Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Prestazioni di cura e restituzioni (parte prima) (di Giulio Biancardi, Dottorando – Università Ca’ Foscari Venezia)


Il lavoro propone una qualificazione giuridica delle prestazioni di cura eseguite dagli unpaid caregivers. Si esaminano diversi istituti del diritto privato, per vedere se e in che misura vi rientrino le prestazioni di cura: la donazione obbligatoria, il contratto gratuito, le liberalità indirette, gli obblighi alimentari e di mantenimento, le obbligazioni naturali, le prestazioni eseguite per causa di solidarietà, la gestione d’affari altrui. Qualora le prestazioni di cura non rientrino in alcuno degli istituti disciplinati, la loro esecuzione si qualifica come prestazione non dovuta, fonte dell’obbligazione della persona accudita di restituirne il valore al caregiver, ai sensi dell’art. 2041 c.c.: obbligazione trasmissibile mortis causa agli eredi della persona, tra cui eventualmente lo stesso caregiver. Da ultimo, si esaminano alcune interferenze del diritto delle restituzioni con il diritto successorio, nonché alcuni strumenti fruibili all’autonomia privata della persona accudita, per l’attuazione del rapporto obbligatorio post mortem.

Unpaid Care Work according to the Law of Restitution (first part)

The essay provides legal qualification for unpaid care work. Several existing legal figures are examined, to see whether and to what extent unpaid care work is covered: gift, free contracts, indirect gifts, alimony, natural obligations, services performed for solidarity, management of other people's affairs. When not falling into any of these figure, unpaid care work is not due, so its performance raises the obligation to repay its value to the caregiver, pursuant to art. 2041 of the Civil Code. Such obligation arises upon the person cared for and is transmitted mortis causa to his/her heirs, possibly including the caregiver him/herself. Lastly, some interferences between law of restitution and law of succession are examined, as well as the legal instruments, available to the person cared for, to perform a post mortem restitution.

SOMMARIO:

1. Il problema della tutela privatistica del caregiver. - 2. Le possibili qualificazioni giuridiche dell’attività del caregiver. - 3. Le restituzioni conseguenti alla donazione (nulla) di prestazioni di fare. - 4. I presupposti dell’azione di arricchimento: arricchirsi a danno altrui. - 5. Senza giusta causa. - 6. La remunerazione dell’impoverito come giusta causa dell’arricchimento. - 7. Altri contratti con cui il caregiver si obbliga a prestare assistenza materiale. - 8. Lo spirito di liberalità come giusta causa dell'arricchimento e le prestazioni di fare. - 9. L'inadeguatezza della categoria della liberalità rispetto alle prestazioni gratuite di fare nei rapporti familiari. - 10. La mera volontà di eseguire la prestazione non è giusta causa dell'arricchimento (rinvio). - NOTE


1. Il problema della tutela privatistica del caregiver.

Norbert ha una sorella, Aimée, e due genitori anziani, Antoine e Marie, dei quali si prende cura in modo esclusivo; si dedica loro a tempo pieno, per evitarne il ricovero in casa di riposo; fornisce loro assistenza costante, sacrificandovi la sua vita personale e professionale. Dopo la loro morte, Norbert agisce in arricchimento ingiustificato contro la sorella. Afferma di avere evitato ai genitori delle spese, fornendo loro gratuitamente le sue cure, e così procurando un arricchimento alla successione. Sostiene che il suo comportamento avrebbe oltrepassato i doveri morali imposti dalla “pietà familiare”, sicché l’arricchimento procurato sarebbe privo di una causa giustificatrice. Chiede, nel corso delle operazioni di liquidazione e divisione del patrimonio ereditario, che gli sia accordata un’indennità da arricchimento ingiustificato[1]. Quid juris? La soluzione di questo caso – da valutare alla luce di un esame “a grana fine” del diritto positivo vigente, se conceda o meno al caregiver [2] un indennizzo ai sensi dell’art. 2041 c.c. [3] – avrebbe un significato indubitabilmente più ampio, rispetto all’individuazione delle norme applicabili, dal punto di vista dei valori e dei principi [4]. Infatti, la soluzione positiva della questione si tradurrebbe in una forma di riconoscimento e di tutela – sul terreno del diritto privato [5] – in favore di chi esegue lavoro di cura gratuito nei confronti di persone che versano in condizioni di vulnerabilità c.d. primaria, cioè dipendono dall’assistenza altrui. È stato evidenziato, da parte della riflessione giusfilosofica femminista, che l’impegno nella cura di persone vulnerabili espone i caregivers ad una condizione di vulnerabilità c.d. derivata, in quanto prestare la cura limita le loro possibilità di vita, e spesso li mette a loro volta in condizione di dipendere dalle varie forme di sostegno pubblico e privato alla loro attività [6]. Si è denunciata, da parte della dottrina italiana, la mancanza di un inquadramento giuridico dei caregivers, e il conseguente vuoto di tutela [7], il quale non fa che aggravare la condizione di vulnerabilità loro e delle persone da essi assistite [8]. La questione relativa alla disciplina giuridica applicabile ai caregivers – i.e. alle prestazioni di cura [continua ..]


