterina, Personalismo vivente. Origini ed evoluzione dell’idea personalista dei diritti fondamentali, Napoli, 2023. Incidentalmente, va ricordato che l’art. 41 Cost. è stato fatto oggetto di una recente riforma, che vi ha introdotto espliciti riferimenti alla tutela dell’ambiente: a norma del nuovo secondo comma della disposizione, infatti, l’iniziativa economica privata «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (corsivo aggiunto).

[69] Tra i primi, in dottrina, a occuparsi del rapporto tra disciplina codicistica e Costituzione: E. Finzi, Riflessi privatistici della Costituzione, Comm. sistem. Cost. it., dir. da P. Calamandrei, E. Levi, I, Firenze, 1950, 33 s.; P. Rescigno, Per una rilettura del codice civile, in Giur. it., 1968, IV, 224 s. (ora in Id., Codici. Storia e geografia di un’idea, Roma-Bari, 2013, 34 s.); P. Perlingieri, Scuole civilistiche e dibattito ideologico. Introduzione allo studio del diritto privato in Italia, in Riv. dir. civ., 1978, 414 s.

[70] Di «connessioni verticali» tra il Codice e la Costituzione, «capaci di esprimere una energia normativa, che di per sé [le norme del Codice] non avrebbero o avrebbero in grado minore o più limitato», scrive N. Irti, Codice civile e società politica, cit., 61-63, richiamandosi a G. Oppo, Sui principi generali del diritto privato, in Riv. dir. civ., 1991, 475 s. E si veda già R. Nicolò, Diritto civile, cit., 909: «alcuni dei principi costituzionali […] hanno tale forza espansiva […] da assumere la funzione […] di direttive fondamentali per la elaborazione e l’attuazione degli istituti civilistici». Cfr., infine, E. Weinrib, Reciprocal Freedom, cit., 133-141, ove si fa riferimento a una «Determinacy Function» e a una «Development Function» relative all’innesto del punto di vista costituzionale nel discorso giuridico privatistico.

[71] C.W. Canaris, Wandlungen des SchuldvertragsrechtsTendenzen zu seiner “Materialisierung”, in Id., Gesammelte Schriften, Berlin, 2012, 259 s. e una precisazione concettuale a 263.

[72] C. Castronovo, Problema e sistema nel danno da prodotti, cit., 22 s., seguito da A. Nicolussi, Obblighi di protezione, in Enc. dir., Annali, Milano, 2015, 661.

[73] A partire da S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964 (rist. inalt.: Milano, 2023), passim, spec. 102 s.

[74] C. Castronovo, Problema e sistema nel danno da prodotti, cit., 594 e 601 s. Anche P. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961, 39, pur distinguendo il «campo della responsabilità in due parti nelle quali si esplicano due istituti che hanno diversi i presupposti e il modo di operare» (la responsabilità per colpa e quella oggettiva), ne ha individuato un fine in qualche misura comune: la riduzione del rischio.

[75] L. Ferrajoli, Magistratura democratica e l’esercizio alternativo della funzione giudiziaria, in L’uso alternativo del diritto. Scienza giuridica e analisi marxista, I, vd. nota successiva, 115.

[76] Gli atti del celebre convegno catanese del 1972 sono stati pubblicati in P. Barcellona (a cura di), L’uso alternativo del diritto. Scienza giuridica e analisi marxista, I; Ortodossia giuridica e pratica politica, II, Roma-Bari, 1973.

[77] Cfr. A. Nicolussi, I consumatori negli anni Settanta del diritto privato. Una retrospettiva problematica, in Europa dir. priv., 2007, 933 s., ove si ricorda anche la coeva esperienza tedesca volta sempre a rompere l’isolamento del discorso giuridico dalle circostanti scienze economiche e sociali, ma con un approccio più equilibrato e consapevole della specificità del compito del diritto (che viene sottolineata, tra gli altri, da L. Raiser, Il compito e la responsabilità del giurista nella società, in Id., Il compito del diritto privato. Saggi di diritto privato e di diritto dell’economia di tre decenni, Milano, 1990, 194 s.). Si veda, ora, M. Barcellona, Giudici, politica, democrazia. Uso alternativo o diritto alternativo: alle radici di uno scontro in un mondo cambiato, Roma, 2023, 37 s., nel quale si mette in rilievo una divergenza di “strategia” tra le correnti di sinistra della magistratura che promuovevano l’avvento di una «giurisprudenza alternativa», assumendo direttamente il compito di attuare l’«eguaglianza sostanziale», e la sinistra “accademica”, più incline a valorizzare il ruolo della politica democratica. Già prima del convegno catanese, un nuovo ruolo del giudice come fattivo interprete dell’evoluzione sociale era stato auspicato da S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1967, I, 83 s., in uno con un riassestamento della tecnica normativa verso la cosiddetta “legislazione per principi”. Non sorprende che tra i punti di avvio della propria riflessione, Rodotà avesse individuato proprio l’acquisizione della «convinzione della storicità o della relatività dei concetti giuridici», la constatazione del «tramonto del significato costituzionale dei codici di diritto privato», la coscienza «della particolare rilevanza assunta da elementi pubblicistici e da interessi sociali nelle materie tradizionalmente assegnate alla disciplina civilistica» (85).

[78] N. Irti, L’età della decodificazione4, Milano, 1999, 30.

[79] F. Hayek, Diritto, legislazione e libertà, cit., 224.

[80] S. Cassese, La «vecchia» costituzione economica: i rapporti tra Stato ed economia dall’Unità ad oggi, in Id. (a cura di), La nuova costituzione economica3, Roma-Bari, 2021, 17 s.

