Il lavoro propone una qualificazione giuridica delle prestazioni di cura eseguite dagli unpaid caregivers. Si esaminano diversi istituti del diritto privato, per vedere se e in che misura vi rientrino le prestazioni di cura: la donazione obbligatoria, il contratto gratuito, le liberalità indirette, gli obblighi alimentari e di mantenimento, le obbligazioni naturali, le prestazioni eseguite per causa di solidarietà, la gestione d’affari altrui. Qualora le prestazioni di cura non rientrino in alcuno degli istituti disciplinati, la loro esecuzione si qualifica come prestazione non dovuta, fonte dell’obbligazione della persona accudita di restituirne il valore al caregiver, ai sensi dell’art. 2041 c.c.: obbligazione trasmissibile mortis causa agli eredi della persona, tra cui eventualmente lo stesso caregiver. Da ultimo, si esaminano alcune interferenze del diritto delle restituzioni con il diritto successorio, nonché alcuni strumenti fruibili all’autonomia privata della persona accudita, per l’attuazione del rapporto obbligatorio post mortem.
The essay provides legal qualification for unpaid care work. Several existing legal figures are examined, to see whether and to what extent unpaid care work is covered: gift, free contracts, indirect gifts, alimony, natural obligations, services performed for solidarity, management of other people's affairs. When not falling into any of these figure, unpaid care work is not due, so its performance raises the obligation to repay its value to the caregiver, pursuant to art. 2041 of the Civil Code. Such obligation arises upon the person cared for and is transmitted mortis causa to his/her heirs, possibly including the caregiver him/herself. Lastly, some interferences between law of restitution and law of succession are examined, as well as the legal instruments, available to the person cared for, to perform a post mortem restitution.
1. Il problema della tutela privatistica del caregiver. - 2. Le possibili qualificazioni giuridiche dell’attività del caregiver. - 3. Le restituzioni conseguenti alla donazione (nulla) di prestazioni di fare. - 4. I presupposti dell’azione di arricchimento: arricchirsi a danno altrui. - 5. Senza giusta causa. - 6. La remunerazione dell’impoverito come giusta causa dell’arricchimento. - 7. Altri contratti con cui il caregiver si obbliga a prestare assistenza materiale. - 8. Lo spirito di liberalità come giusta causa dell'arricchimento e le prestazioni di fare. - 9. L'inadeguatezza della categoria della liberalità rispetto alle prestazioni gratuite di fare nei rapporti familiari. - 10. La mera volontà di eseguire la prestazione non è giusta causa dell'arricchimento (rinvio). - NOTE
Norbert ha una sorella, Aimée, e due genitori anziani, Antoine e Marie, dei quali si prende cura in modo esclusivo; si dedica loro a tempo pieno, per evitarne il ricovero in casa di riposo; fornisce loro assistenza costante, sacrificandovi la sua vita personale e professionale. Dopo la loro morte, Norbert agisce in arricchimento ingiustificato contro la sorella. Afferma di avere evitato ai genitori delle spese, fornendo loro gratuitamente le sue cure, e così procurando un arricchimento alla successione. Sostiene che il suo comportamento avrebbe oltrepassato i doveri morali imposti dalla “pietà familiare”, sicché l’arricchimento procurato sarebbe privo di una causa giustificatrice. Chiede, nel corso delle operazioni di liquidazione e divisione del patrimonio ereditario, che gli sia accordata un’indennità da arricchimento ingiustificato[1]. Quid juris?
La soluzione di questo caso – da valutare alla luce di un esame “a grana fine” del diritto positivo vigente, se conceda o meno al caregiver [2] un indennizzo ai sensi dell’art. 2041 c.c. [3] – avrebbe un significato indubitabilmente più ampio, rispetto all’individuazione delle norme applicabili, dal punto di vista dei valori e dei principi [4].
Infatti, la soluzione positiva della questione si tradurrebbe in una forma di riconoscimento e di tutela – sul terreno del diritto privato [5] – in favore di chi esegue lavoro di cura gratuito nei confronti di persone che versano in condizioni di vulnerabilità c.d. primaria, cioè dipendono dall’assistenza altrui. È stato evidenziato, da parte della riflessione giusfilosofica femminista, che l’impegno nella cura di persone vulnerabili espone i caregivers ad una condizione di vulnerabilità c.d. derivata, in quanto prestare la cura limita le loro possibilità di vita, e spesso li mette a loro volta in condizione di dipendere dalle varie forme di sostegno pubblico e privato alla loro attività [6].
Si è denunciata, da parte della dottrina italiana, la mancanza di un inquadramento giuridico dei caregivers, e il conseguente vuoto di tutela [7], il quale non fa che aggravare la condizione di vulnerabilità loro e delle persone da essi assistite [8]. La questione relativa alla disciplina giuridica applicabile ai caregivers – i.e. alle prestazioni di cura gratuite da loro eseguite – sembra meritevole di un ulteriore approfondimento, in particolare dal punto di vista del diritto delle restituzioni, da cui emerge che il lavoro di cura non si qualifica sempre e comunque come adempimento di doveri morali o sociali [9].
Il presente contributo è dedicato alle molteplici questioni che si pongono laddove ci si interroghi sull’applicabilità della disciplina dell’arricchimento ingiustificato all’attività del caregiver. Va rilevata la difficoltà di qualificare giuridicamente tale attività, che appare suscettibile di molteplici inquadramenti.
In primo luogo, il caregiver potrebbe eseguire le prestazioni di cura in adempimento di una propria obbligazione ex lege (artt. 144, 315-bis, 433 ss. c.c.), ovvero di un’obbligazione assunta in forza di un contratto valido (ad es., donazione modale disposta in suo favore, con onere di assistenza; contratto atipico di vitalizio assistenziale; donazione, da parte sua, di prestazioni periodiche di fare), con diritto al corrispettivo eventualmente convenuto. In queste ipotesi, il caregiver esegue una prestazione dovuta, il che esclude qualsiasi pretesa restitutoria.
In secondo luogo, il caregiver potrebbe eseguire le prestazioni di cura in adempimento di una altrui obbligazione – di fonte legale o contrattuale – con diritto alla restituzione nei confronti dell’obbligato, che sarà obbligato a restituire al caregiver (per equivalente) il valore della prestazione eseguita in qualità di terzo (art. 1180 c.c.), ai sensi dell’art. 2031 c.c. – sussistendone i presupposti – ovvero ai sensi degli artt. 2033, 2036 e 2041 c.c. [10]. Per converso, pare preferibile escludere una pretesa restitutoria del caregiver nei confronti di chi sia obbligato solo moralmente a prestare assistenza, in conformità del principio secondo cui l’obbligazione naturale non prevede alcun effetto giuridico, salvo quello di giustificare l’attribuzione eseguita spontaneamente dal solvens, in adempimento di un proprio dovere morale o sociale [11].
In terzo luogo, il caregiver potrebbe eseguire prestazioni di cura in esecuzione di una propria obbligazione naturale (art. 2034 c.c.), purché l’attribuzione non oltrepassi i limiti di proporzionalità e di adeguatezza della prestazione, rispetto al patrimonio del solvens (inteso anche in termini di energie e capacità lavorative) e alle esigenze dell’accipiens. Quando la prestazione eseguita rientra nei limiti dell’esecuzione di un dovere morale e sociale, l’adempimento dell’obbligazione naturale esclude ogni pretesa restitutoria in capo al caregiver.
In quarto luogo, il caregiver potrebbe eseguire prestazioni di cura eccedenti i limiti di proporzionalità e adeguatezza dei doveri morali e sociali, dai quali sia eventualmente astretto (e.g. un figlio – o anche un amico – presta assistenza a un genitore anziano non autosufficiente, con presenza 24/7 per diversi anni, finendo per rinunciare alla sua vita personale e professionale). In questi casi, il caregiver esegue una prestazione che non è dovuta, nemmeno in base ai doveri morali e sociali che assumono giuridica rilevanza come giusta causa di arricchimento a danno altrui (art. 2034 c.c.). Ne consegue che sarà riconosciuta al caregiver una pretesa restitutoria, potendo agire in arricchimento nei confronti (della persona assistita e, dopo la morte di questa) dei suoi eredi.
In quinto e ultimo luogo, l’assistenza prestata dal caregiver potrebbe qualificarsi come una gestione d’affari altrui, ravvisando nelle prestazioni di cura la gestione di un affare dell’interessato, cui questi è impossibilitato a provvedere (e.g. perché non autosufficiente e psichicamente instabile). Se si accoglie questa ricostruzione – già riferita al soccorso privato [12] e, mutatis mutandis, al mantenimento dei figli minori [13] – allora dovrà riconoscersi che l’inizio dell’esecuzione della prestazione di assistenza da parte del caregiver è spontaneo, mentre la sua prosecuzione si qualifica come adempimento dell’obbligazione ex lege, in capo al caregiver gestore d’affari, di continuare la gestione (art. 2028 c.c.). Ora, l’adempimento di un’obbligazione legale esclude la ingiustificatezza dell’arricchimento – quindi, esclude la pretesa restitutoria del caregiver fondata sull’art. 2041 c.c. – ma pare possibile riconoscere al caregiver il diritto ad un compenso per l’attività eseguita (in applicazione analogica dell’art. 1709 c.c.), in ragione della natura sostanzialmente professionale dell’attività stessa (perché continuativa ed esclusiva), e in ragione dell’esigenza sistematica e assiologica di evitare una disparità di trattamento tra il caregiver gestore d’affari, e il caregiver che tale non possa qualificarsi [14].
Le peculiarità di quest’ultima ricostruzione suggeriscono di riservare la sua trattazione ad un momento successivo rispetto all’esame dei requisiti dell’azione generale di arricchimento, e dalla possibilità di applicare questa disciplina, sussistendone i presupposti, alle prestazioni di assistenza volontariamente eseguite dal caregiver. Prima di procedere nella trattazione, però, pare opportuno anticipare la soluzione dell’indagine.
La qualificazione giuridica delle prestazioni di cura eseguite dal caregiver – che appare preferibile, alla luce di un’indagine complessiva delle fattispecie in cui esse paiono astrattamente inquadrabili – è quella che vi ravvisa l’adempimento di un’obbligazione assunta dallo stesso caregiver, per tramite di una donazione costitutiva di un’obbligazione a suo carico. Tale obbligazione ha per oggetto prestazioni periodiche di fare (accudire il beneficiario, prestandogli assistenza materiale e morale, etc.). Questo l’inquadramento, in generale, dell’attività di chi presta cure a titolo gratuito, accettate dalla persona assistita: a tale soluzione, poi, dovranno affiancarsene altre, che valorizzino le specificità del caso (in cui potrebbero venire in rilievo, ad es., l’adempimento di preesistenti obbligazioni legali o morali di assistenza, in capo al caregiver ovvero ad un terzo; l’opposizione della persona assistita; l’incapacità della persona accudita di provvedere ai propri interessi; l’esistenza di altri rapporti contrattuali tra il caregiver e la persona, etc.).
Infatti, l’accordo che si forma tra il caregiver e la persona assistita ben può qualificarsi, secondo l’id quod plerumque accidit, come uno scambio di consensi per fatti concludenti, attraverso l’esecuzione della prestazione non rifiutata dall’oblato [15]. Questa soluzione trova una conferma indiretta nell’orientamento, prevalente in dottrina, che limita la responsabilità di chi si arricchisce a danno altrui, per effetto dell’esecuzione di una prestazione di fare, ai casi in cui la prestazione è eseguita in buona fede, o con il consenso o la tolleranza dell’arricchito, ovvero questi l’ha positivamente accettata [16]. Da ciò si ricava che la prestazione accettata dall’arricchito sarebbe comunque fonte di obbligazioni restitutorie (a titolo “quasi contrattuale”): questo anche se l’accettazione non concorresse alla stipulazione di un contratto per fatti concludenti. Se poi si considera che il consenso dell’arricchito si combina con la volontà dell’impoverito di (obbligarsi ad) eseguire prestazioni di fare gratuite, per soddisfare un proprio interesse non patrimoniale, non pare peregrino ravvisare in tutto ciò un accordo tra le parti, volto a regolare un rapporto giuridico patrimoniale: segnatamente, un contratto di donazione.
Tuttavia, essendo concluso per fatti concludenti (o, al più, oralmente), tale contratto – nella misura in cui il suo oggetto ha un valore non modico (art. 783 c.c.) – sarà nullo per difetto della forma solenne prescritta a pena di nullità (art. 782 c.c.) sicché le prestazioni di cura risulteranno eseguite indebitamente, con l’ulteriore conseguenza che – non potendosi, in via generale, “salvare” l’attribuzione patrimoniale attraverso l’individuazione di altre cause giustificatrici, diverse dalla liberalità – il solvens avrà una pretesa restitutoria contro l’accipiens, ai sensi degli artt. 1422 e 2041 c.c. [17].
Secondo un’opinione tradizionale, ormai superata, la donazione obbligatoria potrebbe avere ad oggetto solo obbligazioni di dare, e non anche obbligazioni aventi ad oggetto prestazioni di fare [18]. La dottrina ha evidenziato da tempo l’incompatibilità di tale restrizione con la disciplina positiva della donazione [19]. Si ritiene, infatti, che – ove dettata da spirito di liberalità – la promessa gratuita di fare che produca arricchimento del donatario sia compresa nella nozione di donazione risultante dall’art. 769 c.c. Ne consegue che – salvi i casi in cui la promessa sia qualificabile come liberalità d’uso, o riguardi una prestazione di modico valore – essa vincolerà soltanto se calata nella forma dell’atto pubblico, nel qual caso essa concorrerà a formare, con l’accettazione dell’oblato, un valido contratto di donazione. In tal caso, il donante sarà obbligato ad eseguire la prestazione promessa, e risponderà per la mancata o inesatta esecuzione, sia pur nei limiti del dolo e della colpa grave (art. 789 c.c.) [20].
Per contro, la promessa priva della forma solenne richiesta dalla legge non vincola il promittente ad eseguire quanto in essa previsto. Dall’invalidità del contratto deriva che il promettente ben potrà non ottemperare a quanto promesso o, qualora abbia iniziato l’esecuzione, interromperla. Ciò con il limite che la rinunzia ad eseguire o proseguire la prestazione promessa avvenga in modo tale da evitare che il promissario subisca danni, cioè con quel preavviso necessario affinché possa organizzarsi di conseguenza. Qualora la promessa sia eseguita, nonostante la nullità del contratto, si avrà una prestazione non dovuta, fonte dell’obbligo del donatario di corrispondere al donante, od ai suoi eredi, una somma di denaro pari al valore della prestazione indebitamente ricevuta [21].
Come precisato dai fautori di questa tesi, riconoscere un obbligo di restituzione per equivalente, in capo a chi ha ricevuto una prestazione di fare in base ad un contratto nullo, non può assimilarsi al consentire a chiunque di svolgere servizi non richiesti, per poi richiederne il pagamento. Infatti, si è in presenza di un contratto, sia pure nullo per difetto di forma, al quale il beneficiario ha prestato adesione mediante accettazione [22]. Pertanto, non si tratta di “servizi non richiesti”, bensì di servizi promessi ed accettati dal beneficiario, in una forma che l’ordinamento giudica insufficiente, sanzionando tale difetto con l’inefficacia e quindi l’azione restitutoria. Dunque, non si ha alcuno scambio imposto, ma solo la normale conseguenza prevista dalla legge per il caso di esecuzione non dovuta di una prestazione prevista da un contratto nullo [23].
La restituzione della prestazione di fare indebitamente eseguita avviene, secondo l’opinione prevalente, ai sensi dall’art. 2041 c.c. [24], anziché degli art. 2033 s. c.c., che sarebbero applicabili solo alle prestazioni di dare [25]: in questo senso è orientata anche la giurisprudenza più recente [26]. La soluzione indicata, tuttavia, non esime da un esame dettagliato della disciplina dell’azione di arricchimento, onde verificare la compatibilità della fattispecie del caregiver con tutti i suoi presupposti.
La legge considera il fatto di chi “si arricchisce a danno di altri” (art. 2041 c.c.) tra quelli idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento (art. 1173 c.c.). In particolare, esso obbliga l’arricchito a restituire l’arricchimento così conseguito[27]. Da questa previsione normativa si ricavano i primi tre presupposti dell’azione restitutoria in esame: l’arricchimento, l’impoverimento, la correlazione tra il primo e il secondo.
L’arricchimento può consistere in un aumento patrimoniale – non anche in un beneficio non patrimoniale [28] – o anche in un risparmio di spese [29]. Si discute se l’arricchimento debba sussistere al momento della domanda [30].
Nel caso del caregiver, l’arricchimento della persona assistita – quindi, poi, dei suoi eredi – consiste nel risparmio di quelle spese che sarebbero sostenute per remunerare le prestazioni di assistenza materiale, rese necessarie dalla condizione di non autosufficienza o comunque di debolezza della persona, ad esempio, perché di età molto avanzata, o affetta da malattie, menomazioni, disabilità [31].
Ciò non si verifica qualora la persona vanti già un diritto di credito, avente ad oggetto le stesse prestazioni: in tal caso, non si verifica alcun arricchimento ai sensi dell’art. 2041 c.c., ma soltanto la soddisfazione di un interesse del creditore per effetto dell’esecuzione della prestazione (art. 1174 c.c.). Pertanto, qualora il caregiver adempia l’altrui obbligazione di prestare assistenza materiale, l’arricchimento si verificherà in capo all’obbligato, nei confronti del quale il caregiver avrà delle pretese restitutorie [32].