2. Le possibili qualificazioni giuridiche dell’attività del caregiver.

Il presente contributo è dedicato alle molteplici questioni che si pongono laddove ci si interroghi sull’applicabilità della disciplina dell’arricchimento ingiustificato all’attività del caregiver. Va rilevata la difficoltà di qualificare giuridicamente tale attività, che appare suscettibile di molteplici inquadramenti. In primo luogo, il caregiver potrebbe eseguire le prestazioni di cura in adempimento di una propria obbligazione ex lege (artt. 144, 315-bis, 433 ss. c.c.), ovvero di un’obbligazione assunta in forza di un contratto valido (ad es., donazione modale disposta in suo favore, con onere di assistenza; contratto atipico di vitalizio assistenziale; donazione, da parte sua, di prestazioni periodiche di fare), con diritto al corrispettivo eventualmente convenuto. In queste ipotesi, il caregiver esegue una prestazione dovuta, il che esclude qualsiasi pretesa restitutoria. In secondo luogo, il caregiver potrebbe eseguire le prestazioni di cura in adempimento di una altrui obbligazione – di fonte legale o contrattuale – con diritto alla restituzione nei confronti dell’obbligato, che sarà obbligato a restituire al caregiver (per equivalente) il valore della prestazione eseguita in qualità di terzo (art. 1180 c.c.), ai sensi dell’art. 2031 c.c. – sussistendone i presupposti – ovvero ai sensi degli artt. 2033, 2036 e 2041 c.c. [10]. Per converso, pare preferibile escludere una pretesa restitutoria del caregiver nei confronti di chi sia obbligato solo moralmente a prestare assistenza, in conformità del principio secondo cui l’obbligazione naturale non prevede alcun effetto giuridico, salvo quello di giustificare l’attribuzione eseguita spontaneamente dal solvens, in adempimento di un proprio dovere morale o sociale [11]. In terzo luogo, il caregiver potrebbe eseguire prestazioni di cura in esecuzione di una propria obbligazione naturale (art. 2034 c.c.), purché l’attribuzione non oltrepassi i limiti di proporzionalità e di adeguatezza della prestazione, rispetto al patrimonio del solvens (inteso anche in termini di energie e capacità lavorative) e alle esigenze dell’accipiens. Quando la prestazione eseguita rientra nei limiti dell’esecuzione di un dovere morale e sociale, l’adempimento dell’obbligazione naturale esclude ogni pretesa restitutoria in capo al [continua ..]


