Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Dati genetici e procreazione medicalmente assistita (di Leonardo Lenti, Professore ordinario di Diritto privato – Università degli Studi di Torino)


L'Autore si sofferma sul principio di verità genetica, da millenni alla base dell'intero sistema della filiazione, il quale talora risulta soccombere di fronte a nuovi valori comparsi nell’ultimo decennio.

Genetic data and medically assisted procreation

The Author focuses on the principle of genetic truth, which has been the basis of the entire filiation system for millennia, which sometimes appears to succumb to new values ​​that have appeared in the last decade.

SOMMARIO:

1. Verità genetica e vicende del rapporto di filiazione. - 2. Verità genetica e limiti alla conoscenza delle origini. - 3. Le informazioni sul donatore di gameti nel diritto francese. - 4. La sentenza Gauvin-Fournis e Silliau c. Francia. - 5. La difficile applicazione del principio in Italia. - NOTE


1. Verità genetica e vicende del rapporto di filiazione.

Negli ultimi decenni la crescente importanza attribuita alla verità genetica ha inciso molto a fondo sul diritto della filiazione, innovando in due direzioni diverse: l’una è l’ampliamento del suo peso nel rapporto giuridico di filiazione, pur con alterne vicende cui farò un rapido cenno; l’altra è la proclamazione che il semplice fatto della sua conoscenza è una componente essenziale dell’identità personale di ciascuno, e come tale è degna di essere garantita.

Con riguardo alla prima direzione – la costituzione e la rimozione del rapporto giuridico di filiazione – va anzitutto premesso che il principio di verità genetica sta alla base dell’intero sistema della filiazione da millenni, e non solo dal 1975 [1]. Basti infatti ricordare che l’esigenza di garantire che la discendenza dal marito-padre fosse geneticamente vera è uno dei fondamenti delle regole sociali e giuridiche che nelle società europee hanno governato per millenni la famiglia patricentrica e la morale sessuale femminile.

Le vicende storiche delle regole sulla costituzione e sulla rimozione dello stato di figlio (legittimo) indicano che il principio di verità, pur restando centrale, ha sempre mostrato una grande elasticità: può essere compresso quando, in dati momenti storici, si presentano come prioritarie esigenze sociali fondate su principi etici e culturali che portano in direzione opposta. Il suo espandersi e ritrarsi, secondo i momenti, è dunque determinato dalle esigenze sociali in nome delle quali la legislazione accoglie uno o più principi che si contrappongono a quello di verità, riducendone il raggio d’azione. Sono esigenze sociali che cambiano man mano che il tempo passa e modificano quindi i limiti che ne derivano: dunque nascono, vivono e muoiono.

Nel corso della seconda metà del XX secolo le esigenze sociali che hanno portato a un grande ampliamento del raggio d’azione del principio di verità nelle regole sulla costituzione e sulla rimozione dello stato hanno la loro principale radice nel tramonto del valore sociale, un tempo intoccabile, della famiglia legittima, fondata sul matrimonio, e nella correlativa affermazione del principio di eguaglianza fra tutte le categorie di figli.

In pochi decenni, a partire dalla riforma del 1975, gran parte delle conseguenze del principale fattore tradizionale di compressione, di limitazione della verità sono così cadute, sicché questa ha trovato il terreno sgombro e ha potuto riespandersi. Nel formante legislativo è stata ammessa la riconoscibilità dei figli adulterini; è stata estesa alla madre e al figlio la legittimazione attiva al disconoscimento; è stato sottoposto all’as­senso del figlio o al consenso dell’altro genitore, secondo se maggiore o minore di 14 anni, il riconoscimento tardivo. Quanto alla giurisprudenza, quella ordinaria ha ammesso che la donna sposata potesse dichiarare, in vista della formazione dell’atto di nascita, che il figlio era stato concepito con una persona diversa dal marito; e quella costituzionale ha ampliato i casi in cui poteva essere chiesto il disconoscimento e ha rimosso un forte limite procedurale alla dichiarazione giudiziale di paternità [2], la quale era già stata enormemente ampliato dalla riforma del 1975.

Nel medesimo arco di anni si sono anche andati affermando valori nuovi, diversi da quelli del passato, in nome dei quali la verità genetica è andata incontro a limiti anch’essi nuovi.