[81] L. Mengoni, Programmazione e diritto, in Jus, 1966, 12-13. La necessità di salvaguardare l’essenza strutturale e funzionale dell’autonomia privata, oltre la quale l’atto di suo esercizio degraderebbe in mera discrezionalità, è evidenziata anche da R. Nicolò, Diritto civile, cit., 912-913.

[82] Per una particolareggiata analisi delle discipline vincolistiche che si sono succedute dall’inizio dello scorso secolo fino alla legge sull’equo canone, si veda B. Inzitari, Autonomia privata e controllo pubblico nel rapporto di locazione. Linee di una vicenda, Napoli, 1979, 143 s. Per alcuni profili di attualità della questione, si vedano invece U. Breccia, Diritto all’abitazione e disciplina delle locazioni, ora in Id., Immagini del diritto privato. Il contratto, II, t. 2, Torino, 2020, 1083 s., ed E. Bargelli, Locazione abitativa e diritto europeo. Armonie e disarmonie di un capitolo del diritto privato sociale, in Europa dir. privato, 2007, 951 s., ove un riferimento a E. Eichenhofer, L’utilizzazione del diritto privato per scopi di politica sociale, in Riv. dir. civ., 1997, 193 s., che annovera la disciplina delle locazioni abitative proprio tra gli esempi dell’utilizzazione del diritto privato per scopi di politica sociale (198-200).

[83] Su cui ora E. Navarretta, Costituzione, Europa e diritto privato. Effettività e Drittwirkung ripensando la complessità giuridica, Torino, 2017, 3 s., spec. 19-23. Si vedano, inoltre, i saggi raccolti in P. Femia (a cura di), Drittwirkung: principi costituzionali e rapporti tra privati. Un percorso nella dottrina tedesca, Napoli, 2018: in particolare, C.-W. Canaris, Diritti fondamentali e diritto privato, 104 s., intorno alla cui tesi – che ripudia metodologicamente entrambi gli estremi della mittelbare Drittwirkung e della unmittelbare Drittwirkung – si è consolidata in Germania una herrschende Meinung.

[84] Proprio nell’«intima connessione con la dignità e le situazioni della persona», B. Sordi, Diritto pubblico e diritto privato, cit., 231, rintraccia una «intima vocazione costituzionale» del diritto privato, «costruita però in antitesi e in simmetrica contrapposizione a quella tutta proprietaria» tipica delle codificazioni liberali.

[85] L. Mengoni, La questione del «diritto giusto» nella società post-liberale, cit., 64-65. Che i diritti fondamentali della persona costituiscano un «ordinamento assiologico oggettivo» (objektive Wertordnung) è stato affermato nella nota sentenza Lüth (15 gennaio 1958) del Bundesverfassungsgericht, che si legge ora tradotta in Drittwirkung: principi costituzionali e rapporti tra privati, cit., 291 s. e il passaggio virgolettato a 296 (si veda anche 298, per una accorata difesa del valore alto della libertà di espressione, che appare oggi invece a rischio di essere negletto). Proprio a partire della sentenza Lüth, osserva E. Caterina, Personalismo vivente, cit., 209-210, nella giurisprudenza costituzionale tedesca si registra un «distacco dal puro e semplice giusnaturalismo: i valori, per quanto da determinare in concreto, sono fissati dalla stessa costituzione e fanno comunque parte del diritto positivo. E tuttavia è la fondazione giusnaturalistica a conferire loro questa nuova posizione preminente e il loro stesso impiego avviene secondo logiche che si oppongono nettamente al vecchio giuspositivismo formalistico». Si veda, infine, la precisazione di E.-W. Böckenförde, La democrazia come principio costituzionale, in Id., Stato, costituzione, democrazia. Studi di teoria della costituzione e di diritto costituzionale, ed. it. a cura di M. Nicoletti, O. Brino, Milano, 2006, 471-472: «La democrazia come forma organizzativa della cooperazione degli uomini e delle donne nella legittimazione e nell’esercizio del dominio politico non si incentra soltanto su misure di carattere costituzionale e appunto organizzativo-istituzionale, ma in pari modo anche su determinate modalità di comportamento umano».

[86] Cass. sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, in Foro it., 2009, I, c. 120 s., con note di A. Palmieri, La rifondazione del danno non patrimoniale, all’insegna della tipicità dell’interesse leso (con qualche attenuazione) e dell’unitarietà; R. Pardolesi, R. Simone, Danno esistenziale (e sistema fragile): «die hard»; G. Ponzanelli, Sezioni unite: il «nuovo statuto» del danno non patrimoniale; E. Navarretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e la sostanza dei danni non patrimoniali; cui adde Cass. sez. un., 11 novembre 2008, n. 26973, Cass. sez. un., 11 novembre 2008, n. 26974 e Cass. sez. un., 11 novembre 2008, n. 26975, tutte in dejure.it.