L’impoverimento può consistere in una diminuzione patrimoniale (così testualmente l’art. 2041 co. 1 c.c.), ma non anche in un mancato guadagno. La questione assume particolare rilevanza con riferimento alle prestazioni di fare, che causano sicuramente un arricchimento in capo all’accipiens, ma più difficilmente causano in capo al solvens una diminuzione patrimoniale – intesa in senso stretto come “danno emergente” – di entità corrispondente a quella dell’arricchimento: piuttosto, l’esecuzione della prestazione causa un “lucro cessante” in capo al solvens, che avrebbe potuto eseguire la stessa prestazione dietro corrispettivo, previa stipulazione di un contratto efficace.
A fronte della compatta adesione della dottrina alla tesi che ravvisa un impoverimento nell’esecuzione della prestazione di fare [33], occorre esaminare la posizione della giurisprudenza, che – pur avendo ammesso, in passato, l’indennizzabilità finanche del lucro cessante – ad oggi esclude che possa formare oggetto di restituzione ciò che il solvens di prestazioni di fare avrebbe percepito a titolo di lucro cessante, se avesse prestato in forza di un contratto efficace. Si ritiene, cioè, che la depauperazione ricomprenda tutto quanto il patrimonio ha perduto (in elementi ed in valore) rispetto alla propria precedente consistenza, ma non anche ciò che il richiedente quanto si riprometteva di ricavare dall’esecuzione di analoghe attività remunerate nello stesso periodo [34].
Con riferimento alla restituzione delle prestazioni di fare, si è precisato che il loro valore non può essere determinato con riferimento al contratto invalido concluso fra le parti (in misura pari al corrispettivo), ma nemmeno può essere negato, in base ad una sua aprioristica qualificazione in termini di “lucro cessante” non indennizzabile. Dunque, si accorda un indennizzo che comprenda quanto necessario a ristorare il sacrificio di tempo, nonché di energie mentali e fisiche dell’impoverito, del cui valore si deve tener conto in termini economici, al netto – cioè, ad esclusione – della percentuale di guadagno che l’impoverito si riprometteva di conseguire attraverso l’esecuzione della prestazione [35].
Nel caso dell’esecuzione di prestazioni di cura non dovute, dunque, può ammettersi senz’altro il ristoro del “sacrificio di tempo, nonché di energie mentali e fisiche” sofferto dal caregiver. Per la sua quantificazione – fermo restando il potere equitativo del giudice [36] – sembra ragionevole utilizzare come parametri i contratti collettivi dei caregiver di professione, cioè i c.d. badanti. Si tratta non di un ricorso acritico ad uno strumento contrattuale, bensì dell’adozione ragionata di un parametro minimo. È noto, infatti, che il lavoro di cura professionale sia tra quelli meno pagati, sicché è agevole affermare che chi s’impiega in questo tipo di lavoro non consegue alcun lucro in senso stretto, accontentandosi anzi di una retribuzione al di sotto dei minimi salariali [37]. Pertanto, l’adozione delle retribuzioni dei badanti come parametri minimi per la quantificazione dell’indennizzo da accordare al caregiver pare senz’altro idonea ad assicurare che tale indennizzo si riferisca propriamente solo alla restituzione della “diminuzione patrimoniale” – in termini di tempo ed energie, economicamente valutabili – conseguente alla prestazione di facere eseguita, e non anche del lucro cessante. Va anche considerato che l’impoverimento del caregiver può venir meno, del tutto o in parte, per effetto di provvidenze pubbliche [38] o private [39], ricevute in considerazione dell’esecuzione gratuita di prestazioni di cura della persona assistita.
Infine, resta da esaminare il parametro della correlazione tra arricchimento e impoverimento, il terzo presupposto necessario per l’utile esperimento dell’azione in esame. A fronte delle varie ricostruzioni proposte dalla dottrina [40], la giurisprudenza richiede – per affermare l’esistenza della correlazione – l’unicità del fatto costitutivo di arricchimento e impoverimento [41].
La previsione di questo requisito si riflette sull’esclusione dell’indennizzabilità dei c.d. arricchimenti indiretti, nei quali, cioè, l’arricchimento di un soggetto e il correlativo impoverimento di un altro, in realtà, siano mediati dal patrimonio di un terzo soggetto [42]. La giurisprudenza è orientata nel senso che il requisito dell’unicità del fatto causativo dell’impoverimento sussista solo quando la prestazione resa dall’impoverito sia andata a vantaggio dell’arricchito, ad esclusione dei casi di arricchimento indiretto, nei quali l’arricchimento è realizzato da persona diversa rispetto a quella cui era destinata la prestazione dell’impoverito. L’arricchimento indiretto è eccezionalmente indennizzabile – in base alla ratio equitativa del rimedio – in soli due casi, laddove (i) la pubblica amministrazione si sia arricchita in conseguenza della prestazione resa dall’impoverito ad un ente pubblico, ovvero (ii) l’arricchimento sia stato conseguito dal terzo a titolo gratuito [43].
Quanto al caregiver, è agevolmente ravvisabile l’unicità del fatto costitutivo tra l’esecuzione, da parte sua, di prestazioni di cura gratuite – in cui si sostanzia l’impoverimento del caregiver stesso – e il risparmio di spese da parte della persona assistita – in cui si sostanzia il suo arricchimento – la quale evita di remunerare un’altra persona per l’esecuzione di quelle stesse prestazioni, che invece riceve gratuitamente dal caregiver (salvo il caso in cui le prestazioni le fossero legalmente dovute, di cui si dirà).
Per converso, non è ravvisabile l’unicità del fatto costitutivo tra l’impoverimento del caregiver (che esegue le prestazioni di cura gratuitamente) e l’arricchimento degli eredi della persona assistita, in quanto tali, che succedono in un patrimonio ereditario più cospicuo, in quanto il de cuius aveva risparmiato la spesa per remunerare l’assistenza materiale di cui aveva bisogno. In questo caso, l’arricchimento degli eredi, in quanto tali, è indiretto, in quanto mediato dalla successione (che a sua volta presuppone la delazione a loro favore e l’accettazione), sicché non può parlarsi di unicità del fatto costitutivo.
Tuttavia, pare possibile ammettere un’obbligazione restitutoria degli eredi, fondata sul loro arricchimento indiretto, avvenuto a titolo gratuito per effetto dell’accettazione dell’eredità. Ciò nei limiti in cui gli stessi eredi non siano già gravati, jure haereditatis, dall’obbligazione restitutoria maturata dal de cuius nei confronti del caregiver. Essi infatti vi subentreranno ogni volta che questi fosse già obbligato a restituire l’arricchimento ingiustificato ottenuto a spese del caregiver. L’unico caso di arricchimento indiretto degli eredi potrebbe essere quello in cui la prestazione eseguita dal caregiver fosse irripetibile (perché inesigibile) nei confronti dell’accipiens (per essere la stessa eseguita e ricevuta dal solvens con finalità alimentare), e ciò determini un risparmio di spese, che a sua volta si riflette, in positivo, sull’ammontare del patrimonio ereditario. In ogni altro caso – segnatamente, quando la restituzione dell’arricchimento ingiustificato può essere già chiesta al de cuius – si configura unicamente un arricchimento diretto di costui, con la conseguente obbligazione ex lege.
L’individuazione di un arricchimento ingiustificato in capo alla persona accudita – oltre ad essere la soluzione più coerente sul piano del diritto positivo – ha il vantaggio di consentire significativi margini d’azione all’autonomia privata della persona, direttamente obbligata alla restituzione, per intervenire sul rapporto obbligatorio del quale è (già) parte. In particolare, costei potrà adempiere direttamente la sua obbligazione in vita, o disporre post mortem un c.d. legato di debito (il quale potrebbe avere ad oggetto anche una prestazione diversa dalla somma di denaro dovuta), o ancora fare una ricognizione di debito, pura o titolata: tutto ciò senza lesione dei diritti dei legittimari.
Si è detto che, nella normalità dei casi, il caregiver offre delle prestazioni periodiche di cura, a titolo gratuito, alla persona assistita, che accetta. Si perfeziona così, attraverso il contegno concludente delle parti, una donazione obbligatoria di prestazioni di fare. Tale contratto è nullo per difetto della forma prevista, appunto, a pena di nullità (artt. 782 e 1325 n. 4 c.c.), sicché le prestazioni eseguite devono essere restituite (cfr. l’espresso richiamo alle azioni di ripetizione, contenuto all’art. 1422 c.c.). Il rimedio attraverso il quale l’ordinamento consente la restituzione delle prestazioni di fare indebitamente eseguite è l’azione di arricchimento ingiustificato.
Va però accertata la sussistenza di un altro dei presupposti richiesti per l’utile esperimento dell’azione: la mancanza di giusta causa dell’arricchimento. Potrebbe infatti verificarsi il caso in cui l’arricchimento dell’accipiens delle prestazioni di cura eseguite dal caregiver – pur in forza di una donazione nulla – possa comunque considerarsi sorretto da una giusta causa. Ciò impone un esame analitico di quest’ultimo requisito.
A fronte di una varietà di opinioni – il cui esito, comunque, è quello di ricostruire la nozione di “giusta causa” in base al diritto positivo [44] – pare opportuno muovere dalla definizione contenuta nella Relazione al codice civile [45], che la esemplifica con tre ipotesi, cioè (i) che il singolo trasferimento di valori trovi a fronte la prestazione di un corrispettivo, (ii) che abbia causa nella liberalità, (iii) che sia legittimato da una precisa disposizione della legge. Lo schema conserva attualità classificatoria, giacché ciascuna delle tre ipotesi può specificarsi in altre di maggiore dettaglio, che verranno esaminate.
Quanto alla prestazione di un corrispettivo per il trasferimento di valore, essa è intesa nella duplice accezione di arricchimento come conseguenza di un contratto o di un impoverimento remunerato [46]. Il contratto potrebbe essere tanto (i) a causa di scambio – nel qual caso si ha senz’altro “prestazione di un corrispettivo” [47] – quanto (ii) un contratto gratuito (non liberale) – nel qual caso manca il corrispettivo, ma la prestazione è pur sempre giustificata dal contratto efficace tra le parti – quanto (iii) un contratto di donazione – che, pur avendo struttura contrattuale, ha una causa di liberalità – il quale perciò si qualifica più correttamente tra le prestazioni giustificate dalla causa liberale, insieme con le liberalità diverse dalla donazione.
Dal canto suo, l’impoverimento remunerato potrebbe consistere in (i) una donazione remuneratoria, o (ii) una liberalità non donativa, o addirittura (iii) una disposizione testamentaria a beneficio del caregiver, ma anche (iv) una provvidenza pubblica, come l’indennità c.d. accompagnatoria, o uno degli interventi annunciati dal legislatore con l’istituzione del Fondo per il sostegno del ruolo di cura e di assistenza del caregiver familiare [48]. A ben vedere, in questi casi di “impoverimenti remunerati” sembra venir meno (del tutto o in parte) il requisito dell’impoverimento, non anche la mancanza di giusta causa dell’arricchimento. Ne consegue che il caregiver che ha ricevuto una “remunerazione” parziale (ad es., una donazione, o una forma di sostegno pubblico pari a parte del valore delle prestazioni di assistenza erogate) potrà comunque agire in arricchimento nei confronti (della persona interessata e) dei suoi eredi [49].
Quanto alla liberalità come causa di giustificazione dell’arricchimento – con riferimento sempre alle prestazioni di cura eseguite dal caregiver – occorre delimitare il confine tra (i) i contratti atipici gratuiti, non soggetti alla forma solenne prevista per la donazione (ammessi anche per le prestazioni di fare, nella misura in cui realizzino un interesse patrimoniale del disponente), (ii) la donazione formale (di cui si ammette che possa avere ad oggetto prestazioni periodiche di fare) e (iii) le liberalità diverse dalla donazione.
Quanto alle precise disposizioni di legge che giustificano l’arricchimento, vengono in rilievo, con riferimento al caregiver: (i) quelle che prevedono obblighi legali di mantenimento (artt. 143 e 315-bis c.c.) e di prestare gli alimenti (art. 433 s. c.c.), (ii) quelle che impongono al gestore d’affari di continuare la gestione (art. 2028 c.c.), (iii) quelle che escludono la ripetibilità delle prestazioni eseguite spontaneamente, da una persona capace, in adempimento di doveri morali e sociali (art. 2034 c.c.), (iv) quelle che escludono alcun compenso per prestazioni eseguite, per causa di solidarietà, nell’ambito di associazioni di volontariato (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, Codice del terzo settore) [50].
La mancanza di giusta causa può affermarsi solo laddove si dimostri che l’assistenza è stata prestata al di fuori di ciascuna delle fattispecie anzidette, le quali costituiscono altrettante ragioni idonee a giustificare l’arricchimento, conseguente all’esecuzione delle prestazioni di cura. In mancanza di una tale ragione giustificatrice, l’esecuzione della prestazione non dovuta si atteggia a fonte di obbligazioni restitutorie.
Va approfondita l’ipotesi in cui si ravvisi la giusta causa dello spostamento patrimoniale nella prestazione di un corrispettivo. Essa si verifica ogni volta che lo spostamento di ricchezza trovi la sua causa in un contratto efficace tra le parti, ma la giurisprudenza ravvisa la presenza di una giusta causa anche in qualsiasi impoverimento remunerato[51]. A quest’ultima ipotesi pare ascrivibile non solo il caso in cui corrisponda al sacrificio economico una controprestazione dovuta per contratto, ma anche i casi della donazione rimuneratoria e della disposizione testamentaria a favore dell’impoverito, dettata dal motivo di remunerare l’impoverimento subito.
Al riguardo, sembra preferibile ritenere che il motivo della disposizione possa essere anche implicito, senza che esso debba risultare dal testamento. Questa soluzione pare ricavabile a contrario dall’art. 626 c.c., il quale richiede – ai fini della nullità della disposizione testamentaria per l’illiceità del motivo unicamente determinante – che il motivo illecito risulti dal testamento, e che esso sia il solo che ha determinato il testatore a disporre. Questa norma richiede bensì che il motivo (illecito) sia espresso, ma lo richiede all’unico fine di disciplinare l’invalidità della disposizione illecita. Per converso, non pare potersi trarre dall’art. 626 c.c. alcuna indicazione utile ad affermare la necessità di un motivo espresso anche al (diverso) fine di ravvisare nella disposizione testamentaria una remunerazione dell’impoverimento del caregiver. La soluzione sembra trovare un argomento a contrario anche nella norma di cui all’art. 659 c.c., secondo cui non si presume la causa solvendi del legato disposto a favore al debitore. La presunzione di liberalità del legato sarebbe applicabile, se il testatore volesse adempiere alla sua obbligazione restitutoria ex art. 2041 c.c., maturata nei confronti del caregiver: il testatore che vuole pagare il suo debito, deve dirlo. Per contro, la presunzione non pare applicabile a quella disposizione testamentaria (istituzione di erede o legato) con cui il testatore semplicemente benefica il suo caregiver, in qualche modo “remunerandolo”, ma senza attribuirgli alcunché in funzione propriamente solutoria della preesistente obbligazione restitutoria (salvo che, come detto, tale “remunerazione” si rifletterà sull’impoverimento, quindi, indirettamente, sul quantum dell’obbligazione).
In altri termini, la remunerazione dell’impoverimento sembra qui doversi intendere in senso lato – come “contro-arricchimento” disposto dall’arricchito in favore dell’impoverito, anche per spirito di liberalità (come nell’ipotesi della donazione remuneratoria) – e non, invece, in senso stretto, come adempimento dell’obbligazione restitutoria ex art. 2041 c.c. Ne consegue che non sarà necessaria l’expressio causae nella disposizione testamentaria, al fine di escludere l’impoverimento del caregiver, che sia stato “compensato” da una remunerazione fatta per causa di liberalità (anche attraverso la disposizione testamentaria): anzi, pare sufficiente che il caregiver sia stato beneficato dalla persona assistita con una disposizione testamentaria a qualsiasi titolo, per escludersi il suo impoverimento nella misura corrispondente al valore del lascito mortis causa.
In tutti questi casi può affermarsi non sussistere alcun arricchimento ingiustificato, a danno del caregiver, in capo a chi comunque l’abbia remunerato, ancorché per spirito di liberalità (con donazione rimuneratoria), o con una disposizione testamentaria (che non ha causa di liberalità). Precisamente, in questi casi viene meno l’impoverimento del caregiver, e non – come afferma la giurisprudenza – l’ingiustificatezza dell’arricchimento a suo danno [52].
In ipotesi, ben potrebbe darsi l’ipotesi che le parti si accordino, ad esempio, affinché il caregiver presti alla persona tutta l’assistenza necessaria, e, come corrispettivo, quest’ultima le attribuisca tutto quanto percepisce a titolo di trattamento previdenziale o assistenziale (oltre alle provvidenze che il caregiver già eventualmente percepisca jure proprio, in conseguenza dell’assistenza prestata, come l’indennità di accompagnamento)[53]. In questo caso, l’arricchimento della persona assistita farebbe difetto della ingiustificatezza richiesta dall’art. 2041 c.c., in quanto conseguente all’esecuzione di una prestazione che sarebbe dovuta, da parte del caregiver, in adempimento di una obbligazione che ha fonte nel contratto validamente stipulato con la persona assistita (o, in ipotesi, con un terzo, ma a favore della persona assistita, ex art. 1411 c.c.).
