Il lavoro propone una qualificazione giuridica delle prestazioni di cura eseguite dagli unpaid caregivers. Si esaminano diversi istituti del diritto privato, per vedere se e in che misura vi rientrino le prestazioni di cura: la donazione obbligatoria, il contratto gratuito, le liberalità indirette, gli obblighi alimentari e di mantenimento, le obbligazioni naturali, le prestazioni eseguite per causa di solidarietà, la gestione d’affari altrui. Qualora le prestazioni di cura non rientrino in alcuno degli istituti disciplinati, la loro esecuzione si qualifica come prestazione non dovuta, fonte dell’obbligazione della persona accudita di restituirne il valore al caregiver, ai sensi dell’art. 2041 c.c.: obbligazione trasmissibile mortis causa agli eredi della persona, tra cui eventualmente lo stesso caregiver. Da ultimo, si esaminano alcune interferenze del diritto delle restituzioni con il diritto successorio, nonché alcuni strumenti fruibili all’autonomia privata della persona accudita, per l’attuazione del rapporto obbligatorio post mortem.
The essay provides legal qualification for unpaid care work. Several existing legal figures are examined, to see whether and to what extent unpaid care work is covered: gift, free contracts, indirect gifts, alimony, natural obligations, services performed for solidarity, management of other people's affairs. When not falling into any of these figure, unpaid care work is not due, so its performance raises the obligation to repay its value to the caregiver, pursuant to art. 2041 of the Civil Code. Such obligation arises upon the person cared for and is transmitted mortis causa to his/her heirs, possibly including the caregiver him/herself. Lastly, some interferences between law of restitution and law of succession are examined, as well as the legal instruments, available to the person cared for, to perform a post mortem restitution.
1. La "precisa disposizione di legge" come giusta causa dell’arricchimento della persona accudita. - 2. Il diritto agli alimenti. - 3. L’irripetibilità delle prestazioni alimentari. - 4. L'adempimento di doveri morali o sociali e il dépassement de l’obligation naturelle. - 5. Prestazioni eseguite per causa di solidarietà. - 6. Il caregiver gestore d’affari. - 7. Il caregiver terzo adempiente. - 8. L’autonomia privata della persona accudita. - 9. Il riconoscimento di debito post mortem. - 10. Il c.d. legato di debito. - 11. Conclusioni. - NOTE
Con riferimento alle prestazioni di cura eseguite dal caregiver nei confronti della persona accudita, affermare che l’arricchimento di quest’ultima sia giustificato – in mancanza di un valido contratto tra le parti, o di un atto di liberalità del caregiver – perché legittimato “da una precisa disposizione di legge” può significare diverse cose: (i) che la prestazione è eseguita in adempimento di un’obbligazione legale, oppure (ii) di un dovere morale o sociale, ovvero, che (iii) chi esegue la prestazione offende il buon costume, con conseguente diniego della tutela restitutoria in funzione sanzionatoria[1]. Ad escludere quest’ultima qualificazione è sufficiente rilevare che l’esecuzione di prestazioni di cura si pone, piuttosto, ai confini con l’adempimento di doveri morali o sociali[2]. Quanto invece agli obblighi legali, occorre verificare se le prestazioni di cura siano dovute ex lege dal caregiver medesimo, ovvero da un terzo [3]. Chi adempie un’obbligazione alimentare propria non ha tutela restitutoria, perché la prestazione eseguita è dovuta, e il conseguente arricchimento è giustificato dalla causa solvendi. A chi adempie un’obbligazione alimentare altrui, invece, potrebbe essere data una pretesa restitutoria – in astratto – contro l’alimentato, se ha eseguito la prestazione credendosi debitore per errore scusabile (art. 2036 co. 1 c.c.), ovvero contro il “vero obbligato”, se ha eseguito la prestazione credendosi debitore per errore inescusabile, in tal caso surrogandosi ai diritti dell’alimentato nei confronti del suo debitore (art. 2036 co. 3 c.c.). A ben vedere, la surrogazione pare ammissibile anche se il caregiver ha eseguito prestazioni dovute da altri, credendosi debitore per errore scusabile; ciò ogni volta che – in concreto – risulti che “la ripetizione non è ammessa” contro l’accipiens (art. 2036 co. 3), in quanto la prestazione del caregiver è stata eseguita (e ricevuta, e utilizzata) con finalità alimentare. Infine, l’azione di arricchimento spetta – nei confronti del “vero obbligato” – al caregiver terzo adempiente, che abbia eseguito prestazioni di cura con la piena consapevolezza di non esservi tenuto, non applicandosi in tal caso la disciplina dell’indebito soggettivo di [continua ..]