3. Le restituzioni conseguenti alla donazione (nulla) di prestazioni di fare.

La qualificazione giuridica delle prestazioni di cura eseguite dal caregiver – che appare preferibile, alla luce di un’indagine complessiva delle fattispecie in cui esse paiono astrattamente inquadrabili – è quella che vi ravvisa l’adempimento di un’obbligazione assunta dallo stesso caregiver, per tramite di una donazione costitutiva di un’obbligazione a suo carico. Tale obbligazione ha per oggetto prestazioni periodiche di fare (accudire il beneficiario, prestandogli assistenza materiale e morale, etc.). Questo l’inquadramento, in generale, dell’attività di chi presta cure a titolo gratuito, accettate dalla persona assistita: a tale soluzione, poi, dovranno affiancarsene altre, che valorizzino le specificità del caso (in cui potrebbero venire in rilievo, ad es., l’adempimento di preesistenti obbligazioni legali o morali di assistenza, in capo al caregiver ovvero ad un terzo; l’opposizione della persona assistita; l’incapacità della persona accudita di provvedere ai propri interessi; l’esistenza di altri rapporti contrattuali tra il caregiver e la persona, etc.). Infatti, l’accordo che si forma tra il caregiver e la persona assistita ben può qualificarsi, secondo l’id quod plerumque accidit, come uno scambio di consensi per fatti concludenti, attraverso l’esecuzione della prestazione non rifiutata dall’oblato [15]. Questa soluzione trova una conferma indiretta nell’orientamento, prevalente in dottrina, che limita la responsabilità di chi si arricchisce a danno altrui, per effetto dell’esecuzione di una prestazione di fare, ai casi in cui la prestazione è eseguita in buona fede, o con il consenso o la tolleranza dell’arricchito, ovvero questi l’ha positivamente accettata [16]. Da ciò si ricava che la prestazione accettata dall’arricchito sarebbe comunque fonte di obbligazioni restitutorie (a titolo “quasi contrattuale”): questo anche se l’accettazione non concorresse alla stipulazione di un contratto per fatti concludenti. Se poi si considera che il consenso dell’arricchito si combina con la volontà dell’impoverito di (obbligarsi ad) eseguire prestazioni di fare gratuite, per soddisfare un proprio interesse non patrimoniale, non pare peregrino ravvisare in tutto ciò un accordo tra le parti, volto a regolare un rapporto [continua ..]


4. I presupposti dell’azione di arricchimento: arricchirsi a danno altrui.

La legge considera il fatto di chi “si arricchisce a danno di altri” (art. 2041 c.c.) tra quelli idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento (art. 1173 c.c.). In particolare, esso obbliga l’arricchito a restituire l’arricchimento così conseguito[27]. Da questa previsione normativa si ricavano i primi tre presupposti dell’azione restitutoria in esame: l’arricchimento, l’impoverimento, la correlazione tra il primo e il secondo. L’arricchimento può consistere in un aumento patrimoniale – non anche in un beneficio non patrimoniale [28] – o anche in un risparmio di spese [29]. Si discute se l’arricchimento debba sussistere al momento della domanda [30]. Nel caso del caregiver, l’arricchimento della persona assistita – quindi, poi, dei suoi eredi – consiste nel risparmio di quelle spese che sarebbero sostenute per remunerare le prestazioni di assistenza materiale, rese necessarie dalla condizione di non autosufficienza o comunque di debolezza della persona, ad esempio, perché di età molto avanzata, o affetta da malattie, menomazioni, disabilità [31]. Ciò non si verifica qualora la persona vanti già un diritto di credito, avente ad oggetto le stesse prestazioni: in tal caso, non si verifica alcun arricchimento ai sensi dell’art. 2041 c.c., ma soltanto la soddisfazione di un interesse del creditore per effetto dell’esecuzione della prestazione (art. 1174 c.c.). Pertanto, qualora il caregiver adempia l’altrui obbligazione di prestare assistenza materiale, l’arricchimento si verificherà in capo all’obbligato, nei confronti del quale il caregiver avrà delle pretese restitutorie [32]. L’impoverimento può consistere in una diminuzione patrimoniale (così testualmente l’art. 2041 co. 1 c.c.), ma non anche in un mancato guadagno. La questione assume particolare rilevanza con riferimento alle prestazioni di fare, che causano sicuramente un arricchimento in capo all’accipiens, ma più difficilmente causano in capo al solvens una diminuzione patrimoniale – intesa in senso stretto come “danno emergente” – di entità corrispondente a quella dell’arricchimento: piuttosto, l’esecuzione della prestazione causa un “lucro cessante” in capo al solvens, che [continua ..]


