Il lavoro propone una qualificazione giuridica delle prestazioni di cura eseguite dagli unpaid caregivers. Si esaminano diversi istituti del diritto privato, per vedere se e in che misura vi rientrino le prestazioni di cura: la donazione obbligatoria, il contratto gratuito, le liberalità indirette, gli obblighi alimentari e di mantenimento, le obbligazioni naturali, le prestazioni eseguite per causa di solidarietà, la gestione d’affari altrui. Qualora le prestazioni di cura non rientrino in alcuno degli istituti disciplinati, la loro esecuzione si qualifica come prestazione non dovuta, fonte dell’obbligazione della persona accudita di restituirne il valore al caregiver, ai sensi dell’art. 2041 c.c.: obbligazione trasmissibile mortis causa agli eredi della persona, tra cui eventualmente lo stesso caregiver. Da ultimo, si esaminano alcune interferenze del diritto delle restituzioni con il diritto successorio, nonché alcuni strumenti fruibili all’autonomia privata della persona accudita, per l’attuazione del rapporto obbligatorio post mortem.
The essay provides legal qualification for unpaid care work. Several existing legal figures are examined, to see whether and to what extent unpaid care work is covered: gift, free contracts, indirect gifts, alimony, natural obligations, services performed for solidarity, management of other people's affairs. When not falling into any of these figure, unpaid care work is not due, so its performance raises the obligation to repay its value to the caregiver, pursuant to art. 2041 of the Civil Code. Such obligation arises upon the person cared for and is transmitted mortis causa to his/her heirs, possibly including the caregiver him/herself. Lastly, some interferences between law of restitution and law of succession are examined, as well as the legal instruments, available to the person cared for, to perform a post mortem restitution.
1. La "precisa disposizione di legge" come giusta causa dell’arricchimento della persona accudita. - 2. Il diritto agli alimenti. - 3. L’irripetibilità delle prestazioni alimentari. - 4. L'adempimento di doveri morali o sociali e il dépassement de l’obligation naturelle. - 5. Prestazioni eseguite per causa di solidarietà. - 6. Il caregiver gestore d’affari. - 7. Il caregiver terzo adempiente. - 8. L’autonomia privata della persona accudita. - 9. Il riconoscimento di debito post mortem. - 10. Il c.d. legato di debito. - 11. Conclusioni. - NOTE
Con riferimento alle prestazioni di cura eseguite dal caregiver nei confronti della persona accudita, affermare che l’arricchimento di quest’ultima sia giustificato – in mancanza di un valido contratto tra le parti, o di un atto di liberalità del caregiver – perché legittimato “da una precisa disposizione di legge” può significare diverse cose: (i) che la prestazione è eseguita in adempimento di un’obbligazione legale, oppure (ii) di un dovere morale o sociale, ovvero, che (iii) chi esegue la prestazione offende il buon costume, con conseguente diniego della tutela restitutoria in funzione sanzionatoria[1]. Ad escludere quest’ultima qualificazione è sufficiente rilevare che l’esecuzione di prestazioni di cura si pone, piuttosto, ai confini con l’adempimento di doveri morali o sociali[2].
Quanto invece agli obblighi legali, occorre verificare se le prestazioni di cura siano dovute ex lege dal caregiver medesimo, ovvero da un terzo [3]. Chi adempie un’obbligazione alimentare propria non ha tutela restitutoria, perché la prestazione eseguita è dovuta, e il conseguente arricchimento è giustificato dalla causa solvendi. A chi adempie un’obbligazione alimentare altrui, invece, potrebbe essere data una pretesa restitutoria – in astratto – contro l’alimentato, se ha eseguito la prestazione credendosi debitore per errore scusabile (art. 2036 co. 1 c.c.), ovvero contro il “vero obbligato”, se ha eseguito la prestazione credendosi debitore per errore inescusabile, in tal caso surrogandosi ai diritti dell’alimentato nei confronti del suo debitore (art. 2036 co. 3 c.c.).
A ben vedere, la surrogazione pare ammissibile anche se il caregiver ha eseguito prestazioni dovute da altri, credendosi debitore per errore scusabile; ciò ogni volta che – in concreto – risulti che “la ripetizione non è ammessa” contro l’accipiens (art. 2036 co. 3), in quanto la prestazione del caregiver è stata eseguita (e ricevuta, e utilizzata) con finalità alimentare. Infine, l’azione di arricchimento spetta – nei confronti del “vero obbligato” – al caregiver terzo adempiente, che abbia eseguito prestazioni di cura con la piena consapevolezza di non esservi tenuto, non applicandosi in tal caso la disciplina dell’indebito soggettivo di cui all’art. 2036 c.c. [4].
Con riferimento a “disposizioni precise di legge” che giustificano l’arricchimento derivante dall’esecuzione di prestazioni di cura, vanno considerate le obbligazioni legali di mantenere, assistere, o alimentare: (i) obblighi reciproci di assistenza materiale e contribuzione tra coniugi (art. 143 c.c.); (ii) obblighi dei genitori di mantenere, educare, istruire e assistere moralmente i figli (art. 315-bis c.c.); (iii) obbligo di prestare gli alimenti al bisognoso incapace di provvedervi, in capo ai soggetti indicati dall’art. 433 c.c., ivi compresi il coniuge separato (art. 156 co. 3 c.c.), l’ex convivente (art. 1 co. 65 l. 76/2016), e l’ex coniuge o parte di unione civile (art. 5 l. 898/1970, art. 25 l. 76/2016), salvo che in quest’ultimo caso l’assegno può assumere non solo una funzione assistenziale (cioè alimentare), ma anche una funzione perequativo-compensativa.
Al riguardo, va sottolineata la posizione peculiare del figlio maggiorenne, ch’è tenuto soltanto a rispettare i genitori e contribuire al mantenimento della famiglia finché convive con essa [5]. Quanto al dovere di rispetto, se n’è proposta un’interpretazione estensiva, tale da ricomprendervi anche un dovere di cura e assistenza della persona del genitore anziano che versi in una situazione di debolezza [6]. Tuttavia, tale ricostruzione non è stata proposta allo scopo di giustificare sul piano causale le prestazioni eseguite dai figli nei confronti dei genitori, bensì al diverso scopo di riconoscere al genitore il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, sofferto in conseguenza della violazione del predetto dovere, da parte dei figli. Ciò trova conferma nel riconoscimento – da parte dei fautori di questa tesi – della configurabilità di un arricchimento ingiustificato del genitore, il quale riceva prestazioni di cura che eccedono il giusto confine dell’adempimento dei normali doveri di solidarietà familiare [7].
Dunque, i figli sono obbligati giuridicamente a prendersi cura del genitore solo se e nella misura in cui sussistono i presupposti dell’obbligo alimentare [8], e possono essere obbligati “naturalmente” anche al di là dell’obbligo anzidetto, ma solo entro i limiti della proporzionalità e adeguatezza, impliciti nell’art. 2034 c.c. [9]. Pertanto – fatti salvi gli obblighi di assistenza posti in capo ai genitori e al coniuge – la disciplina di applicazione generale è quella degli alimenti e, al di là di limiti di questa, delle obbligazioni naturali.
In particolare, l’art. 438 c.c. prevede la nascita dell’obbligazione alimentare in presenza (i) dello stato di bisogno del richiedente, (ii) dell’impossibilità da parte sua di farvi fronte e (iii) della possibilità economica del soggetto cui si chiede di manifestare la propria solidarietà, nonché (iv) l’esistenza di un particolare legame con quest’ultimo. Al ricorrere di tutti questi presupposti, si passa dalla solidarietà generica, enunciata dall’art. 2 Cost., ad una più specifica solidarietà familiare [10]. Si ammette che lo stato di bisogno e l’incapacità del soggetto di provvedervi possano declinarsi con riferimento alla condizione di dipendenza di chi concretamente riceve le cure di un caregivers, sicché le prestazioni eseguite da questi ben potranno qualificarsi – in astratto – come alimentari.
In particolare, lo stato di bisogno è connesso alla mancanza delle risorse necessarie a soddisfare i bisogni fondamentali: vi versa non solo l’indigente – che manca di qualsiasi risorsa – ma anche chi sia incapace di provvedere in toto al proprio sostentamento e di condurre una vita dignitosa. Si tratta di un concetto relativo, variando i bisogni quantitativamente e qualitativamente da persona a persona: si ritiene necessaria, perciò, una valutazione personalizzata e attenta alle circostanze del caso [11]. È pacifico, comunque, che i bisogni essenziali includono le necessità più urgenti e immediate come cibo, alloggio, vestiario, nonché – anche se non sono proprie di ogni essere umano – le cure mediche e farmaceutiche e l’assistenza, intesa come prestazione personale di supporto globale al soggetto in stato di bisogno, in termini di presenza, di compagnia, di conforto, di affetto [12]. Si ravvisa uno stato di bisogno rispetto a chi non riesce a soddisfare tale componente materiale, denominata alimenta naturalia; ma anche si ritengono dovuti, di là da tali bisogni essenziali per la vita della persona, gli alimenta civilia [13]. Nell’ambito di una valutazione “personalizzata” dello stato di bisogno, comunque, è ben possibile che – al di là dalle esigenze comuni a chiunque – una persona anziana e malata ne abbia di maggiori rispetto a una giovane e in salute [14]. Presupposto del diritto agli alimenti in capo alla persona anziana, malata, affetta da disabilità saranno dunque le sue concrete esigenze di vita, da una parte, e, dall’altra parte, l’insufficienza delle sue risorse economiche e delle sue capacità a provvedere ai propri interessi. Il diritto agli alimenti potrebbe anche prescindere da una condizione di totale indigenza, laddove comunque la persona non sia in grado di provvedere ai propri bisogni fondamentali [15].
Altra questione di rilievo – e oggetto di dibattito – riguarda lo stato di bisogno chi, pur privo di disponibilità economiche, riceva assistenza non sporadica da chi non vi è giuridicamente obbligato, com’è il caregiver. Si tende a distinguere. In generale, è preferibile la soluzione positiva se si considera che tale sostegno non è dovuto per legge, e potrebbe cessare da un momento all’altro, esponendo l’alimentando a considerevoli difficoltà: questi perciò potrà prendere gli alimenti dagli obbligati, anche per evitare di continuare a gravare nel tempo sul soggetto che lo supporta senza esservi obbligato. A diversa soluzione si giunge se l’alimentando convive con un partner che provvede al suo mantenimento, essendo la convivenza di fatto una formazione sociale, in cui si dovrà beneficare in primo luogo della solidarietà della persona con cui si è creata una famiglia, coi conseguenti obblighi familiari di assistenza reciproca e contribuzione [16].
Altro presupposto del diritto dell’alimentando è il legame con l’obbligato, e l’idoneità delle attuali condizioni economiche di questi a sopportare l’obbligo alimentare [17]. L’oggetto dell’obbligo del debitore, infatti, è determinato con riferimento al bisogno dell’avente diritto e alle condizioni economiche dell’obbligato. Si opera una valutazione comparativa tra i due parametri, con il limite di quanto è necessario all’alimentando per condurre una vita dignitosa e libera dagli stenti [18].
Quanto ai modi di somministrazione degli alimenti, l’art. 443 c.c. prevede la scelta del debitore se corrispondere un assegno, oppure accogliere e mantenere nella propria casa l’avente diritto. L’opinione prevalente qualifica l’obbligazione come alternativa, ma occorre considerare che il giudice può, secondo le circostanze, determinare il modo di somministrazione (art. 443 co. 2 c.c.), potendosi così discostare dalla scelta del debitore. In questo senso, la scelta dell’obbligato non dà luogo alla concentrazione, ovvero alla riduzione delle prestazioni a una sola, in quanto le modalità di somministrazione non sono rimesse alla mera volontà del soggetto passivo del rapporto, ma sono sottoposte alla valutazione di opportunità del giudice [19]. Inoltre, il debitore può scegliere di colmare i bisogni dell’indigente con una delle modalità di cui all’art. 443 co. 1 c.c., ma il giudice può individuare anche modi differenti [20]. Anche in presenza di un’intesa tra debitore e creditore sarebbe possibile discostarsi dalle modalità indicate, individuando soluzioni non espressamente previste, o combinando diversi modi di somministrazione [21].
Comunque, la somministrazione in natura ha dei limiti; si è già detto che il giudice può determinare la modalità di somministrazione secondo prudente apprezzamento, in mancanza di scelta del debitore, o discostarsene, anche individuando soluzioni atipiche [22]: in particolare, per soggetti non autosufficienti, incapaci di prendersi cura delle proprie necessità e interessi – ma non ancora sottoposti a misure di protezione – il giudice potrebbe disporre il pagamento diretto della retta della casa di riposo, del canone di locazione, delle utenze, del compenso per l’assistenza prestata [23].
Dalla disciplina degli alimenti, dunque, risulta che le prestazioni di cura ben possono qualificarsi come adempimento in natura di preesistenti obblighi alimentari, beninteso a condizione che tali obblighi sussistano, gravando – in presenza dei predetti presupposti oggettivi – sui soli soggetti indicati dall’art. 433 c.c. Dunque: (i) se taluno è obbligato agli alimenti, e si prende cura dell’avente diritto, le prestazioni di cura eseguite sono dovute a titolo di alimenti, sicché l’arricchimento dell’accipiens è giustificato; (ii) se taluno è obbligato agli alimenti, ma resta inerte, ed è un terzo a prendersi cura dell’avente diritto, allora tali prestazioni sono comunque dovute all’accipiens, senonché il solvens avrà una pretesa restitutoria nei confronti dell’obbligato, per il valore delle prestazioni effettuate, in base della disciplina della gestione d’affari, o della surrogazione legale ex art. 2036 co. 3 c.c., o, in via residuale, dell’arricchimento ingiustificato [24].
Un’altra ragione per cui conviene esattamente delimitare l’ambito degli obblighi alimentari ex lege è l’irripetibilità delle prestazioni indebitamente eseguite, a favore di un familiare, con finalità alimentare[25]. La giurisprudenza ricava questa soluzione dagli artt. 2 e 29 Cost., mentre parte della dottrina ne ravvisa il fondamento nel dovere morale e sociale di sovvenire ai bisognosi[26]. Quest’ultima ricostruzione non pare condivisibile. Infatti, pare preferibile distinguere tra l’adempimento di un’obbligazione naturale – che giustifica l’impoverimento del solvens (quindi esclude tout court la possibilità di questi di agire in restituzione) – e la (mera) irripetibilità (per inesigibilità) delle prestazioni eseguite, che giustifica la soluti retentio da parte dell’accipiens, senza però escludere un’eventuale pretesa restitutoria del solvens contro il terzo obbligato. Infatti, il caso del caregiver che esegue prestazioni alimentari non dovute, ma irripetibili, pare inquadrarsi nella fattispecie di cui all’art. 2036 co. 3 c.c., che prevede la surrogazione legale del solvens nei diritti dell’accipiens, nei casi in cui la ripetizione nei confronti di questi non è ammessa. Questo pare appunto il caso delle prestazioni eseguite con finalità alimentare.
Oltre alla ratio dell’irripetibilità delle prestazioni eseguite con finalità alimentari – di non imporre la restituzione di prestazioni che, verosimilmente, sono state consumate dall’accipiens per la soddisfazione di esigenze vitali – va esaminata anche la natura giuridica di tale irripetibilità. Muovendo dalla sua ratio, dunque, pare preferibile ricostruire l’irripetibilità come una causa personale di inesigibilità della prestazione restitutoria. Infatti, il solvens di una prestazione indebita, eseguita con finalità alimentare, a certe condizioni non potrà chiederne la restituzione all’accipiens, presumendosi che questi abbia consumato la prestazione ricevuta. Tuttavia, pare che il solvens possa agire nei confronti degli eredi dell’accipiens, per ottenere la restituzione della stessa prestazione, se e nei limiti in cui (il valore di) tale prestazione residui nel patrimonio ereditario (cioè nei limiti dell’arricchimento degli eredi). Precisamente, si configura un arricchimento indiretto degli eredi dell’accipiens di prestazioni (soggettivamente) irripetibili, beninteso nel limite in cui esse non siano state consumate. Nella misura in cui hanno conseguito detto arricchimento a titolo gratuito – ad es. perché beneficiari di disposizioni mortis causa, senza oneri, o della vocazione legittima – gli eredi dovranno restituire all’impoverito il valore di tale arricchimento [27]. Pertanto, l’irripetibilità della prestazione alimentare non pare potersi accostare alle figure di cui agli artt. 2034 e 2035 c.c., le quali – nel sancire l’irripetibilità della prestazione eseguita – definitivamente giustificano l’arricchimento di chi tale prestazione riceve (e così anche dei suoi eredi).