Con riferimento a “disposizioni precise di legge” che giustificano l’arricchimento derivante dall’esecuzione di prestazioni di cura, vanno considerate le obbligazioni legali di mantenere, assistere, o alimentare: (i) obblighi reciproci di assistenza materiale e contribuzione tra coniugi (art. 143 c.c.); (ii) obblighi dei genitori di mantenere, educare, istruire e assistere moralmente i figli (art. 315-bis c.c.); (iii) obbligo di prestare gli alimenti al bisognoso incapace di provvedervi, in capo ai soggetti indicati dall’art. 433 c.c., ivi compresi il coniuge separato (art. 156 co. 3 c.c.), l’ex convivente (art. 1 co. 65 l. 76/2016), e l’ex coniuge o parte di unione civile (art. 5 l. 898/1970, art. 25 l. 76/2016), salvo che in quest’ultimo caso l’assegno può assumere non solo una funzione assistenziale (cioè alimentare), ma anche una funzione perequativo-compensativa. Al riguardo, va sottolineata la posizione peculiare del figlio maggiorenne, ch’è tenuto soltanto a rispettare i genitori e contribuire al mantenimento della famiglia finché convive con essa [5]. Quanto al dovere di rispetto, se n’è proposta un’interpretazione estensiva, tale da ricomprendervi anche un dovere di cura e assistenza della persona del genitore anziano che versi in una situazione di debolezza [6]. Tuttavia, tale ricostruzione non è stata proposta allo scopo di giustificare sul piano causale le prestazioni eseguite dai figli nei confronti dei genitori, bensì al diverso scopo di riconoscere al genitore il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, sofferto in conseguenza della violazione del predetto dovere, da parte dei figli. Ciò trova conferma nel riconoscimento – da parte dei fautori di questa tesi – della configurabilità di un arricchimento ingiustificato del genitore, il quale riceva prestazioni di cura che eccedono il giusto confine dell’adempimento dei normali doveri di solidarietà familiare [7]. Dunque, i figli sono obbligati giuridicamente a prendersi cura del genitore solo se e nella misura in cui sussistono i presupposti dell’obbligo alimentare [8], e possono essere obbligati “naturalmente” anche al di là dell’obbligo anzidetto, ma solo entro i limiti della proporzionalità e adeguatezza, impliciti nell’art. 2034 c.c. [9]. [continua ..]