Anzitutto l’adozione piena – introdotta dalla l. 431/1967 e confermata nei suoi principi dalla l. 184/1983 – è stata costruita come trapianto di un bambino da una famiglia a un’altra, nella quale inizia una nuova vita nella posizione di figlio a pieno diritto, al pari di quelli biologici: quasi fosse una nuova nascita, accompagnata dalla formazione di un nuovo atto di nascita.

Poi la disciplina della procreazione medicalmente assistita (in seguito PMA) di tipo eterologo: negli ultimi tre decenni del XX secolo, con la sua diffusione, si sono andati affermando nuovi valori in nome dei quali porre nuovi limiti alla verità. L’attribuzione della paternità o maternità al componente della coppia che non è genitore genetico mostra come la verità genetica soccomba davanti all’esigenza di tutelare la volontà del genitore sociale, maschio o femmina che sia, di essere genitore pur non avendo la capacità generativa necessaria. E l’inammissibilità del successivo disconoscimento paterno mostra come la verità genetica soccomba anche davanti al principio di responsabilità per il fatto della procreazione e a quello della priorità che dev’es­sere garantita all’interesse del minore.

Non solo, ma nell’ultimo decennio sono comparsi ulteriori nuovi valori davanti ai quali il principio di verità può soccombere: la priorità dell’interesse del figlio (in quanto tale) alla tutela della sua identità personale in senso morale e sociale e dei suoi diritti successori, e la priorità dell’interesse del minore (in quanto tale) a conservare integri i suoi riferimenti affettivi o, più realisticamente date le circostanze concrete, il suo diritto di essere mantenuto. Questa nuova compressione del principio di verità è una conseguenza della regola legislativa che impedisce a chiunque, tranne al figlio stesso, di agire per rimuovere la paternità una volta trascorsi 5 anni dalla nascita [3]; come pure della regola giurisprudenziale che ammette il rigetto del disconoscimento e dell’impugnazione del riconoscimento se risulta, nel necessario bilanciamento tra i diversi diritti e interessi in conflitto, che conservare il rapporto di filiazione corrisponde al miglior interesse del minore, anche qualora non corrisponda a verità [4].


2. Verità genetica e limiti alla conoscenza delle origini.

Con riguardo alla seconda direzione in cui si va espandendo il principio di verità – la conoscenza del dato genetico come componente essenziale dell’identità personale – è ormai emerso un vero e proprio diritto alla verità genetica, che confligge con le regole di segretezza, diverse fra loro, che si erano consolidate nel tempo in due campi, quello dell’adozione piena e quello della PMA eterologa[5]. Guardando all’Italia, per la prima il testo originario dell’art. 28 l. 184 prevedeva il più rigoroso segreto sulle origini dell’adottato; e per la seconda l’anonimato del donatore di gameti era percepito come talmente ovvio, sin da quando questa modalità di procreazione aveva iniziato a diffondersi, da non meritare neppure una norma di legge che lo stabilisse esplicitamente con specifico riguardo alla PMA[6].

In materia di adozione il principio di segretezza totale sulle origini ha iniziato a essere eroso in tutti i paesi di matrice culturale europea tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. L’Italia è arrivata fra gli ultimi a limitarlo molto fortemente, pur senza abolirlo del tutto. La prima tappa data dal 2001, con la riforma dell’art. 28 l. 184, frutto della l. 149, seguita dalle indispensabili correzioni testuali apportatevi dal d.lgs. 196/2003. La seconda tappa data dal 2012, con la sentenza della Corte europea dei diritti umani (in seguito Ctedu) Godelli c. Italia [7] seguita, com’era inevitabile, dalla sentenza della Corte costituzionale 278/2013, la quale ha ammesso la ricerca delle origini anche in caso di parto anonimo, pur con limiti stringenti [8].

Il principio di segretezza totale del donatore di gameti, non a caso comunemente detto anonimo, è stato accolto per lungo tempo in quasi tutti i paesi di matrice culturale europea, ma è progressivamente entrato in crisi. Fattore decisivo di tale crisi è stato il raggiungimento dell’età adulta da parte delle prime persone procreate a questo modo, accompagnata dalla fioritura di siti internet di buona efficienza, specializzati nella ricerca dei donatori di gameti.