[87] Secondo G. de Almeida Ribeiro, The Decline of Private Law. A Philosophical History of Liberal Legalism, Oxford-New York, 2019, 275, la “costituzionalizzazione” del diritto privato non si traduce in un modo di essere delle regole civilistiche in un ordinamento costituzionale, bensì nella loro specificazione nei termini propri del diritto costituzionale, con il risultato di un loro sostanziale annullamento in quest’ultimo. Nelle conclusioni di questo autore si avverte, per il medio dei critical legal studies, un’eco realista, adeguata però al contesto istituzionale presente, fortemente segnato dalla giurisdizionalizzazione dell’amministrazione dei conflitti sociali: sicché, se per i realisti del XX secolo, la perdita di autonomia del discorso giuridico (privatistico, ma non solo) conduceva all’assorbimento di questo nella politica, al giorno d’oggi, parafrasando la celeberrima formula di Portalis (ripresa criticamente nel secondo dopoguerra da G. Ripert, Tout devient droit public, in Id., Le déclin du droit. Étude sur la législation contemporaine, Paris, 1949, 37 s.), può dirsi che Tout devient droit constitutionnel. A tal proposito, si ricorderà che il processo di costituzionalizzazione del diritto privato è stato anche descritto con riferimento a una «total constitution» da M. Kumm, Who is Afraid of the Total Constitution? Constitutional Rights as Principles and the Constitutionalization of Private Law, in German Law Journal, 2006, 341 s. Il rischio di queste impostazioni è quello di conservare soltanto l’esteriorità del discorso giuridico e non anche la sua sostanza, che è anzitutto il riconoscimento della sua autonomia dalle altre esperienze sociali di controllo e distribuzione del potere. Quest’ultima può essere salvaguardata, ancora una volta, grazie agli strumenti della tradizione europeo-continentale, che sono principalmente quelli della dogmatica: non di una dogmatica però sterilizzata nelle forme del passato, ma una “nuova” e come tale capace di integrare i punti di vista valoriali proposti dalle Costituzioni del “dopo Auschwitz” (A. Nicolussi, Beni relazionali e diritto dei rapporti etico-sociali, in TCRS, 2014, 45), in ciò seguendo l’insegnamento di Luigi Mengoni (Ancora sul metodo giuridico, in Diritto e valori, cit., 99: «Nel campo della dogmatica occorre adeguare le strutture concettuali del sistema ai valori ancorati nella legge fondamentale, e ciò postula un sistema aperto all’integrazione di nuove premesse di decisione»), dal quale si ricava inoltre la consapevolezza che l’applicazione dei principi costituzionali richiede, almeno nella maggioranza dei casi, una ragionata opera di bilanciamento che il giurista deve compiere secondo criteri non coincidenti con quelli a disposizione del legislatore (Per una dogmatica dei diritti fondamentali, in Metodo e teoria giuridica, cit., 255 s.; l’espressione «dogmatica dei diritti fondamentali» è impiegata anche da E.-W. Böckenförde, Diritti fondamentali come norme di principio. Sulla situazione attuale della dogmatica dei diritti fondamentali, in Stato, costituzione, democrazia, cit., 209 s., e P. Femia, Drittwirkung. Una dogmatica di transizione, in Drittwirkung: principi costituzionali e rapporti tra privati, cit., XXI).

[88] Cfr. F.sco Benatti, Che ne è oggi del testo del contratto?, cit., 8 s. e spec. 12 s., nt. 26. Sulla tensione tra autonomia privata e giustizia contrattuale è istruttiva la lettura di P.S. Atiyah, Contract and Fair Exchange, in Id., Essays on Contract, Oxford, 1990, 329 s.

[89] Questione notoriamente controversa è quella della natura diretta o indiretta di questa tutela. Luigi Mengoni – che in Programmazione e diritto, cit., 11, aveva invero giudicato di «mediocre importanza» (ma con riferimento specifico al problema del rapporto con la programmazione) sapere se l’autonomia negoziale «sia oggetto di una garanzia diretta e globale oppure di una garanzia solo indiretta» – pare prediligere l’idea di una tutela soltanto riflessa da quella che assiste gli altri istituti ai quali l’autonomia è strettamente connessa, e cioè principalmente proprietà e iniziativa economica. Di conseguenza, egli esclude anche la possibilità di radicare nell’art. 2 Cost. una guarentigia quantomeno implicita o innominata dell’autonomia stessa (così in Id., Autonomia privata e Costituzione, in Metodo e teoria giuridica, cit., 101-102), pur manifestando la consapevolezza che su questa impostazione pende la pregiudiziale storico-ideologica legata alle culture dominanti in Assemblea costituente (Id., Persona e iniziativa economica privata nella Costituzione, in Metodo e teoria giuridica, cit., 94). Sempre per una tutela indiretta è A. Albanese, Contratto mercato responsabilità, Milano, 2008, 86. A favore della fondazione di una tutela diretta si pronuncia G. Benedetti, Negozio giuridico e iniziativa economica privata, in Id., Il diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale. Studi, Napoli, 1997, 126 s., che individua la norma di riferimento nell’art. 41 Cost. (dal momento che «tutele e limiti previsti [da quest’ultimo] non vanno ridotti all’espressione più vistosa dell’iniziativa economica privata che si realizza nell’impresa, ma sono estesi più in generale all’au­tonomia del privato»), mentre di una tutela costituzionale diffusa, dislocata tra diverse disposizioni, discorrono R. Sacco, G. De Nova, Il contratto, cit., 28-29. Dubita di una tutela persino indiretta dell’autonomia invece G. Alpa, Diritti, libertà fondamentali e disciplina del contratto: modelli a confronto, in Riv. it. scienze giur., 2017, 154.