Un’altra ragione per cui conviene esattamente delimitare l’ambito degli obblighi alimentari ex lege è l’irripetibilità delle prestazioni indebitamente eseguite, a favore di un familiare, con finalità alimentare[25]. La giurisprudenza ricava questa soluzione dagli artt. 2 e 29 Cost., mentre parte della dottrina ne ravvisa il fondamento nel dovere morale e sociale di sovvenire ai bisognosi[26]. Quest’ultima ricostruzione non pare condivisibile. Infatti, pare preferibile distinguere tra l’adempimento di un’obbligazione naturale – che giustifica l’impoverimento del solvens (quindi esclude tout court la possibilità di questi di agire in restituzione) – e la (mera) irripetibilità (per inesigibilità) delle prestazioni eseguite, che giustifica la soluti retentio da parte dell’accipiens, senza però escludere un’eventuale pretesa restitutoria del solvens contro il terzo obbligato. Infatti, il caso del caregiver che esegue prestazioni alimentari non dovute, ma irripetibili, pare inquadrarsi nella fattispecie di cui all’art. 2036 co. 3 c.c., che prevede la surrogazione legale del solvens nei diritti dell’accipiens, nei casi in cui la ripetizione nei confronti di questi non è ammessa. Questo pare appunto il caso delle prestazioni eseguite con finalità alimentare. Oltre alla ratio dell’irripetibilità delle prestazioni eseguite con finalità alimentari – di non imporre la restituzione di prestazioni che, verosimilmente, sono state consumate dall’accipiens per la soddisfazione di esigenze vitali – va esaminata anche la natura giuridica di tale irripetibilità. Muovendo dalla sua ratio, dunque, pare preferibile ricostruire l’irripetibilità come una causa personale di inesigibilità della prestazione restitutoria. Infatti, il solvens di una prestazione indebita, eseguita con finalità alimentare, a certe condizioni non potrà chiederne la restituzione all’accipiens, presumendosi che questi abbia consumato la prestazione ricevuta. Tuttavia, pare che il solvens possa agire nei confronti degli eredi dell’accipiens, per ottenere la restituzione della stessa prestazione, se e nei limiti in cui (il valore di) tale prestazione residui nel patrimonio ereditario (cioè nei limiti dell’arricchimento degli eredi). Precisamente, si configura un [continua ..]
È ineludibile, nell’ambito di un’indagine sulla restituzione di prestazioni di cura, la questione se e in che misura sussista un dovere morale e sociale giuridicamente rilevante – ai sensi dell’art. 2034 c.c. – di prendersi cura di una persona cara, specie di un genitore o familiare. Al riguardo, occorre considerare il limite della proporzionalità e adeguatezza della prestazione, che delimita la rilevanza giuridica delle obbligazioni naturali, al fine di escludere la restituzione dell’arricchimento – altrimenti ingiustificato – che consegue all’esecuzione spontanea delle prestazioni, dirette ad adempiere tali doveri. Infatti, la prestazione eseguita in adempimento di un dovere morale-sociale è irripetibile se sussistono (i) il dovere morale-sociale, (ii) la spontaneità dell’adempimento (intesa come assenza di coercizione), (iii) la capacità del solvens, nonché (iv) la proporzionalità e adeguatezza della prestazione eseguita[30]. A questo proposito – posta la distinzione tra doveri suscettibili di adempimento mediante prestazioni a contenuto determinato (e.g. debito derivante da giuoco), e doveri ad adempimento libero – si esclude che il dovere morale possa giustificare qualsiasi prestazione, né qualsiasi ammontare della prestazione[31]. Infatti, ancorché l’art. 2034 c.c. non faccia riferimento ad alcun parametro né qualitativo né quantitativo, si ritiene necessario il rispetto di un ulteriore requisito implicito, cioè la proporzionalità della prestazione rispetto al dovere. Infatti, il contenuto del dovere morale vale altresì a determinare la misura della prestazione volta ad adempierlo: esso contiene in sé un criterio quantitativo, seppur con carattere di relatività, e determina così la misura della prestazione [32]. Il dovere morale viene in considerazione non già in astratto, ma con riguardo alle specifiche circostanze e alla relazione esistente tra debitore e creditore “naturali”; oltre al contenuto del dovere in sé, dunque, occorre tenere conto delle condizioni patrimoniali di colui che presta, nonché – con riguardo a specifici doveri destinati a protrarsi nel tempo, quale può essere il dovere di contribuzione e di assistenza – dell’arco temporale di sussistenza del dovere. Sotto il profilo dei [continua ..]