In secondo luogo, potrebbe darsi – oltre all’ipotesi di un contratto a titolo oneroso – anche quella di un contratto gratuito, con obbligazioni a carico del solo caregiver. Si ammette, infatti, che le parti, nell’ambito della loro autonomia privata, possano concludere contratti atipici che prevedono l’esecuzione di prestazioni fare a titolo gratuito (sono essenzialmente onerosi i contratti tipici di appalto, opera manuale e professionale, lavoro subordinato) [54]. Tuttavia, l’ammissibilità di tali contratti gratuiti atipici – sotto i profili della sussistenza e della liceità della causa, nonché di meritevolezza degli interessi perseguiti – non può essere data per scontata: secondo l’opinione prevalente, l’ordinamento riconosce la validità delle sole convenzioni atipiche con cui taluno assume l’obbligo di eseguire gratuitamente prestazioni di fare per soddisfare un proprio interesse di natura patrimoniale, noto all’accipiens. Per converso, sfuggono a tale qualificazione i contratti con cui taluno assume l’obbligo di eseguire gratuitamente prestazioni di fare, per soddisfare un interesse proprio di natura non patrimoniale, noto all’accipiens [55]. Infatti, l’interesse economico del disponente impedisce – per il venir meno dello spirito di liberalità – di qualificare l’atto gratuito come donazione, con conseguente superfluità della forma pubblica. In tal caso, si avrà un contratto gratuito atipico – valido, nel limiti della meritevolezza – che vincola il promittente all’esecuzione, senza che occorra alcuna forma particolare. Per qualificare la promessa gratuita di prestazioni di fare non rientrante in alcun contratto gratuito tipico, quindi, occorre verificare il tipo di interesse perseguito dal disponente che promette nullo jure cogente: in tanto c’è spirito di liberalità, in quanto vi sia interesse di natura non patrimoniale [56].
Per converso, i contratti gratuiti con cui taluno assume un’obbligazione, al fine di soddisfare un proprio interesse di natura non patrimoniale, si qualificano come donazioni obbligatorie, aventi ad oggetto un diritto di credito, nel confronti del disponente, all’esecuzione di prestazioni di fare [57]. Tali contratti, così qualificati, reclamano la forma solenne a pena di nullità (art. 769 c.c.), salvo che possano qualificarsi come liberalità d’uso (art. 770 co. 2 c.c.), nel qual caso – facendo difetto la natura giuridica della donazione – non è richiesto alcun onere di forma, a prescindere dal valore della prestazione che ne forma oggetto. In altri termini, le promesse di eseguire prestazioni di fare gratuite, per soddisfare un interesse non patrimoniale del disponente – ancorché accettate dall’oblato – non danno vita né a validi contratti gratuiti atipici (che riguarderanno le sole promesse di fare a soddisfazione di un interesse patrimoniale del disponente), né a validi contratti di donazione (beninteso, nella misura in cui non siano compiute con l’osservanza della forma solenne) [58].
Nel caso del caregiver, pare difficilmente contestabile che le prestazioni di cura sia eseguita per soddisfare un interesse di natura non patrimoniale proprio dello stesso caregiver, e non, al contrario, per soddisfare un suo interesse di natura patrimoniale [59]. Ne consegue che un eventuale accordo concluso tra il caregiver e la persona assistita, in forza del quale il primo assume l’obbligo di prestare assistenza materiale alla seconda, in tanto potrà acquistare rilevanza giuridica – sia come fonte di obbligazioni, sia come causa di giustificazione dell’arricchimento conseguente alla effettiva esecuzione delle prestazioni – in quanto l’accordo sia concluso con l’osservanza delle forma imposta per il tipo contrattuale all’interno del quale si qualifica, vale a dire (non un contratto gratuito atipico, a forma libera, bensì) una donazione obbligatoria a forma solenne [60].
Da quest’ultimo rilievo si ricava l’inapplicabilità, al caso del caregiver, della disciplina della formazione del contratto con obbligazioni del solo proponente (art. 1333 co. 2 c.c.), secondo cui l’oblato può rifiutare la proposta nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi, e, in mancanza, il contratto è concluso. In astratto, potrebbe darsi il caso che il caregiver abbia offerto alla persona di prendersi cura di lei gratuitamente, e che – in mancanza del rifiuto di questa – possa ritenersi concluso un contratto gratuito atipico, con obbligazioni del solo proponente, il quale sarebbe fonte di un’obbligazione, in capo al caregiver, di prestare assistenza gratuita all’interessato, senza diritto al corrispettivo [61]. Tuttavia, l’ammissibilità di un tale contratto gratuito atipico è limitata ai casi in cui il contratto sia il mezzo per realizzare un interesse patrimoniale del disponente, il che pare difficilmente configurabile nel caso di rapporti familiari o amicali.
In terzo luogo – in mancanza di un contratto tra le parti, concluso anche ai sensi dell’art. 1333 c.c. – potrebbe ipotizzarsi che l’esecuzione di fatto delle prestazioni di cura da parte del caregiver dia luogo ad un rapporto contrattuale di fatto, segnatamente di un rapporto di lavoro domestico [62]. Questa soluzione va esclusa, se non altro in ragione della stessa nozione di rapporto di lavoro di fatto, che nasce da una situazione di contatto sociale, intesa come complesso delle circostanze e dei comportamenti – valutati in modo socialmente tipico – attraverso i quali si realizzano, di fatto, operazioni economiche e trasferimenti di ricchezza tra i soggetti, pur mancando in apparenza una compiuta formalizzazione dello scambio in un contratto [63]. In senso contrario, si è osservato che potrebbero fare difetto sia la tipicità sociale del contratto, sia la volontà delle parti di obbligarsi giuridicamente [64].
Nel caso del caregiver, la tipicità sociale manca in quanto, secondo il comune intendimento, la prestazione di assistenza gratuita non dà luogo ad un rapporto di lavoro, diversamente del lavoro dell’operaio in fabbrica, del barista al bancone, del rider che consegna pasti a domicilio: questa diversa valutazione dell’importanza (anche economica) delle attività di cura rispetto alle attività di produzione e scambio di beni e servizi è sicuramente criticabile, ma pare ancora radicata nella coscienza sociale [65].
Inoltre, pare possibile dimostrare (anche per presunzioni) che le parti abbiano comunque concordato un regolamento dei loro interessi, e precisamente che abbiano dettato o un regolamento giuridicamente qualificabile come donazione obbligatoria (di cui si è già detto), ovvero un regolamento che prevede di non assoggettare il rapporto alla disciplina dei contratti, esprimendo cioè un intento giuridico negativo [66]. Ciò impedirebbe senz’altro di ricondurre le prestazioni di cura all’esecuzione di un qualsiasi rapporto contrattuale di fatto.
Resta da esaminare la possibilità di qualificare le prestazioni di cura come attuazione di un intento di chi tali prestazioni esegue, in cui trova espressione il suo spirito di liberalità[67]. Infatti, l’attività materiale in cui s’impegna il caregiver è sì qualificabile in termini di esecuzione di prestazioni di fare, ma può assumere rilevanza anche come liberalità indiretta.
Secondo una tesi, lo spirito di liberalità del disponente risulta non tanto direttamente dall’agire materiale, quanto piuttosto dalla rinuncia al diritto all’indennità, che sorge in conseguenza dell’attività svolta (ad es. artt. 936, 939, 2041 c.c.) [68]. Secondo altra tesi, la liberalità risulta dalla volontà comune del disponente e del beneficiario, volta a dare una qualificazione liberale all’effetto acquisitivo legale: i soggetti così “fanno proprio” l’acquisto, prodotto ex lege da una fattispecie non negoziale, e lo “configurano” [69]. Il negozio “configurativo” è volto ad assegnare preventivamente rilevanza giuridica a fatti o atti che in altro modo dovrebbero essere valutati, senza però obbligare le parti a tenere detti comportamenti: si riconosce dunque all’autonomia privata il potere di interferire sugli effetti legali di un atto o di un fatto giuridico per “contemplarli” nell’assetto di interessi, ancorché l’acquisto continui a essere avvenuto per legge [70].
Dunque, pur non potendosi escludere una rinunzia del caregiver all’indennità da arricchimento ingiustificato conseguente all’opera prestata – anche implicitamente: l’accertamento della volontà darà luogo ad una quaestio voluntatis [71] – occorre indagare più in dettaglio l’ammissibilità di un accordo configurativo di una liberalità non donativa, da attuarsi tramite l’esecuzione di prestazioni di cura in un lungo periodo di tempo.
Il “negozio configurativo” è ritenuto un meccanismo idoneo a spiegare tutte le liberalità indirette, in generale i negozi indiretti: si parla al riguardo di un accordo configurativo “causale” (per distinguerlo da quello “procedimentale”), sul modello della Rechtsgrundabrede. Quest’ultima è un accordo relativo a trasferimenti patrimoniali futuri – da compiere per mezzo di negozi astratti – i quali risulteranno “colorati” dalle ragioni dell’attribuzione, che sono “approvate” dalle parti per il tramite di un apposito negozio configurativo. In altri termini, si tratta di un accordo relativo alla causa di giustificazione dell’attribuzione patrimoniale conseguente alla condotta della parte: tale condotta della parte si qualifica perciò come “prestazione”, pur non obbligatoria, ma comunque dotata di una sua ragione giustificatrice, e perciò irripetibile [72].
Questa ricostruzione del negozio configurativo si attaglia alla liberalità indiretta, negoziale o meno. Le parti possono concludere, nell’esercizio della loro autonomia contrattuale, un accordo vincolante dotato di effetti costitutivi: anche l’efficacia “configurativa” sarà ammessa, come minus di tale tipologia di effetti [73]. Questa ricostruzione sovrappone un negozio all’atto materiale, o all’altro negozio da cui risulta la liberalità indiretta, ma – con riferimento a quest’ultima ipotesi – un unico negozio non potrebbe veicolare cause tanto diverse, come la corrispettività e la liberalità; né la liberalità è necessariamente veicolata da un mero comportamento materiale, che potrebbe essere compiuto in modo incosciente e involontario, e sarebbe comunque fonte di arricchimento in capo al beneficiario [74].
Nel caso del caregiver, la conclusione (per fatti concludenti) di “accordo configurativo della causa” potrebbe ravvisarsi nell’offerta, rivolta alla persona accudita, di eseguire prestazioni di cura gratuite a suo favore (per spirito di liberalità). Da ciò conseguirebbe la qualificazione delle prestazioni di cura (attività materiale) in termini di liberalità indiretta: il che varrebbe a giustificare l’arricchimento dell’accipiens delle prestazioni di cura, quindi a negare al solvens la tutela restitutoria ex art. 2041 c.c.
L’ammissibilità di un siffatto accordo configurativo, tuttavia, non è illimitata. Si tratta senz’altro di una pattuizione volta a perseguire un interesse meritevole di tutela (quello di attuare le liberalità indirette), che però si misura con il limite della compatibilità con le norme imperative, e con la nullità (per illiceità della causa) dei contratti che costituiscono il mezzo per eluderne l’applicazione (art. 1344 c.c.). Segnatamente, la stipulazione dell’accordo configurativo non sembra consentita, laddove esso sia volto a conseguire i medesimi effetti della donazione obbligatoria di prestazioni di fare, ma senza l’osservanza della forma per essi prevista. Infatti, è prevista per la donazione la forma solenne ad substantiam (art. 782 c.c.), mentre l’accordo configurativo – non avendo per oggetto diritti reali immobiliari (art. 1350 c.c.) – dovrebbe potersi concludere in forme diverse, finanche per fatti concludenti.
Ora, è vero che il principio di causalità delle attribuzioni patrimoniali non è indefettibile – ci sono forti controlli preventivi sulla causalità, ma i controlli successivi sono più blandi, in particolare rispetto alla prova del diritto e alla sua rinunzia (quest’ultima potrebbe avere ad oggetto anche credito restitutorio, nascente proprio da un’attribuzione patrimoniale priva di causa) [75] – ma è vero anche che tale principio trova cittadinanza nel nostro ordinamento, e che giustifica dei limiti all’autonomia privata, in funzione di controllo preventivo sulla circolazione della ricchezza (la rinunzia può intervenire ex post, non ex ante): uno di questi limiti è appunto l’imposizione della forma pubblica per le donazioni di ingente valore, a tutela del disponente [76]. Per queste ragioni, non potrà ammettersi un accordo configurativo di liberalità indirette, da stipularsi in qualsiasi forma; per contro, tale accordo potrà ammettersi – senza incorrere nella nullità ex artt. 783, 1344, 1418 co. 2 c.c. – con riferimento alle liberalità d’uso (art. 770 co. 2 c.c.) e a quelle di modico valore (art. 783 c.c.), che non richiedono la forma solenne [77].
L’accordo configurativo della liberalità indiretta – stipulato per fatti concludenti, per giustificare lo spostamento di ricchezza conseguente all’esecuzione di prestazioni di fare di ingente valore – dovrebbe ritenersi nullo, perché volto ad eludere l’applicazione della norma imperativa di cui all’art. 782 c.c., che assoggetta tale pattuizione alla forma solenne [78]. Al più, potrebbe ammettersi che tale accordo possa validamente concludersi con l’osservanza della forma pubblica, in applicazione analogica dell’art. 782 c.c.. In questo senso ci si richiama all’autorevole opinione che esclude l’esistenza di un principio generale di libertà delle forme degli atti, al quale farebbero eccezione quelle norme che prevedono forme particolari [79], sicché l’individuazione della disciplina della forma dell’atto dovrà fare riferimento alla natura degli interessi che l’atto è volto a soddisfare [80]. Nel caso dell’accordo configurativo, l’interesse da tutelare – il controllo sulla circolazione della ricchezza e la tutela del disponente (di un’attribuzione di non modico valore) – sembra reclamare la forma di cui all’art. 782 c.c., secondo l’indicazione direttamente desumibile dal diritto positivo.
Al di là della ricostruzione giuridica del come trovi rilievo l’eventuale presenza di uno spirito di liberalità, occorre tenere presente cosa sia quest’ultimo, per accertarne la sussistenza nel caso del caregiver. Si è riferita l’opinione che ravvisa la liberalità nell’idoneità della prestazione eseguita a soddisfare un interesse non patrimoniale del disponente[81]: va perciò esaminato se l’esecuzione di prestazioni di cura possa ritenersi animata dallo spirito di liberalità così inteso.
La soluzione positiva della questione non è scontata. L’ordinamento giuridico non definisce lo “spirito di liberalità”, ma qualifica espressamente taluni atti come “liberalità” [82]: in particolare, le spese di mantenimento e malattia sostenute a favore dei discendenti – soggette a collazione – si qualificano come liberalità diverse dalla donazione [83]. Dunque, non possono dirsi senz’altro “liberalità” quelle stesse spese di mantenimento o malattia, che però siano sostenute dai figli a favore degli ascendenti, e a maggior ragione quelle sostenute a favore di terzi [84]. Beninteso che tali spese potrebbero comunque qualificarsi “liberali” per diverse ragioni. Ancora, la definizione di tali spese in termini di liberalità deve ritenersi rilevante anche ai fini della valutazione dell’esistenza di una giusta causa dell’arricchimento conseguente (ai sensi dell’art. 2041 c.c.), nel senso che è destinata a restare ferma – perché irripetibile – quell’attribuzione patrimoniale che sia sorretta da causa liberale, in quanto la legge espressamente la qualifica come tale.
Un esempio più giovare la comprensione di quanto si va dicendo.
Se l’art. 742 co. 2 c.c. qualifica in termini liberali le spese di mantenimento o malattia sostenute in favore dei discendenti – non anche quelle sostenute in favore degli ascendenti – ne consegue che il pagamento, da parte del figlio, della retta della casa di riposo del genitore (art. 1180 c.c.), potrebbe qualificarsi, in alternativa, come (i) liberalità diversa dalla donazione, (ii) adempimento di un’obbligazione legale di pagare gli alimenti (qualora il genitore ne abbia acquistato il diritto nei confronti del figlio, per effetto di una sentenza costitutiva), (iii) adempimento di un’obbligazione naturale (ad es., qualora sussista lo stato di bisogno, ma il genitore non abbia ottenuto la sentenza costitutiva del diritto agli alimenti), ovvero (iv) adempimento di terzo non sorretto da spirito di liberalità, fonte di arricchimento ingiustificato del debitore liberato, a danno del terzo adempiente [85].
Si è già detto che la distinzione tra atto gratuito (qual è l’adempimento di terzo, in sé considerato) e atto liberale (qual è la liberalità diversa dalla donazione, attuata mediante adempimento del terzo) va ricercata nella natura dell’interesse del disponente. Se questi agisce allo scopo di soddisfare un proprio interesse patrimoniale (ad es. in vista di uno scambio c.d. empirico), l’atto è gratuito (non liberale); se agisce per soddisfare un proprio interesse non patrimoniale, l’atto è liberale [86]. Nel caso del figlio che paga la retta della casa di cura, dovuta dal genitore, è ragionevole ipotizzare che abbia agito per soddisfare un proprio interesse non patrimoniale, anche se non può senz’altro escludersi lo scopo di soddisfare un interesse patrimoniale del disponente (ad es., perché spera in una donazione rimuneratoria, o di essere istituito erede nella disponibile). Considerazioni analoghe possono riferirsi all’adempimento da parte di un terzo estraneo alla famiglia nucleare (un amico, un parente lontano). In ogni caso, l’ordinamento non qualifica (espressamente o implicitamente) in termini di liberalità le spese di mantenimento e malattia, sostenute dal discendente a favore degli ascendenti, sicché lo spirito di liberalità non potrà presumersi: l’eventuale sussistenza di una tale causa giustificatrice dell’arricchimento andrà indagata secondo i criteri suoi propri.
Quanto all’esecuzione di attività materiali, la configurabilità dello spirito di liberalità dipende, a monte, dalla qualificazione del rapporto tra le parti. Come si è già detto, potrebbe trattarsi, in alternativa, di: (i) donazione obbligatoria di prestazioni di fare; (ii) contratto gratuito atipico avente ad oggetto prestazioni di fare; (iii) liberalità indiretta; (iv) lavoro subordinato di fatto; (v) prestazioni non dovute, che obbligano l’accipiens a indennizzare il solvens del conseguente impoverimento (salve eventuale successiva rinuncia del solvens all’indennità).