La l. 40 non dà alcuna regolazione specifica sulla segretezza, ma si limita a prevedere che non si possono costituire rapporti giuridici fra il donatore di gameti e il nato. Lo fa ponendosi dal punto di vista del primo: stabilisce infatti che il donatore «non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi» (art. 9 c. 3° l. 40). Se deve dedurre, correlativamente, che anche il nato non può acquisire una relazione giuridica parentale con tali soggetti. Ma la norma nulla dice su altri eventuali diritti del nato, quale appunto quello di conoscere la propria origine genetica. Né mi risultano precedenti giudiziari, nel diritto italiano, che si siano pronunciati sul diritto di accedere alle informazioni che permettono di identificare il genitore genetico.

Il d.lgs. 6 novembre 2007, n. 191, di recezione della direttiva Direttiva 2004/23/CE (del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004) sul trattamento di tessuti e cellule umani, prevede all’art. 14 c. 3° che «nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia, l’identità del o dei riceventi non è rivelata al donatore o alla sua famiglia e viceversa». Stabilisce dunque in linea di principio l’anonimato, ma anche l’obbligo di rispettare un’eventuale regolazione diversa: la quale non è esplicitata in alcuna norma del nostro diritto interno.


3. Le informazioni sul donatore di gameti nel diritto francese.

La legislazione francese riguardante l’accesso del figlio alle informazioni sulla persona che ha donato i gameti – maschio o femmina che sia – e sui suoi dati genetici nel 2021 è stata oggetto nel diritto interno di una riforma radicale. Per comprendere appieno la sentenza della CtEDU Gauvin-Fournis e Silliau c. Francia, cui è dedicato questo breve commento, è bene ricapitolare per sommi capi la normativa vigente in Francia prima e dopo la nuova legge.

Al momento in cui la controversia aveva avuto inizio a Strasburgo, il diritto francese vigente vietava la comunicazione di ogni informazione identificativa: consentiva la comunicazione di informazioni sanitarie solo se non identificative e se volte a fini terapeutici, ma non anche a fini preventivi; inoltre la consentiva unicamente al medico curante e non all’interessato stesso.

Successivamente la legge 2021-2017 del 2 agosto 2021, seguita dal decreto sulle procedure 2022-1187 del 25 agosto 2022, ha capovolto la regola: ha introdotto nel Code de la santé publique (in seguito CSP) un’articolata disciplina delle informazioni sull’identità del donatore di gameti e e ne ha ammesso comunicabilità alla persona concepita con PMA eterologa; ha inoltre modificato alcuni articoli del code civil per adattarli alle nuove norme. Resta comunque immodificato il totale impedimento di giungere alla costituzione di rapporti giuridici tra il figlio e il donatore (artt. 342-9 e 342-10 code civil).

Oggi le nuove regole vigenti in Francia sono in sintesi le seguenti.

L’art. L. 2143-2 CSP stabilisce che: (a) ogni persona maggiorenne concepita mediante PMA eterologa ha il diritto di conoscere sia l’identità sia i dati personali non identificativi del donatore dei gameti da cui proviene; (b) ogni potenziale donatore, al momento in cui si propone come tale, deve dare il suo espresso consenso alla futura comunicazione dei suddetti dati alla persona così procreata, altrimenti la sua donazione è rifiutata; (c) la morte del donatore non influisce su queste comunicazioni.

L’art. L. 2143-3 CSP elenca i dati che devono essere acquisiti dal medico che pratica la PMA, oltre all’identità del donatore: la sua età, la condizione generale, le caratteristiche fisiche, la situazione familiare e professionale, il luogo di nascita e le motivazioni della donazione.

L’art. L. 2143-4 CSP prevede che tali dati siano conservati da un un organismo amministrativo pubblico, l’Agence de la biomédecine.

L’art. L. 2143-5 CSP stabilisce che la persona maggiorenne, per ottenere la comunicazione dei dati, deve rivolgersi alla Commission d’Accès des Personnes nées d’une Assistance Médicale à la Procréation (AMP) aux Données des tiers Donneurs (in sigla CAPADD), costituita presso il Ministère de la santé.