Si sono evidenziate le criticità di una possibile qualificazione della prestazione di assistenza come animata da uno spirito di liberalità. Resta ora da vedere se la prestazione di cura possa considerarsi sorretta da una causa diversa da quella liberale, vale a dire una causa di solidarietà, che opera come causa di giustificazione delle attribuzioni patrimoniali autonoma, ancorché parzialmente sovrapponibile, rispetto a quella di liberalità[52]. Ai fini della ricostruzione della disciplina dell’azione di arricchimento senza causa, la solidarietà già rileva come ratio fondamentale dell’imposizione, in capo all’arricchito, dell’obbligazione di restituire all’impoverito (per equivalente, o in natura, nell’ipotesi ex art. 2041 co. 2 c.c.) l’arricchimento conseguito a danno di quest’ultimo, che non trovi fondamento in una delle cause ammesse dall’ordinamento come giustificazione degli spostamenti di ricchezza [53]. Una di queste cause – che agisce, per così dire, in senso contrario rispetto alla ratio solidaristica dell’obbligazione restitutoria ex art. 2041 c.c. – è proprio l’adempimento di uno di quei doveri inderogabili di solidarietà sociale imposti dalla Costituzione a tutti i consociati (art. 2 Cost.). La puntuale individuazione delle ipotesi in cui la prestazione può qualificarsi come adempimento dei doveri di solidarietà predetti – che ne giustificano l’esecuzione, e il conseguente spostamento di ricchezza, ai sensi dell’art. 2041 c.c. – va operata alla luce del diritto positivo vigente. Può osservarsi che – a livello di fonti primarie – la causa di solidarietà trova il suo ambito di applicazione elettivo nel volontariato, in particolare associativo. Si ricava dal riconoscimento della solidarietà sociale nelle fonti costituzionali (artt. 2 e 18 Cost.) e ordinarie (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, recante il Codice del Terzo settore) l’esistenza di una categoria negoziale tipica sorretta da una autonoma causa di attribuzione, cioè la “causa di solidarietà”, come distinta da quella di liberalità. Dall’irriducibilità della solidarietà alla liberalità si ricava che alla prima non si applica la disciplina della seconda, in particolare quella della donazione, il cui [continua ..]
Resta da esaminare l’ipotesi in cui il caregiver “scientemente” – consapevole di non esservi obbligato – abbia iniziato prendersi cura di una persona totalmente incapace di provvedervi. La disciplina positiva della gestione d’affari prevede l’obbligo del gestore di continuare la gestione intrapresa (art. 2028 co. 1 c.c.), sicché il caregiver gestore d’affari presta le sue cure in adempimento di un obbligo legale, e ciò esclude che l’arricchimento della persona accudita possa dirsi ingiustificato. Tuttavia – pur a fronte dell’espresso richiamo alle sole obbligazioni del mandatario, cui soggiace il gestore (art. 2030 c.c.), ad esclusione delle obbligazioni del mandante – sembra possibile affermare l’applicabilità, per analogia, della norma che sancisce l’onerosità del mandato, qualora ciò risulti dalle circostanze, con la conseguenza che il “mandante” (recte la persona accudita) sarà obbligato, a titolo quasi-contrattuale, a pagare un compenso al gestore d’affari per le prestazioni rese in modo sostanzialmente professionale. Questa soluzione – avversata dall’opinione prevalente [63] – trova tuttavia il sostegno di diversi argomenti in suo favore. In primo luogo, non è vero che l’attribuzione di un corrispettivo al gestore snaturerebbe il significato solidaristico dell’istituto [64], per ciò, che – secondo l’opinione che appare preferibile [65] – la ratio della gestione d’affari non è esclusivamente solidaristica, ma comprende anche il suum cuique tribuere, cioè l’esigenza di attribuire all’interessato le utilità che gli spettano: in questo senso, si è evidenziato che l’istituto si atteggia a rimedio, a tutela dell’interessato, anche contro le gestioni “egoistiche” [66]. Al riguardo, si è rilevato che l’applicazione analogica della disciplina del mandato anche al gestore d’affari non importa necessariamente il diritto di questi al compenso; infatti, l’onerosità costituisce una caratteristica naturale del mandato, ma non necessaria; l’onerosità perciò può essere esclusa, oltre che dalla volontà delle parti, da circostanze di fatto, come la qualità personale del mandatario e le relazioni tra [continua ..]