A sostegno di questa soluzione può invocarsi il recente intervento delle Sezioni Unite sull’irripetibilità dell’assegno di mantenimento, dovuto in caso di separazione e divorzio. Muovendo dal rilievo che nessuna disposizione di legge sancisce la irripetibilità dell’assegno propriamente alimentare, le Sezioni Unite inquadrano la questione non tanto in termini di restituzione di quanto percepito a titolo alimentare, bensì di restituzione di quanto percepito indebitamente, nella supposizione di un diritto in realtà inesistente. Pertanto, il solvens avrà una pretesa restitutoria – in base al principio della piena ripetibilità delle prestazioni non dovute – la quale però è temperata da ragioni equitative, sulla base dei principi di solidarietà familiare (artt. 2 e 29 Cost.); tuttavia, la deroga vale solo nella misura in cui l’accipiens è esonerato dal restituire quanto effettivamente percepito “per finalità alimentare”, sul presupposto che le somme versate siano state verosimilmente consumate per far fronte alle essenziali necessità della vita [28].
In particolare, le Sezioni Unite hanno stabilito che le somme versate all’ex coniuge a titolo di mantenimento – un diritto di contenuto più ampio di quello agli alimenti – sono pienamente ripetibili, laddove con la sentenza venga escluso in radice e ab origine (e non per fatti sopravvenuti) il presupposto del diritto al mantenimento, per la mancanza dello “stato di bisogno” del richiedente. Per contro, sono irripetibili le prestazioni che risultino indebite all’esito di una rivalutazione delle (sole) condizioni economiche del debitore della prestazione periodica, o all’esito di una rimodulazione della prestazione al ribasso, purché si tratti di somme di modesta entità [29].
Le deroghe ammesse ai principi generali in materia di restituzioni – i.e. alla causalità delle attribuzioni patrimoniali e al divieto di arricchirsi ingiustificatamente a danno altrui – appaiono assai circoscritte. Da ciò potrebbe argomentarsi l’opportunità di un’interpretazione restrittiva anche del carattere irripetibile della prestazione alimentare soggettivamente indebita: se è vero chi alimenta il bisognoso non potrà agire in restituzione nei confronti di questi, è vero anche che, in tal caso – proprio in quanto “la ripetizione non è ammessa” (art. 2036 co. 3 c.c.) – il solvens potrà surrogarsi nei diritti dell’alimentato nei confronti del “vero obbligato”, e così fruire di una forma di restituzione della prestazione indebitamente eseguita. Se così non fosse, comunque, pare configurabile un arricchimento indiretto degli eredi dell’accipiens, obbligati, come si è già detto, nei limiti dell’arricchimento: il solvens di una prestazione “alimentare” indebita comunque godrebbe comunque di una forma di tutela restitutoria.
Ricapitolando, pare di poter affermare – sulla scorta della più recente giurisprudenza – che la restituzione delle prestazioni di cura vada esclusa, se e nella misura in cui tali prestazioni siano state eseguite con finalità alimentare. Ora, in tanto può dirsi che la persona riceva dette prestazioni in finalità alimentare, in quanto questa sia titolare di un diritto agli alimenti, legale o “naturale” (ad es. perché versa in stato di bisogno, ma il credito alimentare non è stato ancora costituito, né ope judicis né per via negoziale). In caso contrario, le prestazioni di cura non potranno considerarsi eseguite con finalità alimentare, sicché non opererà quella deroga ai principi generali sulle restituzioni, che la giurisprudenza ricava dai doveri costituzionali di solidarietà familiare.
È ineludibile, nell’ambito di un’indagine sulla restituzione di prestazioni di cura, la questione se e in che misura sussista un dovere morale e sociale giuridicamente rilevante – ai sensi dell’art. 2034 c.c. – di prendersi cura di una persona cara, specie di un genitore o familiare. Al riguardo, occorre considerare il limite della proporzionalità e adeguatezza della prestazione, che delimita la rilevanza giuridica delle obbligazioni naturali, al fine di escludere la restituzione dell’arricchimento – altrimenti ingiustificato – che consegue all’esecuzione spontanea delle prestazioni, dirette ad adempiere tali doveri. Infatti, la prestazione eseguita in adempimento di un dovere morale-sociale è irripetibile se sussistono (i) il dovere morale-sociale, (ii) la spontaneità dell’adempimento (intesa come assenza di coercizione), (iii) la capacità del solvens, nonché (iv) la proporzionalità e adeguatezza della prestazione eseguita[30]. A questo proposito – posta la distinzione tra doveri suscettibili di adempimento mediante prestazioni a contenuto determinato (e.g. debito derivante da giuoco), e doveri ad adempimento libero – si esclude che il dovere morale possa giustificare qualsiasi prestazione, né qualsiasi ammontare della prestazione[31]. Infatti, ancorché l’art. 2034 c.c. non faccia riferimento ad alcun parametro né qualitativo né quantitativo, si ritiene necessario il rispetto di un ulteriore requisito implicito, cioè la proporzionalità della prestazione rispetto al dovere. Infatti, il contenuto del dovere morale vale altresì a determinare la misura della prestazione volta ad adempierlo: esso contiene in sé un criterio quantitativo, seppur con carattere di relatività, e determina così la misura della prestazione [32].
Il dovere morale viene in considerazione non già in astratto, ma con riguardo alle specifiche circostanze e alla relazione esistente tra debitore e creditore “naturali”; oltre al contenuto del dovere in sé, dunque, occorre tenere conto delle condizioni patrimoniali di colui che presta, nonché – con riguardo a specifici doveri destinati a protrarsi nel tempo, quale può essere il dovere di contribuzione e di assistenza – dell’arco temporale di sussistenza del dovere. Sotto il profilo dei contenuti, dunque, il dovere morale è idoneo a determinare la misura della prestazione [33]. Il limite della proporzionalità trova un riscontro positivo nel diritto della crisi d’impresa [34].
L’adeguatezza della prestazione rispetto al contenuto del dovere può essere valutata solo dopo aver verificato l’esistenza di un dovere morale nascente da particolari circostanze, giustificato da particolari relazioni fra determinati soggetti – che presenta concretezza e intensità tale da porre il “debitore naturale” in uno stato di coazione, ancorché morale – sicché, data l’esistenza di doveri morali e accertata la sproporzione, si pone il problema di qualificazione dell’eccedenza in termini di liberalità [35]. Al riguardo, una prima tesi ritiene che, in questi casi, l’intera prestazione sia ripetibile, in quanto la causa liberale prevale rispetto all’obbligazione naturale, mutando la qualificazione della fattispecie [36], mentre una seconda tesi distingue tra quella parte di prestazione che è irripetibile ai sensi dell’art. 2034 c.c., e quella parte della prestazione, eccedente i limiti dell’obbligazione naturale, che – in mancanza di causa – diventa ripetibile [37].
Per quanto riguarda il problema che ora chi occupa – la mancanza di giusta causa dell’arricchimento conseguente all’esecuzione della prestazione di cura – può osservarsi quanto segue. Se l’esecuzione delle prestazioni di cura fosse qualificabile come atto negoziale che realizza il “mero” adempimento dell’obbligazione naturale – come ipotesi ammessa di prestazione isolata [38] – allora dovrebbe distinguersi, a livello quantitativo, tra quella parte della prestazione ch’è giustificata ex art. 2034 c.c., e quella parte ch’è ingiustificata. Se, invece, come pare preferibile, l’esecuzione delle prestazioni di cura si qualifichi come adempimento di un’obbligazione contrattuale – prevista da un contratto di donazione obbligatoria, concluso dal caregiver con l’interessato – allora l’intera prestazione contrattuale pare doversi assoggettare al regime delle restituzioni conseguenti alla nullità del contratto (art. 1422 c.c.). Peraltro, ciò consente di evitare le difficoltà legate alla delimitazione della misura entro cui la prestazione effettivamente prestata fosse da imputare all’adempimento di un’obbligazione naturale, e la parte eccedente tale misura.
Resta comunque da affrontare la difficile questione, di stabilire quando la cura di una persona vulnerabile, da parte di un caregiver legato da rapporti familiari o amicali, possa considerarsi eccedente i requisiti di proporzionalità e adeguatezza, quindi fonte di obbligazioni restitutorie. Il tema è stato oggetto di un’attenta elaborazione da parte della giurisprudenza francese [39], che ha sviluppato la nozione di dépassement de l’obligation naturelle, proprio al fine di distinguere – a livello quantitativo – tra quelle prestazioni di cura che rientrano nell’adempimento di obbligazione naturale, e quelle prestazioni di cura che superano l’obbligazione naturale, qualificabile perciò come (indebita, quindi) fonte di arricchimento ingiustificato [40].
Già negli anni Novanta del secolo scorso, infatti, la Cour de cassation affermava che il figlio che si abbia assistito i genitori al di là di quanto richiesto dalla piété familiale – operando un dévouement total ad essi – ha diritto ad un indennità a carico del patrimonio ereditario, in quanto le prestazioni liberamente fornite hanno realizzato un impoverimento per il figlio e un correlativo arricchimento dei genitori [41]. Per accordare l’indennità di arricchimento ingiustificato si richiede la prova di: (i) un impoverimento del figlio; (ii) un correlato arricchimento del genitore; (iii) assistenza prestata dal figlio al genitore, in eccedenza all’adempimento del dovere morale e familiare di assistenza. Per valutare il dépassement, si fa ricorso ai criteri del: (a) sacrificio professionale sopportato dal figlio; (b) ampiezza dell’assistenza prestata; (c) inerzia di altri membri della famiglia.
Secondo i giudici francesi, l’assistenza prestata in mancanza di una precedente obbligazione si qualifica generalmente quale adempimento di un’obbligazione naturale, in mancanza di un’obbligazione alimentare tra collaterali, o tra discendenti e ascendenti: dunque, l’arricchimento conseguente ad un élan de solidarité non può essere indennizzato, perché è giustificato dalla preesistenza di un’obbligazione naturale. È stata però introdotta una distinzione, con riferimento alla proporzionalità: “[l]e devoir moral d’un enfant envers ses parents n’exclut pas que l’enfant puisse obtenir indemnité pour l’aide et l’assistance apportées dans la mesure où, ayant excédé les exigences de la piété familiale, les prestation librement fournies avaint réalisé à la fois un appauvrissement pour l’enfant et un enrichissement corrélatif des parents” [42].
L’individuazione di una soglia al di là della quale l’arricchimento è ingiustificato ha permesso di ammettere l’azione di arricchimento in ambito familiare, nonostante l’esistenza di obbligazioni naturali [43]. A sostegno di questa distinzione, si è osservato che così s’incoraggiano i comportamenti virtuosi all’interno della famiglia: quando i genitori anziani o malati ricevono aiuto pecuniario e assistenza da uno solo dei loro figli, la prestazione di cure finisce per arricchire gli altri eredi. Si afferma che questi ultimi non dovrebbero essere premiati per la loro inerzia, sicché si accorda il diritto ad un indennizzo nei confronti della successione all’impoverito, che ha eseguito una prestazione che ecceda la misura dell’obbligazione naturale, di cui pure è gravato [44].
In altri termini, l’arricchimento è ingiustificato allorché le cure prestate eccedono la soglia dell’esecuzione normale dell’obbligazione naturale, che si configura se l’impoverito ha fatto dévouement total ai genitori. Per contro, se il dévouement del figlio è solo parziale, allora le prestazioni di cura rientrano nell’adempimento dell’obbligazione naturale. Si pone perciò la questione in quali circostanze l’aiuto prestato costituisca dedizione totale. Per ravvisare il superamento della misura comune della piété familiale, i giudici si fondano su criteri già richiamati, tra loro alternativi: (i) il sacrificio della vita professionale; (ii) l’ampiezza dell’aiuto prestato; (iii) l’inerzia degli altri familiari.
Il primo criterio qualifica la dedizione come totale nei casi in cui l’impoverito abbia sacrificato la sua vita professionale per prestare aiuto a un familiare. Questo criterio è stato enunciato con il già citato arrêt del 1994: in quel caso, un figlio chiedeva un’indennità da arricchimento ingiustificato per il tempo consacrato ai suoi genitori. I giudici ravvisavano l’ingiustificatezza dell’arricchimento in ragione del superamento della piété filiale, cioè la affection déférente et respectueuse pour ses parents. Ora, l’aiuto prestato costituiva un reale sacrificio per il figlio, nella misura in cui questi aveva abbandonato ogni ambizione professionale per dedicarsi interamente ai genitori. Se ci si può aspettare da un figlio che presti assistenza ai genitori, un simile sacrificio della vita professionale non è esigibile; parimenti è considerato inesigibile il pensionamento anticipato [45]. Per contro – secondo la giurisprudenza francese – le cure prestate da un disoccupato non realizzano il dépassement dell’obbligazione naturale, perché lo stato di disoccupazione esclude il sacrificio della vita lavorativa [46]. Quest’ultima soluzione non pare compatibile con la disciplina italiana dell’azione di arricchimento, che consente di indennizzare non solo la “diminuzione patrimoniale” in senso stretto, ma anche le energie, la fatica, il tempo, impiegati per eseguire la prestazione di fare [47].
Il secondo dei criteri sopra menzionati qualifica la dedizione come totale allorché l’aiuto prestato rivesta una certa ampiezza; per contro, l’esecuzione di prestazioni di cura si qualifica come adempimento di un’obbligazione naturale se esse hanno scarsa entità. Si considerano superati i requisiti di proporzionalità e adeguatezza dell’adempimento di obbligazione naturale solo con riferimento ad una prestazione di aiuto indispensabile, fatta in modo continuativo, ad esempio quando l’aiuto consenta di evitare le alternative – altrimenti necessarie – dell’impiego di assumere una terza persona per accudire chi ne ha bisogno, o del suo ricovero in casa di riposo [48]. Al contrario, si qualifica come adempimento di un’obbligazione naturale l’aiuto di scarsa importanza, prestato a un parente in modo puntuale (anziché continuo); anche il ricorso alle cure professionali di un’altra persona rende le prestazioni di cura “non eccedenti” i limiti dell’obbligazione naturale [49].
Il terzo dei criteri, infine, valorizza l’inazione degli altri membri della famiglia: si ravvisa il dépassement de l’obligation naturelle allorché un solo figlio fornisca assistenza ai genitori, ad esclusione dei fratelli. Questa soluzione permette di evitare che gli altri figli – in qualità di eredi – siano ricompensati per la loro inerzia. Ad esempio, si è accordato l’indennizzo ad una figlia che aveva consacrato molti anni ad occuparsi della madre, “à la différence d’ailleurs des autres enfants de la défunte, dont aucun ... ni allègue, ni ne justifie, avoir accompli quelque obligation naturelle que ce soit, est bien fondée à demander que lui soit, à ce titre, reconnue une créance sur l’indivision” [50]. Per contro, si esclude il dépassement de l’obligation naturelle rispetto alle prestazioni di cura eseguite da ciascuno dei fratelli e sorelle in modo collaborativo [51].
Si sono evidenziate le criticità di una possibile qualificazione della prestazione di assistenza come animata da uno spirito di liberalità. Resta ora da vedere se la prestazione di cura possa considerarsi sorretta da una causa diversa da quella liberale, vale a dire una causa di solidarietà, che opera come causa di giustificazione delle attribuzioni patrimoniali autonoma, ancorché parzialmente sovrapponibile, rispetto a quella di liberalità[52].
Ai fini della ricostruzione della disciplina dell’azione di arricchimento senza causa, la solidarietà già rileva come ratio fondamentale dell’imposizione, in capo all’arricchito, dell’obbligazione di restituire all’impoverito (per equivalente, o in natura, nell’ipotesi ex art. 2041 co. 2 c.c.) l’arricchimento conseguito a danno di quest’ultimo, che non trovi fondamento in una delle cause ammesse dall’ordinamento come giustificazione degli spostamenti di ricchezza [53]. Una di queste cause – che agisce, per così dire, in senso contrario rispetto alla ratio solidaristica dell’obbligazione restitutoria ex art. 2041 c.c. – è proprio l’adempimento di uno di quei doveri inderogabili di solidarietà sociale imposti dalla Costituzione a tutti i consociati (art. 2 Cost.).
La puntuale individuazione delle ipotesi in cui la prestazione può qualificarsi come adempimento dei doveri di solidarietà predetti – che ne giustificano l’esecuzione, e il conseguente spostamento di ricchezza, ai sensi dell’art. 2041 c.c. – va operata alla luce del diritto positivo vigente. Può osservarsi che – a livello di fonti primarie – la causa di solidarietà trova il suo ambito di applicazione elettivo nel volontariato, in particolare associativo. Si ricava dal riconoscimento della solidarietà sociale nelle fonti costituzionali (artt. 2 e 18 Cost.) e ordinarie (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, recante il Codice del Terzo settore) l’esistenza di una categoria negoziale tipica sorretta da una autonoma causa di attribuzione, cioè la “causa di solidarietà”, come distinta da quella di liberalità. Dall’irriducibilità della solidarietà alla liberalità si ricava che alla prima non si applica la disciplina della seconda, in particolare quella della donazione, il cui ambito di applicazione esce così ridimensionato [54].