L’art. L. 2143-7 c. 6° CSP attribuisce alla Commissione il compito di contattare i donatori che hanno fatto la donazione sotto il diritto previgente, che garantiva loro l’anonimato, per chiedere il loro consenso alla comunicazione dei dati; non li obbliga però a darlo.

L’art. L. 1244-6 CSP, che autorizzava il medico ad accedere alle informazioni sanitarie per finalità solo terapeutiche, è stato riscritto in termini molto ampliati, per comprendervi anche le finalità preventive: oggi prevede che «un medico può accedere alle informazioni mediche non identificative, in caso di necessità medica, a beneficio di una persona concepita con gameti donati o a beneficio di un donatore di gameti».


4. La sentenza Gauvin-Fournis e Silliau c. Francia.

La sentenza della Ctedu Gauvin-Fournis e Silliau c. Francia (ric. riuniti nn. 21424/16 e 45728/17) segna una tappa importante nella vittoriosa marcia del principio di verità in questo campo[9]. Riguarda un caso di conoscenza della verità genetica maschile, ma non vi è alcuna ragione che impedisca di estendere i principi della sentenza anche alla conoscenza della verità genetica femminile, nonostante i problemi che si pongono quando questa non coincide con quella di gravidanza e parto[10].

Nel caso deciso dalla Corte due persone concepite mediante PMA eterologa, una volta venutene a conoscenza (rispettivamente a 29 e 17 anni), hanno chiesto invano alle autorità giudiziarie francesi l’accesso ai dati del padre di ciascuno di essi per identificarlo, o almeno, in subordine, per ottenere personalmente informazioni di interesse sanitario, per fini non immediatamente terapeutici. Ricevuto il rifiuto hanno fatto ricorso alla CtEDU; nel caso della prima ricorrente risulta che il padre genetico era già morto.

Il fatto che durante il corso della vicenda davanti alla Corte la legislazione francese sia cambiata è stato determinate per la decisione: ha evitato la condanna della Francia, che altrimenti sarebbe stata certa e, va sottolineato, unanime.

La Corte premette un’ampia ricognizione delle legislazioni degli Stati del Consiglio d’Europa in materia (§ 67): ne risulta che, pur mancando un chiaro consenso fra loro, emerge una tendenza, che di recente è andata rafforzandosi, a togliere l’anonimato del donatore [11].

Espone poi con attenzione e dovizia di particolari la vicenda legislativa francese, che ha portato dal divieto totale, salvo che per le informazioni non identificative necessarie per esigenze terapeutiche (com’era previsto dalla l. 94-654 del 1994 sulla PMA), all’opposta, completa ammissione della comunicabilità delle informazioni (legge 2021-2017 del 2021). La discussione in tema svoltasi in Francia per oltre un ventennio, fra il 1998 e il 2021, è stata molto ampia e di alta qualità culturale. La Corte dichiara espressamente di apprezzare la serietà, profondità e accuratezza dei documenti elaborati dalle autorità pubbliche (§§ 118 e 123), dal CCNE (Comité consultatif national d’éthique pour les sciences de la vie et de la santé) al Conseil d’Ètat, dal parlamento al governo [12]. Grazie all’ampiezza di questa discussione e alla qualità dei documenti che ha prodotto, la Corte esclude che la Francia possa essere condannata per aver impiegato troppo tempo per giungere alla nuova legge, che comunque le appare necessaria.

La Corte considera la questione sotto il profilo dell’adempimento di un’obbligazione positiva e si concentra sul rispetto della vita privata, tralasciando come inutile quello della vita familiare.

Tutta la sentenza è costruita ponendo alla base della decisione il principio secondo il quale la conoscenza dei dati del donatore, identificativi e non, è una componente essenziale dell’identità della persona concepita con una PMA eterologa e come tale necessita di piena tutela. Gli Stati hanno un margine di discrezionalità significativo sulla determinazione delle modalità con le quali comunicare i dati, ma non sul principio che ne vuole la comunicabilità.

La Corte smentisce recisamente che l’eliminazione dell’anonimato del donatore rischi di pregiudicare la quantità delle donazioni e di rendere quindi più difficile il ricorso alla PMA eterologa, sulla valutazione positiva della quale non manifesta alcun dubbio. L’affermazione non è però corroborata dalla citazione di ricerche socio-statistiche in tema.