[90] D’altronde, come precisa L. Nogler, Saggio sull’efficacia regolativa del contratto collettivo, Padova, 1997, 213 (con riferimento espresso a L. Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, cit., 107), «i diritti fondamentali» – salvo le poche norme strutturate (anche) in modo regolativo, come ad esempio gli artt. 36 comma 1 e 37 commi 1 e 3 Cost. – non possono, in quanto principi, «incidere nei rapporti negoziali privati se non come criteri o direttive di interpretazione delle leggi che li regolano». E proprio perché enunciati nella forma di principi, i diritti fondamentali possono andare incontro alla necessità di una ridefinizione contenutistica, determinata dal differente contesto applicativo che segue al trapasso dal diritto costituzionale al diritto privato [H. Collins, On the (In)compatibility of Human Rights Discourse and Private Law, cit., 34-35], che ne ostacola di conseguenza l’efficacia diretta e non mediata. In termini analoghi anche S. Mazzamuto, Giurisprudenza per principi e autonomia privata, in S. Mazzamuto, L. Nivarra (a cura di), Giurisprudenza per principi e autonomia privata, Atti del Convegno dell’Unione dei Privatisti 30 ottobre 2015, Torino, 2016, 280: «Al di là dei precetti costituzionali concepiti secondo gli schemi della fattispecie analitica e, dunque, verosimilmente applicabili in via immediata, si estende il campo dei principi e dei diritti fondamentali enunciati in forma indeterminata. Non solo per la tecnica normativa che li sorregge ma specialmente per il loro valore di fini ultimi e, quindi, di congegni di ottimizzazione, principi e diritti fondamentali si presentano a rivestire il ruolo di strumenti eminentemente ermeneutici, finalizzati a realizzare sulle proposizioni normative di rango inferiore operazioni interpretative dotate di una forte carica evolutiva». Oltre il limite di possibilità fornito dall’interpretazione conforme a Costituzione, il contrasto tra quest’ultima e la norma di grado inferiore va quindi risolto con la rimessione della questione di costituzionalità al giudice delle leggi, giacché «l’opera di adeguamento di un testo […] non può essere condotta sino al punto di leggervi quel che non c’è, anche quando la costituzione vorrebbe che vi fosse» (M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enc. dir., Annali, IX, Milano, 2016, 434).

[91] Cfr., negli scritti più recenti, G. D’Amico, Giustizia contrattuale e contratti asimmetrici, in Europa dir. priv., 2019, 30-38 e 44-48, e A. Albanese, L’uguaglianza formale e sostanziale nel mercato tra libertà e giustizia «contrattuale», cit., 9-10. Una apertura a uno spazio di competenza per il potere giurisdizionale, invece, si trova in E. Navarretta, Costituzione, Europa e diritto privato, cit., 196 s. Vi è anche chi ha difeso un rilievo ancor più ampio degli interessi generali nella conformazione del contratto, spingendosi a far di quest’ultimo uno strumento di redistribuzione della ricchezza in conformità a fini di giustizia sociale: Giustizia sociale nel diritto contrattuale europeo: un manifesto, in Riv. crit. dir. priv., 2005, 99 s. Per una critica a tale programma vedi F. Piraino, Il diritto europeo e la «giustizia contrattuale», in Europa dir. priv., 2015, 257 e la stessa E. Navarretta, Costituzione, Europa e diritto privato, cit., 193-195, la quale, distinguendo tra obiettivi di “giustizia contrattuale” e obiettivi di “giustizia sociale”, ribadisce rispetto a questi ultimi l’ineludibilità dell’intervento del legislatore.

[92] Si comprende perché, nel caso del risarcimento del danno non patrimoniale, del medesimo intervento di mediazione del legislatore si sia potuto fare a meno, ammettendo un arricchimento immediato dell’ambito normativo dell’art. 2059 cod. civ. con riferimento alla rilevanza della persona intesa come Grundnorm costituzionale (secondo l’evocativa formula di C. Castronovo, Danno biologico. Un itinerario di diritto giurisprudenziale, Milano, 1998, 1). La presenza del fatto illecito, infatti, esclude la contrapposizione di una posizione giuridica soggettiva che reclami anch’essa la tutela accordata dal riconoscimento costituzionale, semmai ponendo la questione della precisazione della fonte dell’obbligazione risarcitoria (appunto risolta dalla rilettura dell’art. 2059 cod. civ.). Perciò, A. Nicolussi, Autonomia negoziale dal contenuto non patrimoniale, in G. Carapezza Figlia, G. Frezza, P. Virgadamo (a cura di), «La personalità umana nell’ordinamento giuridico» di Pietro Perlingieri, cinquant’anni dopo, Atti del VI Convegno SISDiC Sicilia, 5 e 6 novembre 2021, Napoli, in corso di pubblicazione, 179, ha proposto di contestualizzare il valore della tesi sulla necessità di una mediazione legislativa riferendola «soprattutto all’autonomia privata, più che in generale al diritto civile»: è, infatti, riguardo all’autonomia privata che «una costituzionalizzazione del diritto dei contratti porta con sé, tra gli altri elementi, tutta la problematicità dovuta al conflitto, in essa latente, tra libertà di contratto, in Germania protetta direttamente dalla stessa Costituzione, e diritti fondamentali che la medesima libertà di contratto potrebbe violare».

[93] Si fa riferimento alla cosiddetta Scuola di Vienna, costruita sulle coordinate fondamentali dell’individualismo metodologico e, con più stretto riferimento alla materia economica, del valore soggettivo e del marginalismo. Inizialmente raccoltasi attorno agli insegnamenti di Carl Menger (fratello di Anton), autore di Grundsätze der Volkswirtschaftslehre (1871), trad. it: Principi fondamentali di economia, a cura di R. Cubeddu, Soveria Mannelli, 2001, la Scuola proseguì sotto la guida di Ludwig von Mises e di Friedrich von Hayek.

[94] L’idea risale, come ben noto, a Franz Böhm (Privatrechtsgesellschaft und Marktwirtschaft, in ORDO, 1966, 75 s.), nel cui pensiero, come precisa A. Zanini, Diritto e potere privato. Franz Böhm, in Fil. pol., 2019, 83 s., non si rinviene un’adesione a un preteso primato del diritto privato su quello pubblico, ma all’opposto la consapevolezza che un rigido schematismo finisce per non restituire un’immagine affidabile delle operazioni sociali e giuridiche. Per il rilievo che l’idea di una Privatrechtsgesellschaft ha avuto sullo sviluppo del diritto privato europeo, si vedano: C.-W. Canaris‚ Verfassungs – und europarechtliche Aspekte der Vertragsfreiheit in der Privatrechtsgesellschaft, in P. Badura, R. Scholz (a cura di), Wege und Verfahren des Verfassungslebens. Festschrift für Peter Lerche zum 65. Geburtstag, Munich, 1993, 873 s.; S. Grundmann, The Concept of the Private Law Society. After 50 Years of European and European Business Law, in ERPL, 2008, 553 s.