5. Senza giusta causa.

Si è detto che, nella normalità dei casi, il caregiver offre delle prestazioni periodiche di cura, a titolo gratuito, alla persona assistita, che accetta. Si perfeziona così, attraverso il contegno concludente delle parti, una donazione obbligatoria di prestazioni di fare. Tale contratto è nullo per difetto della forma prevista, appunto, a pena di nullità (artt. 782 e 1325 n. 4 c.c.), sicché le prestazioni eseguite devono essere restituite (cfr. l’espresso richiamo alle azioni di ripetizione, contenuto all’art. 1422 c.c.). Il rimedio attraverso il quale l’ordinamento consente la restituzione delle prestazioni di fare indebitamente eseguite è l’azione di arricchimento ingiustificato. Va però accertata la sussistenza di un altro dei presupposti richiesti per l’utile esperimento dell’azione: la mancanza di giusta causa dell’arricchimento. Potrebbe infatti verificarsi il caso in cui l’arricchimento del­l’accipiens delle prestazioni di cura eseguite dal caregiver – pur in forza di una donazione nulla – possa comunque considerarsi sorretto da una giusta causa. Ciò impone un esame analitico di quest’ultimo requisito. A fronte di una varietà di opinioni – il cui esito, comunque, è quello di ricostruire la nozione di “giusta causa” in base al diritto positivo [44] – pare opportuno muovere dalla definizione contenuta nella Relazione al codice civile [45], che la esemplifica con tre ipotesi, cioè (i) che il singolo trasferimento di valori trovi a fronte la prestazione di un corrispettivo, (ii) che abbia causa nella liberalità, (iii) che sia legittimato da una precisa disposizione della legge. Lo schema conserva attualità classificatoria, giacché ciascuna delle tre ipotesi può specificarsi in altre di maggiore dettaglio, che verranno esaminate. Quanto alla prestazione di un corrispettivo per il trasferimento di valore, essa è intesa nella duplice accezione di arricchimento come conseguenza di un contratto o di un impoverimento remunerato [46]. Il contratto potrebbe essere tanto (i) a causa di scambio – nel qual caso si ha senz’altro “prestazione di un corrispettivo” [47] – quanto (ii) un contratto gratuito (non liberale) – nel qual caso manca il corrispettivo, ma la prestazione è pur [continua ..]


6. La remunerazione dell’impoverito come giusta causa dell’arricchimento.

Va approfondita l’ipotesi in cui si ravvisi la giusta causa dello spostamento patrimoniale nella prestazione di un corrispettivo. Essa si verifica ogni volta che lo spostamento di ricchezza trovi la sua causa in un contratto efficace tra le parti, ma la giurisprudenza ravvisa la presenza di una giusta causa anche in qualsiasi impoverimento remunerato[51]. A quest’ultima ipotesi pare ascrivibile non solo il caso in cui corrisponda al sacrificio economico una controprestazione dovuta per contratto, ma anche i casi della donazione rimuneratoria e della disposizione testamentaria a favore dell’impoverito, dettata dal motivo di remunerare l’impo­verimento subito. Al riguardo, sembra preferibile ritenere che il motivo della disposizione possa essere anche implicito, senza che esso debba risultare dal testamento. Questa soluzione pare ricavabile a contrario dall’art. 626 c.c., il quale richiede – ai fini della nullità della disposizione testamentaria per l’illiceità del motivo unicamente determinante – che il motivo illecito risulti dal testamento, e che esso sia il solo che ha determinato il testatore a disporre. Questa norma richiede bensì che il motivo (illecito) sia espresso, ma lo richiede all’unico fine di disciplinare l’invalidità della disposizione illecita. Per converso, non pare potersi trarre dall’art. 626 c.c. alcuna indicazione utile ad affermare la necessità di un motivo espresso anche al (diverso) fine di ravvisare nella disposizione testamentaria una remunerazione dell’impoverimento del caregiver. La soluzione sembra trovare un argomento a contrario anche nella norma di cui all’art. 659 c.c., secondo cui non si presume la causa solvendi del legato disposto a favore al debitore. La presunzione di liberalità del legato sarebbe applicabile, se il testatore volesse adempiere alla sua obbligazione restitutoria ex art. 2041 c.c., maturata nei confronti del caregiver: il testatore che vuole pagare il suo debito, deve dirlo. Per contro, la presunzione non pare applicabile a quella disposizione testamentaria (istituzione di erede o legato) con cui il testatore semplicemente benefica il suo caregiver, in qualche modo “remunerandolo”, ma senza attribuirgli alcunché in funzione propriamente solutoria della preesistente obbligazione restitutoria (salvo che, come detto, tale “remunerazione” si [continua ..]