Di rilevante importanza mi sembrano due passi della sentenza, che toccano il medesimo tema. Nel primo si legge che «continuare a difendere l’anonimato a ogni costo è un’illusione nella situazione odierna e futura della genomica e dei big data» (§ 45). Nel secondo si legge che il mantenimento dell’anonimato del donatore ha anche un «carattere obsoleto», «alla luce dell’evoluzione delle tecnologie e soprattutto dello sviluppo dei test genetici detti ricreativi», cioè motivati da semplice curiosità (§ 122). La Corte constata così, con solido e condivisibile realismo, che i divieti in materia sono di scarsa efficacia: possono infatti essere aggirati con facilità, visti i molti siti internet specializzati nella ricerca dei donatori di gameti.

Una volta entrata in vigore la legge 2021-2017 del 2021, la Corte ritiene, conclusivamente, che la Francia abbia ben adempiuto la sua obbligazione positiva e lo abbia fatto in tempi accettabili. Tale giudizio – va sottolineato – è unanime: è infatti condiviso anche dai tre giudici che hanno firmato l’opinione dissenziente.

Ma vi è ancora una questione da risolvere: il caso era sorto quando in Francia era ancora vigente la normativa precedente, che stabiliva il totale anonimato, cui la nuova legge può essere applicata retroattivamente, pur con i limiti accennati sopra. L’attenzione va allora alla norma, sostanzialmente transitoria, dell’art. L. 2143-7 c. 6° CSP: ai donatori che hanno fatto la donazione sotto il diritto previgente, che garantiva loro l’anonimato, dev’essere chiesto il consenso a comunicare le informazioni; e resta ferma la loro facoltà di rifiutarlo.

La Corte, benché a stretta maggioranza (4 contro 3), ha giudicato che questa norma, per il solo fatto di prevedere una modalità per rimuovere il segreto, bilanci in modo equo i diritti contrapposti: quello dei donatori all’anonimato, che la legge garantiva loro, e quello dei figli all’informazione, che ora la legge garantisce loro. È su questo punto, e solo su questo, che il collegio giudicante si è diviso: la minoranza, invece, ha ritenuto che la scelta della maggioranza non garantisse a sufficienza il rispetto del diritto all’informazione dei figli nati con la PMA eterologa.


5. La difficile applicazione del principio in Italia.

La sentenza della CtEDU Gauvin-Fournis e Silliau c. Francia, com’è ovvio, non potrà non avere un’influenza decisiva anche sul diritto italiano: dobbiamo accoglierne i principi, altrimenti una futura condanna è certa.

È indubbio che il diritto del figlio sia un diritto fondamentale della persona, protetto come tale dai principi costituzionali e da quelli posti dalla della giurisprudenza della CtEDU sul rispetto della vita privata (art. 8 CEDU). Come emerge chiaramente dalla sentenza, agli Stati non è riconosciuto alcun margine di apprezzamento sul principio che ammette la comunicabilità dell’informazione sull’identità del donatore, mentre è loro riconosciuto sulle modalità da seguire per fornire tale informazione e sugli eventuali limiti.

Il diritto all’anonimato del donatore di gameti, finora pacificamente garantito, non può dunque persistere.

Siccome però le modalità per comunicare l’informazione non hanno una regolazione specifica, si deve fare riferimento alla disciplina generale sul trattamento di cellule umane e di tessuti, contenuta nella Direttiva 2004/23/CE e nel d.lgs. di attuazione 191/2007.

La Direttiva prevede all’art. 14 c. 3° che «gli Stati membri adottano tutte le misure necessarie per assicurare che l’identità del o dei riceventi non sia rivelata al donatore o alla sua famiglia e viceversa, fatta salva la legislazione in vigore negli Stati membri sulle condizioni di divulgazione, in particolare nel caso della donazione di gameti» [13]. Come si vede, il caso della donazione di gameti è espressamente indicato come un caso particolare, che fa eccezione alla regola generale: viene così implicitamente riconosciuto che il bilanciamento fra i diritti e gli interessi contrapposti si pone qui in modo diverso rispetto agli altri casi regolati dalla stessa normativa.

Il d.lgs. 191/2007 recepisce nell’art. 14 c. 3° la stessa regola dettata, seppure in un modo che più sciattamente generico non si può: «l’identità del o dei riceventi non è rivelata al donatore o alla sua famiglia e viceversa», ma ciò «nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia».