La legislazione di settore disciplina non tanto l’attività di volontariato su base individuale (c.d. autonomo), quanto quella su base associativa. La previgente legge-quadro 11 agosto 1991, n. 266 si riferiva espressamente ai soli volontari che agiscono per il tramite di organizzazioni [55], mentre la figura del volontario non associato emerge in pochi casi espressamente disciplinati [56]: si constatava perciò la difficoltà di distinguere, in assenza di una disposizione di legge, fra l’attività di volontariato individuale ed altre forme di attività, negoziale o amichevole, che il singolo svolge a titolo gratuito. Se ne ricavava che, non potendo il singolo volontario realizzare da solo una causa negoziale di solidarietà, propria invece dell’attività organizzata, gli atti posti in essere dovessero qualificarsi secondo i tradizionali parametri della donazione oppure, ricorrendone i presupposti, dell’atto di cortesia giuridicamente non vincolante [57]. Con l’entrata in vigore del Codice del Terzo settore [58], si ammette che il volontario possa operare anche su base individuale [59].
Tuttavia, la astrattamente possibile qualificazione del lavoro del caregiver come “volontariato autonomo” – qualora si accolga tale figura [60] – non pare idonea a fornire di una causa l’esecuzione volontaria della prestazione, altrimenti non dovuta, dato che la causa di solidarietà rileva nella stessa misura in cui rilevano i doveri morali e sociali (art. 2034 c.c.), cioè nei predetti limiti di proporzionalità e adeguatezza [61].
In altri termini, anche se l’esecuzione di prestazioni di assistenza si qualificano come adempimento di doveri di solidarietà sociale, vale il seguente principio, già riferito alle obbligazioni naturali: in tanto l’arricchimento derivante dall’esecuzione della prestazione potrà dirsi sorretto da una giusta causa (adempimento di doveri morali-sociali, o anche di solidarietà), in quanto la prestazione eseguita sia proporzionata al patrimonio del disponente (anche inteso in termini di energie e capacità lavorative), e adeguata al bisogno dell’avente diritto.
Ne consegue che la prestazione di assistenza eseguita dal caregiver in una misura sproporzionata rispetto al suo patrimonio e, soprattutto, alle sue capacità ed energie lavorative – qual è senza dubbio l’ipotesi estrema della cura di una persona non autosufficiente, prestata continuativamente (24/7), per un periodo che può durare anni – giammai potrà considerarsi giustificata, ai sensi dell’art. 2041 c.c., né della causa di solidarietà, né dall’adempimento di un’obbligazione naturale, che certo non impongono una simile abnegazione [62].
Resta da esaminare l’ipotesi in cui il caregiver “scientemente” – consapevole di non esservi obbligato – abbia iniziato prendersi cura di una persona totalmente incapace di provvedervi. La disciplina positiva della gestione d’affari prevede l’obbligo del gestore di continuare la gestione intrapresa (art. 2028 co. 1 c.c.), sicché il caregiver gestore d’affari presta le sue cure in adempimento di un obbligo legale, e ciò esclude che l’arricchimento della persona accudita possa dirsi ingiustificato.
Tuttavia – pur a fronte dell’espresso richiamo alle sole obbligazioni del mandatario, cui soggiace il gestore (art. 2030 c.c.), ad esclusione delle obbligazioni del mandante – sembra possibile affermare l’applicabilità, per analogia, della norma che sancisce l’onerosità del mandato, qualora ciò risulti dalle circostanze, con la conseguenza che il “mandante” (recte la persona accudita) sarà obbligato, a titolo quasi-contrattuale, a pagare un compenso al gestore d’affari per le prestazioni rese in modo sostanzialmente professionale. Questa soluzione – avversata dall’opinione prevalente [63] – trova tuttavia il sostegno di diversi argomenti in suo favore.
In primo luogo, non è vero che l’attribuzione di un corrispettivo al gestore snaturerebbe il significato solidaristico dell’istituto [64], per ciò, che – secondo l’opinione che appare preferibile [65] – la ratio della gestione d’affari non è esclusivamente solidaristica, ma comprende anche il suum cuique tribuere, cioè l’esigenza di attribuire all’interessato le utilità che gli spettano: in questo senso, si è evidenziato che l’istituto si atteggia a rimedio, a tutela dell’interessato, anche contro le gestioni “egoistiche” [66].
Al riguardo, si è rilevato che l’applicazione analogica della disciplina del mandato anche al gestore d’affari non importa necessariamente il diritto di questi al compenso; infatti, l’onerosità costituisce una caratteristica naturale del mandato, ma non necessaria; l’onerosità perciò può essere esclusa, oltre che dalla volontà delle parti, da circostanze di fatto, come la qualità personale del mandatario e le relazioni tra questi e il mandante [67]. Pertanto, si ritiene che la prestazione del gestore di affari altrui dovrà generalmente considerarsi gratuita, per essere eseguita senza preventiva richiesta dell’interessato (ed eventualmente determinata pure da intenti altruistici), ma dovrà accogliersi la soluzione opposta quando si tratti di una prestazione di natura professionale [68]. Si osserva che, secondo il comune intendimento, la prestazione lavorativa sostanzialmente professionale non può ritenersi eseguita gratuitamente, ma dovrà ritenersi eseguita a titolo oneroso, con conseguente diritto al compenso, come peraltro è già previsto in altri ordinamenti [69].
Questa soluzione trova un forse inaspettato addentellato normativo nell’art. 66-quinquies cod. cons., che esonera il consumatore dall’obbligo di eseguire qualsiasi prestazione corrispettiva in caso di fornitura non richiesta di prestazioni non richieste da parte del professionista. Sebbene la norma si limiti ad escludere (implicitamente) la tutela restitutoria del professionista che ha eseguito prestazioni non richieste [70], non pare peregrino affermare che – introducendo tale disposizione – il legislatore abbia dettato altresì un criterio idoneo ad orientare l’interpretazione sistematica di disposizioni diverse, applicabili alla materia delle restituzioni nei rapporti di consumo.
In particolare, potrebbe ricavarsi dall’art. 66-quinquies cod. cons. l’esclusione del diritto del professionista, come definito dall’art. 3 lett. c) cod. cons., a vedersi attribuito (in funzione restitutoria) un compenso per l’attività compiuta nell’ambito della gestione d’affari. Il carattere “non richiesto” di tale attività – specie se si considera la disciplina della gestione d’affari (anche) come presidio contro gestioni “egoistiche” – appare difficilmente contestabile. Se ne potrebbe ulteriormente ricavare, a contrario, che il diritto al compenso dovrà essere riconosciuto – in applicazione analogica dell’art. 1709 c.c. – a quel gestore d’affari che non sia qualificabile come professionista, ai sensi del codice del consumo, il quale – nondimeno – abbia eseguito prestazioni di carattere sostanzialmente e oggettivamente professionale. Questo pare il caso del caregiver.
Va rilevato come questa soluzione si presti ad evitare irragionevoli disparità di trattamento rispetto al caregiver non gestore d’affari, il quale ha diritto alla restituzione per equivalente del valore delle prestazioni di cura indebitamente eseguite; mentre un tale diritto non spetta al caregiver gestore d’affari, ch’è obbligato di continuare a prendersi cura della persona, a tutela di questa (art. 2028 co. 1 c.c.). Tuttavia, non vi sono ragioni – come emerge dal confronto con l’ipotesi del caregiver non gestore – per cui il caregiver gestore debba sopportare definitivamente anche il peso economico dell’attività eseguita, né in senso contrario pare potersi invocare la pretesa ratio solidaristica dell’istituto.
In particolare, potrà agire in arricchimento il caregiver che abbia gerito un affare in mancanza di taluno dei presupposti della negotiorum gestio – come, ad esempio, la consapevolezza del gestore di curare un interesse altrui [71]. Se, da una parte, tale azione non consente il ristoro del lucro cessante, è d’altra parte possibile ottenere, per il tramite di tale azione, la restituzione del valore della prestazione di fare indebitamente eseguita (energie mentali e fisiche, tempo, fatica). Questo stesso risultato deve ritenersi possibile, in caso di gestione di affari, accordando al caregiver gestore d’affari non già un’indennità da arricchimento – che esegue prestazioni di cura dovute in adempimento di un obbligo ex lege di continuare la gestione, sicché il conseguentemente arricchimento è giustificato – bensì in applicazione analogica della previsione dell’obbligo del mandante di pagare un compenso, la cui misura potrà essere pari alla restituzione delle prestazioni di cura eseguite, ad esclusione del lucro cessante.
L’altra ipotesi in cui è data al caregiver un’azione negotiorum gestorum contraria (art. 2031 c.c.) per ottenere la restituzione (dell’intero valore) della prestazione eseguita è quella dell’adempimento dell’obbligo alimentare altrui. L’ambito di applicazione di questa disciplina dipende, evidentemente, dalla sussistenza dell’obbligazione alimentare in capo al “vero obbligato”, nei confronti del quale il caregiver avanzerebbe delle pretese restitutorie. La giurisprudenza qualifica la fattispecie anzidetta appunto come gestione di affari altrui, concedendo al “terzo adempiente” azione restitutoria anche in caso di opposizione dell’obbligato, inefficace perché contraria al buon costume (art. 2031 co. 2 c.c.). Si ritiene che a questa soluzione non osti la disciplina della decorrenza dell’obbligo alimentare (art. 445 c.c.), la quale troverebbe applicazione solo nei rapporti tra l’obbligato e l’avente diritto, non anche ai rapporti tra l’obbligato e il c.d. terzo adempiente[72].
A ben vedere, tuttavia, tale soluzione sembra trovare un ostacolo insormontabile nella natura costitutiva della sentenza che condanna l’obbligato a prestare gli alimenti [73]. Infatti, se il diritto di credito dell’alimentando si costituisce per effetto (dell’esercizio del suo diritto potestativo, con la proposizione della domanda in giudizio, quindi) della sentenza costitutiva, in mancanza di tale iniziativa dell’alimentando non vi è alcun corrispondente obbligo in capo a chi astrattamente sarebbe tenuto a prestare gli alimenti, nell’ordine indicato. Ne consegue che non vi sarà alcun “vero obbligato” contro cui il solvens della prestazione alimentare (indebita) possa agire in regresso, ad alcun titolo.
In particolare, l’art. 445 c.c. disciplina il termine di decorrenza degli alimenti, retroattivamente, dalla domanda giudiziale o dalla costituzione in mora seguita dalla domanda (entro sei mesi). Ci si chiede se la sentenza abbia efficacia costitutiva del diritto dell’alimentando [74], ovvero se il diritto preesista, e la sentenza si limiti alla liquidazione dell’obbligazione alimentare e alla condanna al pagamento [75].
La dottrina più recente è incline a riconoscere la natura costitutiva della sentenza. L’opposta ricostruzione argomentava la preesistenza dell’obbligazione alimentare in base al richiamo testuale alla costituzione in mora, che, di regola, presuppone l’esistenza di un vincolo obbligatorio. In contrario, si obietta che – se così fosse – non si spiegherebbe la previsione che condiziona l’attualità del diritto alla successiva domanda giudiziale entro sei mesi: se il diritto esiste, ed è necessaria la volontà dell’alimentando solo per pretendere l’adempimento, allora la costituzione in mora dovrebbe mantenere comunque il suo effetto, indipendentemente dal tempo in cui il diritto venga poi azionato in giudizio [76].
Per queste ragioni si esclude che l’art. 445 c.c. individui direttamente la fonte del credito alimentare; piuttosto, la disposizione disciplina il diverso e più semplice problema della decorrenza dei pagamenti [77], ma presuppone pur sempre che il diritto sorga con la sentenza costitutiva; gli atti indicati, infatti, hanno lo scopo di segnare il limite temporale di retroattività del provvedimento giudiziale, e a ciò non osta la previsione della retroattività. Infatti, la presenza di un’adeguata ratio può indurre il legislatore a riportare l’efficacia di un provvedimento costitutivo anche ad un momento anteriore all’esercizio dell’azione: ed è così anche per l’esigenza di non far gravare sull’attore bisognoso (che richiede gli alimenti) il pregiudizio economico derivante dalla durata del processo [78].
Ancora, la natura costitutiva della sentenza non contrasta con la qualifica della situazione giuridica dell’alimentando – prima della domanda giudiziale – in termini di diritto potestativo. Così come il proprietario che ha diritto alla costituzione di un diritto reale di servitù (coattiva), anche l’alimentando ha diritto alla costituzione (negoziale, ovvero ope judicis) di un diritto di credito (agli alimenti), sicché l’effetto giuridico si rannoda ad una fattispecie complessa di cui sono elementi costitutivi, oltre il fatto e l’esercizio del potere, anche il previo accertamento giudiziale dell’esistenza dei fatti [79].
Ora, potrebbe obiettarsi che chi ha eseguito una prestazione non dovuta – e così ha prodotto un arricchimento ingiustificato (nel senso di cui all’art. 2041 c.c.) – non abbia alcuna pretesa restitutoria nei confronti di chi è indicato dalla legge come obbligato da un dovere di solidarietà familiare (art. 2 Cost., art. 433 s. c.c.). Tuttavia, emerge dal diritto positivo che la persona bisognosa ha il diritto potestativo di ottenere la costituzione del suo diritto di credito (alimentare) nei confronti di chi vi sarà tenuto (secondo lo stesso schema del proprietario del fondo intercluso). Tale ricostruzione concettuale rivela una valutazione della preminenza dell’interesse della persona bisognosa, alla cui volontà è rimessa la costituzione di un’obbligazione alimentare in capo ai suoi familiari (o al donatario). Si affida cioè alla volontà della persona l’an dell’obbligo a carico dei suoi familiari: sia l’obbligo di alimentarla, sia l’obbligo di rimborsare il terzo che l’ha alimentata senza esservi tenuto (anche mediante esecuzione di prestazioni di cura).
Per quanto si è detto, le restituzioni dovranno ritenersi regolate come segue.
Il terzo che abbia prestato gli alimenti indebitamente avrà diritto alla restituzione ex art. 2033 c.c. nei confronti dell’alimentato, con riferimento alle prestazioni eseguite prima della domanda proposta dall’avente diritto contro il solvens o alla sua costituzione in mora (anche per quelle eseguite successivamente, se la domanda è rigettata o l’attore rinuncia all’azione). Il diritto del solvens incontra il doppio limite dell’adempimento dell’obbligazione naturale eventualmente sussistente (ad es. per prestazioni di cura saltuarie) e – in astratto – dell’irripetibilità delle prestazioni eseguite in funzione alimentare, senonché – in concreto – l’indebito oggettivo riguarda i casi in cui l’alimentato non ha diritto agli alimenti per difetto dei presupposti oggettivi, sicché la prestazione eseguita risulterà sempre priva di finalità alimentare [80].
Se invece l’alimentando propone vittoriosamente la domanda giudiziale contro un terzo, allora il solvens delle prestazioni alimentari indebite avrà diritto alla restituzione – oltre che delle prestazioni eseguite prima della domanda, nei confronti dell’accipiens (art. 2033 c.c.) – anche di quelle eseguite dopo la domanda (o dopo la costituzione in mora seguita dalla domanda), sempre nei confronti dell’accipiens, se ha pagato credendosi debitore per errore scusabile (art. 2036 co. 1 c.c.), e sennò nei confronti del terzo obbligato agli alimenti, invocando la surrogazione legale nei diritti dell’alimentando (art. 2036 co. 3 c.c.). Come si è già detto, la surrogazione deve ritenersi operare anche a favore del solvens che abbia pagato credendosi debitore per errore scusabile, e non possa ottenere la restituzione direttamente dall’accipiens di prestazioni irripetibili, in quanto egli versa in stato di bisogno, e ha ricevuto (e utilizzato) le prestazioni con finalità alimentare [81].