Si è già detto che la donazione obbligatoria e il contratto gratuito atipico si distinguono in base alla natura (patrimoniale o non patrimoniale) dell’interesse del disponente [87]. Dunque, l’accordo con cui il solvens si obbliga ad eseguire una prestazione di fare per la soddisfazione di un proprio interesse non patrimoniale si qualifica come donazione obbligatoria di prestazioni di fare. Quest’ultima è idonea a giustificare l’arricchimento dell’accipiens, purché conclusa in forma solenne (art. 782 c.c.), se le prestazioni non hanno valore modico (art. 783 c.c.). Dunque, le prestazioni di cura (che soddisfano un interesse non patrimoniale dello stesso caregiver) potrebbero trovare giustificazione causale in un contratto di donazione validamente stipulato – in forma di atto pubblico – ma non in una donazione nulla per difetto di forma (art. 782 c.c.), perché conclusa in forma orale, o per fatti concludenti, la quale può essere confermata sì dagli eredi e dagli aventi causa del donante (art. 799 c.c.), ma non anche dal donante.
Il contratto gratuito atipico non reclama la forma solenne ad substantiam, ma necessita di un interesse patrimoniale del disponente, cioè dell’aspettativa di un ritorno economico (ad es., risultati in termini pubblicitari, promozionali e d’immagine commerciale). Pur non potendosi escludere un siffatto interesse del caregiver, va rilevato che – nella normalità dei casi – l’assistenza di una persona cara è prestata a scopi ideali, di evitarle il ricovero in casa di riposo, assicurarle un’assistenza migliore di quella che potrebbe trovare altrove, farle compagnia, passare insieme gli ultimi momenti della vita. Per contro, l’interesse economico del caregiver – la speranza di ricevere un lascito economico, o anche di conseguire l’indennità da ingiustificato arricchimento – sembra confinato alla sfera dei motivi individuali, senza assurgere ad interesse condiviso con l’accipiens (perlomeno, non si lo può presumere, secondo l’id quod plerumque accidit). Peraltro, se si desse rilevanza ad un simile interesse patrimoniale, ne conseguirebbe la qualificazione del contratto (non come donazione, bensì) come contratto gratuito atipico, valido, quindi idoneo a produrre l’obbligazione di fare in capo al caregiver, il quale perciò si impoverirebbe per giusta causa, in quanto eseguirebbe una prestazione dovuta. Si giungerebbe così, nel dare rilevanza all’interesse patrimoniale del caregiver “egoista”, a frustrare proprio quel suo stesso interesse. Pare preferibile – anche per non appesantire l’istruttoria processuale – non dare peso eccesivo all’indagine di tali stati psicologici.
Ancora, si è detto che il rapporto tra caregiver e persona accudita potrebbe qualificarsi come rapporto di lavoro subordinato domestico – per la natura delle prestazioni ivi previste – ma tale qualificazione sarebbe verosimilmente in contrasto con un altro “accordo” delle parti, con cui esse stabiliscono il loro “intento giuridico negativo”, di sottrarre il loro rapporto alla disciplina del diritto dei contratti. Infatti, l’assunzione di un’obbligazione di fare, anche a titolo gratuito, comporta il dovere giuridico del caregiver di eseguire le prestazioni di cura, ed è verosimile che il caregiver non intendesse assumere un tale obbligo, ma solo eseguire le prestazioni in questione, al di fuori di qualsiasi rapporto contrattuale. Pertanto, qualificare il rapporto caregiver-persona accudita in termini di contratto gratuito atipico né pare compatibile con la volontà delle parti (secondo l’id quod plerumque accidit), né pare poter condurre all’esito di assoggettare il rapporto alla disciplina contratto di lavoro subordinato (domestico).
Inoltre, la qualificazione in termini di rapporto di lavoro di fatto pare incompatibile non solo con l’intento giuridico negativo – l’accordo delle parti, anche tacito, volto ad escludere la rilevanza contrattuale del loro accordo – ma anche con la definizione legislativa del caregiver familiare, secondo cui l’attività di cura è svolta in modo non professionale [88]. In astratto, il requisito della professionalità potrebbe essere inteso come continuità o perlomeno non occasionalità dell’attività svolta, sulla scorta dell’art. 2082 c.c. [89], ma esso sembra più correttamente inteso come un riferimento (in negativo) alle professioni infermieristiche e all’arte ausiliaria dell’operatore socio-sanitario [90]. Perciò, si ricava dal dato normativo che il lavoro del caregiver non rientra in quei rapporti (contrattuali) nei quali pure potrebbe astrattamente inquadrarsi.
Si è detto, poi, che l’attribuzione patrimoniale compiuta dal caregiver mediante il suo lavoro gratuito potrebbe ritenersi sorretta dalla causa liberale. L’ordinamento indica l’atto solenne della donazione (anche la donazione obbligatoria di prestazioni di fare) come mezzo per giustificare gli spostamenti patrimoniali (di valore non modico) compiuti per spirito di liberalità. La liberalità indiretta potrebbe risultare dalla rinuncia (anche implicita) al diritto all’indennità, che matura in capo al caregiver in conseguenza dell’esecuzione delle prestazioni non dovute, ai sensi dell’art. 2041 c.c. [91]. In alternativa alla rinunzia ex post, potrebbe esservi un accordo “configurativo” ex ante, che però si misura coi requisiti di forma delle donazioni di ingente valore.
La tendenza tradizionale a “forzare” la qualificazione delle prestazioni gratuite di fare nell’ambito della liberalità, tuttavia, appare in via di superamento [92]: sul versante legislativo, con l’espresso superamento della presunzione di gratuità del lavoro nell’impresa familiare, attraverso l’introduzione degli artt. 230-bis e 230-ter c.c. [93]; sul versante dottrinale, con la ricostruzione dei rapporti di convivenza – anche le convivenze non more uxorio – in termini schiettamente contrattuali [94]; sul versante giurisprudenziale, con l’inquadramento delle attribuzioni patrimoniali tra familiari (specie tra conviventi more uxorio) in termini di adempimento di obbligazioni naturali (entro il limite della proporzionalità), anziché nella categoria della liberalità.
In particolare, la giurisprudenza decide spesso sulla pretesa restitutoria del convivente che costruisce sul suolo dell’altro (e, in genere, della sorte delle attribuzioni patrimoniali dopo la fine della convivenza). Le rationes decidendi non riguardano l’elemento soggettivo dello spirito di liberalità – non vi è alcun accertamento di eventuali rinunzie all’indennità – ma esclusivamente all’elemento oggettivo dell’an e del quantum del dovere morale-sociale di provvedere ai bisogni abitativi della famiglia, e della proporzionalità-adeguatezza della prestazione eseguita in adempimento di esso [95]. Non si cerca la giusta causa dell’arricchimento sul terreno della liberalità (specie se “presunta”), bensì su quello dei doveri morali-sociali, con attenzione ai limiti entro cui l’esecuzione di una prestazione, eseguita in adempimento degli stessi, assume giuridica rilevanza come causa di giustificazione dello spostamento di ricchezza che ne deriva.
Resta dunque, in via residuale, la qualificazione l’attività materiale del caregiver come esecuzione di prestazioni di fare non dovute – beninteso nella misura in cui non fossero oggetto, del tutto o in parte, di un preesistente dovere giuridico (artt. 143, 315-bis, 433 s. c.c.) o morale-sociale (art. 2034 c.c.) [96] – con la conseguenza che l’acceptio della prestazione non dovuta è fonte di obbligazioni restitutorie in capo all’accipiens.
Un’ulteriore difesa (infondata), rispetto alla configurabilità di un arricchimento ingiustificato della persona accudita a spese del caregiver, potrebbe riguardare la volontarietà delle prestazioni di cura eseguite da quest’ultimo. Infatti, parte della dottrina ritiene che l’impoverito che ha volontariamente eseguito una prestazione di fare in alcuni casi non abbia diritto alla restituzione, per equivalente, dell’arricchimento ingiustificato conseguito da chi abbia ricevuto la prestazione[97].
In contrario, si è autorevolmente osservato che questa soluzione non trova alcun riscontro nel diritto positivo [98], dal quale non si può ricavare alcun principio generale di irripetibilità della prestazione di fare, come forma di tutela contro gli arricchimenti “imposti” [99]. A ciò si può aggiungere che, nel diritto privato, la volontà non è sovrana, ma rileva nei soli casi e modi previsti dalla legge [100]. Segnatamente, il diritto positivo conosce il principio della causalità delle attribuzioni patrimoniali – con l’obbligo, in via generale, di restituire quanto percepito senza giusta causa (artt. 2033 s. e 2041 c.c.) – sicché la nuda volontà del solvens non sarà mai sufficiente, di per sé, a produrre quel particolare effetto giuridico, che consiste nel giustificare l’esecuzione di una prestazione altrimenti non dovuta, cioè di precludere, in capo a chi l’ha eseguita, la nascita di un diritto di credito alla sua restituzione (in natura, ex artt. 2037 e 2041 co. 2 c.c., o per equivalente, ex art. 2038 e 2041 co. 1 c.c.) [101].
Infatti, la volontà del solvens assume giuridica rilevanza e produce effetti giuridici – tra cui giustificare un trasferimento patrimoniale, i.e. impedire la nascita di obbligazioni restitutorie – nei soli casi previsti dalla legge, e cioè da disposizioni puntuali ovvero dai principi ricavabili dal diritto positivo vigente, di rango primario e costituzionale (incluse, per tramite del richiamo contenuto nell’art. 117 co. 1 Cost., le discipline sovranazionali e internazionali che trovano applicazione nell’ordinamento giuridico italiano).
In altri termini, la regola positivamente stabilita non è quella che sancisce l’intangibilità della sfera giuridica (dell’arricchito) – alla quale, comunque, sono riconducibili molteplici specifiche regole di diritto positivo (artt. 1236, 1333, 2031 co. 2 c.c.) – bensì il suum cuique tribuere, attraverso l’imposizione dell’obbligazione ex lege (art. 2041 c.c.) in capo a chi si arricchisce senza giusta causa a danno di altri, di restituire all’impoverito il valore dell’arricchimento, nei limiti del pregiudizio subito, vuoi in natura vuoi per equivalente pecuniario [102]. Da ciò si ricava che – per le prestazioni non dovute eseguite volontariamente al di fuori delle ipotesi che l’ordinamento qualifica come giusta causa dell’arricchimento – la volontà dell’impoverito di eseguire la prestazione non gli preclude la tutela restitutoria. Ciò salvo che possa desumersi dal suo comportamento una rinuncia al diritto all’indennizzo ex art. 2041 c.c.
Quanto alla giusta causa dell’arricchimento, la legge attribuisce rilievo alla volontà dell’impoverito se e nella misura in cui tale volontà: (i) concorra alla stipulazione di un contratto efficace con l’arricchito; (ii) sia qualificabile come un atto di liberalità diverso dalla donazione; (iii) assuma rilievo in quanto tale, in conformità di una norma di legge (art. 2034 c.c., rapporti di cortesia, prestazioni eseguite per causa di solidarietà nell’ambito di un’associazione di volontariato, o individualmente nei casi previsti).
Si è tentato di dimostrare come le prestazioni volontariamente eseguite dal caregiver non possano farsi rientrare in alcuna delle ipotesi anzidette. Né sembra potersi invocare, in questo senso, l’esigenza di tutelare l’arricchito contro un arricchimento “imposto” [103]. Infatti, è pacifico – anche per la dottrina che ha elevato a principio giuridico questa esigenza di carattere economico – che la prestazione debba comunque essere restituita, allorché sia stata eseguita in buona fede, ovvero l’arricchito vi abbia consentito, o l’abbia positivamente ricevuta, o ne abbia tollerato l’esecuzione [104].
Il presente studio riguarda proprio i casi in cui l’interessato abbia accettato la prestazione – così finendo per concludere, peraltro, un contratto di donazione obbligatoria col caregiver (v. supra) – sicché ben può dirsi che abbia consentito a ricevere la prestazione, o comunque l’abbia ricevuta, o ne abbia tollerato l’esecuzione, etc. Per converso, qualora l’interessato abbia espressamente rifiutato le prestazioni di cura offerte dal(l’aspirante) caregiver, a quest’ultimo sarà negata ogni tutela restitutoria – del resto, nessuna prestazione di cura verrà concretamente eseguita, se l’interessato si oppone – in applicazione analogica dell’art. 2031 co. 2 c.c. [105].
Resta perciò da esaminare se l’arricchimento della persona accudita possa considerarsi giustificato in base ad elementi diversi dalla nuda volontà del caregiver di eseguire le prestazioni di cura, vale a dire – in assenza di un contratto o di un atto di liberalità validi – se vi sia una “precisa disposizione di legge” che, nel caso concreto, consenta di tenere fermo in capo alla persona accudita lo spostamento di ricchezza verificatosi a favore di quest’ultima (in termini di risparmio di spese) a spese del caregiver (in termini di energie, tempo, fatica, finanche con la rinuncia alla propria vita personale e professionale). Come si vedrà nel prosieguo dell’indagine, la soluzione da dare alla questione in via generale è, con alcuni limiti, negativa.
[1] Vicenda tratta dal leading case deciso dalla Cour cass., ch. civ. 1, du 12 juillet 1994, 92-18.639, che ha deciso, a favore di Norbert, enunciando il seguente principio di diritto: «Le devoir moral d’un enfant envers ses parents n’exclut pas que l’enfant puisse obtenir indemnité pour l’aide et l’assistance apportées dans la mesure où, ayant excédé les exigences de la piété familiale, les prestation librement fournies avaint réalisé à la fois un appauvrissement pour l’enfant et un enrichissement corrélatif des parents».
[2] La figura del caregiver è trattata da studi in materia di diritto del lavoro e previdenziale (S. Barutti, S. Cazzanti, L’assistenza alle persone non autosufficienti. La funzione di cura tra forme di tutela esistenti e nuove prospettive, in Lav. dir., 2010, 2, 255 s.; M. Vecchio, Non-discrimination, disability, caregiving and employment in the EU and Italy, in Dir. uomo, 2020, 3, 517 s.; S. Borelli, Who cares? Il lavoro nell’ambito dei servizi di cura alla persona, Jovene, 2020; Ead., Lavoro domestico e di cura, in Enc. dir. Tematici, VI, Giuffrè, 2023, 883 s.), ma non mancano gli studi di diritto successorio (L.B. Pérez Gallardo, Cuidadores familiares: en la encrucijada de su posible protección sucesoria, in Dir. succ. fam., 2021, 3, 311 s.; F. Della Rocca, Una interpretazione sistematica e assiologica del divieto di sostituzione fedecommissaria, in Dir. succ. fam., 2022, 1, 63 s.) e quelli dedicati all’inquadramento sistematico della figura (E. Morotti, La qualificazione giuridica dell’attività del caregiver familiare, in Familia, 12 maggio 2022; Ead., Il “guardador de hecho” o “caregiver” in Italia, in Act. jur. iberoam., 2022, 17-bis, 1936 s.). La dottrina di common law se n’è occupata dal punto di vista della law of restitution (S. Degeling, Restitutionary Rights to Share in Damages. Carer’s Claims in Common Law, CUP, 2003; B. Sloan, Unjust Enrichment Claims by Informal Carers, in Elder Law J., 2011, 298 s.; Id., Informal Carers and Private Law, Bloomsbury, 2013, 121 s.; H. Cooney, Restitution, Unjust Enrichment and Domestic Caregiving, in Tasmania Law R., 2021, 40).
[3] Oggetto dell’indagine è la restituzione delle prestazioni di cura, secondo una terminologia propria del codice civile – il tutore ha la cura della persona del minore (art. 357 c.c.); il giudice tutelare può adottare provvedimenti urgenti per la cura della persona per cui è fatta istanza di nomina di un amministratore di sostegno (art. 405 co. 4 c.c.), il quale è scelto con esclusivo riguardo alla cura e agli interessi della persona (art. 408 co. 1 c.c.); si può disporre una sostituzione fedecommissaria a favore della persona o degli enti che hanno avuto cura dell’interdetto (art. 692 c.c.) – e alla più recente dottrina (parla espressamente di «“prestazione” di cura», con riferimento all’assistenza morale, R. Senigaglia, Il dovere di rispettare i genitori nella coercibilità dell’ordinamento giuridico, in Dir. fam. pers., 2023, 2, 855). Per converso, non pare sufficiente, ai fini del presente studio, riferirsi alle sole prestazioni di assistenza materiale (cfr. P. Sirena, L’adempimento dell’altrui obbligazione di assistenza materiale, in Familia, 2002, 1, 43 s.). Infatti, la cura di una persona vulnerabile non ha ad oggetto soltanto la sua (i) assistenza materiale, ma anche (ii) l’assistenza morale, nonché (iii) la cooperazione al fine di mantenere rapporti significativi con la rete familiare (e amicale), (iv) l’ascolto, (v) il rispetto dei suoi bisogni e delle sue aspirazioni (cfr. quanto previsto dall’art. 315-bis c.c., con riferimento ai figli minori, e dall’art. 410 c.c., con riferimento al beneficiario di amministrazione di sostegno).
Il termine cura è ambiguo, perché può riferirsi – oltre che alle attività volte all’accudimento e alla promozione del benessere della persona, che interessano in questa sede, così come alla manutenzione e conservazione di cose (caring) – anche al diverso campo semantico delle attività volte a procurare la guarigione da una malattia o da un trauma (healing). La distinzione è stata elaborata da studi di filosofia morale, cui si rinvia: per tutti, E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità in età globale, Bollati Boringhieri, 2009; S. Tusino, L’etica della cura. Un altro sguardo sulla filosofia morale, FrancoAngeli, 2021, e ivi riferimenti.