7. Altri contratti con cui il caregiver si obbliga a prestare assistenza materiale.

In ipotesi, ben potrebbe darsi l’ipotesi che le parti si accordino, ad esempio, affinché il caregiver presti alla persona tutta l’assistenza necessaria, e, come corrispettivo, quest’ultima le attribuisca tutto quanto percepisce a titolo di trattamento previdenziale o assistenziale (oltre alle provvidenze che il caregiver già eventualmente percepisca jure proprio, in conseguenza dell’assistenza prestata, come l’indennità di accompagnamento)[53]. In questo caso, l’arricchimento della persona assistita farebbe difetto della ingiustificatezza richiesta dall’art. 2041 c.c., in quanto conseguente all’esecuzione di una prestazione che sarebbe dovuta, da parte del caregiver, in adempimento di una obbligazione che ha fonte nel contratto validamente stipulato con la persona assistita (o, in ipotesi, con un terzo, ma a favore della persona assistita, ex art. 1411 c.c.). In secondo luogo, potrebbe darsi – oltre all’ipotesi di un contratto a titolo oneroso – anche quella di un contratto gratuito, con obbligazioni a carico del solo caregiver. Si ammette, infatti, che le parti, nell’ambito della loro autonomia privata, possano concludere contratti atipici che prevedono l’esecuzione di prestazioni fare a titolo gratuito (sono essenzialmente onerosi i contratti tipici di appalto, opera manuale e professionale, lavoro subordinato) [54]. Tuttavia, l’ammissibilità di tali contratti gratuiti atipici – sotto i profili della sussistenza e della liceità della causa, nonché di meritevolezza degli interessi perseguiti – non può essere data per scontata: secondo l’opinione prevalente, l’ordinamento riconosce la validità delle sole convenzioni atipiche con cui taluno assume l’obbligo di eseguire gratuitamente prestazioni di fare per soddisfare un proprio interesse di natura patrimoniale, noto all’accipiens. Per converso, sfuggono a tale qualificazione i contratti con cui taluno assume l’obbligo di eseguire gratuitamente prestazioni di fare, per soddisfare un interesse proprio di natura non patrimoniale, noto all’accipiens [55]. Infatti, l’interesse economico del disponente impedisce – per il venir meno dello spirito di liberalità – di qualificare l’atto gratuito come donazione, con conseguente superfluità della forma pubblica. In tal caso, si [continua ..]


8. Lo spirito di liberalità come giusta causa dell'arricchimento e le prestazioni di fare.

Resta da esaminare la possibilità di qualificare le prestazioni di cura come attuazione di un intento di chi tali prestazioni esegue, in cui trova espressione il suo spirito di liberalità[67]. Infatti, l’attività materiale in cui s’impegna il caregiver è sì qualificabile in termini di esecuzione di prestazioni di fare, ma può assumere rilevanza anche come liberalità indiretta. Secondo una tesi, lo spirito di liberalità del disponente risulta non tanto direttamente dall’agire materiale, quanto piuttosto dalla rinuncia al diritto all’indennità, che sorge in conseguenza dell’attività svolta (ad es. artt. 936, 939, 2041 c.c.) [68]. Secondo altra tesi, la liberalità risulta dalla volontà comune del disponente e del beneficiario, volta a dare una qualificazione liberale all’effetto acquisitivo legale: i soggetti così “fanno proprio” l’acquisto, prodotto ex lege da una fattispecie non negoziale, e lo “configurano” [69]. Il negozio “configurativo” è volto ad assegnare preventivamente rilevanza giuridica a fatti o atti che in altro modo dovrebbero essere valutati, senza però obbligare le parti a tenere detti comportamenti: si riconosce dunque all’autonomia privata il potere di interferire sugli effetti legali di un atto o di un fatto giuridico per “contemplarli” nell’as­setto di interessi, ancorché l’acquisto continui a essere avvenuto per legge [70]. Dunque, pur non potendosi escludere una rinunzia del caregiver all’indennità da arricchimento ingiustificato conseguente all’opera prestata – anche implicitamente: l’accertamento della volontà darà luogo ad una quaestio voluntatis [71] – occorre indagare più in dettaglio l’ammissibilità di un accordo configurativo di una liberalità non donativa, da attuarsi tramite l’esecuzione di prestazioni di cura in un lungo periodo di tempo. Il “negozio configurativo” è ritenuto un meccanismo idoneo a spiegare tutte le liberalità indirette, in generale i negozi indiretti: si parla al riguardo di un accordo configurativo “causale” (per distinguerlo da quello “procedimentale”), sul modello della Rechtsgrundabrede. Quest’ultima è un accordo [continua ..]