Ancora, il solvens surrogato nei diritti dell’alimentato potrà esercitare – in via surrogatoria (art. 2900 c.c.) – il diritto di credito dell’alimentato nei confronti dell’obbligato per le prestazioni arretrate: posto che l’alimentando ha già agito contro il “vero obbligato” (e ha così ottenuto la costituzione del diritto agli alimenti), tale azione sarà ammissibile, perché riguarda non già il diritto agli alimenti, strettamente personale, bensì il diritto di credito alle prestazioni scadute, ch’è disponibile [82]. Per contro, va escluso che il solvens possa agire in surrogatoria contro il “vero obbligato”, verso il quale l’avente diritto non abbia esercitato il suo diritto potestativo, con la domanda giudiziale o la costituzione in mora. Ciò in ragione del carattere personale del diritto agli alimenti (art. 2900 c.c.), ma anche perché in questo caso non opera nemmeno la surrogazione legale (art. 2036 co. 3 c.c.): il “vero obbligato” non è ancora tale (lo diventa per effetto della sentenza costitutiva), e – posto che ancora non vi è un debitore – non vi è alcun indebito soggettivo, ma solo un indebito oggettivo (regolato dall’art. 2033 c.c.).
Inoltre, si esclude che il solvens possa farsi surrogare direttamente dall’alimentato nei suoi diritti, ai sensi dell’art. 1201 c.c., perché – al momento del pagamento – egli non è ancora creditore del nuovo obbligato, essendo per ciò necessaria la sentenza, che potrebbe rigettare la domanda dell’alimentando (o anche non essere mai pronunciata, se l’attore rinunziasse all’azione) [83].
In senso contrario alla configurabilità di una gestione di affari, poi, si è affermato che mancherebbe uno dei presupposti dell’istituto – l’utilitas della gestione – che non potrebbe ravvisarsi nel risparmio del risarcimento del danno per il ritardo, da parte dell’obbligato, in quanto la natura costitutiva del provvedimento giudiziale esclude qualsiasi responsabilità per il “mancato” adempimento delle prestazioni, anche se maturate dopo la domanda o la costituzione in mora [84].
Infine, si è affermato che il terzo adempiente potrebbe agire in arricchimento – essendo già costituita l’obbligazione alimentare ope judicis, ai sensi dell’art. 445 c.c. – nei confronti dell’obbligato che non avesse ancora eseguito la prestazione. L’arricchimento in tal caso prende la forma di risparmio di spesa. Il solvens potrebbe agire anche contro l’alimentato, il quale avesse ricevuto (due volte) la prestazione alimentare, non solo dal terzo adempiente, ma anche dal vero obbligato. Al riguardo, si è osservato che l’applicabilità dell’art. 2041 c.c. dipende dall’estensione della nozione di sussidiarietà [85]. Dunque, va rilevato quanto segue. L’azione di arricchimento non può esercitarsi in alternativa ad un altro rimedio restitutorio qual è la ripetizione dell’indebito, sicché il solvens di una somma di denaro soggettivamente indebita (perché l’obbligazione alimentare era già sorta in capo ad un terzo) potrà chiederne la restituzione solo ai sensi dell’art. 2036 c.c., non anche dell’art. 2041 c.c. Piuttosto l’esperibilità dell’azione di arricchimento va valutata con riferimento all’oggetto della prestazione restituenda, sicché non potrà agire in arricchimento il solvens di una prestazione di dare (la cui restituzione è regolata dagli artt. 2033 s. c.c.), ma potrà agire il solvens di una prestazione di fare, la cui restituzione si ritiene regolata dall’art. 2041 c.c.
Per concludere sul punto, il solvens di prestazioni di cura – le quali, sussistendone il diritto in capo all’accipiens bisognoso incapace di provvedervi, sono eseguite con finalità alimentare, in quanto tali irripetibili nei confronti dell’accipiens – potrà esperire (non l’azione negotiorum gestorum contraria, come afferma la giurisprudenza, bensì) le ordinarie azioni di ripetizione dell’indebito: (i) per le prestazioni eseguite prima della data da cui decorrono gli alimenti ex art. 445 c.c., si configura un indebito oggettivo, con diritto del solvens alla restituzione, nei confronti dell’accipiens (art. 2033 c.c.); (ii) per le prestazioni eseguite dopo la data da cui decorrono gli alimenti dovuti da un terzo, si configura un indebito soggettivo, con diritto del solvens alla restituzione nei confronti dell’accipiens, se ha pagato credendosi debitore per errore scusabile (art. 2036 co. 1); (iii) per la restituzione delle stesse prestazioni – dovute da un terzo, ma eseguite dal solvens credendosi debitore per errore inescusabile (o anche per errore scusabile, se sono irripetibili perché eseguite con finalità alimentare) – il solvens potrà surrogarsi nei diritti dell’accipiens nei confronti dell’obbligato, e ottenere ristoro a tale titolo (art. 2036 co. 3).
Infine, qualora il solvens abbia somministrato in natura gli alimenti non dovuti (abbia cioè eseguito delle prestazioni di cura, non essendovi obbligato), il diritto alla restituzione sarà regolato non dagli artt. 2033 e 2036 c.c., bensì nell’art. 2041 c.c., con la precisazione – come pare preferibile, dal punto di vista sistematico – che il solvens avrà diritto alla restituzione per equivalente, nei confronti dell’accipiens, solo nei casi di indebito oggettivo e – sussistendo il requisito dell’errore scusabile – anche di indebito soggettivo (salva in questo caso l’irripetibilità delle prestazioni eseguite con finalità alimentare, di cui si è detto); per contro, il solvens di prestazioni di fare avrà una pretesa verso l’obbligato, surrogandosi nei diritti del debitore nei suoi confronti, ai sensi dell’art. 2036 co. 3, ogni volta che la prestazione sia stata eseguita indebitamente del solvens, credendosi debitore per errore inescusabile, ovvero sia stata eseguita per errore scusabile, ma la prestazione poi risulti irripetibile perché eseguita con finalità alimentare [86].
Da ultimo, può essere utile – in una prospettiva applicativa – esaminare brevemente gli strumenti fruibili all’autonomia privata della persona che riceve cure gratuite, in funzione di attuazione del rapporto obbligatorio sorto ex lege con il caregiver, in conseguenza dell’acceptio di prestazioni di cura non dovute, eseguite da quest’ultimo.
Infatti, non pare fruttuoso limitarsi a rilevare che la fonte dell’obbligazione restitutoria è il fatto idoneo a produrla secondo l’ordinamento giuridico (art. 1173 c.c.), cioè l’oggettiva esecuzione delle prestazioni di cura non dovute (art. 2041 c.c.). Infatti, quest’obbligazione prevede (i) l’esecuzione di una prestazione di dare una somma di denaro; (ii) preliminarmente, la determinazione dell’ammontare della somma dovuta, tutt’altro che agevole; nonché, eventualmente, (iii) la prova in giudizio dell’esistenza dei fatti costitutivi dell’obbligazione; e (iv) l’eventuale interruzione della prescrizione del diritto per inerzia del titolare, per un periodo di dieci anni dal momento in cui il diritto sorge, cioè – nel caso di un rapporto di durata – di attimo in attimo.
Assumono perciò rilievo, ai fini dell’attuazione di tale rapporto obbligatorio, alcuni atti unilaterali che il debitore può compiere nell’ambito della sua autonomia privata: (i) la promessa di pagamento o il riconoscimento di debito (in particolare titolato, con la confessione dei fatti costitutivi dell’obbligazione); (ii) la rinuncia alla prescrizione già maturata (che è anche un effetto legale del riconoscimento del diritto, ex art. 2944 c.c.); (iii) il c.d. legato di debito, puro ovvero in solutum. Questi atti possono essere compiuti dal debitore inter vivos, con efficacia immediata, ovvero come atti di ultima volontà, destinati ad assumere giuridica rilevanza solo post mortem, in modo tale da agevolare l’esecuzione del rapporto obbligatorio – i.e. la riscossione del credito – da parte del caregiver, nei confronti (non della persona assistita, bensì) dei suoi eredi dopo la morte.
Un’ipotesi di atto di ultima volontà[87], al quale potrebbe fare ricorso la persona interessata per assicurare al caregiver una migliore soddisfazione del suo diritto, è il riconoscimento di debito post mortem[88]. Tale atto potrebbe essere posto in essere dal debitore anche inter vivos; tuttavia, il debitore potrebbe avere l’interesse a che gli effetti del riconoscimento di debito (i.e. l’inversione dell’onere della prova quanto all’esistenza del rapporto fondamentale, ex art. 1988 c.c.; l’interruzione della prescrizione ex art. 2944 c.c.) non si producano nei suoi confronti, fintantoché è in vita, ma solo dopo la sua morte, nei confronti dei suoi eredi, o degli eventuali legatari onerati del pagamento del debito.
L’interesse del debitore ad esercitare in questo senso la sua autonomia privata è ritenuto senz’altro meritevole di tutela giuridica [89]. Ciò emerge, in primo luogo, dall’analisi degli effetti giuridici: il riconoscimento di debito ha natura negoziale – non di mero atto giuridico [90] – sicché è consentito al suo autore di predeterminarne gli effetti giuridici (così non sarebbe, se si trattasse di un mero atto giuridico): in particolare, vi potrà apporre un termine, che coincida con la morte del debitore, ovvero una condizione sospensiva (come la condizione di premorienza del debitore rispetto al creditore).
Dunque, se è consentito fare un riconoscimento di debito inter vivos sotto la modalità (i.e. sotto condizione o sotto termine) della morte del debitore (prima della quale l’atto è inefficace), allora dovrebbe essere consentito anche fare lo stesso riconoscimento post mortem, come atto di ultima volontà, nel senso che esso acquista la sua rilevanza giuridica con la morte dell’autore (prima della quale l’atto è giuridicamente irrilevante) [91]. In ogni caso, è sicuro che il debitore ha il potere, nell’ambito della sua autonomia, di differire gli effetti del riconoscimento, vuoi apponendovi il termine della sua morte, vuoi affidando la dichiarazione ad un atto di ultima volontà, il quale non ha rilevanza giuridica prima della morte [92].
La differenza tra le due ipotesi anzidette consiste in ciò, che chi riconosce un proprio debito sotto termine o sotto condizione ingenera un’aspettativa in capo al creditore, il quale perciò potrebbe trovare tutela di tale aspettativa compiendo un atto conservativo, come ad esempio il sequestro (art. 2905 c.c.), che potrebbe essere ottenuto sulla base della (sola) ricognizione del debito, seppure ancora inefficace (in pendenza del termine o della condizione); per contro, chi fa il riconoscimento di debito post mortem (con un atto di ultima volontà) non ingenera alcuna aspettativa in capo al creditore, il quale perciò non potrà ottenere alcun sequestro, vivente il de cuius, sulla base della dichiarazione ricognitiva, la quale tout court sarà giuridicamente irrilevante prima della morte del suo autore (sempre salva la possibilità di ottenere il sequestro su altre basi, dimostrando con altri mezzi il fumus boni juris).
Resta perciò da dimostrare che il riconoscimento può essere fatto con un atto di ultima volontà – quindi con effetto dopo la morte dell’autore – ma senza l’osservanza delle forme testamentarie [93]. Ora, è pacifico che il debitore può disporre la produzione degli effetti della dichiarazione per il tempo in cui avrà cessato di vivere, mediante l’inserimento della stessa in un atto di ultima volontà, qual è appunto il testamento (così espressamente dispone l’art. 2735 c.c. per la confessione). Tuttavia, gli effetti della ricognizione di debito non incidono direttamente e immediatamente sulla delazione, in quanto non si traducono né nell’istituzione di un erede, né nell’attribuzione di un diritto (a titolo di legato), né concorrono alla determinazione dell’oggetto o dei soggetti della delazione, nemmeno mediante i meccanismi della c.d. chiamata successiva. Ne consegue che – non essendo riconducibile alle disposizioni che possono essere contenute solo nel testamento, ai sensi dell’art. 588 c.c. – il riconoscimento di debito post mortem si qualifica come un atto di ultima volontà, che in quanto tale può essere compiuto in forme diverse dal testamento (per esempio, una dichiarazione orale videoregistrata).
Ora, la rilevanza pratica della ricognizione di debito come atto di ultima volontà risulta evidente nel caso di chi abbia ricevuto delle prestazioni di cura a titolo gratuito da chi non vi è obbligato (anche un figlio, se non sussistono i presupposti per l’obbligo legale di prestare gli alimenti), in una misura eccedente i limiti in cui l’attività di cura si possa qualificare come adempimento di un’obbligazione morale e sociale. In questo caso, la persona assistita dovrebbe aver maturato un’obbligazione di natura restitutoria nei confronti del caregiver, ai sensi dell’art. 2041 c.c., pari all’ammontare del valore delle prestazioni ricevute (gratuitamente, perciò) non remunerate [94].
Costei potrebbe voler agevolare il caregiver nel conseguimento dell’indennità da arricchimento ingiustificato, quindi nella soddisfazione del suo diritto nei confronti degli eredi della persona assistita. È chiaro che, in questo modo, la posizione processuale dei propri eredi sarà aggravata, con riferimento ad un debito che fa capo alla massa ereditaria. Al contempo, la dichiarazione ricognitiva post mortem consente al debitore di evitare di aggravare la propria posizione processuale, nell’eventualità in cui il creditore venisse a conoscenza dell’atto di ultima volontà prima della morte [95].
È chiaro, dal punto di vista pratico, che in una relazione in cui il caregiver si prende cura di una persona (anziana, o con disabilità, o comunque vulnerabile), senza percepire alcun corrispettivo, la proposizione di un’azione di arricchimento ingiustificato nei confronti della persona assistita pare difficilmente immaginabile. Tuttavia, la persona che riceve le prestazioni di cura potrebbe avere comunque l’interesse a cautelarsi, nell’eventualità della proposizione di una simile azione da parte del suo caregiver; allo stesso tempo, questa potrebbe avere l’interesse ad agevolare il “recupero crediti” da parte del caregiver, dopo la sua morte, nei confronti degli eredi, specialmente in un contesto in cui il caregiver sia un figlio della persona assistita, che se ne prende cura esclusivamente nell’inerzia dei fratelli.
È proprio questo il contesto in cui l’indennità di arricchimento ingiustificato sembra avere la massima utilità, come strumento per riequilibrare un trasferimento di ricchezza tra l’erede legittimo che abbia svolto gratuitamente prestazioni di cura (il quale ha subito un impoverimento, in termini di impegno e sacrificio di tempo ed energie) e gli altri eredi legittimi, che invece siano rimasti inerti (i quali perciò hanno “ereditato” l’arricchimento conseguito dal de cuius, in termini di risparmio di spesa per l’acquisto sul mercato delle stesse prestazioni di cura, con conseguente maggior entità del patrimonio ereditario, a tutto vantaggio degli eredi).
Un esempio può risultare chiarificatore.
La de cuius, vedova, ha tre figli, uno solo dei quali se ne prende cura, nell’inerzia degli altri due. Si apre la successione su un patrimonio di 300, senza debiti ereditari; tuttavia, la de cuius aveva già disposto donazioni in vita a favore di terzi (non legittimari) per il valore di 100. In questo caso, la quota disponibile è già stata “consumata”, sicché la de cuius non potrebbe “beneficare” il suo caregiver – con un’attribuzione ulteriore alla legittima, alla quale il caregiver figlio comunque aveva diritto – senza ledere i diritti degli altri legittimari. È in un caso del genere che torna utile riconoscere un debito ex art. 2041 c.c. (effettivamente esistente), che in ipotesi ammonta a 240 [96].
L’eredità è devoluta secondo le quote della successione legittima, un terzo a ciascuno degli eredi legittimi (che, in quanto figli, sono anche legittimari): l’obbligazione restitutoria, perciò, si divide in parti uguali tra gli eredi (art. 752 c.c.), tra i quali lo stesso caregiver. Pertanto, l’obbligazione de qua (e il corrispondente diritto del caregiver) si estinguono, per confusione, nella misura di un terzo, mentre residua un credito del caregiver nei confronti dei coeredi (pari a 160, cioè due terzi del debito originario di 240): in particolare, egli ha diritto a 80 da ciascuno dei fratelli, a titolo di arricchimento.
Il calcolo delle quote di legittima è fatto secondo la nota formula relictum – debitum + donatum (art. 556 c.c.): 300 – 240 + 100 = 160, da dividere per 3 legittimari, sicché ciascuno di loro ha diritto ad una quota del patrimonio ereditario, pari a 53,3 (a fronte di un relictum di 300). Pertanto, il caregiver avrà diritto a 160, a titolo di indennità di arricchimento ingiustificato (al di fuori della legittima), nonché a 53,3 a titolo di legittima: avrà diritto a 213,3 in tutto. Per contro, gli altri legittimari avranno diritto a 53,3 ciascuno, come legittimari: per soddisfarsi integralmente, essi dovrebbero addirittura ridurre le donazioni fatte in vita dalla de cuius, giacché l’attivo ereditario (300) tolti i debiti (160) è insufficiente a soddisfare i legittimari (restano solo 140, mentre i legittimari hanno diritto a 53,3 ciascuno, cioè complessivamente a 160).