[95] H.-W. Micklitz, The Visible Hand of European Regulatory Private Law. The Transformation of European Private Law from Autonomy to Functionalism in Competition and Regulation, Yearbook of European Law, 2009, 3 s. Si veda anche G. Comparato, Public Policy through Private Law: Introduction to a debate on European Regulatory Private Law, in Eur. Law J., 2016, 621 s.

[96] A. Zoppini, Il diritto privato e i suoi confini, cit., 249-251.

[97] Così, testualmente, P. Sirena, Diritto privato e diritto pubblico in una società basata sulle libertà individuali, in Riv. dir. civ., 2017, 112.

[98] Si vedano, per tutti, L. Einaudi, Chi vuole la libertà, in Id., Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Roma-Bari, 1954, 112-117, e L. Sturzo, Difesa della libertà economica, in Id., Politica di questi anni. Consensi e critiche (1954-1956), Bologna, 1968, 171-172. Della sottovalutazione di quel legame si trova traccia, ad esempio, in M. Giorgianni, Il diritto privato e i suoi attuali confini, cit., 412.

[99] Cfr. Mengoni, Autonomia privata, cit., 103, seguito da A. Albanese, Contratto mercato responsabilità, cit., 4-5. La diversa qualità dell’intervento eteronomo – comunque sempre limitativo – sull’autonomia privata è sottolineata in A. Zoppini, Il diritto privato e i suoi confini, cit., 177 s., spec. 188-194. Come già ricordato, nel corpo dell’art. 41 Cost. ha recentemente fatto ingresso un esplicito riferimento alla tutela dell’ambiente, presa ora in considerazione dal terzo comma della disposizione come fine, insieme a quello sociale, che consente di indirizzare e coordinare le attività economiche. Per il modo in cui questo obiettivo viene solitamente inteso da ampi settori dell’opinione pubblica, la riforma potrebbe far presagire il ritorno a una lettura della disposizione che ammette la sovrapposizione di un modello di sviluppo definito dalla volontà politica ai meccanismi del mercato.

[100] Cfr. O. Cherednychenko, Rediscovering the public/private divide in EU private law, in Eur. Law J., 2020, 27 s.

[101] Si vedano: A. Nicolussi, I consumatori negli anni Settanta del diritto privato, cit., 938 s.; A. Albanese, Contratto mercato responsabilità, cit., 62 s.; S. Mazzamuto, Equivoci e concettualismi nel diritto europeo dei contratti: il dibattito sulla vendita dei beni di consumo, in Europa dir. priv., 2004, 1029 s.; C. Camardi, Tecniche di controllo dell’autonomia contrattuale nella prospettiva del diritto europeo, in Europa dir. priv., 2008, 831 s.; G. Alpa, Introduzione al diritto dei consumatori, Roma-Bari, 2006, 18 s.; P. Perlingieri, Il “diritto privato europeo” tra riduzionismo economico e dignità della persona, in Europa dir. priv., 2010, 345 s.; G. Vettori, Oltre il consumatore, in Persona e mercato, 2011, 318 s.; A. Sciarrone Alibrandi, Il falso mito della tutela del consumatore, in V&P, 2013, 61 s.; E. Hondius, The Internal Market and the Consumer: Has EU Consumer Law Come of Age?, in Eur. Rev. Priv. Law, 2014, 165; C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, 256 s.

[102] A. Barba, Consumo e sviluppo della persona, Torino, 2017, XV s.

[103] Si veda ora, in particolare, L. Guffanti Pesenti, Scorrettezza delle pratiche di commerciali e rapporto di consumo, Napoli, 2020, 62 s.

[104] Da ultimo, è A. Albanese, L’uguaglianza formale e sostanziale nel mercato, cit., 5-10 (ove il richiamo a J. Habermas, Morale, diritto, politica, Torino, 1992, 21) a ricordare l’esigenza di tenere concettualmente distinto il piano dell’«efficiente funzionamento del mercato […] dall’interesse di cui è portatore il singolo contraente, il quale è a sua volta meritevole di una specifica tutela, secondo regole che devono essere giuste per i soggetti interessati e non solamente utili per la collettività».

[105] Lo ha messo in rilievo A. Nicolussi, Etica del contratto e “Contratti ‘di durata’ per l’esistenza della persona”, in L. Nogler, U. Reifner (a cura di), Life Time Contracts: Social Long-term Contracts in Labour, Tenancy and Consumer Credit Law, The Hague, 2014, 135, cui si deve peraltro la definizione della garanzia “consumeristica” indicata nel testo, in quanto rivolta a consentire prioritariamente il conseguimento dell’interesse specifico del consumatore connesso all’atto di consumo (Id., Diritto europeo della vendita dei beni di consumo e categorie dogmatiche, in Europa dir. priv., 2003, 525 s.).