Resta quindi indeterminato quali siano le «disposizioni vigenti in materia».

Non fornisce indicazioni univoche neppure il Regolamento (UE) 2016/679 (del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), attuato dal d.lgs. 18 maggio 2018, n. 51, contenente la disciplina generale della riservatezza dei dati personali: per quanto qui interessa. consente la comunicazione dei dati quando è necessaria «per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali» (art. 9 c. 2° lett. f), o per «finalità di medicina preventiva» (art. 9 c. 2° lett. g). Riguardo a questi dati, «gli Stati membri possono mantenere o introdurre ulteriori condizioni, comprese limitazioni, con riguardo al trattamento di dati genetici, dati biometrici o dati relativi alla salute (art. 9 c. 3°).

Le norme generali sulla riservatezza appena citate sono chiaramente indirizzate a tutelare una persona ben identificata contro la diffusione dei suoi dati genetici (e di altri dati un tempo detti sensibili); e non a tutelare una persona altrimenti ignota contro la diffusione di informazioni che permettano di identificarla.

A questo punto, in mancanza di «disposizioni vigenti in materia» di fonte legislativa, è inevitabile chiedersi se si possa ricorrere all’analogia con la disciplina del segreto adottivo e più precisamente con quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza 18 novembre 2013, n. 278, sull’accesso alle origini in caso di parto anonimo. La risposta a mio avviso è negativa.

Il primo fattore da considerare è che nella PMA eterologa i diritti e gli interessi contrapposti sono molto diversi rispetto al caso dell’adozione a seguito di un parto anonimo: più precisamente, sono parzialmente diversi per il figlio e totalmente diversi per il genitore-donatore, di modo che il loro bilanciamento mi sembra che non possa proprio portare al medesimo risultato.

Anzitutto si guardi dal punto di vista del figlio: in caso di PMA questi è solo alla ricerca della persona con i cui gameti è stato procreato e dei suoi dati genetici. Invece in caso di adozione è alla ricerca anche – e credo soprattutto – di altro: delle vicende che hanno portato la madre alla scelta tragica di non volerlo tenere con sé, di abbandonarlo, e quindi di non voler essere nominata nell’atto di nascita. La conoscenza di queste vicende costituisce anch’essa un aspetto fondamentale della personalità del figlio e credo comporti un coinvolgimento esistenziale molto più ampio e intenso che in caso di PMA, salvo forse il rischio dell’effetto sorpresa, di cui dirò tra poco.

Poi si guardi alla questione dal punto di vista del genitore genetico. La donazione mi sembra poco più che un banale atto meccanico: il donatore di gameti, qualunque sia la motivazione che lo spinge, non partecipa alla nascita e alla vita dell’essere procreato con i suoi gameti, né intende farlo, non ha dunque alcun progetto genitoriale, sicché può avere alcun coinvolgimento esistenziale o anche solo emotivo degno di tutela [14]. È improbabile che questa informazione, cioè la possibilità di essere conosciuto da esseri umani nati dai suoi gameti, possa avere per la sua vita degli effetti destabilizzanti abbastanza significativi da meritare di esserne protetto.

In caso di adozione tutto è completamente diverso: la ricerca da parte del figlio può far riemergere per la madre la vicenda del parto, con la sua scelta dell’anonimato. È altamente probabile che l’abbia vissuta con intensità esistenziale molto forte, sicuramente con dolore, e che con le successive vicende della vita si sia allontanata da quell’esperienza e magari abbia pure cercato di dimenticarla. È indubbio che l’informazione possa avere per lei effetti pesantemente destabilizzanti sul piano esistenziale, sicché si può ben capire che spesso desideri evitarli [15].

I diritti e gli interessi da bilanciare presentano dunque caratteristiche troppo diverse per consentire l’analogia: in particolare, mi sembra alquanto modesta l’esigenza di tutela della vita privata del genitore–donatore, rispetto a quella della madre che ha partorito nell’anonimato.