Un altro atto di ultima volontà che la persona assistita potrebbe compiere a favore del caregiver – in generale, il debitore nei confronti del suo creditore – è il c.d. legato di debito (anche satisfaciendi causa), con cui il debitore non si limita a riconoscere il debito, ma lo adempie attraverso una disposizione di ultima volontà.
Si ricava dall’art. 659 c.c. – recante la disciplina del legato a favore del creditore – che la disposizione testamentaria possa essere fatta anche “per soddisfare il legatario del suo credito”. Pertanto, il nostro sistema successorio prevede sia il c.d. legato di debito puro – il legato con il quale il testatore attribuisce al proprio creditore, a titolo particolare, un diritto esattamente corrispondente alla prestazione che costituisce l’oggetto del loro rapporto obbligatorio – sia il c.d. legato satisfacendi causa – con il quale il testatore attribuisce al proprio creditore, a soddisfazione del credito, una diversa prestazione. Dunque, il c.d. legato di debito potrà avere ad oggetto l’esatta prestazione dovuta al creditore, ovvero una diversa prestazione, secondo lo schema della datio in solutum [97].
Si è osservato che quest’ultimo “legato” – con cui il debitore attribuisce il diritto alla prestazione in luogo dell’adempimento – ove pure fosse contenuto nel testamento, assai difficilmente sarebbe riducibile entro lo schema dell’istituzione di erede o anche del legato propriamente detto. Da una parte, esso non potrebbe valere come istituzione d’erede, dal momento che non ha alcuna funzione istitutiva; dall’altra parte, esso non potrebbe neppure essere considerato un legato, e ciò non tanto perché non vi è l’attribuzione di un diritto particolare, quanto e soprattutto perché è difficile individuare il legatario, cioè la persona che debba considerarsi realmente beneficata, in via immediata e diretta, dalla disposizione con cui il de cuius attribuisce al suo debitore la prestazione dovuta – che è eseguita solvendi causa, e non in funzione di attribuzione di un (nuovo) diritto – oppure una prestazione in solutum, diversa da quella dedotta in oggetto dell’obbligazione. Come non si è mancato di rilevare, infatti, il soggetto beneficato da quest’ultima disposizione sarebbe paradossalmente lo stesso testatore (rectius i suoi eredi), che potrebbe così liberarsi dell’obbligazione mediante l’esecuzione di una prestazione diversa da quella originariamente dovuta [98].
Pertanto, si è escluso che un tale atto di ultima volontà determini, a vantaggio del creditore, un’attribuzione patrimoniale immediata e diretta, che possa qualificarsi come legato, e consenta di qualificare il suo beneficiario come legatario. Diversamente, si è ritenuto di qualificare la disposizione in questione alla stregua di un atto di ultima volontà, anziché di una disposizione testamentaria di legato: segnatamente, si tratta di un atto di ultima volontà, con cui il testatore esercita il suo diritto potestativo e, per l’effetto, realizza la funzione propria della prestazione in luogo di adempimento. In quanto tale, l’atto di ultima volontà con cui il debitore attribuisce al suo creditore, in solutum, una prestazione diversa dall’adempimento, perciò, sembra qualificabile alla stregua di un atto di ultima volontà diverso dal testamento, che non reclama le forme testamentarie [99]: ciò vale a maggior ragione con riferimento al “legato” di debito puro.
Si ritiene la disposizione anzidetta non sia soggetto a riduzione, se non – eventualmente – nella misura in cui il de cuius abbia attribuito una diversa prestazione satisfacendi causa, e tale prestazione abbia un valore superiore al debito [100]. Infatti, si tratta di una disposizione solutoria, non munifica, dal momento che ha la funzione di estinguere un debito del de cuius, e, dunque, un debito ereditario.
Posto che la quota di riserva deve calcolarsi sottraendo al relictum il debitum e aggiungendo al risultato il donatum, l’esistenza di tale debito influisce sulla determinazione dell’ammontare della massa fittizia; se ne ricava che l’adempimento di tale debito comunque non lede i diritti dei legittimari, sicché il “legato” in esame sfugge all’azione di riduzione, anche nel caso in cui le disposizioni testamentarie lesive – meno quella solvendi causa – siano già state ridotte, e debbano ridursi le donazioni, seguendo l’ordine di cui all’art. 559 c.c. [101].
La qualificazione giuridica dell’attività prestata dal caregiver e la ricostruzione del regime delle restituzioni delle prestazioni di cura si sono rivelate assai complesse. I risultati dell’indagine possono essere così conclusivamente riassunti, raggruppando le varie ipotesi esaminate – da cui è escluso il caso delle cure prestate in base ad un valido rapporto contrattuale – nei tre macro-casi del caregiver che agisca in adempimento di un obbligazione legale nei confronti della persona accudita; del caregiver gestore d’affari; del caregiver che non sia gestore né obbligato, il quale si prende cura della persona in via di fatto.
Il primo caso, dunque, è quello del caregiver che presta le sue cure in esecuzione di un obbligo di legge nei confronti della persona accudita – i.e. i genitori nei confronti dei figli minori, i coniugi reciprocamente, gli obbligati agli alimenti nei confronti dell’avente diritto – che, pertanto, non ha maturato alcuna pretesa restitutoria in conseguenza dell’esecuzione delle prestazioni di cura. Con riferimento a questi caregivers, l’esigenza di interventi pubblici di sostegno appare più urgente.
Il secondo caso è quella del caregiver gestore d’affari, che “scientemente” – non essendovi obbligato, e consapevole di ciò – ha iniziato a prendersi cura di una persona totalmente incapace di provvedervi, la quale tuttavia non ha diritto agli alimenti nei confronti di alcuno (vuoi perché difettano i presupposti oggettivi, vuoi perché mancano i soggetti indicati dall’art. 433 c.c.). La disciplina della gestione d’affari prevede l’obbligo del gestore di continuare la gestione intrapresa, sicché il caregiver gestore d’affari presta le sue cure in adempimento di un obbligo legale, il che esclude un arricchimento senza giusta causa. Tuttavia – pur a fronte di un espresso richiamo alle sole obbligazioni del mandatario – si ritiene applicabile per analogia la previsione dell’onerosità del mandato, qualora ciò risulti dalle circostanze, con la conseguenza che il “mandante” (rectius la persona accudita) sarà obbligato, ai sensi dell’art. 1709 c.c., a pagare un compenso al gestore d’affari per le prestazioni rese in modo sostanzialmente professionale. Questa soluzione consente di evitare irragionevoli disparità di trattamento rispetto al caregiver non gestore d’affari, che ha diritto alla restituzione per equivalente del valore delle prestazioni di cura indebitamente eseguite (mentre è fatto obbligo al caregiver gestore d’affari di continuare a prendersi cura della persona, a tutela di questa; anche se non vi sono ragioni per cui questi debba sopportare anche il peso economico di tale attività, né pare invocabile in senso contrario alcuna asserita ratio solidaristica dell’istituto). Infatti, quando la tutela restitutoria del caregiver è affidata all’arricchimento ingiustificato, tale azione (sussidiaria) consente di ottenere la restituzione del valore della prestazione di facere indebitamente eseguita (energie mentali e fisiche, tempo, fatica), ad esclusione del lucro cessante. Lo stesso risultato deve ritenersi possibile, in caso di gestione di affari, accordando al caregiver gestore d’affari non un’indennità da arricchimento – in quanto le prestazioni di cura eseguite sono dovute in adempimento dell’obbligo ex lege di continuare la gestione, sicché l’arricchimento è giustificato – bensì un compenso, nella misura pari al valore delle prestazioni di cura eseguite, ad esclusione del lucro cessante.
Un’altra fattispecie che la giurisprudenza qualifica come gestione d’affari è quella di chi adempie l’altrui obbligo di assistenza materiale o l’altrui obbligo alimentare, sussistendo i presupposti dell’istituto (segnatamente, l’absentia domini, latamente intesa come non opposizione dell’interessato). La dottrina ha evidenziato le criticità di questa ricostruzione – segnatamente, l’assenza di qualsivoglia obbligo alimentare prima della domanda in giudizio o della costituzione in mora, ex art. 445 c.c. e la mancanza di solidari della gestione – sicché pare preferibile la tesi che ritiene applicabile alle prestazioni alimentari non dovute la disciplina generale dell’indebito oggettivo e soggettivo (e, per gli alimenti somministrati in natura – mediante esecuzione di prestazioni di fare – dell’arricchimento senza causa). Con il doppio limite della configurabilità di un’obbligazione naturale (ad es. per cure saltuarie) e dell’irripetibilità, nei confronti dell’accipiens, delle prestazioni con finalità alimentare, eseguite a favore di chi, bisognoso, avrebbe diritto agli alimenti.
Il terzo e ultimo caso è quello del caregiver non gestore, il quale nemmeno sia obbligato – neanche ad altro titolo (contratti, promessa liberale, disposizioni di legge) – a prendersi cura della persona, che però di fatto accudisce. La qualificazione giuridica che pare più appropriata per le prestazioni periodiche eseguite dal caregiver, e accettate dalla persona assistita, è quella le riconduce all’adempimento di obbligazioni di fare, previste da un contratto di donazione di prestazioni periodiche, concluso tra le parti per fatti concludenti. Tale contratto dovrà ritenersi nullo per difetto di forma (art. 783 c.c.), con la conseguente obbligazione dell’accipiens della prestazione di restituirla (per equivalente monetario, ex art. 2041 c.c.), il cui corrispondente diritto del caregiver si prescrive in dieci anni dall’esecuzione della prestazione indebita.
Per converso, l’accordo relativo all’esecuzione delle prestazioni di cura a titolo gratuito – che ragionevolmente può ritenersi concluso per fatti concludenti dal caregiver con la persona assistita, attraverso l’esecuzione delle prestazioni di cura, accettate da quest’ultima – non pare qualificabile come contratto gratuito atipico, avente ad oggetto l’esecuzione di prestazioni di facere, al quale non è imposto alcun requisito di forma. Ciò in ragione del criterio con cui distinguere le due figure: si ha donazione obbligatoria (a forma vincolata) quando il disponente agisce per soddisfare un proprio interesse non patrimoniale, condiviso dall’accipiens; si ha contratto gratuito atipico (a forma libera) quando il disponente agisce per soddisfare un proprio interesse patrimoniale. Nella normalità dei casi, l’assistenza di una persona cara è prestata a scopi ideali, cioè di (i) evitarle di andare in casa di riposo, (ii) assicurarle un’assistenza migliore di quella che potrebbe trovare ivi, (iii) farle compagnia/passare con lei gli ultimi momenti della sua vita. Per contro, la speranza di ricevere un lascito economico – o anche di conseguire l’indennità da ingiustificato arricchimento – resta un mero motivo individuale, e non assurge ad interesse condiviso dall’accipiens (perlomeno, non lo si può presumere, secondo l’id quod plerumque accidit). Peraltro, se si desse rilevanza ad un simile interesse patrimoniale, ne conseguirebbe la qualificazione del contratto (non come donazione, bensì) come contratto gratuito atipico, valido, quindi idoneo a produrre l’obbligazione di fare in capo al caregiver, il quale perciò si impoverirebbe per giusta causa, in quanto eseguirebbe una prestazione dovuta. Si giungerebbe così, nel dare rilevanza all’interesse patrimoniale del caregiver “egoista”, a frustrare proprio quello stesso interesse. Pare preferibile, anche per non appesantire l’istruttoria processuale, non dare peso eccesivo all’indagine di tali stati psicologici.
Ancora, non pare possibile ritenere “giustificato” l’arricchimento della persona assistita, a spese del caregiver, nemmeno in base all’art. 2034 c.c., che prevede l’irripetibilità delle prestazioni eseguite in adempimento di doveri morali o sociali. Ciò in quanto l’attività del caregiver – nella misura in cui sia eseguita a tempo pieno e in modo esclusivo, come di solito richiede – non sembra rientrare nei requisiti di proporzionalità e adeguatezza, richiesti da dottrina e giurisprudenza ai fini dell’art. 2034 c.c.. Al riguardo, può essere utile adottare i criteri elaborati dalla giurisprudenza francese per ravvisare – in caso di esecuzione gratuita di prestazioni di cura – il c.d. dépassement de l’obligation naturelle. Questi criteri consistono nel sacrificio della vita professionale del caregiver, nonché nell’impegno esclusivo, cioè non condiviso con altri caregivers, che prestino le loro cure a titolo gratuito, né con ricorso all’aiuto di operatori professionali (ad es. badanti). Prestazioni di cura di tale importanza non sono qualificabili come “prestazioni di cortesia”, che per definizione hanno un valore economico trascurabile.
Da ultimo, si sono presi in considerazione alcuni strumenti tipici dell’autonomia privata, fruibili alla persona assistita, e aventi la funzione di agevolare il caregiver nella soddisfazione del suo diritto nei confronti degli eredi della persona assistita (tra i quali, in ipotesi, anche lo stesso caregiver, che succeda pro quota nel debito, con conseguente estinzione per confusione, limitatamente alla sua quota, e impregiudicato il suo diritto nei confronti dei coeredi). Infatti, va considerato, dal punto di vista pratico, che un’azione di arricchimento promossa dal caregiver nei confronti della persona assistita non troverebbe facilmente accoglimento. Infatti, nonostante le prestazioni di cura eseguite risulti non dovute, al caregiver potrebbe essere opposto che: (i) l’arricchimento gli è stato “imposto” all’accipiens; (ii) le cure gli sono state prestate in adempimento di un’obbligazione naturale; (iii) non esiste la donazione di prestazioni periodiche di fare; (iv) le prestazioni di cura sono rese “per amore”, e/o non sono suscettibili di valutazione economica, etc. Queste eccezioni sarebbero infondate e dovrebbero essere disattese, ma, in concreto, potrebbero risultare defatiganti, anche in considerazione del fatto che non si è ancora formata della giurisprudenza specificamente sulle questioni fin qui trattate.
In considerazione di ciò, un riconoscimento di debito da parte della persona assista sarebbe prezioso non solo come accettazione delle prestazioni ricevute – tale da escludere la “imposizione” dell’arricchimento – ma anche al fine di invertire l’onere della prova dei fatti costitutivi del diritto del caregiver. Inoltre, la persona assistita potrebbe disporre un c.d. legato di debito a favore del caregiver. Non rientrando tra le ipotesi di disposizioni testamentarie tipiche (art. 588 c.c.), tali negozi possono essere compiuti per tramite di atti di ultima volontà diversi dal testamento, senza l’osservanza delle forme di quest’ultimo.
Inoltre, tali negozi non incidono sulla determinazione dei soggetti o dell’oggetto della successione, né si qualificano come liberalità (essendo compiuti solvendi causa rispetto a preesistenti obbligazioni ex lege), sicché non ne potrà derivare alcuna lesione dei diritti dei legittimari: la quota cui questi ultimi hanno diritto, infatti, si calcola con riferimento a relictum e donatum, detratti i debiti, tra i quali figura anche l’obbligazione restitutoria ex lege del de cuius nei confronti del caregiver.
[1] Non vengono in rilievo, per ovvie ragioni, quelle disposizioni che disciplinano puntualmente la restituzione di frutti, spese, addizioni e miglioramenti in relazione ai beni immobili, così giustificando l’eventuale arricchimento del proprietario, che non è tenuto ad indennizzare l’enfiteuta, l’usufruttuario, il condomino, il conduttore, per le spese, i miglioramenti, le addizioni fatte al bene oggetto del suo diritto.
[2] Le fattispecie di cui agli artt. 2034 e 2035 c.c. comportano gli stessi effetti (esclusione della tutela restitutoria), ma hanno elementi costitutivi e finalità diametralmente opposte (D. Carusi, Le obbligazioni nascenti dalla legge, in Tratt. dir. civ. CNN dir. da P. Perlingieri, ESI, 2004, 240 s.). Il problema sarà oggetto di discussione amplius infra, § 4.
[3] In quest’ultimo caso il caregiver adempie un obbligo altrui (art. 1180 c.c.), con conseguente diritto di regresso nei confronti dell’obbligato, mediante l’azione negotiorum gestorum contraria (art. 2031 c.c.) – sussistendo i presupposti della gestione d’affari – ovvero mediante l’azione generale di arricchimento ingiustificato (art. 2041 c.c.). È esclusa ogni pretesa restitutoria nei confronti dell’interessato, che ha ricevuto la prestazione di assistenza cui aveva diritto. In argomento, P. Sirena, L’adempimento dell’altrui obbligazione di assistenza materiale, in Familia, 2002, 43 s., e amplius infra, § 7.
[4] V. amplius infra, § 7.