[4] Il riferimento alla restituzione delle prestazioni di assistenza come prestazioni di cura (intesa come caring, non come healing) risponde, tra le altre, anche all’esigenza di superare talune precomprensioni – ancora diffuse nella comunità degli interpreti, sebbene di rado esplicitate – secondo cui (i) le prestazioni di facere indebitamente eseguite non sarebbero suscettibili di restituzione (così A. Gianola, Atto gratuito, atto liberale. Ai limiti della donazione, Giuffrè, 2002, 77; per una confutazione, D. Maffeis, Contratti illeciti o immorali e restituzioni, Giuffrè, 1999), e che (ii) comunque, le prestazioni di cura (intese nel senso anzidetto) non sarebbero “prestazioni” economicamente valutabili, rilevanti per il diritto (contra E. Morotti, Il “guardador de hecho” o “caregiver” in Italia, cit., 1950: «L’attività del caregiver è, senza dubbio, una prestazione suscettibile di valutazione economica, come dimostra il fatto che può essere anche oggetto di un rapporto di lavoro a carattere professionale»; in prospettiva filosofica, E. Feder Kittay, Love’s Labor. Essays on Women, Equality and Dependency, Routledge, 2020, 2nd ed.), laddove una netta distinzione tra prestazioni volte alla produzione e allo scambio di beni e servizi, da una parte, e le prestazioni di cura, dall’altra parte – ancora viva nella cultura occidentale, nonostante l’imponente opera di decostruzione da parte del pensiero femminista – non trova riscontro nel diritto positivo vigente (per un’indagine puntuale, M.R. Marella, Lavoro domestico nella famiglia, in Enc. dir. Tematici, IV, Giuffrè, 2022, 657 s.).
Si vedano, in questo senso, le efficaci osservazioni dell’antropologo D. Graeber, Bullshit jobs, Garzanti, 2018, 212, il quale – notando che della maggior parte del lavoro «in fondo, non si può dire che “crei” alcunché, ma ha che fare perlopiù con manutenzione e riorganizzazione di cose», come nel caso di una tazza da caffè, che “produciamo” una volta, ma laviamo migliaia di volte – ricostruisce le origini teologiche dell’idea occidentale di lavoro “produttivo”, notando che «il modo in cui viene fatta sparire la maggior parte del lavoro degli esseri umani, che non può in alcun modo definirsi “produzione”, è effettuato in grossa misura passando per la divisione di genere». Secondo l’A., già il racconto biblico della Genesi presenta il lavoro “produttivo” maschile come l’equivalente del parto, l’atto umano quanto più simile alla creazione ex nihilo: «i termini “produzione” e “riproduzione” si basano sulla stessa metafora di fondo: in un caso, gli oggetti sembrano saltare fuori, completamente formati, dalle fabbriche; nell’altro, i neonati sembrano saltare fuori, completamente formati, dai corpi materni. È evidente che in nessuno dei due casi ciò è propriamente vero, ma in moltissimi sistemi sociali patriarcali agli uomini piace pensare di fare dal punto di vista sociale, o culturale, ciò che secondo loro le donne fanno naturalmente. La produzione è quindi una variante della fantasia maschile di partorire e, allo stesso tempo, di agire come il Dio Creatore maschile, che in modo simile ha creato l’intero universo con la mera potenza della mente e delle parole; così gli uomini si considerano creatori del mondo tramite le loro menti e la loro forza, e vedono in ciò l’essenza del “lavoro”, mentre lasciano alle donne la maggior parte dell’effettiva fatica di mettere in ordine e conservare le cose per rendere in tal modo possibile questa illusione» (corsivo agg.).
Non pare potersi prescindere – neanche nell’ambito di un’indagine di diritto positivo – da queste acquisizioni del pensiero contemporaneo sulle idee di cura (caring) e di lavoro (qui inteso come “esecuzione di prestazioni suscettibili di valutazione economica” rilevanti per il diritto, che richiede una giusta causa degli arricchimenti-impoverimenti conseguenti alla loro esecuzione).
[5] Sull’esigenza di un riconoscimento degli anziane come categoria non solo ai fini di intervento pubblico con finalità protettive-assistenzialistiche (e paternalistiche), ma anche, in prospettiva individuale e privatistica, valorizzando l’autonomia, S. Orrù, La cura e l’assistenza all’anziano non autosufficiente da parte del caregiver familiare fra diritti fondamentali ed effettività di tutela, in P. Corrias, E. Piras (a cura di), I soggetti vulnerabili nell’economia, nel diritto e nelle istituzioni, ESI, 2022, 73 s.
[6] Sulla distinzione tra dipendenza primaria e secondaria, M.A. Fineman, The Authonomy Myth. A Theory of Dependency, New Publisher, 2004. L’A. ha poi orientato la riflessione dalla condizione oggettiva di dipendenza alla qualifica soggettiva di vulnerabilità della persona (c.d. vulnerability turn): Ead., The vulnerable subject: anchoring equality in the human condition, in Yale J. of Law and Feminism, 2008, 20 s.; Ead., The vulnerable subject and the responsabile State, in Emory L. J., 2010, 60, 151 s.; Ead., ‘Elderly’ as vulnerable: rethinking the nature of individual and societal responsibility, in Elder Law J., 2012, 20, 71 s. Nell’ampia letteratura giusfilosofica italiana si v., per tutti, M.G. Bernardini, Il soggetto vulnerabile: Status e prospettive di una categoria (giuridicamente) controversa, in Riv. fil. dir., 2017, 367 s.; O. Giolo-B. Pastore (a cura), Vulnerabilità. Analisi multidisciplinare di un concetto, Carocci, 2018; B. Pastore, Semantica della vulnerabilità, soggetto, cultura giuridica, Giappichelli, 2021.
[7] E. Morotti, La guardia, cit., 1955 parla della «necessità di dare riconoscimento giuridico ad una figura che rappresenta un ruolo essenziale per milioni di famiglie, ma che, per la legge, risulta ancora invisibile sotto molti aspetti [...] la strada da percorrere è trovare un inquadramento giuridico che valorizzi il suo ruolo come misura di protezione informale della persona non più autosufficiente, in modo da tutelare adeguatamente sia il caregiver sia l’assistito».
[8] C. Irti, La rilevanza giuridica della persona anziana, in Scritti in onore di P. Zatti, Jovene, 2023, I, 1225, rileva che, a fronte dell’insufficienza del welfare pubblico, il soddisfacimento dei bisogni della persona anziana risulta demandato perlopiù a quanti vi sono legati da rapporti parentali (a volte amicali), ai quali viene di fatto richiesto «un impegno costante, progressivo, in molti casi totalizzante; un impegno che tende a creare in capo a chi si assume tale responsabilità ulteriori forme di vulnerabilità».
[9] Contra Trib. Monza, 25 gennaio 2001, in Nuova giur. civ. comm., 2002, II, 46, con nota di L. Morlotti, in motivaz.: «l’assistenza della figlia al genitore, quand’anche comporti rinunzie al tempo libero, deve ritenersi fornita in un ambito che sfugge del tutto all’area dei rap porti giuridico patrimoniali, potendosi al più atteggiarsi come esecuzione di doveri morali che, se spontaneamente assolti, danno luogo all’adempimento di un’obbligazione naturale inidonea a fondare in chi li presta una ragione di credito commisurata al valore economico dei servizi resi». In senso critico, C. Irti, La rilevanza, cit., 1226: «L’attività prestata da costoro è generalmente ricondotta nell’alveo delle obbligazioni che discendono da doveri morali e sociali, ma non è “a costo zero”», mentre l’assenza di riconoscimento giuridico «lascia questi soggetti privi di diritti e di tutele all’interno del contesto familiare in cui sono chiamati a volgere gratuitamente un lavoro che, sebbene non produca reddito, determina un significativo risparmio per le famiglie così come per la collettività».
[10] Così P. Sirena, La gestione di affari altrui. Ingerenze altruistiche, ingerenze egoistiche e restituzione del profitto, Giappichelli, 1999, 323 s.; Id., L’adempimento, cit., 51 s.; in giur., per tutti, Cass. civ., Sez. un., 29 aprile 2009, n. 9946, in Obb. contr., 2010, 4, 256 s., con nota di L. Follieri, L’adempimento del terzo al vaglio delle sezioni unite, § 6.3, a proposito dell’adempimento del terzo, al quale non è data la surrogazione legale nei diritti del creditore nei confronti del debitore prevista dall’art. 2036 co. 3 c.c.: «il solvens – stante l’ingiustificato vantaggio economico ricevuto dal debitore – può agire, nel concorso delle condizioni di legge, per l’ottenimento dell’indennizzo da arricchimento senza causa» (conf. da ultimo Cass. civ., 21 agosto 2023, n. 2487). Ampiamente, M. Lamicela, Note sulla disciplina dell’adempimento del terzo, in Riv. crit. dir. priv., 2010, 3, 395 s.
[11] Cfr. P. Sirena, L’adempimento, cit., 66.
[12] P. D’Amico, Il soccorso privato, ESI, 1981, passim.
[13] Cass. civ., 20 dicembre 2011, n. 27653: «Il coniuge che abbia integralmente adempiuto l’obbligo di mantenimento dei figli, pure per la quota facente carico all’altro coniuge, è legittimato ad agire iure proprio nei confronti di quest’ultimo per il rimborso di detta quota, anche per il periodo anteriore alla domanda, atteso che l’obbligo di mantenimento dei figli sorge per effetto della filiazione e che nell’indicato comportamento del genitore adempiente è ravvisabile un caso di gestione di affari, produttiva a carico dell’altro genitore degli effetti di cui all’art. 2031 c.c.» (conf. Cass. civ., 20 dicembre 2011, n. 27653; Cass. civ., 4 settembre 1999, n. 9386; Cass. civ., 5 dicembre 1996, n. 10849, Cass. civ., 1° giugno 1982, n. 3344).
[14] È il caso di chi assista una persona incapace di provvedervi, erroneamente ritenendosene obbligato, cioè credendo di adempiere un’obbligazione ex lege¸ quindi di gerire un affare proprio: in questo caso difetta l’animus aliena negotia gerendi, richiesto dall’art. 2028 c.c., sicché il “gestore” avrà una pretesa restitutoria fondata non sull’art. 2031 c.c., bensì, in via residuale, sull’art. 2041 c.c.
[15] La categoria del fatto concludente è l’esito ultimo di una lunga tradizione di studi sulla rilevanza negoziale ai comportamenti umani consapevoli e volontari diversi dalla “dichiarazione”, per cui si è elaborata dapprima la categoria della “volontà presunta”, poi quelle dei “negozi di attuazione” e dei “rapporti di fatto”, e infine quella del contegno concludente. Si v. G. Giampiccolo, Note sul comportamento concludente, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, 778 s.; V. Scalisi, La revoca non formale del testamento e la teoria del comportamento concludente, Giuffrè, 1974; S. Patti, Profili della tolleranza nel diritto privato, Jovene, 1978, 77 s.; N. Irti, Concetto giuridico di «comportamento» e invalidità dell’atto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 1053 s.; R. Sacco, P. Cisiano, La parte generale del diritto civile. Il fatto, l’atto, il negozio, nel Tratt. dir. civ. dir. da R. Sacco, Utet, 2005; N. Muccioli, Studio sul contegno concludente, Giappichelli, 2012.
[16] P. Trimarchi, L’arricchimento ingiustificato, Giuffrè, 1962, 11, seguito da P. Gallo, Arricchimento ingiustificato e quasi contratti (i rimedi restitutori), nel Tratt. dir. civ. dir. da R. Sacco, Utet, 1996, 83. Negano l’esistenza di un principio generale che limita la tutela restitutoria in caso di arricchimenti “imposti” U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, Giuffrè, 448 s.; F. Astone, L’arricchimento senza causa, Giuffrè, 1999, 184 s.; C.M. Bianca, Diritto civile 5. La responsabilità, Giuffrè, 2a ed., 2019, 788-789, testo e nota 19, e infra, § 10.
[17] Nell’ordinamento tedesco si ammette la condictio indebiti, qualora risulti invalida la donazione (manuale) che giustifica la datio donandi di causa, ritenendosi la nascita e l’estinzione dell’obbligazione derivanti dalla stessa datio (H.J. Wieling, T. Finkenauer, Bereicherungrecht, Springer, 2020, 5a ed., 18).
[18] A. Torrente, La donazione, nel Tratt. dir. civ. comm. Cicu-Messineo, Giuffrè, 1960, 2a ed., 3 s., 239 s.; C. Giannattasio, Delle successioni, nel Comm. cod. civ., Utet, 1962, 201; G. Sbisà, La promessa al pubblico, Giuffrè, 1974, 53 s.; F. Galgano, Diritto civile e commerciale, IV, Cedam, 1990, 221; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, Giuffrè, 1990, 768; U. Carnevali, Le donazioni, nel Tratt. dir. priv., dir. da P. Rescigno, II, Utet, 2000, 2a ed., 503.
[19] B. Biondi, La donazione, nel Tratt. dir. civ. dir. da F. Vassalli, Utet, 1961, 390; A. Cataudella, La donazione mista, Giuffrè, 1970, 166 s.; A. Cecchini, L’interesse a donare, in Riv. dir. civ., 1976, I, 268 s.; Id., Rapporti non vincolanti e regola di correttezza, Cedam, 1977, 212 s.; C. Manzini, Il contratto gratuito atipico, in Contr. impr., 1986, 930 s.; F. Angeloni, Liberalità e solidarietà. Contributo allo studio del volontariato, Cedam, 1994, 196 s.; R. Lenzi, La donazione obbligatoria, in P. Rescigno (a cura di), Successioni e donazioni, Cedam, 1994, II, 932; F.M. D’Ettore, Intento di liberalità e attribuzione patrimoniale. Profili di rilevanza donativa delle obbligazioni di fare gratuite, Padova, 1996, 10 s.; G. Bonilini, La donazione costitutiva di obbligazione, in Id., La donazione, UTET, 2001, 662 s.; A. Gianola, Atto gratuito, cit., 47 s.; L. Pellegrini, La donazione costitutiva di obbligazione, Giuffrè, 2004, 53 s.; E.M. D’Auria, Le donazioni indirette, 2014, Aracne, 27 s.
Sulla compatibilità tra donazione di prestazioni di facere e donazione di prestazioni periodiche, L. Pellegrini, La donazione, cit., 74 s.: «è relativamente frequente il caso in cui un soggetto si obbliga a prestare periodicamente in favore di una persona non già una somma di danaro ma determinati servizi (assistenza domestica, materiale e morale, cure mediche o altro). Se tale obbligo viene assunto a fronte di una controprestazione [...] la giurisprudenza più recente è constante nel ravvisare l’esistenza di un contratto atipico, denominato “vitalizio improprio” o “contratto di assistenza vitalizia” [...]. Qualora invece tale obbligo venga assunto per spirito di liberalità, non si vendono ragioni per cui debba negarsi di essere in presenza di una tipica donazione obbligatoria».
[20] Così, testualmente, L. Pellegrini, La donazione, cit., 139, il quale precisa anche che, in caso di dubbio circa il reale contenuto della promessa, se i normali criteri ermeneutici dettati degli artt. 1362 c.c. non sono sufficienti a chiarirne il significato, il contratto di donazione andrà interpretato nel modo da rendere meno gravosa la posizione del promittente liberale (art. 1371 c.c.).
[21] L. Pellegrini, La donazione, cit., 140, il quale aderisce all’opinione – minoritaria – secondo cui la restituzione della prestazione di facere indebitamente eseguita è disciplinata dagli artt. 2033 s. c.c., e non dall’art. 2041. Sul punto, v. infra, note 22-24.
[22] L. Pellegrini, ibidem, afferma la necessità dell’accettazione della prestazione, ai fini della sua restituzione, escludendo l’applicabilità dell’art. 1333 c.c. anche laddove la donazione sia di modico valore. Diversamente, nella common law si riconosce l’azione restitutoria al solvens non solo in caso di accettazione della prestazione, ma anche nei casi di richiesta, di appropriazione, di tolleranza dell’esecuzione della stessa, e – in particolare – qualora si verifichi un incontrovertible benefit dell’accipiens. Così, da ultimo, K. Barker, R. Grantham, Unjust Enrichment, LexisNexis, 2018, 2nd ed., 92-95: «[The] instances in which the case for protecting the defendant’s freedom of choice breaks down […] may loosely be regarded as yielding five general ‘tests’ of benefit: ‘request’; ‘taking’; ‘active encouragement’; ‘free acceptance’; and ‘incontrovertible’ benefit», con la conseguenza che «a defendant will be taken to have benefitted where his or her enrichment is ‘incontrovertible’ … one that no reasonable person in the position of the defendant would deny. Cases of incontrovertible benefit can be divided into a number of sub-categories: (i) money; (ii) non-money benefits which a defendant has ‘realized’in money; (iii) non-money benefits which were legally and/or factually necessary from the defendant’s point of view».
[23] L. Pellegrini, La donazione, cit., 140, il quale ritiene che una prestazione di facere «eseguit[a] direttamente e spontaneamente, senza preventivo impegno in tal senso, [...] e cioè “servizi non richiesti”, si esula completamente dal campo della donazione e ci si trova invece di fronte, sussistendone i presupposti, alla gestione d’affari altrui, applicabile per opinione pressoché unanime anche nei casi in cui la gestione consista nell’esecuzione di un atto materiale».
[24] Si nega l’applicabilità degli artt. 2033 s. c.c. alle prestazioni indebite di facere, e si ritiene la restituzione di queste ultime disciplinata dall’art. 2041 c.c.: così; D. Maffeis, Contratti, cit., 27 s.; V. Roppo, Il contratto, Giuffrè, 2001, 949; A. Albanese, Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa, Cedam, 2005, 465; G.M. Benedetti, Chi esegue male si tiene il compenso?, in Danno resp. , 2005, 5, 517 s.; sostanzialmente D. Carusi, Le obbligazioni, cit., 83 s., p. 228; M. Dellacasa, Gli effetti della risoluzione, in V. Roppo (ed.), Trattato del contratto. Rimedi, Giuffrè, 2006, V, 2, 391-392; R. Sacco, in Id., G. De Nova, Il contratto, UTET, 2018, 4a ed., 1643; G. Di Lorenzo, La restituzione impossibile, Giuffrè, 2020, 144.