[106] Questa presa di coscienza si è espressa, tra le altre forme, nell’esplosione del fenomeno della cosiddetta climate change litigation: L. Serafinelli, La responsabilità civile come tecnica di compensazione assiologica degli interessi climatici nell’inerzia delle politiche legislative. Un’analisi comparatistica di controversie private per pubblici interessi, in DPCE online, 2022, 2197 s.; B. Pozzo, Climate Change Litigation in a Comparative Law Perspective, in F. Sindico, M.M. Mbengue (a cura di), Comparative Climate Change Litigation: Beyond the Usual Suspects, Berlin, 2021, 593 s.; C. V. Giabardo, Climate Change Litigation and Tort Law. Regulation through Litigation?, in Diritto e Processo. Derecho y Proceso – Right & Remedies, Perugia, 2019, 316 s.; C.M. Masieri, La Law of Torts alla prova dei cambiamenti climatici, in Riv. giur. amb., 2022, 457 s. La potenzialità para-regolatoria del ricorso alla responsabilità civile è sottolineata da, ultimo, in C.M. Sharkey, Common Law Tort as a Transitional Regulatory Regime: A New Perspective on Climate Change Litigation, in J. Adler (a cura di), Climate Liberalism. Perspectives on Liberty, Property and Pollution, London, 2023, 103 s.

[107] Iniziativa “Consumo sostenibile di beni – promuovere la riparazione e il riutilizzo”, qui consultabile: https://ec.europa.eu/info/law/better-regulation/have-your-say/initiatives/13150-Consumo-sostenibile-di-beni-promuovere-la-riparazione
-e-il-riutilizzo_it
(ultimo accesso: 08.09.2023).

[108] La prospettiva di una gerarchizzazione dei rimedi è accolta favorevolmente da D.M. Matera, Difetto di conformità, gerarchia dei rimedi e sostenibilità ambientale nel nuovo art. 135-bis cod. cons. e nella Dir. 771/2019, in Riv. dir. priv., 2022, 462 s. e C. Camardi, Diritto civile e nuovi valori costituzionali. Qualche suggestione da recenti riforme, in Jus Civile, 2023, 565.

[109] Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme comuni che promuovono la riparazione dei beni e che modifica il regolamento (UE) 2017/2394 e le direttive (UE) 2019/771 e (UE) 2020/1828 (ove anche le informazioni relative alla posizione espressa dagli Stati membri), qui consultabile: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:
52023PC0155
(ultimo accesso: 08.09.2023). Art. 5 co. 1 (Obbligo di riparazione): «Gli Stati membri provvedono affinché, su richiesta del consumatore, il produttore ripari, gratuitamente o a fronte di un corrispettivo in denaro o di una controprestazione di altro tipo, i beni per i quali e nella misura in cui gli atti giuridici dell’Unione elencati nell’allegato II prevedono specifiche di riparabilità» (corsivo aggiunto).

[110] Proprio la direttiva in esame si apre annunciando di stabilire «norme comuni che promuovono la riparazione dei beni al fine di contribuire al buon funzionamento del mercato interno, garantendo nel contempo un livello elevato di protezione dei consumatori e dell’ambiente» (art. 1 co. 1). La protezione dei consumatori e quella dell’ambiente sono testualmente poste sullo stesso livello, così non cogliendo la possibile tensione tra i due obiettivi di politica del diritto. Osservano infatti F. Zoll, K. Południak-Gierz, W. Bańczyk, Towards an Environment-friendly Law of Obligations, in A. Janssen, M. Lehmann, R. Schulze (a cura di), The Future of European Private Law, Baden-Baden, 2023, 217, che «What is problematic under the directive is a situation in which neither party has an interest in exercising rights that are environment friendly. It is the natural limit of private law instruments, which cannot lose their primary function, which is to serve the private interests of participants to the legal relationship. The protection of public interests must always be only a side-effect of the private law’s operation». Altro profilo di potenziale contrasto tra l’interesse individuale del consumatore e quello generale alla tutela dell’ambiente si registra rispetto all’esercizio del diritto di recesso, visti i costi – in termini di sostenibilità – del ritorno sul mercato del consumatore, come avevamo già rilevato nel nostro Interessi privati e interessi generali nelle “stagioni” del diritto civile, in corso di pubblicazione negli atti del II Seminário Ítalo-Brasileiro de direitos fundamentais, organizzato da Iberojur – Instituto Iberoamericano de Estudos Jurídicos e Università degli Studi di Padova, e come si legge ora anche in F. Zoll, K. Południak-Gierz, W. Bańczyk, Towards an Environment-friendly Law of Obligations, cit., 220-222. Viene da chiedersi, peraltro, se l’irruzione sulla scena della tutela rafforzata dell’ambiente non possa preludere anche alla riemersione di certi atteggiamenti negativi nei confronti dell’atto di consumo, così tornando a quei pregiudizi culturali ed etici catturati nell’espressione, deteriore, di “consumismo” (cfr. A. Nicolussi, I consumatori negli anni Settanta del diritto privato, cit., 919 s.). Di alcune esagerazioni nel ciclo di produzione e consumo, che pure si sono registrate anche negli anni più recenti, è persino auspicabile liberarsi; ma un punto di vista tutto sbilanciato su un interesse esterno finirebbe per far dimenticare che l’atto di consumo, oltre che esercizio di libertà, è mezzo di soddisfazione dei bisogni della vita, e di una vita più comoda e agiata.

[111] Così F. Zecchin, Sviluppo sostenibile delle catene di fornitura internazionali e diritti inviolabili, in Jus, 2022, 398. Cfr., altresì, Caterina, Personalismo vivente, cit., 267, che chiarisce che «La lotta ai cambiamenti climatici e la tutela dell’ecosistema, da ultimo costituzionalizzate con la revisione dell’art. 9 Cost. del 2022, non possono essere certo viste come un cambiamento di paradigma in chiave ecocentrica che porti il nostro ordinamento costituzionale dalla centralità della persona alla centralità della natura. Al centro rimane sempre la persona e però viene in rilievo la dimensione temporale e il diritto delle nuove generazioni, in altri termini la proiezione nel futuro dei diritti della persona».