L’altra ipotesi in cui è data al caregiver un’azione negotiorum gestorum contraria (art. 2031 c.c.) per ottenere la restituzione (dell’intero valore) della prestazione eseguita è quella dell’adempimento dell’obbligo alimentare altrui. L’ambito di applicazione di questa disciplina dipende, evidentemente, dalla sussistenza dell’obbligazione alimentare in capo al “vero obbligato”, nei confronti del quale il caregiver avanzerebbe delle pretese restitutorie. La giurisprudenza qualifica la fattispecie anzidetta appunto come gestione di affari altrui, concedendo al “terzo adempiente” azione restitutoria anche in caso di opposizione dell’obbligato, inefficace perché contraria al buon costume (art. 2031 co. 2 c.c.). Si ritiene che a questa soluzione non osti la disciplina della decorrenza dell’obbligo alimentare (art. 445 c.c.), la quale troverebbe applicazione solo nei rapporti tra l’obbligato e l’avente diritto, non anche ai rapporti tra l’obbligato e il c.d. terzo adempiente[72]. A ben vedere, tuttavia, tale soluzione sembra trovare un ostacolo insormontabile nella natura costitutiva della sentenza che condanna l’obbligato a prestare gli alimenti [73]. Infatti, se il diritto di credito dell’alimentando si costituisce per effetto (dell’esercizio del suo diritto potestativo, con la proposizione della domanda in giudizio, quindi) della sentenza costitutiva, in mancanza di tale iniziativa dell’alimentando non vi è alcun corrispondente obbligo in capo a chi astrattamente sarebbe tenuto a prestare gli alimenti, nell’ordine indicato. Ne consegue che non vi sarà alcun “vero obbligato” contro cui il solvens della prestazione alimentare (indebita) possa agire in regresso, ad alcun titolo. In particolare, l’art. 445 c.c. disciplina il termine di decorrenza degli alimenti, retroattivamente, dalla domanda giudiziale o dalla costituzione in mora seguita dalla domanda (entro sei mesi). Ci si chiede se la sentenza abbia efficacia costitutiva del diritto dell’alimentando [74], ovvero se il diritto preesista, e la sentenza si limiti alla liquidazione dell’obbligazione alimentare e alla condanna al pagamento [75]. La dottrina più recente è incline a riconoscere la natura costitutiva della sentenza. L’opposta ricostruzione argomentava la preesistenza [continua ..]
Da ultimo, può essere utile – in una prospettiva applicativa – esaminare brevemente gli strumenti fruibili all’autonomia privata della persona che riceve cure gratuite, in funzione di attuazione del rapporto obbligatorio sorto ex lege con il caregiver, in conseguenza dell’acceptio di prestazioni di cura non dovute, eseguite da quest’ultimo. Infatti, non pare fruttuoso limitarsi a rilevare che la fonte dell’obbligazione restitutoria è il fatto idoneo a produrla secondo l’ordinamento giuridico (art. 1173 c.c.), cioè l’oggettiva esecuzione delle prestazioni di cura non dovute (art. 2041 c.c.). Infatti, quest’obbligazione prevede (i) l’esecuzione di una prestazione di dare una somma di denaro; (ii) preliminarmente, la determinazione dell’ammontare della somma dovuta, tutt’altro che agevole; nonché, eventualmente, (iii) la prova in giudizio dell’esistenza dei fatti costitutivi dell’obbligazione; e (iv) l’eventuale interruzione della prescrizione del diritto per inerzia del titolare, per un periodo di dieci anni dal momento in cui il diritto sorge, cioè – nel caso di un rapporto di durata – di attimo in attimo. Assumono perciò rilievo, ai fini dell’attuazione di tale rapporto obbligatorio, alcuni atti unilaterali che il debitore può compiere nell’ambito della sua autonomia privata: (i) la promessa di pagamento o il riconoscimento di debito (in particolare titolato, con la confessione dei fatti costitutivi dell’obbligazione); (ii) la rinuncia alla prescrizione già maturata (che è anche un effetto legale del riconoscimento del diritto, ex art. 2944 c.c.); (iii) il c.d. legato di debito, puro ovvero in solutum. Questi atti possono essere compiuti dal debitore inter vivos, con efficacia immediata, ovvero come atti di ultima volontà, destinati ad assumere giuridica rilevanza solo post mortem, in modo tale da agevolare l’esecuzione del rapporto obbligatorio – i.e. la riscossione del credito – da parte del caregiver, nei confronti (non della persona assistita, bensì) dei suoi eredi dopo la morte.