[25] Ritengono applicabili gli artt. 2033 s. alle prestazioni di facere indebite, U. Breccia, La ripetizione, cit., 438 s.; Id., La ripetizione dell’indebito, nel Tratt. dir. priv., dir. da P. Rescigno, I, 9, Utet, 1984, 772; E. Moscati, Del pagamento dell’indebito, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, Zanichelli, 1981, 166 s.; F. Galgano, Diritto, cit., 1999, p. 361; L. Pellegrini, La donazione, cit., 129; E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, Giuffrè, 2010, p. 219 s.; L. Guerrini, Le restituzioni contrattuali, Giappichelli, 2012, 42.
[26] Cass. civ., 12 giugno 2018, n. 15334; Cass. civ., 21 marzo 2014, n. 6747; Cass. civ., 15 aprile 2010, n. 9052; Cass. civ., 8 novembre 2005, n. 21647; Cass. civ., 24 novembre 1981, n. 6245. Contra Cass. civ., 23 maggio 1987, n. 634; Cass. civ., 2 aprile 1982, n. 2029; Cass. civ., 24 novembre 1981, n. 6245; Cass. civ., 10 aprile 1964, n. 835; Cass. civ., 2 maggio 1952, n. 2491.
[27] Sul punto, si v. P. Gallo, Arricchimento, cit., 20-21, secondo cui i concetti di “arricchimento” e di “restituzione” sono complementari, come le due facce della stessa medaglia: «il concetto di arricchimento si riferisce alla sfera di chi risulta avvantaggiato, il concetto di restituzione si riferisce logicamente alla sfera di chi ha subito la perdita economica che in qualche modo deve essere reintegrata», e «il principio ispiratore dell’intera categoria [delle restituzioni] è proprio costituito dal divieto di arricchirsi senza causa a spese di un altro, a prescindere dal fatto che, in concreto, le varie ramificazioni restitutorie possono comportare un obbligo restitutorio integrale, o viceversa limitato al solo arricchimento effettivamente conseguito, nei limiti del minor valore tra lucro conseguito e perdita subita, o ancora in misura pari al maggior valore tra lucro conseguito e perdita subita». Ampiamente anche D. Carusi, Le obbligazioni nascenti dalla legge, in Tratt. dir. civ. C.N.N. dir. da P. Perlingieri, ESI, 2004, 77 s.
[28] L’opinione è pacifica in dottrina: U. Mori-Checcucci, L’arricchimento senza causa, Editore Carlo Cya, 1943, 106; P. D’Onofrio, in L. Aru, E. Moscati, P. D’Onofrio, Artt. 2028-2042, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, Zanichelli, 1981, 586-587; F. Astone, L’arricchimento, cit., 47; P. Gallo, Arricchimento, cit., 30; C.M. Bianca, Diritto civile 5. La responsabilità, cit., 813; Cass. civ., 1 febbraio 1974, n. 281, in Foro it., 1974, I, 2733. Contra l’opinione isolata di A. Trabucchi, s.v. Arricchimento senza causa, in Enc. dir., I, Giuffrè, 1958, 71.
[29] Cass. civ., 21 giugno 2018, n. 16305: «L’azione generale di arricchimento, di cui all’art. 2041 c.c., presuppone che l’arricchimento di un soggetto e la diminuzione patrimoniale a carico di altro soggetto siano provocati da un unico fatto costitutivo e siano entrambi mancanti di causa giustificatrice, potendo il medesimo arricchimento consistere anche in un risparmio di spesa, purché si tratti sempre di risparmio ingiustificato, nel senso che la spesa risparmiata dall’arricchito debba essere da altri sostenuta senza ragione giuridica» (conf. Cass. civ., 21 aprile 2011, n. 9141; Cass. civ., 4 settembre 2013, n. 20226; da ultimo, Cass. civ., 3 agosto 2023, n. 23678).
[30] La questione, da sempre dibattuta, è al centro del recente arresto di Cass. civ., Sez. un., 8 novembre 2022, n. 3291, in Giur. it., 2023, 4, 781 s., con nota di P. Gallo, Gli assegni di mantenimento tra ripetibilità e irripetibilità (su cui v. infra, § 3 della parte seconda del presente studio).
[31] La dottrina tedesca ha superato la tesi che identifica l’arricchimento con il risparmio di spese, preferendovi il valore oggettivo della prestazione di fare eseguita dall’impoverito a vantaggio dall’arricchito (H.J. Wieling, T. Finkenhauer, Bereicherungsrecht, cit., 11-12).
[32] P. Sirena, L’adempimento, cit., 51 s. Cfr. amplius infra, § 15.
[33] In dottrina, la tesi secondo cui l’impoverimento può derivare dall’esecuzione di prestazioni di facere è sostenuta, con argomentazioni convincenti, tra gli altri, da F.M. D’Ettore, Intento di liberalità e attribuzione patrimoniale. Profili di rilevanza donativa delle obbligazioni di fare gratuite, Cedam, 1996, 4 s.; L. Pellegrini, La donazione, cit., 61 s. Si potrebbe obiettare che questa dottrina si è occupata dell’impoverimento come requisito della liberalità, e non come requisito dell’azione di arricchimento; ma si può replicare che la distinzione tra le diverse nozioni di arricchimento (e correlativo impoverimento), rilevanti rispettivamente ai sensi degli artt. 769 e 2041 c.c., è stata elaborata con riferimento alle norme c.d. materiali sulle liberalità, non quelle sull’arricchimento ingiustificato: così A. Checchini, L’interesse a donare, in Riv. dir. civ., 1976, I, 254 s., 312-313, muovendo dalla considerazioni che l’effetto patrimoniale in questione sarebbe costituito dall’arricchimento, ritiene di non poter accogliere un concetto di arricchimento altrettanto esteso quanto quello contenuto nell’art. 2041 c.c.: «Data la natura dei rimedi previsti dall’art. 809 sembra, infatti che possano farsi rientrare nella categoria delle donazioni indirette o delle “liberalità atipiche” soltanto quegli atti che – comportando una modifica della sfera giuridica di un soggetto – sono suscettibili di revoca, riduzione o collazione o collazione, cioè consentono l’applicabilità dell’intera “normativa materiale” che caratterizza la categoria. Resterebbero esclusi, in tal modo, quei comportamenti che, pur potendo, in astratto, arrecare un vantaggio economico ad altri (corrispondente a un sacrificio economico dell’impoverito) non incidono sulla sfera giuridica del disponente privando il suo patrimonio di un diritto di natura economica o facendo sorgere una obbligazione (che rappresenta pur sempre una “entità giuridica negativa” di carattere patrimoniale)».
[34] Cass. civ., Sez. Un., 11 settembre 2008, n. 23385, in Corr. giur., 2009, 1, 59 s., con nota di A. Di Majo, Danno e mancato profitto nell’arricchimento senza causa, ha accolto «l’interpretazione dell’art. 2041 cod. civ. che esclude dal calcolo dell’indennità richiesta per la “diminuzione patrimoniale” subita dall’esecutore di una prestazione in virtù di un contratto invalido, quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace».
[35] Da ultimo, Cass. civ., 28 aprile 2023, n. 11234: «In tema di arricchimento senza causa, la diminuzione patrimoniale subita dall’autore di una prestazione d’opera in favore della P.A., in assenza di un contratto valido ed efficace, da compensare ai sensi dell’art. 2041 c.c., non può essere fatta coincidere con la misura del compenso calcolato mediante il parametro della tariffa professionale e nel rispetto dei fattori di importanza dell’opera e del decoro della professione ex art. 2233 c.c. ma, oltre ai costi ed esborsi sopportati, deve comunque ricomprendere quanto necessario a ristorare il sacrificio di tempo, nonché di energie mentali e fisiche del professionista, del cui valore si deve tener conto in termini economici, al netto della percentuale di guadagno» (corsivo agg.) (conf. Cass. civ., 29 maggio 2019, n. 14670, cit.).
[36] Da ultimo, Cass. civ., 21 gennaio 2023, n. 2823: «L’indennizzo di cui all’art. 2041 c.c. ben può formare oggetto di una valutazione di carattere equitativo ai sensi dell’art. 1226 c.c., anche “officiosa”, senza necessità che sia la parte interessata a dover fornire prova della impossibilità di determinare l’indennizzo nel suo esatto ammontare» (conf. Cass. civ., 29 maggio 2019, n. 14670; Cass. civ., 13 aprile 2015, n. 7415).
[37] Sono significative, in questo senso, le resistenze sorte nel dibattito politico, sull’introduzione del salario minimo (a 9 euro/ora), in relazione al lavoro domestico professionale, lamentando l’aggravio di costi sulle famiglie che ne sarebbe derivato (https://www.osservatoriolavorodomestico.it/salario-minimo-nel-lavoro-domestico).
[38] La l. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1 co. 254-255, ha istituito il Fondo per il sostegno del ruolo di cura e di assistenza del caregiver familiare, «destinato alla copertura finanziaria di interventi legislativi finalizzati al riconoscimento del valore sociale ed economico dell’attività di cura non professionale del caregiver familiare».
[39] In particolare, deve ritenersi che una donazione rimuneratoria fatta dalla persona assistita e al suo caregiver sia idonea a escludere, del tutto o in parte, l’impoverimento di quest’ultimo, ma non anche la ingiustificatezza dell’arricchimento (il quale, beninteso, non sia sorretto da altra causa di giustificazione). Infatti, non potrebbe ammettersi che l’arricchito si “liberi” della sua obbligazione restitutoria ex art. 2041 c.c. attraverso l’espediente di “remunerare” l’impoverito con una donazione, che in ipotesi renda l’arricchimento ex post giustificato: ad es., non sarebbe liberato chi si sia arricchito a danno altrui per il valore di 100, quindi doni 20 all’impoverito, anche se pare possibile ammettere che – per effetto della donazione remuneratoria di 20 – la “diminuzione patrimoniale” dell’impoverito si riduca da 100 a 80.
[40] Si rinvia a A. Albanese, Ingiustizia, cit., 327-328, il quale rifiuta nettamente il riferimento alla causalità giuridica della responsabilità civile, ragione per cui ritiene preferibile parlare di correlazione anziché di nesso di causalità.
[41] Il requisito, enunciato per la prima volta da Cass. civ., Sez. un., 2 febbraio 1963, n. 183, è ora pacificamente accolto. È fondamentale l’arresto di Cass. civ., Sez. un., 8 ottobre 2008, n. 24772, in Nuova giur. civ. comm., 2009, 4, 368, con nota di C. Abatangelo, Il c.d. arricchimento indiretto e la concessione del rimedio di cui all’art. 2041 cod. civ.; in Obb. contr., 2009, 6, 513, con nota di P. Longo, Affidamento del terzo nel mandato senza rappresentanza e unicità del fatto costitutivo quale presupposto dell’azione di arricchimento; in Resp. civ., 2010, 1, 32 s., con nota di A. Mastromatteo, Arricchimenti indiretti e sussidiarietà dell’actio de in rem verso: «L’azione di ingiustificato arricchimento di cui all’art. 2041 cod. civ. può essere proposta solo quando ricorrano due presupposti: (a) la mancanza di qualsiasi altro rimedio giudiziale in favore dell’impoverito; (b) la unicità del fatto causativo dell’impoverimento sussistente quando la prestazione resa dall’impoverito sia andata a vantaggio dell’arricchito, con conseguente esclusione dei casi di cosiddetto arricchimento indiretto, nei quali l’arricchimento è realizzato da persona diversa rispetto a quella cui era destinata la prestazione dell’impoverito. Tuttavia, avendo l’azione di ingiustificato arricchimento uno scopo di equità, il suo esercizio deve ammettersi anche nel caso di arricchimento indiretto nei soli casi in cui lo stesso sia stato realizzato dalla p. a., in conseguenza della prestazione resa dall’impoverito ad un ente pubblico, ovvero sia stato conseguito dal terzo a titolo gratuito» (cors. agg.).
[42] Un esempio celebre è quello dell’arrêt Boudier, deciso dalla Cour de cassation nel 1891, che per la prima volta accordò l’azione di enrichissement injustifié, ad un fornitore del concime – non pagato dall’acquirente, affittuario del fondo – nei confronti del proprietario del fondo, rientratone in possesso, condannato a restituire il valore dell’arricchimento, corrispondente all’aumento di valore del fondo (concimato con il materiale fornito dall’impoverito, il quale non ne poteva ottenere la restituzione in natura).
[43] Da ultimo, Cass. civ., 22 ottobre 2021, n. 29672: «In ipotesi di arricchimento cd. “indiretto”, l’azione ex art. 2041 c.c. è esperibile soltanto contro il terzo che abbia conseguito l’indebita locupletazione nei confronti dell’istante in forza di rapporto gratuito (ovvero di fatto) con il soggetto obbligato verso il depauperato, resosi insolvente nei riguardi di quest’ultimo» (conf. Cass. civ., 26 gennaio 2011, n. 1832; Cass. civ., 22 maggio 2015, n. 10663; Cass. civ. 23 novembre 2017, n. 27891).
[44] Per un’accurata ricostruzione dal punto di vista storico e comparatistico, A. Albanese, Ingiustizia, cit., 23 s. Si segnala l’opinione di C.M. Bianca, Diritto civile 5, cit., 796: «l’arricchimento è senza causa rispetto all’impoverito quanto è privo di una causa in senso proprio, cioè quando è diretto a realizzare un interesse non meritevole di tutela giuridica».
[45] Relazione al Re del Ministro Guardasigilli, n. 792: «Non è stato e non poteva essere chiarito legislativamente, con una formula generale, il concetto di arricchimento ingiustificato; ma la pratica e la dottrina potrà soccorrervi, ricercando se il singolo trasferimento di valori trovi a fronte la prestazione di un corrispettivo, abbia causa nella liberalità, o sia legittimato da una precisa disposizione della legge. Sarà ingiusto il trasferimento, se l’indagine suddetta risulterà negativa» (corsivo agg.).
[46] Cass. civ., 3 gennaio 2008, n. 2312: «L’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicche non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale» (conf. Cass. civ., 15 maggio 2008, n. 11330; Cass. civ., 15 maggio 2009, n. 11330; Cass. civ., 22 settembre 2015, n. 18632; Cass. civ., 7 giugno 2018, n. 14732; App. Firenze, 30 maggio 2023, n. 1157, in Onelegale).
[47] Un esempio potrebbe essere l’accordo in base al quale il caregiver presta assistenza ad una persona anziana, percependone la pensione (oltre all’indennità accompagnatoria, alla quale eventualmente ha diritto jure proprio). Un simile accordo – che dà luogo ad un valido contratto atipico di assistenza – costituisce giusta causa dell’arricchimento della persona assistita, con la conseguenza che il caregiver non potrà agire ex art. 2041 c.c. per ottenere la differenza tra il (preteso) valore della prestazione eseguita e la somma ricevuta, salva l’applicazione dell’istituto della rescissione, sussistendone i presupposti. Se le parti non hanno concluso questo o un altro contratto per disciplinare il loro rapporto (ad es., il contratto c.d. di vitalizio assistenziale, donazione modale,), l’arricchimento conseguente alla prestazione eseguita potrebbe risultare senza giusta causa, salvo che trovi giustificazione nella liberalità ovvero in una precisa disposizione di legge.
[48] Istituito dalla l. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1 co. 254-255, v. supra, nota 37.
[49] V. supra, § 3, spec. nota 38.
[50] Non rileva, ai fini della ricostruzione della disciplina delle restituzioni delle prestazioni di assistenza effettuate dal caregiver, l’istituto della responsabilità da c.d. contatto sociale qualificato, il quale si atteggia quale fonte di un’obbligazione c.d. senza prestazione, la cui violazione espone a responsabilità ex art. 1218 c.c. (C. Castronovo, Responsabilità civile, Giuffrè, 2018, 521 s.). La circostanza che la prestazione non formi oggetto dell’obbligazione comporta l’irrilevanza di tale ricostruzione rispetto alla disciplina delle restituzioni, posto che le prestazioni eventualmente eseguite da chi si trovi, in ipotesi, in una situazione di contatto sociale qualificato comunque non possono considerarsi dovute – si tratta infatti di “obbligazioni senza prestazione” – sicché non può escludersene il carattere indebito e conseguentemente la restituzione. Si tratta di un istituto che rileva nell’ambito della responsabilità, non in quello delle restituzioni.
[51] Cfr. giur. cit. supra, nota 44.
[52] Si. v. l’esempio già riportato (supra, nota 38), relativo ad un arricchimento a danno altrui per il valore di 100, seguito da una donazione (ovvero, mutatis mutandis, da una disposizione testamentaria) in favore dell’impoverito, del valore di 20. In questo caso, non potrebbe ammettersi che l’arricchito estingua, in capo ai suoi eredi, l’obbligazione restitutoria ex art. 2041 c.c., attraverso l’espediente di “remunerare” l’impoverito con una somma qualsiasi, in modo da rendere l’arricchimento ex post giustificato. Per contro, pare possibile ammettere che – in seguito al lascito del valore di 20 – la “diminuzione patrimoniale” dell’impoverito si riduca da 100 a 80.
[53] Oltre all’ipotesi indicata, altre possibili tipologie contrattuali sono quelle, ampiamente diffuse nella prassi, della donazione modale e del vitalizio atipico, per cui si rinvia ad A. Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Jovene, 1983, 21 s.; G. Sanfilippo, Autonomia contrattuale e tutela dell’anziano nei contratti di rendita e di mantenimento, in Rass. dir. civ., 1990, 1, 100 s.; An. Fusaro, Autonomia privata e mantenimento: i contratti di vitalizio atipico, in Fam. dir., 2008, 305 s.; J. Long, La contrattualizzazione dell’assistenza vitalizia agli anziani: dalla rendita vitalizia al contratto di mantenimento, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, 601 s.; Ead., La cura della persona “dipendente” tra etica, legge e contratto, in Dir. fam. pers., 2010, 478 s.; R. Quadri, Rendita vitalizia e tipicità del contratto, ESI, 2012, spec. 99 s.; R. Pasquili, Persone anziane e fragili: verso nuovi modelli di gestione dell’età, in V. Filì (a cura di), Quale sostenibilità per la longevità?, Adapt, 2022, 3 s.; C. Irti, La persona, cit., 41 s.