Vi è un altro elemento importante da considerare, che però non attiene alla condizione del donatore e quindi non rileva al fine qui in esame, la sua tutela: il possibile effetto del fattore sorpresa sulla condizione psicologica e sociale del figlio. In linea di principio la sorpresa non dovrebbe mai verificarsi per il figlio, anche se adottato da molto piccolo, poiché i genitori hanno il dovere di legge di dirgli che è un figlio adottivo. Al contrario, per il nato da PMA eterologa la sorpresa potrebbe ben verificarsi, e spesso si verifica, dato il probabile desiderio di riservatezza dei genitori su una questione privata così intima e delicata: la legge non ordina infatti ai genitori di informarlo delle modalità del concepimento, sicché potrebbe venire a scoprirlo solo nell’età adulta o adolescenziale, com’è accaduto ai due ricorrenti, e magari pure per caso.

Il secondo fattore da considerare riguarda la procedura giudiziaria: l’autorizzazione del tribunale per i minorenni e il limite dei 25 anni, richiesti dall’art. 28 l. 184, possono avere una qualche razionalità in caso di adozione, mentre in caso di PMA eterologa sono evidentemente privi di qualunque senso, in particolare l’autorizzazione del tribunale.

Visto mi sembra da escludere il ricorso all’analogia con l’art. 28 l. 184, la lacuna va colmata facendo riferimento ai principi generali, che non possono che essere quelli affermati dalla CtEDU: l’anonimato non è ammesso, poiché la conoscenza della propria origine genetica è una componente essenziale dell’identità personale, garantita dall’art. 8 c. 1° CEDU come vita privata.

Questa soluzione è consentita dall’art. 14 c. 3° del d.lgs. 191/2007, visto che prevede in linea di principio l’anonimato, ma «nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia». Ed è consentita ancor più chiaramente dalla direttiva cui dà attuazione, laddove suppone espressamente che per il donatore di gameti che siano previste regole diverse da quelle per il donatore di cellule di altro tipo e di tessuti.

Grazie a questa norma, credo che il giudice possa senz’altro applicare direttamente il principio stabilito dalla CtEDU, senza necessità di un passaggio davanti alla Corte costituzionale.

Tuttavia non è una soluzione pienamente tranquillizzante: quanto meno in prospettiva futura sarebbe necessario garantire che i donatori siano informati che non hanno il diritto di mantenere segreta la propria identità.

Una simile garanzia necessiterebbe però di una disposizione di legge: ed è improbabile che il legislatore se ne occupi, quanto meno in tempi brevi. Visto che l’anonimato non è espressamente previsto dalla l. 40, sarebbe forse sufficiente che se ne occupasse il Ministero della salute, introducendo una modifica in tal senso nel regolamento che contiene le linee guida per la PMA.

Tuttavia, data l’alta probabilità che resti inerte anche il ministero, si potrebbe ipotizzare un rimedio parziale, ma almeno rapidamente percorribile: introdurre nel codice di deontologia medica una norma che imponga al medico di informare ogni futuro potenziale donatore del fatto che l’anonimato non è garantito e che le persone concepite con i suoi gameti, divenute maggiorenni, avranno il diritto di identificarlo. Tale informazione dovrebbe essere recepita in un documento scritto, firmato dal donatore.

* L’articolo è destinato al Liber amicorum per Michele Sesta.


NOTE

[1] È tuttora d’uso ripetere che la riforma del 1975 avrebbe sostituito il fondamento del diritto della filiazione: dal principio di favore per la legittimità al principio di verità. Questa contrapposizione, semplicistica, non dà una descrizione veritiera della vicenda, ma è soltanto una formula di indubbia efficacia comunicativa per sintetizzare alcune importanti novità della riforma.

[2] Vd. per il disconoscimento C. cost. 266/2006 e per la dichiarazione giudiziale C. cost. 50/2006.

[3] Ciò è sempre vero per il disconoscimento (art. 244 c. 4° c.c.), mentre per l’impugnazione del riconoscimento fa eccezione il caso della lontananza del padre dal luogo della nascita (art. 263 c. 3° c.c.).

[4] Per il disconoscimento vd. Cass. 26767/2016, seguita da Cass. 8617/2017, 30403/2021, ove attore era il curatore speciale di cui all’art. 244 c. 6° c.c. e vi era l’opposizione del figlio e del padre legale; per l’impugnazione del riconoscimento vd. C. cost. 127/2020 e Cass. 4791/2020.