Un’ipotesi di atto di ultima volontà[87], al quale potrebbe fare ricorso la persona interessata per assicurare al caregiver una migliore soddisfazione del suo diritto, è il riconoscimento di debito post mortem[88]. Tale atto potrebbe essere posto in essere dal debitore anche inter vivos; tuttavia, il debitore potrebbe avere l’interesse a che gli effetti del riconoscimento di debito (i.e. l’inversione dell’onere della prova quanto all’esistenza del rapporto fondamentale, ex art. 1988 c.c.; l’interruzione della prescrizione ex art. 2944 c.c.) non si producano nei suoi confronti, fintantoché è in vita, ma solo dopo la sua morte, nei confronti dei suoi eredi, o degli eventuali legatari onerati del pagamento del debito. L’interesse del debitore ad esercitare in questo senso la sua autonomia privata è ritenuto senz’altro meritevole di tutela giuridica [89]. Ciò emerge, in primo luogo, dall’analisi degli effetti giuridici: il riconoscimento di debito ha natura negoziale – non di mero atto giuridico [90] – sicché è consentito al suo autore di predeterminarne gli effetti giuridici (così non sarebbe, se si trattasse di un mero atto giuridico): in particolare, vi potrà apporre un termine, che coincida con la morte del debitore, ovvero una condizione sospensiva (come la condizione di premorienza del debitore rispetto al creditore). Dunque, se è consentito fare un riconoscimento di debito inter vivos sotto la modalità (i.e. sotto condizione o sotto termine) della morte del debitore (prima della quale l’atto è inefficace), allora dovrebbe essere consentito anche fare lo stesso riconoscimento post mortem, come atto di ultima volontà, nel senso che esso acquista la sua rilevanza giuridica con la morte dell’autore (prima della quale l’atto è giuridicamente irrilevante) [91]. In ogni caso, è sicuro che il debitore ha il potere, nell’ambito della sua autonomia, di differire gli effetti del riconoscimento, vuoi apponendovi il termine della sua morte, vuoi affidando la dichiarazione ad un atto di ultima volontà, il quale non ha rilevanza giuridica prima della morte [92]. La differenza tra le due ipotesi anzidette consiste in ciò, che chi riconosce un proprio debito sotto termine o sotto condizione ingenera un’aspettativa in capo al [continua ..]