[5] In mancanza di convivenza, nessun obbligo di contribuzione è imposto al figlio: la soluzione è criticata dalla dottrina, in quanto deresponsabilizza i figli. In questo senso, A.C. Moro, Manuale di diritto minorile, Zanichelli, 2008, 4a ed., 178 parla di una «deresponsabilizzazione del figlio nei confronti dei genitori anziani e un sempre più massiccio ricorso per essi alla solidarietà sociale, attraverso l’assistenza, più che alla solidarietà familiare e intergenerazionale»; P. Morozzo Dalla Rocca, Doveri di solidarietà familiare e prestazioni di pubblica assistenza, in Fam. dir., 2013, 7, 732-733, ritiene il dovere di solidarietà filiale verso i genitori anziani «poco performante [e] sicuramente datato nella sua impostazione culturale». Secondo l’A., l’art. 315-bis co. 4 c.c. disposizione «ha certamente il pregio di avere incluso nell’obbligo di contribuzione gravante sul figlio convivente anche quello di attivarsi secondo le sue capacità (ciò che sembra implicare anche un’eventuale attività lavorativa)»; per contro, il figlio può sottrarsi all’obbligo di contribuzione, ponendo fine alla convivenza con la famiglia di origine, una volta che disponga del reddito sufficiente a rendersi autonomo: «[i]n sostanza, quindi, la legge obbliga il figlio ad una soglia alta di solidarietà solo finché dipende dai genitori ed invece lo libera quando diviene autonomo, cioè quando finalmente disporrebbe di un reddito adeguato all’aiuto di cui c’è bisogno».
[6] A. Bellelli, I doveri del figlio verso i genitori nella legge di riforma della filiazione, in Dir. fam. pers., 2013, 2, 645 s.; Ead., I doveri del figlio, in Nuove leggi civ. comm., 2013, 3, 550 s.
[7] R. Senigaglia, Il dovere di rispettare i genitori nella coercibilità dell’ordinamento giuridico, in Dir. fam. pers., 2023, 6, 855: «[o]ltre questo limite, può porsi il problema di remunerare i sacrifici, economicamente apprezzabili, a cui si è sottoposto il figlio, ravvisando, per converso, in capo al genitore assistito un arricchimento ingiustificato»
[8] Un esempio, di non trascurabile rilevanza applicativa, potrebbe essere quello del genitore che necessiti di essere ricoverato presso una casa di riposo o una RSA, per pagare la retta della quale potrebbe non essere sufficienti né il reddito del genitore (ad es. a titolo di pensione) e il suo patrimonio (ad es. eventuali immobili), né l’ulteriore contributo pubblico versato dalle Regioni all’istituto. In un caso del genere, non si vede ragione per cui i figli non possano essere condannati a pagare al genitore, a titolo di alimenti (ovvero direttamente alla casa di riposo/RSA) una somma pari al quantum della retta, che il genitore non è in grado di pagare, nemmeno attraverso il sostegno pubblico.
[9] Sui limiti dei doveri morali e sociali di prendersi cura dei genitori, v. amplius infra, § 4.
[10] Così F. Ruscello, in Id. et al., Degli alimenti. Art. 433-448-bis, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca-Galgano, Zanichelli, 2022, 13.
[11] G.A. Parini, in F. Ruscello et al., Degli alimenti, cit., 189
[12] Così Cass. civ., 11 novembre 1994, in Giur. it. Mass, 1994; App. Milano, 1° marzo 2002, in Giur. mil., 2002, 243; App. Lecce, 2 novembre 2015; in dottr. G.A. Parini, Degli alimenti, cit., 190.
[13] C.M. Bianca, Diritto civile 2.1. La famiglia, Giuffrè, 2017, 6a ed., 533 ritiene che il contenuto dell’obbligazione alimentare ricomprenda anche i beni e servizi idonei a garantire una vita dignitosa; G.A. Parini, Degli alimenti, cit., 190, nota 16, ritiene possibile comprendere negli alimenti il servizio domestico, solo in situazioni eccezionali, ad es. l’anziano che non sia in grado di mantenere l’abitazione in una condizioni igienica dignitosa. La giurisprudenza ammette anche gli alimenta civilia (da ultimo, Cass. civ., Sez. un., 8 novembre 2022, n. 32914, § 8.2).
[14] Il rilievo è di G.A. Parini, Degli alimenti, cit., 196.
[15] Così G.A. Parini, Degli alimenti, cit., 198, che ritiene necessaria «un’indagine particolarmente approfondita e tesa a cogliere la reale situazione dell’individuo, rifuggendo ogni apprezzamento astratto e aprioristico». L’A. però riconosce lo stato di bisogno «di un uomo anziano e malato, che necessita di assistenza costante, il quale – magari pur beneficiando di entrate non contenute – potrebbe non riuscire ad affrontare le spese mediche, farmaceutiche, connesse al vitto, all’alloggio oppure all’assistenza» (Ead., op. cit., 200).
[16] Così G.A. Parini, Degli alimenti, cit., 200-201, la quale precisa che queste considerazioni si limitano alla fase fisiologica del rapporto: «La sussistenza di un legame affettivo stabile osterà al riconoscimento degli alimenti laddove l’indigente riceva dal partner il sostegno e fintanto che la relazione perduri: una volta cessata la convivenza di fatto e purché la stessa sia rispettosa dei crismi di cui all’art. 1 co. 36 l. 76/2016, proprio l’ex partner rientrerà, invece, nel novero dei soggetti chiamati a somministrare gli alimenti. In questa direzione, il disposto di cui all’art. 1 co. 65 attribuisce formalmente rilievo a una solidarietà che sempre più spesso veniva reclamata dalla dottrina anche con riferimento alle relazioni di coppia non fondata sul matrimonio».
[17] G.A. Parini, Degli alimenti, cit., 210 s.
[18] G.A. Parini, Degli alimenti, cit., 217-218, con la precisazione che «occorrerà tenere in considerazione le condizioni sociali o, più propriamente, le abitudini dell’indigente, salvaguardando così la personalità dello stesso», quindi – salvo che gli alimenti siano chiesti a fratelli/sorelle – anche gli alimenti c.d. civili. Anche tra fratelli, comunque, “sarà riconosciuto unicamente quanto occorre a soddisfare la componente materiale dei bisogni e in una misura minima, senza che rilevi la proporzionalità con le condizioni economiche dell’obbligato e senza tenere conto della personalità dell’individuo: verrà, dunque, corrisposto unicamente quanto occorre per fare fronte al vitto, all’alloggio, alle spese mediche e farmaceutiche, al vestiario essenziale e all’assistenza; ma non quanto serve a colmare i bisogni culturali, intellettuali, morali e spirituali, salvo che si tratti di un minore, ipotesi nella quale sarà dovuto anche l’occorrente per l’istruzione e l’educazione» (corsivo agg.).
[19] G.A. Parini, Degli alimenti, cit., 308-311.
[20] G.A. Parini, Degli alimenti, cit., 312-313.
[21] Ad es., l’assegno periodico potrebbe combinarsi con l’accoglimento nella abitazione di uno dei debitori e la disponibilità temporale di un altro per assistere e accompagnare il soggetto bisognoso, così evitando il ricorso a una persona terza verso corrispettivo.
[22] G.A. Parini, Degli alimenti, cit., 319-320, 324: «la scelta di esplicitare esclusivamente due modalità di somministrazione nel 1° comma dell’art. 443 cod. civ. pare giustificata nel senso di limitare la facoltà riconosciuta al debitore – al fine di evitare che questi opti per soluzioni sgradite al creditore – e non certo il potere di intervento dell’autorità giudiziaria, che, anzi ... potrebbe valutare con ponderatezza la questione e identificare il modo, che meglio degli altri, realizza un ottimale bilanciamento di interessi».
[23] G.A. Parini, Degli alimenti, cit., 325.
[24] La giurisprudenza vi ravvisa la negotiorum gestio, incontrando obiezioni in dottrina (v. infra, § 6). Cass. civ., 9 agosto 1988, n. 4883, in Mass. Giur. it., 1988: «Qualora i bisogni dell’avente diritto agli alimenti vengano per intero soddisfatti da uno soltanto dei condebitori ex lege, questi può esercitare il regresso pro quota verso il coobbligato senza necessità di una preventiva diffida ad adempiere, tenuto conto che le disposizioni dell’art. 445 c.c., in tema di decorrenza degli alimenti solo dalla domanda giudiziale (o dalla costituzione in mora, se seguita entro sei mesi dalla domanda giudiziale), riguardano esclusivamente il rapporto diretto con il creditore e non sono estensibili alla suddetta azione di regresso, la quale è riconducibile alle regole dell’utile gestione (considerando che l’intento di gestire gli affari altrui, in difetto di un’opposizione dell’interessato, è insito nella consapevolezza del carattere cogente del relativo obbligo)» (così già Cass. civ., 29 febbraio 1955, n. 2686; Cass. civ., 20 maggio 1961, n. 1196; Cass. civ., 6 dicembre 1968, n. 3901). Da ultimo, Cass. civ., Sez. un., 8 novembre 2022, n. 32914, § 4: «Il fatto di un coobbligato alla prestazione di alimenti che abbia effettuato la prestazione, oltre che per la propria quota, anche per quella di altro coobbligato di pari grado, senza mai richiedere il concorso di quest’ultimo, non può qualificarsi adempimento di un’obbligazione naturale, in quanto la norma dell’art. 441 cod. civ., che espressamente stabilisce l’obbligo di concorso alla prestazione degli alimenti nel caso di concorso di più obbligati, ha natura cogente, mentre, al contrario, l’obbligazione naturale è un dovere originariamente non giuridico, che acquista efficacia giuridica mediante l’adempimento, cosicché risulta configurabile invece, una gestione di affari ad opera di uno dei coobbligati alla prestazione alimentare, perché l’affare e in parte proprio ed in parte altrui» (corsivo agg.). In senso conforme, P. Sirena, La gestione di affari altrui. Ingerenze altruistiche, ingerenze egoistiche e restituzione del profitto, Giappichelli, 2000, 318; in senso contrario, R. Pacia, Decorrenza degli alimenti legali e natura costitutiva del provvedimento giudiziale, in Riv. dir. civ., 2011, 1, 78. Si v. infra, §§ 6-7.
[25] Cass. civ., 5 novembre 1996, n. 9641, in Fam. dir., 1997, 115 s., con nota di Cubeddu; Cass. civ., 10 dicembre 2008, n. 28987. Da ultimo, Cass. civ., Sez. un., 8 novembre 2022, n. 32914, in Giur. it., 2023, 4, 781 s., con nota di P. Gallo, Gli assegni di mantenimento tra ripetibilità e irripetibilità. In senso conforme, F. Ruscello, Degli alimenti, cit., 48, testo e nota 154, parla di «irripetibilità delle prestazioni eseguite in esecuzione di una sentenza di primo grado successivamente riformata [...] nel senso che chi abbia ricevuto, per ogni singolo periodo, le prestazioni stabilite nella pronuncia di primo grado, non è tenuto a restituirle, né può vedersi opporre in compensazione quanto ricevuto a tale titolo».
[26] C.M. Bianca, Diritto civile, cit., 536: «la condizione di bisogno della persona, ove effettivamente sussistente, suscita in ciascun consociato il dovere morale e sociale di provvedervi. Chi vi abbia provveduto non può dunque pretendere la restituzione di quanto prestato adducendo la mancanza di un titolo giuridico dell’obbligo».
[27] Si v. il § 3 della parte prima del presente studio.
[28] Così Cass. civ., Sez. un., 8 novembre 2022, n. 32914, in motivaz., § 8.3.
[29] Così Cass. civ., Sez. un., 8 novembre 2022, n. 32914, in motivaz., § 8.3. È di interesse, in questo senso, anche l’orientamento che concede la ripetizione della prestazione eseguita che concretamente non abbia funzione alimentare, come avviene in caso di mantenimento dei figli, dei quali sopraggiunga l’indipendenza economica. Così Cass. civ., 23 maggio 2014, n. 11489, in Fam. dir., 2016, 2, 161 s., con nota di Farolfi; Cass. civ., 16 novembre 2015, n. 23409; Cass. civ., 13 febbraio 2020, n. 3659: «In tema di mantenimento della prole, l’irripetibilità delle somme versate dal genitore obbligato a quello beneficiario, nel periodo intercorrente tra la data della domanda di revisione delle condizioni di divorzio e quella del suo accoglimento, in ragione della sopravvenuta indipendenza economica dei figli maggiorenni, si giustifica solo ove gli importi riscossi abbiano assunto una concreta funzione alimentare, che non ricorre ove ne abbiano beneficiato soggetti autosufficienti in un periodo, in cui, stante la pendenza della controversia, era noto il rischio restitutorio» (corsivo agg.).
[30] E. Moscati, s.v. Obbligazioni naturali, in Enc. dir., XXIX, Giuffrè, 1979, 353 s., anche Id., Le obbligazioni naturali nel diritto moderno, in Id., Fonti legali e fonti «private» delle obbligazioni, Cedam, 1999, 447 s.; L. Balestra, Le obbligazioni naturali, nel Tratt. dir. civ. comm. Cicu-Messineo-Mengoni, Giuffrè, 2004; D. Carusi, Le obbligazioni, cit., 243 s.
[31] Così L. Balestra, Le obbligazioni naturali, nel Tratt. dir. civ. comm. Cicu-Messineo-Mengoni, Giuffrè, 2004, 89 s., con riferimento al problema della eccessività della prestazione.
[32] Così L. Balestra, Le obbligazioni, cit., 90, sulla scorta di U. Mori-Checcucci, Appunti sulle obbligazioni naturali, Editore L.U.P. A., 1947, 27: «quella stessa legge morale che detta il dovere dà pure, se non in termini assoluti, in termini relativi, il criterio per determinare entro quale limite quantitativo, specie in relazione al patrimonio di colui che presta, la prestazione sia dovuta. Oltre tale limite la prestazione stessa cessa d’esser sorretta da alcun dovere, sia pure morale». C.M. Bianca, Diritto civile 3. Le obbligazioni, Giuffrè, 1993, 788, richiede che la prestazione sia adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens, requisiti da «ritenersi impliciti nell’idea stessa di obbligazione naturale, in quanto, secondo la coscienza sociale, non è doveroso ciò che va al di là di quanto l’adempiente può ragionevolmente fare o di quanto il beneficiario abbia ragionevolmente bisogno». Cass. civ., 4 maggio 1975, n. 1218, in Giust. civ., 1875, I, 1310: «l’indagine che il giudice deve compiere per accertare se si trova di fronte ad un’obbligazione naturale è duplice: da un canto egli deve accertare se nel caso sottoposto al suo esame sussiste un dovere morale e sociale, in relazione alla valutazione corrente nella società attuale, dall’altro se questo dovere sia stato adempiuto con una prestazione che presenti un carattere di proporzionalità ed adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso» (conf. Cass. civ., 12 febbraio 1980, n. 1007; Cass. civ, 15 gennaio 1969, n. 60, in Riv. dir. comm., 1969, II, 403, con nota di G.B. Ferri; Cass. civ., 25 gennaio 1960, n. 68, in Foro it., I, c. 2017; di recente Cass. civ., 1 luglio 2021, n. 18721; Cass. civ., 12 giugno 2020, n. 11303; Cass. civ., 22 gennaio 2014, n. 1277; Cass. civ., 15 maggio 2008, n. 11330; Cass. civ., 13 marzo 2003, n. 3713).
[33] Così L. Balestra, Le obbligazioni, cit., 91, il quale ritiene che – in presenza di un dovere morale e sociale – l’adempimento pur eccessivo e sproporzionato valga comunque a configurare la fattispecie dell’obbligazione naturale, e dunque l’estinzione del dovere; mentre, per la parte in cui risulti sproporzionata, la prestazione dovrà rinvenire la propria giustificazione causale in un diverso titolo, in mancanza del quale il solvens potrà agire per la restituzione.