[54] L. Pellegrini, La donazione, cit., 186 s.
[55] A. Checchini, L’interesse, cit., 279-280, ammettendo il contratto atipico avente ad oggetto prestazioni di fare, rileva che «la legge non ritiene sufficiente il “nudo patto” cioè la mera volontà di obbligarsi come requisito per attribuire rilevanza giuridica contrattuale ad un accordo formulato secondo uno schema atipico. Si richiede, infatti, anche l’esistenza di un conflitto di interessi di natura patrimoniale che l’accordo stesso, considerato in base agli effetti essenzialmente voluti, appare idoneo (necessario e sufficiente) a soddisfare. Tale requisito, che consente di attribuire un riconoscimento giuridico ai contratti onerosi o gratuiti atipici, consente, altresì di distinguerli dal contratto di donazione, caratterizzato dallo spirito di liberalità (interesse di natura non patrimoniale)», mentre «non basta la previsione di un sacrificio economico altrui per escludere lo schema della donazione, ma è necessario che tale prestazione arrechi anche un vantaggio patrimoniale [...] Altrimenti, se la prestazione dell’accipiens, pur di natura patrimoniale, comporta soltanto un vantaggio “morale” per il tradens, non si può escludere lo schema della donazione, non ostante l’esistenza di un sacrificio economico del donatario» (corsivo agg.). F.M. D’Ettore, Intento di liberalità e attribuzione patrimoniale. Profili di rilevanza donativa delle obbligazioni di fare gratuite, cit., 176-177, ammettendo che la donazione obbligatoria possa avere ad oggetto le obbligazioni di fare gratuite, osserva che: «Le varianti gratuite di contratti tipicamente costruiti come onerosi possono trovare una corretta sistemazione nell’ambito delle “donazioni” ogni qualvolta siano qualificate da uno scopo liberale. Viceversa per gli stessi contratti conclusi in vista della realizzazione di un “interesse” non liberale del promittente, si dovrebbe ipotizzare l’ammissibilità di contratti atipici, come libera esplicazione della autonomia privati» L. Pellegrini, La donazione, cit., 196-197, secondo cui, se ogni promessa gratuita di fare rientrasse nello schema di cui all’art. 769 c.c., «si identificherebbe il concetto di liberalità con quello di gratuità; mentre vi sono numerose ipotesi in cui, pur non verificandosi una scambio [sic], non si può configurare neppure una donazione»; cfr. da ultimo A. Orestano, Le promesse unilaterali, nel Tratt. dir. civ. comm. Cicu-Messineo-Mengoni, Giuffrè, 2019, 141 s.
[56] Così testualmente L. Pellegrini, La donazione, cit., 205.
[57] Da ultimo, R. D’Auria, Le donazioni, cit., 27-29.
[58] F.M. D’Ettore, Intento, cit., passim; A. Gianola, Atto gratuito, cit., 47 s.; L. Pellegrini, La donazione, 53 s.; E.M. D’Auria, Le donazioni, cit., 27 s.
[59] L. Pellegrini, La donazione, cit., 201-202 porta gli esempi dell’attore (v. supra, nota 53) e «di un imprenditore edile che si impegna a costruire gratuitamente una casa su suolo altrui e con materiali altrui per pubblicizzare, in una località di grande richiamo turistico, la qualità di una nuova tecnica di costruzione da lui usata o i tempi di realizzazione, estremamente ridotti, sufficienti alla sua impresa per l’ultimazione a regola d’arte dell’opera», paragonandolo a quello «in cui lo stesso imprenditore avesse assunto il medesimo obbligo di costruire, ma – a differenza di prima – in luogo privo di alcun interesse ai fini pubblicitari ed in favore della sorella che è prossima a convolare a nozze». Ancora, non può dirsi liberale (in quanto risponde ad un interesse patrimoniale del disponente) il “regalo” dell’ultimo modello di una borsa, fatto da una griffe ad un’influencer, affinché questa la pubblicizzi sui social; mentre può dirsi liberale lo stesso regalo fatto dal compagno di lei in occasione del suo compleanno (art. 770 co. 2 c.c.).
[60] Dalla qualificazione in termini di donazione discende l’applicabilità della relativa disciplina, tra cui il regime attenuato di responsabilità per inadempimento, solo per dolo o colpa grave (art. 798 c.c.), nonché sanatoria delle donazioni nulle per conferma o esecuzione volontaria, che però spetta solo agli eredi dopo la morte del donante, e non anche a quest’ultimo (art. 799 c.c.).
[61] Con gli ulteriori corollari che l’assistenza prestata andrebbe qualificata come adempimento di una preesistente obbligazione (di fonte contrattuale), il che escluderebbe il carattere indebito della prestazione eseguita, e così la ingiustificatezza del conseguente arricchimento in capo alla persona interessata. Nella prospettiva di un’azione di arricchimento promossa dal caregiver, questa ricostruttiva appare insidiosa, in quanto la conclusione del contratto (e nascita dell’obbligazione) è impedita dal rifiuto dell’oblato (art. 1333 co. 2), il quale rifiuto (in quanto fatto impeditivo: art. 2697 co. 2 c.c.) dovrebbe perciò essere provato dal caregiver che agisce in arricchimento – a fronte di un’ipotetica eccezione dell’arricchito (o dei suoi eredi) fondata sulla conclusione di un contratto gratuito atipico, la cui proposta da parte del caregiver potrebbe forse essere dimostrata per presunzioni – al fine di dimostrare l’assenza di giusta causa, data dall’inesistenza di alcun contratto, mai concluso per rifiuto dell’oblato, il quale, in concreto, ha ricevuto l’assistenza del caregiver.
[62] Esclude la configurabilità di rapporti di lavoro di fatto nella famiglia di fatto, tra persone legate da vincoli di consanguineità e “nelle situazioni intercorrenti tra soggetti legati tra loro da una affettuosa ospitalità”, L. Stanghellini, Contributo allo studio dei rapporti di fatto, Giuffrè, 1997, 231: «Con riferimento alle prestazioni lavorative svolte nell’ambito familiare, quelle dell’amico sono oggetto della stessa presunzione di gratuità di quelle di un convivente more uxorio».
[63] Per un’ampia ed esaustiva ricostruzione storico-dogmatica del concetto, L. Stanghellini, Contributo, cit., 1 s.
[64] P. Morozzo Dalla Rocca, Gratuità, liberalità e solidarietà. Contribuito allo studio della prestazione non onerosa, Giuffrè, 1998, 86 s.; E. Morotti, La guardia de hecho e il “caregiver” in Italia, cit., 1955, esclude potersi ricondurre la figura del caregiver allo schema del contratto, «alla cui logica sembra non appartenere, non solo per la spontaneità e la gratuità che caratterizzano la prestazione, ma soprattutto perché la volontà delle parti, in primis dello stesso caregiver, ha scelto di sottrarsi ad ogni stipulazione in tal senso. Nella realtà dei fatti, bisogna tener conto che è spesso lo stesso caregiver che non vuole essere considerato come un/una badante».
[65] Esclude che il soccorso privato possa qualificarsi in termini di rapporto contrattuale di fatto P. D’Amico, Il soccorso, cit., 128 s., in quanto – pur non essendo richiesta a tal fine la conclusione di un contratto, sia pure con manifestazioni tacite, dato che il lavoratore acquisita i diritti anche con la semplice prestazione di un lavoro attuata con l’assenso del dominus interessato – questa ricostruzione «si dimostra tuttavia poco fondata perché, valida in tutte le ipotesi in cui la prestazione di soccorso costituisce una vera a propria attività lavorativa, non lo è certo più nelle forme episodiche di salvataggio dettate da motivi morali o di solidarietà sociale» (corsivo agg.). Secondo l’A., la prestazione di soccorso, lungi dal realizzare un regolamento di interessi, si sostanzia in un gesto di solidarietà, sicché fa difetto «quella realizzazione, sul piano del rapporto, del risultato proprio del regolamento contrattuale».
[66] Secondo V. Roppo, Il contratto, cit., 16, le parti possono escludere i loro accordi dal campo giuridico-contrattuale o perché le parti si muovono su un terreno extralegale (nel caso dei rapporti di cortesia), oppure perché «considerano che il loro rapporto potrebbe essere un rapporto giuridico, e desiderano precisamente evitare ciò: preferiscono non creare vincoli legali sottoposti alle regole e ai meccanismi del diritto dei contratti, bensì semplici impegni di coscienza e d’onore “fra gentiluomini”», non destinati ad essere portati davanti ai giudici, perché il loro rispetto non è affidato a presidii giuridici, ma a sanzioni sociali, sicché il diritto viene in considerazione dalle parti «come fatto non decisivo per la sistemazione del rapporto, che si pensa di sistemare meglio fuori del diritto». Queste considerazioni sembrano potersi riferire anche al rapporto tra caregiver e persona assistita (cfr. E. Morotti, La guardia, cit., 1955).
[67] Non è questa la sede per esaminare le varie ricostruzioni dello “spirito di liberalità”. Basti elencare, per limitarsi alla dottrina più recente: (i) la tesi maggioritaria, che vede nello spirito di liberalità la causa della donazione, cioè la soddisfazione di un interesse non patrimoniale del disponente oggettivamente emergente dall’atto (elaborata da A. Checchini, L’interesse, cit., 267 s., per differenziare l’atto liberale dall’atto meramente gratuito, il quale, invece, soddisfa un interesse patrimoniale del disponente); (ii) quella che lo identifica con l’intento del donante di arricchire il donatario, a prescindere dalla natura dell’interesse soddisfatto (F.M. D’Ettore, Intento, cit., 39 s.); (iii) quella che lo identifica con il motivo del disponente, che qualifica lo spirito di liberalità tanto nelle donazioni c.d. pure quanto, ancor più evidentemente, in quelle c.d. motivate (A. Palazzo, Atti gratuiti e donazioni, in Tratt. dir. civ. dir. da R. Sacco, Utet, 120 s., 148 s.). La giurisprudenza non ha accolto alcuna di queste ricostruzioni, identificando la spirito di liberalità con la consapevolezza del disponente di attribuire al beneficiario un vantaggio patrimoniale nullo jure cogente (Cass. civ., Sez. Un., 15 marzo 2016, n. 5068, su cui si rinvia, per tutti, alle osservazioni critiche di G. Amadio, Coeredità e atti di disposizione della quota (in margine a Cass., Sez. un., 15 marzo 2016, n. 5068), in Rass. dir. civ., 2017, 3, 783 s.).
[68] A. Torrente, La donazione, cit., 27.
[69] V. Caredda, Le liberalità diverse dalla donazione, Giuffrè, 1996, 205 s.; Ead., Donazioni indirette, in S. Mazzarese, A. Palazzo (a cura di), I contratti gratuiti, in Tratt. contratti dir. da P. Rescigno, E. Gabrielli, Utet, 2006, 175 s.; F. Magliuolo, L’acquisto del donatario tra rischi ed esigenze di tutela, in Riv. not., 2002, 93 s.; G. Amadio, La nozione di liberalità non donativa nel codice civile, in Quad. fondaz. it. not., 2008, 18 s.
[70] M. Paradiso, L’accessione al suolo. Artt. 934-938, in Comm. cod. civ. Schlesinger-Busnelli, Giuffrè, 1994, 44. Sul negozio configurativo, si v. cui G. Palermo, L’autonomia negoziale, Giappichelli, 2015, 3a ed., 34; G. Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, Giuffrè, 1969, 36; A.M. Benedetti, Autonomia privata procedimentale, Giappichelli, 2002, 117 s.; L. Mezzanotte, Il negozio configurativo: dall’intuizione alla categoria (storia di un pensiero), in Studi G. Bendetti, ESI, 2008, 1155 s.),
[71] Ad esempio, potrebbe ravvisarsi una rinunzia nella dichiarazione di un figlio, rivolta ai fratelli, di essere «grato alla mamma per tutto quello che ha fatto per me; pertanto, le presterò assistenza in modo esclusivo per tutta la durata della sua malattia, senza nulla pretendere da lei né da voi». In via generale, tuttavia, pare che una tale rinunzia debba escludersi nei casi in cui il caregiver non abbia mai dichiarato alcunché, e anzi abbia agito ex art. 2041 c.c. nei confronti degli eredi, tanto più se la persona accudita aveva riconosciuto la sua obbligazione restitutoria nei confronti del caregiver. Al riguardo, è vero che la rinunzia all’indennità da parte del caregiver è un atto tendenzialmente unilaterale, e tuttavia non è escluso che essa possa assumere una struttura bilaterale, con la partecipazione all’atto del beneficiario degli effetti della rinuncia, che sarebbe la persona accudita, obbligata (finché vive) all’indennità ai sensi dell’art. 2041 c.c. (il debito cadrà in successione alla sua morte). Dunque, una dichiarazione ricognitiva compiuta dall’obbligato (art. 1988 c.c.) sarà idonea – oltre a produrre gli effetti suoi propri – anche ad escludere che sia intervenuta una rinuncia bilaterale, da parte del caregiver, al suo credito.
[72] A.M. Garofalo, Aleatorietà e causa nella rendita vitalizia e nell’interest rate swap, ESI, 2018, 131-134, e ivi riferimenti alla dottrina tedesca.
[73] Il rilievo è di A.M. Garofalo, Aleatorietà, cit., 133.
[74] V. Caredda, Donazioni, cit., 222.
[75] D. Carusi, Le obbligazioni, cit., 27-28: «Nemmeno il principio causalistico può dirsi inficiato dalle pratiche possibilità di elusione ... la confessione, ad esempio, non è impugnabile per falsità, ma solo per errore di fatto o per violenza; i privati potrebbero, confessando il falso scientemente, nella sostanza disporre della propria sfera giuridica senza giustificazione causale. La confessione resta tuttavia un mezzo di prova: altro è che il legislatore esiga la causa; altro che le parti possano creare false probe dell’esistenza di una causa. ... Un limite del principio causalistico viene da taluni ravvisato a proposito della rinuncia ad un diritto ... la rinunzia al credito resterebbe un patto “anche se nudo”, e cioè non vestito da una causa, sicché il legislatore richiede maggiori requisiti per creare un nuovo rapporto, di quanti ne occorrano per distruggerne uno vecchio».
[76] Resta salva naturalmente la possibilità di sanatoria della nullità, o della rinunzia alla tutela restitutoria conseguente alla nullità: (i) gli eredi del donante dopo la sua morte possono confermare la donazione fatta (art. 799 c.c.); (ii) lo stesso donante di prestazioni di fare può rinunziare al suo diritto all’indennità ex art. 2041, con effetto immediato; (iii) in ogni caso, può lasciar prescrivere tale diritto, nell’ordinario termine decennale.
[77] Può solo accennarsi in questa sede alla vicinanza tra le figure della c.d. donazione d’uso e del negozio di adempimento dell’obbligazione naturale (G. Oppo, Adempimento e liberalità, Giuffrè, 1947), che a sua volta non richiede l’osservanza di forme particolari (salva l’applicabilità dell’art. 1350 c.c.).
[78] Si potrebbe obiettare che il negozio configurativo non froda la legge, perché i suoi effetti sono diversi da quelli del contratto di donazione: quest’ultimo obbliga il donante ad eseguire la prestazione promessa, mentre il negozio configurativo lo lascia libero di eseguirla o no, salvo che – qualora la prestazione sia eseguita – l’attribuzione patrimoniale conseguente risulterà sorretta dalla causa liberale (e l’intera operazione si qualificherà come “liberalità diversa dalla donazione”, anziché “prestazione non dovuta”). Tuttavia, occorre osservare che l’applicabilità o meno della disciplina della donazione – rispetto a quella della liberalità indiretta (che comunque comporta rende applicabili le norme su riduzione, collazione, revocazione) – ha tre ordini di conseguenze: (i) assoggettare al donatario alla responsabilità contrattuale, in caso di ritardo o inadempimento dell’obbligazione assunta (art. 789 c.c.); (ii) assoggettarlo alla garanzia per l’evizione e per i vizi della cosa (artt. 797-798 c.c.); (iii) dare una causa di giustificazione all’attribuzione patrimoniale oggetto della liberalità (risultato che, in ipotesi, l’accordo configurativo della liberalità indiretta non è in grado di conseguire, salvo che sia perfezionato a sua volta in forma pubblica, v. infra, nel testo). Ora, sia la responsabilità per inadempimento sia la garanzia sono previste entro limiti molto circoscritti (dolo, colpa grave, fatto del donante), dal che pare desumersi che la disciplina della donazione (segnatamente: la sua disciplina formale) svolge una funzione primaria di “polizia degli spostamenti patrimoniali” non sorretti da un interesse economico (vuoi perché atti a titolo oneroso, vuoi perché gratuiti non liberali), rispetto alla quale appare secondaria la previsione di una (limitata) responsabilità, in capo al donante, per inattuazione del regolamento contrattuale. L’accordo configurativo in forma diversa dall’atto pubblico non impone alcuna responsabilità per inadempimento, ma tende a vanificare la funzione di controllo sulla circolazione della ricchezza per causa liberale – che richiede la forma pubblica – mentre il diverso grado di vincolatività delle due figure negoziali appare secondario rispetto alla valutazione della “frode alla legge”. In conclusione, può ritenersi che tale accordo sia nullo, per lo meno quando non sia concluso in forma pubblica.
[79] N. Irti, Idola libertatis. Tre saggi sul formalismo giuridico, Giuffrè, 1985, passim.