Un altro atto di ultima volontà che la persona assistita potrebbe compiere a favore del caregiver – in generale, il debitore nei confronti del suo creditore – è il c.d. legato di debito (anche satisfaciendi causa), con cui il debitore non si limita a riconoscere il debito, ma lo adempie attraverso una disposizione di ultima volontà. Si ricava dall’art. 659 c.c. – recante la disciplina del legato a favore del creditore – che la disposizione testamentaria possa essere fatta anche “per soddisfare il legatario del suo credito”. Pertanto, il nostro sistema successorio prevede sia il c.d. legato di debito puro – il legato con il quale il testatore attribuisce al proprio creditore, a titolo particolare, un diritto esattamente corrispondente alla prestazione che costituisce l’oggetto del loro rapporto obbligatorio – sia il c.d. legato satisfacendi causa – con il quale il testatore attribuisce al proprio creditore, a soddisfazione del credito, una diversa prestazione. Dunque, il c.d. legato di debito potrà avere ad oggetto l’esatta prestazione dovuta al creditore, ovvero una diversa prestazione, secondo lo schema della datio in solutum [97]. Si è osservato che quest’ultimo “legato” – con cui il debitore attribuisce il diritto alla prestazione in luogo dell’adempimento – ove pure fosse contenuto nel testamento, assai difficilmente sarebbe riducibile entro lo schema dell’istituzione di erede o anche del legato propriamente detto. Da una parte, esso non potrebbe valere come istituzione d’erede, dal momento che non ha alcuna funzione istitutiva; dall’altra parte, esso non potrebbe neppure essere considerato un legato, e ciò non tanto perché non vi è l’attribuzione di un diritto particolare, quanto e soprattutto perché è difficile individuare il legatario, cioè la persona che debba considerarsi realmente beneficata, in via immediata e diretta, dalla disposizione con cui il de cuius attribuisce al suo debitore la prestazione dovuta – che è eseguita solvendi causa, e non in funzione di attribuzione di un (nuovo) diritto – oppure una prestazione in solutum, diversa da quella dedotta in oggetto dell’obbligazione. Come non si è mancato di rilevare, infatti, il soggetto beneficato da quest’ultima disposizione sarebbe [continua ..]
La qualificazione giuridica dell’attività prestata dal caregiver e la ricostruzione del regime delle restituzioni delle prestazioni di cura si sono rivelate assai complesse. I risultati dell’indagine possono essere così conclusivamente riassunti, raggruppando le varie ipotesi esaminate – da cui è escluso il caso delle cure prestate in base ad un valido rapporto contrattuale – nei tre macro-casi del caregiver che agisca in adempimento di un obbligazione legale nei confronti della persona accudita; del caregiver gestore d’affari; del caregiver che non sia gestore né obbligato, il quale si prende cura della persona in via di fatto. Il primo caso, dunque, è quello del caregiver che presta le sue cure in esecuzione di un obbligo di legge nei confronti della persona accudita – i.e. i genitori nei confronti dei figli minori, i coniugi reciprocamente, gli obbligati agli alimenti nei confronti dell’avente diritto – che, pertanto, non ha maturato alcuna pretesa restitutoria in conseguenza dell’esecuzione delle prestazioni di cura. Con riferimento a questi caregivers, l’esigenza di interventi pubblici di sostegno appare più urgente. Il secondo caso è quella del caregiver gestore d’affari, che “scientemente” – non essendovi obbligato, e consapevole di ciò – ha iniziato a prendersi cura di una persona totalmente incapace di provvedervi, la quale tuttavia non ha diritto agli alimenti nei confronti di alcuno (vuoi perché difettano i presupposti oggettivi, vuoi perché mancano i soggetti indicati dall’art. 433 c.c.). La disciplina della gestione d’affari prevede l’obbligo del gestore di continuare la gestione intrapresa, sicché il caregiver gestore d’affari presta le sue cure in adempimento di un obbligo legale, il che esclude un arricchimento senza giusta causa. Tuttavia – pur a fronte di un espresso richiamo alle sole obbligazioni del mandatario – si ritiene applicabile per analogia la previsione dell’onerosità del mandato, qualora ciò risulti dalle circostanze, con la conseguenza che il “mandante” (rectius la persona accudita) sarà obbligato, ai sensi dell’art. 1709 c.c., a pagare un compenso al gestore d’affari per le prestazioni rese in modo sostanzialmente professionale. Questa soluzione consente di evitare [continua ..]