[5] Sia per l’adozione che per la PMA è appena il caso di ricordare che l’informazione sulle origini genetiche non può mai essere utilizzata come base per giungere a costituire il rapporto di filiazione, né per ottenere qualsivoglia utilità economica. Per l’adozione piena lo si ricava dall’insieme degli artt. 253 c.c. e 27 c. 1° l. 184; per la PMA di tipo eterologo è espressamente stabilito dall’art. 9 c. 3° l. 40/2004.

[6] Utilizzo la parola donatore perché è quella comunamente usata, benché non distingua tra la donazione vera e propria, cioè gratuita, la dazione a pagamento. Avverto che tutto quanto riguarda il donatore riguarda allo stesso modo anche la donatrice: per non appesantire l’esposizione citerò solo il donatore, visto che è il caso di gran lunga più frequente.

[7] La sentenza Godelli (ric. 33783/09) ribadisce i principi che la CtEDU stessa aveva affermato anni prima nella sentenza Odièvre c. Francia (2003, ric. 42326/98), ma dei quali non si era tenuto alcun conto in Italia, neppure da parte della Corte costituzionale (C. cost. 425/2005).

[8] Secondo la Corte costituzionale tali limiti avrebbero dovuto essere regolati da una legge, che però non ha mai visto la luce. Alla consueta, stolida inerzia del patrio legislatore ha dovuto supplire, come in tanti altri casi, la Corte di cassazione: vd. in particolare le sentenze 1946/2017 (una sorta di sentenza-regolamento), sulle modalità da seguire nell’interpellare al madre, e 15024/2016 (capostipite), sull’accesso alle informazioni dopo la morte della madre.

[9] Vd. un primo commento di S. Praduroux, Is it Safe to Bury the Truth under the Family Tree? The ECtHR’s Response in Gauvin-Fournis and Silliau v. France, in strasbourgobservers.com, 12 dicembre 2023.

[10] Va tenuto presente che per la femmina la verità biologica è duplice: vi è la derivazione genetica, cioè dal suo ovocita, e vi sono la gestazione e il parto. In passato, per ovvi motivi tecnologici, le due verità biologiche femminili non potevano che coincidere; ma oggi non più. Invece per il maschio la verità biologica e quella genetica si identificano: entrambe indicano la derivazione dai suoi spermatozoi.

[11] Solo 26 paesi, su 47, hanno risposto: fra questi non prevedono l’anonimato Austria, Germania, Irlanda, Malta, Norvegia, Olanda, Portogallo, Regno unito, Svezia, Svizzera; invece lo prevedono Belgio, Rep. Ceca, Grecia, Lettonia, Montenegro, Macedonia del nord, Polonia, Serbia, Slovenia, Ukraina.

Fra i paesi che hanno risposto non vi è l’Italia: forse le nostre autorità non sapevano che cosa rispondere, visto il silenzio della l. 40 e – a quanto mi consta – la mancanza di precedenti giudiziali; ma sarebbe stato civile rispondere, anche solo per dire che manca una regola specifica.

[12] Segnalo in particolare l’ampio Ètude d’impact governativo su un progetto di legge che regoli tutti gli aspetti rilevanti della bioetica in https://www.assemblee-nationale.fr/dyn/15/textes/l15b2187_etude-impact#. Sono esempi di come si dovrebbe procedere quando si mette mano a una riforma legislativa che incide su questioni etiche rilevanti e suscita discussioni e dissensi: avremmo molto da imparare, onde non ridurci alle solite battaglie ideologiche, astratte e superficiali, tra guelfi e ghibellini.

[13] La norma attua quanto si legge nel considerando 29: «in linea di principio l’identità del o dei riceventi non dovrebbe essere rivelata al donatore o alla sua famiglia e viceversa, fatta salva la legislazione in vigore negli Stati membri sulle condizioni di comunicazione dell’identità, che potrebbe autorizzare in casi eccezionali, in particolare nel caso della donazione di gameti, la revoca dell’anonimato del donatore».

[14] L’eventuale desiderio di propagare nella massima misura possibile i propri geni – una sorta di delirio di onnipotenza – non mi sembra degno di alcuna tutela.

[15] Non è un caso se finora le risposte delle madri all’interpello risultano essere state in gran maggioranza negative.