[112] Il rischio è, infatti, quello di una deriva neo-paternalista che metta in ombra l’autonomia dell’individuo e la correlata responsabilità personale: cfr. F. Guala, L. Mittone, A Political Justification of Nudging, in Rev. Phil. Psych., 2015, 385 s. Sul costo non lieve che per tale ragione si paga nei rapporti tra Stato e società civile si veda già P.S. Atiyah, Freedom of Contract and the New Right, in Essays on Contract, cit., 360 s.

[113] Si vedano i saggi di N. Bobbio, La funzione promozionale del diritto e Le sanzioni positive in Id., Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Roma-Bari, 2007. Sul green nudging, in particolare, si veda M. Santos Silva, Nudging and Other Behaviourally Based Policies as Enablers for Environmental Sustainability, in Laws, 2022, 11, 9 s.

[114] Cfr. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, cit., 163 s., spec. 164 («L’interventismo nasce dalla traduzione in termini politici di conflitti di interesse la cui composizione non sia più possibile esclusivamente nell’ambito della sfera privata») e 168 («gli interventi statali sono certamente diretti a mantenere un equilibrio di sistema […], anche quando sono diretti contro determinati interessi “dominanti”»).

[115] Con riferimento al confine in senso naturalistico-geografico, si veda M. Cacciari, Nomi di luogo: confine, in Aut Aut, 2000, 73 s. [richiamato da N. Irti, Confine, in Enc. it., VII, 2006, qui consultabile: https://www.treccani.it/enciclopedia/confine_%28
Enciclopedia-Italiana%29/
(ultimo accesso: 08.09.2023) e A. Zoppini, Il diritto privato e i suoi confini, cit., 18]: il confine è insieme limen e limes, ossia soglia ma anche barriera. Il confine evoca anche un’altra immagine, che si trova valorizzata in Nicolussi, Il tavolare nel sistema della tutela dei diritti, cit., 37-38: quella appunto della vicinanza, e dunque di una necessaria corrispondenza tra ciò che si incontra, come del resto avviene con le mappe dei luoghi, in cui i confini devono corrispondere e combaciare, affinché l’insieme non risulti un caos incoerente.

[116] S. Pugliatti, Diritto pubblico e diritto privato, cit., 745-746.

[117] L. Mengoni, Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico, ora in Diritto e valori, cit., 11 s.

[118] «[N]egata la distinzione», scrive ancora S. Pugliatti, Diritto pubblico e privato, cit., 697, «si dissolve il diritto: tutto pubblico, espressione di forza non controllata né limitata da chi detiene il potere; tutto privato, organismo senza la forza di un potere – quello, privo di garanzia, questo, privo di vitalità».

[119] Così G. Corso, Diritto pubblico e diritto privato: il confine è mobile, ma esiste, in L. Nivarra, A. Plaia (a cura di), I mobili confini del diritto privato, Torino, 2018, 55: «in ciascuno dei due ambiti, [c’è] uno spazio intangibile, delimitato da una linea che non può arretrare. Questa linea è fissata dalla Costituzione, dalla cultura filosofico-politica che sta a base o sullo sfondo della Costituzione, da una storia giuridica che risale al diritto romano. […] In un ordinamento liberal-democratico c’è un diritto pubblico e c’è un diritto privato, ciascuno dei quali ha uno spazio o un nucleo non comprimibile: due spazi che non sono fungibili o sovrapponibili» (corsivo aggiunto).

[120] Cfr. W. Lucy, What’s Private About Private Law?, in The Goals of Private Law, cit., 47 s.; J. Croon-Gestefeld, S. Korch, L. Kuschel, R. Sarel, P. Scholz (a cura di), Das Private im Privatrecht. Jahrbuch Junge Zivilrechtswissenschaft, Baden-Baden, 2022. A tal proposito, il cripto-giusnaturalismo del XIX secolo, recepito dalle codificazioni dell’epoca e dunque proiettatosi entro il XX secolo, era approdato alla garanzia della proprietà immobiliare intesa quale «buco nel centro di un circolo di norme», secondo la definizione di Karl Binding (riportata da L. Mengoni, Proprietà e libertà, cit., 74, il quale chiarisce che la metafora è una versione del principio hobbesiano libertas silentium legis, che modella pertanto la proprietà come diritto che offre al proprietario uno spazio entro il quale la legge tace). Ma si trattava dell’espressione principe del rilievo costituzionale del sistema di diritto privato, sicché, con l’avvento delle Costituzioni cosiddette “lunghe”, il problema della proprietà – del suo contenuto e dei suoi limiti, della sua tutela e della sua utilità sociale – è stato attratto nel dominio del diritto pubblico, lasciando invece al diritto privato le regole sulla circolazione della proprietà come forma di ricchezza. Pertanto, l’attenzione del civilista viene attratta da altri istituti. Tra questi spicca, naturalmente, quello dell’autonomia privata, che nel nostro ordinamento costituzionale ben può dirsi attinga al libero dispiegarsi della personalità del singolo (art. 3 co. 2 Cost.), come messo in rilievo da C. Castronovo, Autonomia privata e Costituzione europea, in Europa dir. priv., 2005, 40, testo e nt. 24, e da A. Nicolussi, I consumatori negli anni Settanta del diritto privato, cit., 929 s. Certo, l’autonomia può essere fatta oggetto di vincoli più o meno pressanti, come avvenuto nel passato durante la stagione della pianificazione economica, ma senza mai mortificarne il significato di fondo, pena per l’appunto la dissoluzione del sistema civilistico. Peraltro, nel riferimento all’art. 3 co. 2 Cost. balugina una giustificazione alternativa degli interventi eteronomi che deroghino all’egua­li­tarismo formale tipico dell’impianto liberale del Codice: non più meramente negativa, ossia di smussamento dell’autonomia della parte più “forte” in ragione del divario di potere tra quest’ultima e la parte più “debole”, ma positiva, cioè di empowerment, potrebbe dirsi, della posizione di una delle parti ogni qualvolta «ostacoli di ordine economico e sociale» impediscano «il pieno sviluppo della [sua] persona» e la sua «effettiva partecipazione […] all’organizzazione economica e sociale del Paese».