[80] P. Perlingieri, Forma degli atti e formalismo degli interpreti, ESI, 1987, passim.
[81] V. supra, nota 5 e infra, nel testo.
[82] G. Amadio, Attribuzioni liberali e “riqualificazione della causa”, in Id., Lezioni di diritto civile, Giappichelli, 2017, 2a ed., 178, elenca i seguenti atti: (i) donazione formale (art. 769 c.c.); (ii) donazione rimuneratoria (art. 770, co. 1); (ii) liberalità compiute in conformità agli o usi o in occasione di servizi resi (art. 770 co. 2); (iv) atti diversi dalla donazione, dai quali “risulta” la liberalità (art. 809 c.c.); (v) assegnazioni o spese in favore dei discendenti a causa di matrimonio o avvio alla professione, pagamento di debiti o premi assicurativi (soggette a collazione ex art. 741); (vi) spese, sostenute a favore dei discendenti, per mantenimento, educazione, malattie, abbigliamento e nozze (escluse dalla collazione ex art. 742 co. 1); (vii) spese per istruzione professionale o corredo nuziale, non eccedenti la misura ordinaria (escluse dalla collazione ex art. 742 co. 2).
[83] Sulla naturale liberale delle spese sostenute dagli ascendenti, v. L. Gatt, La liberalità, I, Giappichelli, 2002, 372 nota 129.
[84] Ad esempio, un figlio – celibe e senza prole – pur non essendo obbligato agli alimenti, paga la retta della casa di cura dove è ricoverata la madre anziana. Dopo la morte del figlio, si apre la sua successione in favore della madre, a favore della quale il figlio aveva pagato la retta (spese per malattia). Essendo l’unica legittimaria, la madre ha diritto ad una quota di un terzo del patrimonio del figlio, per successione necessaria (art. 538 c.c.). Nell’ambito dell’azione di riduzione promossa dalla madre, in ipotesi, nei confronti dell’erede testamentario del figlio, ella dovrà imputare alla sua porzione le donazioni ricevute (art. 564 co. 2 c.c.). Si porrà perciò il problema se le spese per malattia sostenute dal figlio a favore della madre si qualifichino come donazione (indiretta) ricevuta da quest’ultima (v. infra nel testo).
[85] Cass. civ., Sez. Un., 29 aprile 2009, n. 9946, cit., a proposito dell’adempimento da parte del terzo, cui non è data la surrogazione legale nei diritti del creditore nei confronti del debitore prevista dall’art. 2036 co. 3 c.c.: «il solvens – stante l’ingiustificato vantaggio economico ricevuto dal debitore – può agire, nel concorso delle condizioni di legge, per l’ottenimento dell’indennizzo da arricchimento senza causa».
[86] Questa ricostruzione, proposta da A. Checchini, L’interesse a donare, in Riv. dir. civ., 1976, 267 s.; Id., Liberalità (atti di), in Enc. giur., XVIII, Treccani, 1990, ad vocem, 1 s. è stata adottata dalla prevalente dottrina. Per riferimenti, v. supra, nota 53.
[87] Afferma la necessità di qualificare l’accordo come gratuito o liberale in base alla sussistenza o meno dell’animus donandi – cioè l’idoneità dell’atto a soddisfare un interesse (non) patrimoniale del disponente – «considerando tuttavia non soltanto l’intento espresso dalle parti nell’accordo, bensì gli interessi obiettivamente valutabili che emergono dall’intera vicenda», A. Checchini, L’interesse, cit., 286-287.
[88] Cfr. la già citata l. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1 co. 254-255, che istituisce il Fondo per il sostegno del ruolo di cura e di assistenza del caregiver familiare, «destinato alla copertura finanziaria di interventi legislativi finalizzati al riconoscimento del valore sociale ed economico dell’attività di cura non professionale del caregiver familiare» (corsivo agg.).
[89] Per tutti, A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, 2019, 24a ed., 967 definisce la professionalità delle attività come «la non occasionalità di esse (...), pur non essendo necessario che l’esercizio dell’attività di produzione o scambio di beni o servizi sia continuativo (...); così come non è necessario che detto esercizio sia esclusivo (...) od anche solo prevalente». Secondo questi criteri, l’attività del caregiver sarebbe senz’altro professionale; salvo che difetta, ai sensi dell’art. 2082, dello scopo di lucro.
[90] Sulla professione infermieristica, si v. il D.Lgs. C.P.S. 13 settembre 1946, n. 233 (recentemente modificato dal D.Lgs. 11 gennaio 2018, n. 3), sull’arte ausiliaria dell’operatore socio-sanitario, si v. l’Acc. Stato-Regioni 22 febbraio 2001, in G.U. 19 aprile 2001, n. 91.
[91] A. Torrente, La donazione, cit., 27, a proposito della semina su terreno altrui: «Escluso, dunque, che sul piano giuridico, causa dell’arricchimento sia il fatto materiale, la causa stessa deve ovviamente ravvisarsi nella rinunzia alla indennità prevista nel secondo comma dell’art. 936 cod. civ. L’acquisto della proprietà della piantagione, ecc. a favore del proprietario del suolo è un fatto giuridico che non si esaurisce in sé stesso: esso genera nel proprietario il diritto alla scelta tra l’eliminazione e la ritenzione. La ritenzione genera, a sua volta, il diritto del piantatore, seminatore, costruttore all’indennità ex art. 936 sec. comma, ed è rispetto a questo diritto che può esplicarsi il potere di disposizione del titolare, mediante il cui esercizio si realizza la attribuzione patrimoniale ... si individua nella rinunzia all’indennità la causa che produce l’arricchimento» (corsivo agg.). Questa ricostruzione può riferirsi mutatis mutandis anche al caregiver: le sue prestazioni di cura sono indebite, quindi producono in capo all’accipiens l’obbligo di restituzione del valore dell’arricchimento ex art. 2041 c.c.; tuttavia, il caregiver rinunzia al diritto all’indennità, e così realizza una liberalità indiretta a favore della persona accudita. In questo senso anche P. D’Amico, Il soccorso, cit., 73.
[92] A proposito delle prestazioni di cura, la presunzione dell’intento liberale di chi assiste persone cui è legato da rapporti familiari o di riconoscenza è stata definita «un’artificiosa finzione, la quale è ormai superata dalla regola secondo cui è irripetibile la prestazione spontaneamente eseguita in adempimento di doveri morali o sociali (art. 2034 c.c.)» (P. Sirena, L’adempimento, cit., 64).
[93] Saluta con favore l’abbandono della presunzione di gratuità delle prestazioni in ambito familiare A. Albanese, Ingiustizia, cit., 258, con riferimento all’introduzione dell’art. 230-bis c.c., sicché «una volta dimostrato che la collaborazione del convivente nell’impresa è idonea ad incrementare il patrimonio dell’altro, i rimedi restitutori saranno i più idonei a colmare il vuoto di tutela che per lungo tempo ha contraddistinto la materia. Basterà, come “ultimo atto”, vedere se ricorrano gli estremi per ravvisare la sussistenza tra i due convivente di una società di fatto; in caso contrario, poiché l’arricchimento non trova giustificazione né nello spirito di liberalità, né in un contratto né in una disposizione di legge, il convivente “debole” potrà avere ristoro con l’azione di arricchimento. La vigenza di un divieto generale di arricchimento ingiustificati impone una rimeditazione della posizione patrimoniale dei convivente, e consente di sanare gli antichi quanto anacronistici pregiudizi verso la famiglia di fatto incarnati dalla alternativa donazione rimuneratoria–obbligazione naturale» (cors. agg.).
[94] G. Ferrando, Contratto di convivenza, contribuzione e mantenimento, in Contr., 2015, 7, 722 s.; P. Morozzo della Rocca, Tracce di rilevanza giuridica delle convivenze solidali nel secolo europeo della vecchiaia, in Nuova giur. civ. comm., 2023, 1, 160 s. Con riferimento alla configurabilità di rapporti contrattuali tra conviventi, va però fatta una distinzione: se è ipotizzabile un contratto di scambio tra ospitalità (del caregiver) e cura (della persona accudita, nella sua casa) – che giustifica l’attribuzione patrimoniale operata dal primo a favore del secondo – non può dirsi altrettanto nel caso in cui il caregiver non riceva dalla persona accudita alcun beneficio economicamente misurabile, tanto più quando è il caregiver a ospitare la persona in casa propria (in tal caso le prestazioni di cura non sono remunerate).
[95] L’inaedificatio fatta dal terzo con materiali propri gli dà diritto a un’indennità, da determinarsi, a scelta del proprietario, nel valore dei materiali e il prezzo della mano d’opera, ovvero l’aumento di valore del fondo recato al fondo (art. 936 co. 2 c.c.). Sul postulato che il proprietario scelga di pagare l’importo minore tra il proprio arricchimento e l’altrui impoverimento, l’indennità si qualifica come un’ipotesi particolare della regola generale in materia di arricchimenti ingiustificati, che obbligano alla restituzione del minor valore tra arricchimento e diminuzione patrimoniale (art. 2041 c.c.). Ora, il terzo che ha costruito sul suolo altrui procura al proprietario del suolo l’acquisto a titolo originario della proprietà dell’edificio; matura il diritto a un’indennità; a tale diritto può rinunciare; se fatta per spirito di liberalità, la rinuncia si qualifica come una liberalità indiretta (diversa dalla donazione). Tuttavia, si esclude l’applicabilità dell’art. 936 c.c. in caso di rapporto tra conviventi more uxorio, ma si accorda all’inaedificator l’azione di arricchimento, qualora abbia eseguito opere eccedenti il bisogno abitativo del nucleo familiare – il cui soddisfacimento è oggetto di un dovere morale e sociale – quindi eccedenti i requisiti di proporzionalità e adeguatezza richiesti ai fini dell’irripetibilità ex art. 2034 c.c.: così Cass. civ., 13 marzo 2003, n. 3713 (cit. in G. Balestra, Le obbligazioni naturali, in Tratt. dir. civ. Cicu-Messineo-Mengoni, Giuffrè, 2004, 89). Il caso riguardava un muratore professionista che nel tempo libero aveva costruito, su un terreno di proprietà della convivente, con materiali propri, una casa destinata ad abitazione della famiglia di fatto, e un altro edificio adiacente, di tre piani. I giudici hanno escluso la proporzionalità tra la prestazione e i doveri morali e sociali scaturenti dalla convivenza, «anzi non poteva neppure parlarsi di adempimento di un dovere morale, dato che prestazione (...) non si era esaurita nel procurare alla famiglia di fatto un’abitazione dignitosa e confortevole, ma aveva avuto come effetto l’arricchimento esclusivo» della convivente divenuta proprietaria, per accessione, non solo della casa, ma anche di un altro fabbricato. Conf. Cass. civ., 3 gennaio 2008, n. 2312; Cass. civ., 15 maggio 2008, n. 11330; Cass. civ., 15 maggio 2009, n. 11330; Cass. civ., 22 settembre 2015, n. 18632; Cass. civ., 7 giugno 2018, n. 14732: «È, pertanto, possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di con vivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza». In materia di prestazioni di fare, Cass. civ., 16 febbraio 2022, n. 5086, cit.: «Gli apporti patrimoniali elargiti da un convivente, strumentali all’edificazione della casa di comune abitazione ma di proprietà esclusiva di uno solo di essi, possono inquadrarsi nello schema dell’obbligazione naturale se hanno come effetto l’arricchimento dell’altro partner e sussiste un rapporto di proporzionalità tra le somme sborsate e i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dai conviventi; diversamente chi ha effettuato tali esborsi ha diritto ad essere indennizzato per le somme ed energie lavorative impiegate volontariamente, per quella determinata finalità, in applicazione e nei limiti del principio dell’arricchimento senza causa» (cors. agg.).
[96] All’estensione delle obbligazioni legali o naturali di prendersi cura di una persona cara bisognosa, sono dedicati i successivi §§ 2-3-4 della parte seconda del presente studio.
[97] P. Trimarchi, L’arricchimento, cit., 50: «L’azione mira dunque non al risarcimento di un danno, bensì (là dove non sia possibile la restituzione in natura) alla realizzazione di un giusto scambio: e in questo senso potrebbe forse trovare una giustificazione la formula, per altro verso erronea e legislativamente abbandonata, del quasi-contratto. Ma l’esperibilità dell’azione è talvolta esclusa ... per tutela l’arricchito contro la “imposizione” di quello scambio. E, in ogni caso, la sua responsabilità non può superare il limite del suo arricchimento» (corsivo agg.). Peraltro, lo stesso A. osserva che, in ipotesi di prestazioni eseguite senza causa, la ripetizione dovrebbe essere sempre ammessa, in quanto – se venisse esclusa – «ciò implicherebbe per il donante la possibilità di sanare i vizi di forma della donazione attraverso l’esecuzione di essa. In altre parole, implicherebbe sempre la validità della donazione manuale, in contrasto con l’art. 783 cod. civ. che la limita invece ai casi in cui la donazione sia di modico valore» (Id., op. cit., 12). Va detto che questo A. scriveva in un’epoca in cui era prevalente l’opinione che escludeva la configurabilità di una donazione costitutiva di obbligazione di fare (v. supra, nota 16). In senso conforme, P. Gallo, Arricchimento, cit. 83; Id., I rimedi restitutori in diritto comparato, nel Tratt. dir. comp. dir. da R. Sacco, Utet, 1997, 139, 145-146. In senso critico, rispetto alla funzione dell’azione restitutoria di “realizzare un giusto scambio”, D. Maffeis, Contratti, cit., 144.
[98] C.M. Bianca, Diritto civile 5, cit., 788-789, testo e nota 19: «si è sostenuto che l’arricchimento consistente nel miglioramento qualitativo del patrimonio richiederebbe l’accettazione dell’arricchito o la buona fede dell’impoverito. Andrebbe infatti tutelato, si dice, il diritto di non subire l’imposizione di arricchimenti da indennizzare. Tale opinione non ha tuttavia riscontro nella norma sull’azione generale di arricchimento e ne limiterebbe arbitrariamente la portata. Il Trimarchi trae argomento dalla norma che nega al conduttore il diritto di rimborso per i miglioramenti non autorizzati (1591 c.c.). Ma questa norma sanziona il particolare divieto del conduttore di modificare la cosa. Una generale tutela contro l’“imposizione” dell’arricchimento non può essere desunta neppure dalle norme sulla facoltà del proprietario di far rimuovere le opere abusive (artt. 936 e 939 c.c.), trattandosi di norme che attengono allo statuto della proprietà e che regolano fattispecie particolari» (corsivo agg.).
[99] Ampiamente, F. Astone, L’arricchimento, cit., 1999, 155, che individua un principio generale di segno opposto: «in presenza di un arricchimento dovuto alla volontaria esecuzione di una prestazione da parte di un soggetto in favore di un altro, lo stesso dovrà ritenersi, in linea di principio, ingiustificato, con conseguente esperibilità dell’azione di arricchimento».
[100] Non è possibile in questa sede dare conto, nemmeno in sintesi, dell’antica disputa sul rilievo della volontà nel negozio giuridico. Basti richiamare, ai fini del presente studio, R. Sacco, Il contratto, cit., 223-224, che esclude l’esistenza di un «principio secondo cui nessuno può essere arricchito né impoverito senza il suo consenso» (cors. agg.).
[101] La giurisprudenza più risalente escludeva l’azione ex art. 2041 c.c. nei casi di arricchimento volutamente procurato dall’impoverito, cioè derivante da una sua prestazione volontaria: così Cass. civ., 5 maggio 1956, n. 1427, in Giust. civ., 1956, I, 1247; Cass. civ., 6 novembre 1961, n. 2570, in Mass. Foro it., c. 679; Cass. civ., 9 agosto 1967, n. 2118, in Rep. Foro it, voce Arricchimento senza causa, c. 146, n. 1. Più di recente, Cass. civ., 21 novembre 1996, n. 10251: «l’arricchimento senza causa non sussiste quando ... sia giustificato dal consenso della parte che assume di essere stata danneggiata, in quanto la prestazione volontaria esclude l’arricchimento, quali che siano per ciascuno degli interessati le conseguenze patrimoniali, vantaggiose o svantaggiose, della libera e concorde determinazione della loro volontà». Sulla scorta di quest’orientamento, P. D’Amico, Il soccorso, cit., 43.
[102] Diversamente A. Cecchetto, Ingerenze nella sfera giuridica altrui: nihil de me sine me?, Università Ca’ Foscari di Venezia (tesi), 2018, 232: «la regola nihil de me sine me può e deve considerarsi a tutti gli effetti un principio generale dell’ordinamento anche ai sensi dell’articolo 12 delle Preleggi».
[103] La tesi risale a P. Trimarchi, L’arricchimento, cit., 12 s., seguito da P. Gallo, I rimedi, cit., 129 s. Per una discussione ampia e ragionata, si v. F. Astone, L’arricchimento, cit., 175 s.
[104] P. Trimarchi, L’arricchimento, cit., 15, ritiene che – nei casi di arricchimento imposto – l’azione di arricchimento sia ammessa «solo ove la prestazione sia stata eseguita in buona fede, ovvero l’arricchito vi abbia consentito o l’abbia positivamente ricevuta, o ne abbia tollerato l’esecuzione diretta nell’ambito del proprio dominio patrimoniale».
[105] Con la precisazione che dovrà considerarsi efficace – in quanto non contrastante con norme imperative, ordine pubblico, buon costume (art. 2031 co. 2 c.c.) – anche il rifiuto di assistenza opposto da parte di chi non è capace di provvedere ai propri interessi, salva l’eventuale nomina di un amministratore di sostegno. Ciò può agevolmente ricavarsi, a maiore ad minus, dal riconoscimento del diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, ivi incluse idratazione e nutrizione (art. 1 co. 5, l. 22 dicembre 2017, n. 219).