[34] La proporzionalità è testualmente prevista dall’art. 163 C.C.I.I. (ex art. 64 l.f.) nell’ammettere – a differenza di quanto previsto per gli atti gratuiti – l’efficacia rispetto ai creditori del fallito dei regali d’uso e degli atti compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica utilità, a condizione che la liberalità sia proporzionale al patrimonio del donante. In questo caso, il parametro cui della proporzionalità è rappresentato solo dal patrimonio del “donante”, mentre non rileva – ai fini concorsuali – il rapporto effettivamente esistente tra le parti, nonché lo specifico contenuto del dovere morale (e.g. dovere morale di assistenza). Pertanto, potrebbe accadere che l’esecuzione di una prestazione, pur adeguata e proporzionata in relazione al contenuto e/o alla durata del dovere alla luce dell’art. 2034 c.c., risulti sproporzionata ai sensi dell’art. 64 l.f., e, per conseguenza, inefficace rispetto ai creditori: così L. Balestra, Le obbligazioni, cit., 92; nello stesso senso, L. Gatt, La liberalità, I, Giappichelli, 2002, 372, nota 129, ritiene corretto ricavare la disciplina dell’obbligazione naturale non solo dall’art. 2034 c.c. ma anche dall’art. 742 c.c. e dall’art. 64 l. Contra A. D’Angelo, Le promesse unilaterali, in Comm. cod. civ. Schlesinger-Busnelli, Giuffrè, 1996, 325; A. Gianola, Il volontariato, causa del negozio?, in Riv. dir. civ., 2020, 5, 1039, secondo cui la norma in esame prevede solamente la possibilità di revocare l’atto di disposizione che non sia proporzionato al patrimonio del disponente anche se rispondente ad un interesse collettivo; la revoca colpirebbe un atto valido, allo scopo di far venir meno i suoi effetti, mentre non si potrebbe revocare un atto invalido, privo di effetti. Inoltre, secondo questa tesi, non si potrebbe addurre l’esigenza di proteggere la famiglia, in quanto non vi sarebbe alcuna norma che attribuisca prevalenza alle esigenze particolari della famiglia su quelle della collettività, anche considerando che pure i familiari del disponente sono parte di quella collettività che beneficia dell’erogazione. Si ritiene tuttavia che tali considerazioni non siano sufficienti a confutare l’affermazione dell’esigenza, in generale, della proporzionalità/adeguatezza dell’adempimento del dovere morale/sociale ai fini dell’art. 2034 c.c.
[35] L. Balestra, Le obbligazioni, cit., 142.
[36] L. Gatt, La liberalità, cit., 384: «la liberalità è dunque soggetta a ripetizione, in quanto l’atto da cui derivata, essendo giuridicamente una donazione, è nullo per mancanza di forma».
[37] U. Mori-Checcucci, Appunti, cit., 27: «l’eccedenza del prestato rispetto ad dovuto cade quindi del tutto fuori dell’ambito dell’art. 2034 c.c. e sarà da considerarsi eventualmente liberalità, se vi fu un animus donandi, e altrimenti un indebitum ex re, normalmente ripetibile», seguito da L. Balestra, Le obbligazioni, cit., 142, che ritiene “incongrua” l’applicazione della teoria del c.d. assorbimento (propria dei contratti con causa mista) all’adempimento delle obbligazioni naturali.
[38] E. Navarretta, La causa e le prestazioni isolate, Giuffrè, 2000, 431, definisce l’esecuzione della obbligazione naturale “un esempio paradigmatico” di prestazione isolata.
[39] La giurisprudenza italiana non sembra essersene mai occupata: al massimo, si legge che le prestazioni di cura rientrano nell’art. 2034 c.c. In questo senso, T. Monza, 25 gennaio 2001, in Nuova giur. civ. comm., 2002, II, 46, in motivaz.: «l’assistenza della figlia al genitore, quand’anche comporti rinunzie al tempo libero, deve ritenersi fornita in un ambito che sfugge del tutto all’area dei rap porti giuridico patrimoniali, potendosi al più atteggiarsi come esecuzione di doveri morali che, se spontaneamente assolti, danno luogo all’adempimento di un’obbligazione naturale inidonea a fondare in chi li presta una ragione di credito commisurata al valore economico dei servizi resi».
[40] Una dettagliata ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale si può leggere in M.L. Dinh, L’enrichissement injustifié en droit privé. État des lieux et perspectives, Presses Universitaires d’Aix-Marseille, 2022, 231 s., e ivi riferimenti.
[41] Cour cass., chambre civile, 12 juillet 1994; Cour cass., 3 novembre 2004.
[42] Cour cass., chambre civile, 12 juillet 1994, n. 92-18.639.
[43] Si v. ampiamente M.L. Dinh, L’enrichissement, cit., 233 s.
[44] M.L. Dinh, L’enrichissement, cit., 234.
[45] Cour. app. Orléans, 10 juin 2013, cit. in L. Dinh, L’enrichissement, cit., 236.
[46] Cour app. Metz, 5 mars 2002, cit. in L. Dinh, L’enrichissement, cit., 237.
[47] Si v. il § 4 della parte prima del presente studio.
[48] Cour cass., 6 juillet 1999, n° 97-20.398; Cour app. Montpellier, 1 juillet 2004; Cour cass., 28 mars 2006, n° 03-14.455; Cour app. Orléans, 10 octobre 2006; Cour app. Limoges, 22 février 2012; Cour. app. Orléans 5 mars 2012; Id., 10 juin 2013; citt. in L. Dinh, L’enrichissement, cit., 238.
[49] Cour. app. Paris, 5 mars 2002; Cour app. Nancy, 18 janvier 2010; Cour app. Metz, 24 novembre 2016, citt. in M.L. Dinh, L’enrichissement, cit., 240.
[50] Cour app. Orléans, 10 juin 2013, cit.
[51] Cour app. Paris, 5 mars 2002; Cour app. Orléans, 27 novembre 2006; Cour app. Grenoble, 30 avril 2015; citt. in M.L. Dinh, L’enrichissement, cit., 241.
[52] F. Angeloni, Liberalità e solidarietà. Contributo allo studio del volontariato, Cedam, 1994; N. Lipari, «Spirito di liberalità» e «spirito di solidarietà», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1997, 1, 1 s.; P. Morozzo Dalla Rocca, Gratuità, liberalità e solidarietà. Contributo allo studio della prestazione non onerosa, Giuffrè, 1998.
[53] La Relazione della Commissione al Codice civile, n. 792 motiva la codificazione dell’istituto come: «corrispondente agli scopi di giustizia e di equità che l’ordinamento giuridico deve realizzare, specie se vuole esprimere dal suo seno uno spirito di solidarietà. Questo spirito non può tollerare spostamenti patrimoniali disgiunti da una causa giustificatrice». A fugare i dubbi circa il carattere giuridico anziché metagiuridico del richiamo allo spirito di solidarietà (accolto altrove nel codice del 1942, cfr. art. 1175 co. 2), si precisa che esso «non può tollerare spostamenti patrimoniali disgiunti da una causa giustificatrice», e che il suum cuique tribuere è un bensì un principio etico, ma «assunto nella sfera del diritto». Afferma la ratio solidaristica dell’istituto L. Barbiera, L’ingiustificato arricchimento, Jovene, 1964, 203.
[54] L. Pellegrini, La donazione costitutiva di obbligazione, Giuffrè, 2004, 215, il quale precisa che «lo spirito di solidarietà, pur operando entro l’area causale degli interessi non patrimoniali, e comunque delle attribuzioni patrimoniali disinteressate, presenta, rispetto alla liberalità in senso stretto, un quid ulteriore, consistente in una casistica di finalità considerata dal legislatore come socialmente utili ma in realtà già percepite come tali nella società civile».
[55] Per l’inconfigurabilità del volontariato individuale, sotto il previgente regime, P. Morozzo Della Rocca, Gratuità, liberalità e solidarietà, cit., 152; L. Pellegrini, La donazione, cit., 217.
[56] L. Pellegrini, La donazione, cit., 217, nota 122, elenca le seguenti ipotesi: (i) l’attività gratuitamente svolta dai singoli come soci volontari nelle cooperative sociali (art. 2, l. 381/1991), (i) la disponibilità all’affidamento familiare a fini assistenziali (l. 184/1983), (iii) l’attività svolta dai singoli cittadini nei servizi di aiuto personale promossi dai comuni in favore di soggetti portatori di handicap (art. 9 l. 104/1992), (iv) l’attività prestata dai singoli nelle strutture del servizio sanitario pubblico.
[57] L. Pellegrini, La donazione, cit., 218. Le prestazioni di cortesia (ad es. “hai da accendere?”) si distinguono da quelle dell’atto liberale e dell’atto gratuito in base a vari criteri: (i) lo scarso valore economico, (ii) l’improduttività di affidamento in capo all’accipiens, (iii) la mancanza dell’intento di obbligarsi giuridicamente (per tutti, L. Pellegrini, La donazione, cit., 160 s., e ivi riferimenti). Nel caso del caregiver, può osservarsi che (i) le prestazioni periodiche di cura protratte per molto tempo hanno un valore economico ingente (che ben emerge nella prospettiva del risparmio di spesa della remunerazione di assistenza professionale), (ii) l’esecuzione di prestazioni continuative di cura produce nella persona assistita, specie se non autosufficiente, un forte affidamento nella continuazione del rapporto, (iii) spesso è configurabile addirittura un intento del caregiver di obbligarsi giuridicamente, accettato dalla persona assistita, da qualificarsi giuridicamente come donazione di prestazioni periodiche di fare, conclusa per fatti concludenti (v. § 3 della parte prima del presente studio).
[58] L’art. 17 co. 2 definisce il volontario “una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un ente del Terzo settore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte ai bisogno delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ed esclusivamente per fini di solidarietà” (corsivo agg.). Ora, tra il volontariato su base individuale e quello all’interno di un ETS, tertium non datur: infatti, la qualificazione di ETS sembra ricoprire l’intera area delle organizzazioni con scopo di volontariato, in quanto trattasi di tutti gli “enti di carattere privato ... costituiti il perseguimento, senza fini di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di attività di interesse generale in forma di azione volontaria ... ed iscritti nel RUNTS”. Dunque, l’art. 17 co. 2 CTS ammette la possibilità che il volontario operi autonomamente.
[59] A. Gianola, Il volontariato, cit., 1021 s.: «Solitamente, ma non necessariamente, il volontario opera in modo organizzato, ovvero inserito in un ente privo di scopo di lucro, secondo modalità programmate, collaborando con altri soggetti, prevalentemente altri volontari, ed utilizzando mezzi ed attrezzature appartenenti all’ente di cui fa parte: meno frequente è il caso del volontario autonomo, che svolge la propria attività in modo indipendente, senza essere inserito in alcun ente di volontariato» (corsivo agg.).
[60] A. Gianola, Il volontariato, cit., 1057 rileva che nel nostro ordinamento giuridico «il volontariato non costituisca una causa negoziale. Il fine di solidarietà rimane confinato fra i motivi di atti che configurano, a seconda dei casi, una donazione, un altro contratto gratuito, una gestione di affari altrui, un’erogazione posta in essere da un ente collettivo nell’ambito della sua attività istituzionale e che sono soggetti alle regole dettate per tali figure negoziali». Se, da una parte, l’A. non si occupa di questioni restitutorie, ma solo della vincolatività della promessa e della responsabilità per la sua mancata o inesatta esecuzione; d’altra parte, va rilevato che – vigendo un principio di causalità delle attribuzioni patrimoniali – in tanto la prestazione è giustificata (i.e. irripetibile), in quanto essa sia sorretta da un valido negozio giuridico (ovvero, l’arricchimento conseguente sia giustificato da “precise disposizioni di legge”, ad. es. artt. 2034 e 2035 c.c., art. 66-quinquies cod. cons.).
[61] P. Morozzo Della Rocca, Gratuità, cit., 215 definisce un “fondamentale tratto distintivo” della causa di solidarietà la impossibilità di riferirla «ad attribuzioni di sproporzionato valore rispetto al patrimonio del disponente, senza altrimenti confondersi con l’istituto e la disciplina della donazione. Si tratta di un limite la cui vigenza può abbondantemente essere rilevata osservando gli istituti che più palesemente offrono oggi efficacia agli atti dispositivi di solidarietà».
[62] Può farsi solo un cenno alla questione del c.d. soccorso privato – per escluderne la rilevanza ai fini del presente lavoro – ch’è stato definito come «attività svolta da un soggetto privato [..] consistente nel sottrarre perone o cose ad una situazione di pericolo presente o potenziale» (P. D’Amico, Il soccorso privato, ESI, 1981, 34). L’A. precisa che la situazione di pericolo va individuata alla stregua dell’art. 2045 c.c., il quale dà rilevanza al “pericolo attuale di un danno grave alla persona” non volontariamente causato né altrimenti evitabile. Più che operare per evitare un pericolo, l’attività del caregiver pare volta a promuovere il benessere della persona assistita: si tratta non già di una azione puntuale e circoscritta nel tempo (come sarebbe ad es. il salvataggio da un incendio), bensì una attività di cura ampia e continuativa. Ad ogni modo, se si ritenesse l’attività del caregiver assimilabile al soccorso privato, allora si applicherebbe la relativa disciplina, ch’è quella della negotiorum gestio: v. infra, § 6.
[63] F. Ferrari, Gestione di affari altrui (dir. priv.), in Enc. dir., XVIII, Giuffrè, 1969, 661; L. Aru, Gestione di affari altrui, nel Comm. cod. civ., Scialoja-Branca, Zanichelli, 1980, 256; M. Casella, Gestione d’affari-diritto civile, in Enc. giur., XV, Treccani, 1989, 7; C.M. Bianca, Diritto civile 3. Il contratto, Giuffrè, 2019, 2a ed., 134; A. Gianola, Il volontariato, cit., 1045.
[64] F. Ferrari, Gestione di affari altrui (dir. priv.), cit., 662; U. Breccia, La gestione di affari, nel Tratt. dir. priv., dir. da P. Rescigno, Utet, 1982, 746; C.M. Bianca, Diritto civile, cit., 150.
[65] Ma minoritaria: se ne legga una critica in G. D’Amico, L’arricchimento mediante fatto ingiusto, in P. Sirena (a cura di), La funzione deterrente della responsabilità civile, Giuffrè, 2011, 380, e ivi riferimenti. Come noto, la tesi che predica la ratio esclusivamente “altruistica” dell’istituto è stata accolta dai redattori del Codice civile (Relazione, n. 789: «il gestore deve sapere di trattare affari altrui, cioè di avvantaggiare, con la sua azione, il dominus assente») e nella dottrina successiva (v., anche per riferimenti, R. Pane, Solidarietà sociale e gestione d’affari altrui, ESI, 1996).
[66] P. Sirena, La gestione, cit., 429; I. Garaci, La gestione di affari altrui. Artt. 2028-2033, in Comm. cod. civ. Schlesinger-Busnelli, Giuffrè, 2018, 44 s., 106 s.; si v. anche le acute osservazioni del Pacchioni (la prima edizione del suo Trattato della gestione degli affari altrui secondo il diritto romano e civile risale al 1893, l’ultima al 1935), che riteneva la totalità dei presupposti (tra cui l’animus aliena negotia gerendi) necessaria solo per l’esperimento dell’actio negotorium gestorum contraria – da parte del gestore contro il dominus, per il rimborso delle spese e il risarcimento dei danni – mentre giudicava sufficiente, per l’esperimento dell’actio directa, il fatto oggettivo dell’invasione dell’altrui sfera giuridica: di tal che il dominus poteva agire contro il gestore per la restituzione del risultato netto della gestione, anche se quest’ultimo fosse intervenuto animo depraedandi (G. Pacchioni, Diritto civile italiano. Diritto delle obbligazioni. Dei quasi contratti, Cedam, 1938, 63 s.)
[67] R. Santagata, Del mandato, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, Zanichelli, 1985, 561; P. Sirena, La gestione, cit., 34
[68] P. Sirena, La gestione, cit., 35.
[69] P. Sirena, La gestione, cit., 36-37, con riferimento al diritto olandese (Art. 6:200 co. 2 NBW), e a quella dottrina di common law (c.d. necessitous intervention). che riconosce una pretesa restitutoria a chi si sia ingerito nell’altrui sfera giuridica al fine di evitare un pregiudizio all’integrità psico-fisica ed, eventualmente, agli interessi patrimoniali del soggetto gerito (R. Goff, G. Jones, The Law of Unjust Enrichment, London, 1993, 4th ed., 374 s.).
[70] Cass. civ., 12 gennaio 2021, n. 261, in Nuova giur. civ. comm., 2021, 3, 575 s., con nota di G. De Cristofaro, Il regime privatistico “speciale” delle c.d. forniture non richieste: la prima presa di posizione della Suprema Corte: «in caso di fornitura (di energia, gas o altro) non richiesta, nulla è dovuto da parte del consumatore, nemmeno a titolo di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c., non avendo il consumatore prestato alcun consenso».
[71] Così C.M. Bianca, Diritto civile 3, cit., 130.