[121] B. Sordi, Diritto pubblico e diritto privato, cit., 228, ove riferimenti in nota alla dottrina francese e a quella inglese. Nell’or­di­namento tedesco è stata formulata l’ipotesi degli «ordinamenti d’intercettazione» (Auffangordnungen), sui quali, per una prima informazione, G. Delledonne, La distinzione tra Privatrecht e Öffentliches recht nel dibattito tedesco. Dalla «separazione» agli «ordinamenti d’intercettazione», attraverso il superamento di un «contrasto essenziale», in Il declino della distinzione tra diritto pubblico e privato, cit., 74-76. Di un drift tra diritto pubblico e diritto privato, quale descrizione di una certa tendenza, parallela e sincronica, alla (ri)privatizzazione e (ri)pubblicizzazione di determinate materie, scrive invece ora M.O. DeGirolami, Public-Private Drift and the Shattering Polity, in The American Journal of Jurisprudence, 2023, 119 s.

[122] Così, testualmente, L. Mengoni, L’Europa dei codici o un codice per l’Europa?, cit., 320. La stessa questione circa l’adeguatezza del Codice nei confronti dei «compiti sociali» del diritto privato si è nel tempo stemperata, soprattutto perdendo quei vivi accenti polemici che l’avevano caratterizzata nel corso del Novecento. In ciò hanno giocato un ruolo decisivo diversi fattori: dal­l’esterno, la stessa evoluzione della società italiana, divenuta sempre meno conflittuale e perciò anche “disimpegnata” sul piano politico; dall’interno, i sommovimenti in punto di fonti del diritto, con la punta estrema dei tempi presenti rappresentata dal cosiddetto creazionismo giudiziario, che hanno apparentemente privato di centralità la questione sul piano tecnico. Si potrebbe, allora, inclinare per l’astrazione definitiva della questione dal suo legame storico con il Codice, perciò riferendola generalmente alle fonti del diritto privato: in questo senso, infatti, essa si conferma senza tempo, essendo momento di verifica della resistenza del legame tra il diritto e il suo ordito sociale. Ma è preferibile riconoscere che essa conserva la sua attualità anche rispetto allo strumento del codice, la cui funzione tecnica è ancora rilevante, da ciò traendo conseguenze diversificate: a livello europeo, nutrendo la fiduciosa (e laboriosa) attesa di un codice che la crescita del peso politico delle istituzioni centrali rende sempre più necessario; a livello nazionale, sollecitando la riflessione circa i processi di cosiddetta “ricodificazione” che inglobino le discipline nuove o rinnovate, come aveva suggerito, già trent’anni fa, C. Castronovo, Decodificazione delegificazione ricodificazione, in Jus, 1993, 39 s., spec. 52-56 (più recentemente: S. Patti, Ricodificazione, in Le parole del diritto. Scritti in onore di Carlo Castronovo, III, Napoli, 2018, 1779 s.).

[123] Seguendo C. Castronovo, Responsabilità civile, cit., 492-493, sulla scorta di G. Calabresi, Costo degli incidenti e responsabilità civile. Analisi-economico giuridica, Milano, 1975 (rist. inalt.: Milano, 2015), 183 s. e Id., Optimal Deterrence and Accidents, in Yale L. J., 1975, 666. Si vedano anche, da prospettive diverse, S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, cit., 164 s., nonché la sua presentazione a G. Calabresi, Costo degli incidenti, cit., XLV s., e il già richiamato P. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, cit.

[124] Cfr., da ultimo, F.sca Benatti, Una riflessione comparatistica sulla sanzione civile, in Jus, 2023, 87 s., e Id., I danni nominali nella teoria delle funzioni della responsabilità civile, in Per i cento anni dalla nascita di Renato Scognamiglio, cit., 130-137. Pone l’interrogativo del posto da riservare al diritto penale, e alle sue funzioni, in un contesto di drift accelerato tra pubblico e privato, M. Maggiolo, Sul diritto privato e sul diritto pubblico (e sui confini), in F. Pistelli (a cura di), Diritto Pubblico e Diritto Privato. La grande «dicotomia» ieri e oggi, Dialoghi sul nostro tempo della Rivista Persona e Mercato, 2023, 15.

[125] Cfr. C. Granelli, In tema di «danni punitivi», in Resp. civ. prev., 2014, 1760 s., C. Castronovo, Responsabilità civile, cit., 897 s., C. De Menech, Le prestazioni pecuniarie sanzionatorie. Studio per una teoria dei “danni punitivi”, Padova, 2019, 99 s., cui adde, dalla prospettiva giuspubblicistica, P. Costa, Superamento e riaffermazione del confine tra diritto pubblico e diritto privato. Il caso dei danni punitivi, in Dir. econ., 2022, 93 s., spec. 99-104.

[126] Sia consentito il rinvio a G. Portonera, Punitive damages, cosiddetti danni punitivi e risarcimento. Un approccio comparatistico allo statuto della responsabilità civile, in Europa dir. priv., 2021, 770-776, e Id., Appunti sul presente e sul futuro del sistema sanzionatorio civilistico, in Jus, 2023, 53 s., spec. 74 s. per la proposta di distinzione tra le figure della “pena privata” e del “danno punitivo”.