9. L'inadeguatezza della categoria della liberalità rispetto alle prestazioni gratuite di fare nei rapporti familiari.

Al di là della ricostruzione giuridica del come trovi rilievo l’eventuale presenza di uno spirito di liberalità, occorre tenere presente cosa sia quest’ultimo, per accertarne la sussistenza nel caso del caregiver. Si è riferita l’opinione che ravvisa la liberalità nell’idoneità della prestazione eseguita a soddisfare un interesse non patrimoniale del disponente[81]: va perciò esaminato se l’esecuzione di prestazioni di cura possa ritenersi animata dallo spirito di liberalità così inteso. La soluzione positiva della questione non è scontata. L’ordinamento giuridico non definisce lo “spirito di liberalità”, ma qualifica espressamente taluni atti come “liberalità” [82]: in particolare, le spese di mantenimento e malattia sostenute a favore dei discendenti – soggette a collazione – si qualificano come liberalità diverse dalla donazione [83]. Dunque, non possono dirsi senz’altro “liberalità” quelle stesse spese di mantenimento o malattia, che però siano sostenute dai figli a favore degli ascendenti, e a maggior ragione quelle sostenute a favore di terzi [84]. Beninteso che tali spese potrebbero comunque qualificarsi “liberali” per diverse ragioni. Ancora, la definizione di tali spese in termini di liberalità deve ritenersi rilevante anche ai fini della valutazione dell’esistenza di una giusta causa dell’arricchimento conseguente (ai sensi dell’art. 2041 c.c.), nel senso che è destinata a restare ferma – perché irripetibile – quell’attribuzione patrimoniale che sia sorretta da causa liberale, in quanto la legge espressamente la qualifica come tale. Un esempio più giovare la comprensione di quanto si va dicendo. Se l’art. 742 co. 2 c.c. qualifica in termini liberali le spese di mantenimento o malattia sostenute in favore dei discendenti – non anche quelle sostenute in favore degli ascendenti – ne consegue che il pagamento, da parte del figlio, della retta della casa di riposo del genitore (art. 1180 c.c.), potrebbe qualificarsi, in alternativa, come (i) liberalità diversa dalla donazione, (ii) adempimento di un’obbligazione legale di pagare gli alimenti (qualora il genitore ne abbia acquistato il diritto nei confronti del figlio, per effetto di una [continua ..]


10. La mera volontà di eseguire la prestazione non è giusta causa dell'arricchimento (rinvio).

Un’ulteriore difesa (infondata), rispetto alla configurabilità di un arricchimento ingiustificato della persona accudita a spese del caregiver, potrebbe riguardare la volontarietà delle prestazioni di cura eseguite da quest’ultimo. Infatti, parte della dottrina ritiene che l’impoverito che ha volontariamente eseguito una prestazione di fare in alcuni casi non abbia diritto alla restituzione, per equivalente, dell’arricchimento ingiustificato conseguito da chi abbia ricevuto la prestazione[97]. In contrario, si è autorevolmente osservato che questa soluzione non trova alcun riscontro nel diritto positivo [98], dal quale non si può ricavare alcun principio generale di irripetibilità della prestazione di fare, come forma di tutela contro gli arricchimenti “imposti” [99]. A ciò si può aggiungere che, nel diritto privato, la volontà non è sovrana, ma rileva nei soli casi e modi previsti dalla legge [100]. Segnatamente, il diritto positivo conosce il principio della causalità delle attribuzioni patrimoniali – con l’obbligo, in via generale, di restituire quanto percepito senza giusta causa (artt. 2033 s. e 2041 c.c.) – sicché la nuda volontà del solvens non sarà mai sufficiente, di per sé, a produrre quel particolare effetto giuridico, che consiste nel giustificare l’ese­cuzione di una prestazione altrimenti non dovuta, cioè di precludere, in capo a chi l’ha eseguita, la nascita di un diritto di credito alla sua restituzione (in natura, ex artt. 2037 e 2041 co. 2 c.c., o per equivalente, ex art. 2038 e 2041 co. 1 c.c.) [101]. Infatti, la volontà del solvens assume giuridica rilevanza e produce effetti giuridici – tra cui giustificare un trasferimento patrimoniale, i.e. impedire la nascita di obbligazioni restitutorie – nei soli casi previsti dalla legge, e cioè da disposizioni puntuali ovvero dai principi ricavabili dal diritto positivo vigente, di rango primario e costituzionale (incluse, per tramite del richiamo contenuto nell’art. 117 co. 1 Cost., le discipline sovranazionali e internazionali che trovano applicazione nell’ordinamento giuridico italiano). In altri termini, la regola positivamente stabilita non è quella che sancisce l’intangibilità della sfera giuridica (dell’arricchito) – alla [continua ..]


NOTE