[72] Cass. civ., 9 agosto 1988, n. 4883, in Mass. Giur. it., 1988: «Qualora i bisogni dell’avente diritto agli alimenti vengano per intero soddisfatti da uno soltanto dei condebitori ex lege, questi può esercitare il regresso pro quota verso il coobbligato senza necessità di una preventiva diffida ad adempiere, tenuto conto che le disposizioni dell’art. 445 c. c., in tema di decorrenza degli alimenti solo dalla domanda giudiziale (o dalla costituzione in mora, se seguita entro sei mesi dalla domanda giudiziale), riguardano esclusivamente il rapporto diretto con il creditore e non sono estensibili alla suddetta azione di regresso, la quale è riconducibile alle regole dell’utile gestione (considerando che l’intento di gestire gli affari altrui, in difetto di un’opposizione dell’interessato, è insito nella consapevolezza del carattere cogente del relativo obbligo)» (conf. Cass. civ., 29 febbraio 1955, n. 2686; Cass. civ., 20 maggio 1961, n. 1196; Cass. civ., 6 dicembre 1968, n. 3901; e, in obiter, Cass. civ., Sez. un., 8 novembre 2022, n. 32914, cit.).
[73] Questa tesi è stata sostenuta da D. Vincenzi Amato, Gli alimenti. Struttura giuridica e funzione sociale, Giuffrè, 1973, e, di recente, da R. Pacia, Decorrenza, cit., 67 s., le cui argomentazioni sono state condivise da Cass. civ., Sez. un., 8 novembre 2022, n. 32914, cit., § 4: «La prima affermazione (preesistenza del diritto agli alimenti già al momento in cui si verificano i presupposti) è contestata da una parte della dottrina che individua nella decisione del giudice che riconosce il diritto agli alimenti una pronuncia propriamente costitutiva, affermando l’irrilevanza dell’astratta esistenza dei requisiti richiesti dalla legge, tratta dalla stessa disposizione dell’art. 445 c.c. secondo cui la decorrenza è fissata nel momento della domanda o, al più, della costituzione in mora. La sentenza che accerta, in concreto, lo stato di bisogno e l’incapacità dell’alimentando di provvedere da sé al proprio sostentamento costituisce in senso proprio il credito alimentare, con decorrenza ex tunc dalla domanda giudiziale (o dalla costituzione in mora nei limiti previsti), al pari di quanto fa la pattuizione negoziale dalla data della stipulazione dell’accordo o dal giorno dettato dalle parti come termine iniziale per la somministrazione. A tale soluzione non contrasterebbe l’affermata retroattività, perché, se è vero che gli effetti delle sentenze costitutive sono di norma irretroattivi, esistono però ipotesi dove l’anticipazione degli effetti ad un momento anteriore al passaggio in giudicato si ricollega ad una concreta scelta legislativa (ad es. art. 290 cc.). La retroattività degli effetti della sentenza trova giustificazione nella necessità, avuta presente dal legislatore, di non far gravare sull’attore bisognoso il pregiudizio economico derivante dalla durata del processo, in caso di esito per lui vittorioso» (cors. agg.).
[74] D. Vincenzi Amato, Gli alimenti, cit., 125 s.; G.B. Ferri, Degli alimenti, in Comm. dir. fam., dir. da Cian-Oppo-Trabucchi, IV, Cedam, 1992, 663; C. Argiroffi, Degli alimenti, nel Comm. cod. civ. Schlesinger-Busnelli, Giuffrè, 2009, 125 s.; R. Pacia, Degli alimenti, in Comm. cod. civ. dir. da E. Gabrielli, Della famiglia, a cura di G. Balestra, III, Utet, 2009, 547 s.; Ead., Decorrenza degli alimenti legali e natura costitutiva del provvedimento giudiziale, cit., 67 s.; A. Cordiano, Degli alimenti, cit., 320 s.
[75] A. Trabucchi, s.v. Alimenti (diritto civile), cit., 237; T. Auletta, Alimenti e solidarietà familiare, Giuffrè, 1984, 80 s.; P. Sirena, La gestione, cit., 327; C.M. Bianca, Diritto civile 2.1 Famiglia, cit., 488. In giur., Cass. civ., 27 luglio 1967, n. 1996, in Foro. it., 1967, I, c. 2534; Cass. civ. 11 ottobre 1949, n. 2458, in Rep. Giur. it., 1949, voce Alimenti, n. 19, dove si precisa, tuttavia, che la decorrenza degli alimenti è solo dall’insorgere dello stato di bisogno, ove questo sia posteriore alla domanda; in obiter, Cass. civ. 9 gennaio 2003, n. 113, in Giur. it., 2003, 133.
In questa prospettiva, il diritto agli alimenti sarebbe esigibile già nel momento in cui si verificano i presupposti legali, ma l’obbligazione sarebbe attuale solo a seguito della richiesta dell’alimentando, quale atto di esercizio del suo diritto. Alcune conseguenze applicative: (i) la prestazione spontanea degli alimenti da parte dell’obbligato, prima della domanda (o della costituzione in mora) costituirebbe adempimento di un obbligo giuridico (diversamente, potrebbe configurarsi un indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., qualora la fattispecie non fosse riconducibile all’obbligazione naturale o all’atto di liberalità); (ii) solo la prestazione effettuata dal terzo porrebbe il problema del diritto di rivalsa nei confronti dell’alimentato o del vero obbligato; (iii) se l’alimentando è nell’impossibilità di prendere l’iniziativa, l’obbligato dovrebbe provvedere di sua iniziativa; (iv) ove intervenga la richiesta dell’avente diritto, l’obbligato, oltre a corrispondere le prestazioni successivamente maturate, dovrebbe pagare anche gli interessi sulle somme in cui è liquidata la prestazione, trattandosi di inadempimento di un’obbligazione preesistente.
[76] Così R. Pacia, Decorrenza, cit., 69.
[77] C. Argiroffi, Degli alimenti, cit., 138.
[78] R. Pacia, Decorrenza degli alimenti legali, cit., 70-72.
[79] R. Pacia, Decorrenza, cit., 73-74. Si tratta dello schema dei c.d. diritti potestativi a necessaria attuazione giudiziale (come ad es. il diritto del contraente incapace o vittima di dolo, violenza o errore di ottenere l’annullamento ope judicis).
[80] Questa soluzione rispecchia quella adottata da Cass. civ., Sez. un., 8 novembre 2022, n. 32914, cit., che ritiene sempre ripetibile l’assegno versato, che poi risulti integralmente non dovuto ab origine.
[81] V. supra, § 2.
[82] R. Pacia, Decorrenza, cit., 77.
[83] R. Pacia, Decorrenza, cit., 77.
[84] D. Vincenzi Amato, Gli alimenti, cit., 176 s.; R. Pacia, Decorrenza, cit., 78.
[85] R. Pacia, Decorrenza, cit., 78. Sulla necessità di ridimensionare la concezione estrema della sussidiarietà c.d. in astratto, finora adottata dalla giurisprudenza, si v. P. Sirena, Note critiche sulla sussidiarietà dell’azione generale di arricchimento senza causa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 105 s.; Id., La sussidiarietà dell’arricchimento ingiustificato, in Riv. dir. civ., 2018, 2, 379 s. In questo senso si v. ora il principio di diritto enunciato da Cass. civ., Sez. Un., 5 dicembre 2023, n. 33954: «Ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c., la domanda di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo. Viceversa, resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico» (si v., in senso conforme, i numerosi commenti all’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite, Cass. civ., 5 febbraio 2023, n. 5222, in Giur. it., 2023, 7, 1531 s., con note di D. Carusi, Buone notizie dalla Cassazione: l’interpretazione dell’art. 2042 c.c. verso l’esame delle Sezioni unite, e di C. Cicero, Sulla sussidiarietà “in astratto” dell’azione di arricchimento senza causa; in Nuova giur. civ. comm., 2023, 3, 500 s., con note di F. Ruggiero, Arricchimento ingiustificato: sull’opportunità di una rilettura in concreto della clausola di sussidiarietà, e P. Gallo, Verso il superamento della sussidiarietà dell’azione di arricchimento; in Resp. civ. prev., 2023, 3, 742 s., con note di C. Scognamiglio, a sussidiarietà dell’azione di arricchimento ingiustificato: attendendo le Sezioni Unite, e S. Gatti, I confini della sussidiarietà: l’azione fondata su clausola generale rigettata per difetto di prova preclude l’azione di arricchimento?).
[86] Cass. civ., Sez. un., 29 aprile 2009, n. 9946, § 6.3: «la surrogazione ipotizzata dal cit. art. 2036 c.c., comma 3, postula che l’eseguito pagamento sia – in astratto – riconducibile alla figura dell’indebito ex latere solventis, pur difettando qualcuna delle condizioni perché possa esserne chiesta la ripetizione. Richiede necessariamente, quindi, che sussista l’elemento soggettivo della consapevolezza e volontà del solvens di pagare un debito proprio anziché altrui». Qualora invece sussista l’animus del solvens di adempiere come terzo (cioè non si crede debitore, nemmeno per errore inescusabile), allora si potrà esperire l’azione di arricchimento (altrimenti preclusa dalla sussidiarietà).
[87] La categoria dell’atto di ultima volontà comprende, secondo la dottrina (G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Giuffrè, 1954; G. Amadio, L’atto di ultima volontà: il valore attuale di una categoria, in Lezioni di diritto civile, Cedam, 2016, 2a ed., 405 s.; V. Barba, Interessi post mortem tra testamento e altri atti di ultima volontà, in Riv. dir. civ., 2017, 2, 319 s.; Id., Contenuto del testamento e atti di ultima volontà, ESI, 2018), tutti quegli atti unilaterali, unipersonali, non recettizi, sempre revocabili, che acquistano rilevanza giuridica con la morte dell’autore – ammessi in quanto diretti ad assolvere la generica funzione di regolare un interesse post mortem, personale o patrimoniale, di chi li compie – ai quali non si applica la disciplina della forma del testamento. La disciplina formale, infatti, è dettata talvolta con rinvio alla forma testamentaria, talaltra è prevista espressamente, talaltra non richiede alcun requisito particolare.
[88] Con riferimento al riconoscimento di debito post mortem, G. Giampiccolo, Il contenuto, cit., 26-27.
[89] Cfr. Cass. civ., 3 marzo 2009, n. 5119, in Riv. not., 2009, 6, 623 s., con nota di M.T. Ligozzi, che ha ravvisato una valida ricognizione di debito post mortem nella seguente dichiarazione: «come riconoscimento e compenso di tutta l’assistenza, cura e amministrazione a me fatta da oltre 20 anni sino ad oggi da mia nipote mi riconosco debitrice ... della somma di L. 50.000.000 ... Per l’assistenza, le cure, il lavoro e l’amministrazione che continuerà a farmi da oggi in poi dichiaro di darle L. 10.000.000 all’anno. ... prenderà quanto le devo, per come detto sopra, dopo la mia morte...» (corsivo agg.).
[90] Si legge al n. 782 della Relazione al Re che promessa di pagamento e ricognizione del debito sono state disciplinate unitariamente: «perché conveniva mettere in evidenza, meglio di quanto non risultasse per la promessa di pagamento dall’art. 1325 del codice del 1865, che promessa di pagamento e ricognizione di debito non sono o non meritano di essere trattate soltanto come prove, ma soprattutto come negozi giuridici, regolandoli anche dal punto di vista processuale in riguardo alla loro astrattezza dal rapporto fondamentale, che rimane sempre astrattezza processuale e non materiale» (corsivo aggiunto). In dottrina, G. Giampiccolo, Il contenuto, cit., 28 ritiene che «il riconoscimento di debito sia propriamente una dichiarazione di volontà volta ad affermare vitale ed operante l’altrui diritto ed attuale e vincolante la propria situazione di obbligo. Chi dichiara di dovere qualcosa a qualcuno, non fa un’affermazione di verità, non appresenta il fatto costitutivo del debito, ma si riconosce debitore, cioè fa recognizione di un rapporto giuridico, afferma il proprio obbligo e l’altrui diritto; fa una dichiarazione di volontà e non di scienza», e ancora (Id., op. cit., 29) che «il riconoscimento di debito è una dichiarazione di volontà negoziale, diretta alla ricognizione di una reale situazione di diritto, cui la legge ricollega, in funzione sua propria, l’effetto sostanziale della puntualizzazione del debito (interruzione della prescrizione), e in funzione del momento rappresentativo (dimostrativo) che può esservi implicito (riconoscimento non titolato) o connesso in forma esplicita (riconoscimento titolato), l’effetto processuale relativo alla prova del rapporto considerato (inversione dell’onere probatorio; prova piena, o semplice, dell’esistenza e del modo di essere del rapporto)». Più di recente, R. Sacco, s.v. Dichiarazione di scienza, in Dig. disc. priv. (civ.), XII, Utet, 1995: «Asserzione e esercizio di un potere della volontà sono figure vicine, e talora indistinguibili ... (i) la dichiarazione assertiva impegna; (ii) l’importanza della qualità assertiva o promissoria della dichiarazione non deve essere sopravvalutata; (iii) l’asserzione impegnativa è un negozio giuridico. L’impegno mediante asserzione è razionalmente più facile da spiegare che non l’impegno mediante promessa» (corsivo agg.).
[91] La distinzione è formulata da G. Giampiccolo, Il contenuto, cit., 327, nei termini di: (i) atti mortis causa, volti a regolare situazioni che si originano o traggono la loro qualificazione dalla morte (e.g. disposizione testamentaria di istituzione di erede, che ha ad oggetto il quod superest, ed è soggetta alla condizione di premorienza del testatore rispetto al chiamato); (ii) atto post mortem, qualificata dall’elemento della rilevanza giuridica esterna alla morte dell’autore (e.g. gli atti di ultima volontà); (iii) gli atti sotto modalità di morte, immediatamente rilevanti inter vivos, qualificati dal differimento dell’effetto finale post mortem (e.g. donazione si praemoriar). Tale distinzione è illustrata da G. Amadio, L’atto, cit., 411: «il negozio inefficace ma rilevante [è un] atto, pur se privo di effetti, giuridicamente rilevante in quanto da esso risulta attualmente e compiutamente individuato l’effetto futuro, sia in ordine al suo oggetto, che al soggetto cui dovrà imputarsi (e che proprio per questo può costituire fonte di un rapporto di aspettativa). Il negozio ancora privo di rilevanza giuridica (intesa come aspettativa potenziale) viceversa non è ancora in grado di individuare l’effetto potenziale nei suoi profili strutturali necessari, individuabili nella situazione giuridica soggettiva che ne costituisce l’oggetto e nel soggetto cui essa dovrà essere imputata, qualora la pendenza si concluda con esito positivo» (corsivo agg.). Chi acquista un diritto sotto condizione (o termine) può compiere atti conservativi (art. 1357 c.c.), in quanto versa in una situazione di aspettativa di diritto.
[92] Non è condivisibile, quindi, la decisione di App. Torino, 5 luglio 2021, in Onegale: «Il testamento olografo può contenere un riconoscimento di debito da parte del testatore; in tal caso la detta disposizione va interpretata autonomamente dalle altre disposizioni testamentarie e deve essere sganciata dalle stesse, con possibilità di azionarla autonomamente anche prima del decesso del testatore che si è riconosciuto debitore. La disposizione de qua costituisce, infatti, un contenuto atipico del testamento, avente natura di dichiarazione di scienza a contenuto patrimoniale, secondo lo schema negoziale dell’art. 1988 c.c. Tale qualificazione, da un lato, non esclude la validità ed efficacia ante mortem della disposizione e, dall’altro, soggiace alle normali regole in tema di riconoscimento del debito ai sensi dell’art. 1988 c.c. in punto esistenza concreta della pretesa» (corsivo agg.).
93 Ciò sul duplice presupposto della natura di atto di ultima volontà del riconoscimento di debito post mortem (v. supra nel testo) e della mancata espressa previsione di un requisito di forma per il compimento di tale atto, a forma libera (l’opinione è pacifica in dottrina: v., da ultimo, A. Orestano, Le promesse unilaterali, nel Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, Giuffrè, 2019, 205 s.).
[94] La ricognizione di debito dispensa colui a favore del quale è resa dal dimostrare l’esistenza del rapporto fondamentale, salva la prova dell’inesistenza dello stesso da parte del debitore. Una tale dichiarazione semplificherebbe assai la posizione processuale del caregiver, il quale – in mancanza dell’inversione dell’onere della prova – sarebbe tenuto a dimostrare la mancanza di giusta causa ex art. 2041 c.c., cioè la mancanza di ciascuna delle possibili giustificazioni dello spostamento di ricchezza derivante dall’esecuzione della prestazione di cura. In particolare, il caregiver potrebbe avere difficoltà a dimostrare la mancanza dello spirito di liberalità da parte sua: proprio con riferimento a questo aspetto, l’inversione dell’onere della prova risulta prezioso.
[95] Immaginando un caso di prestazioni di cura evidentemente non dovute, la cui esecuzione è fonte di arricchimento ingiustificato in capo all’accipiens, una dichiarazione di riconoscimento di debito (titolata) potrebbe assumere questo tenore: «Mia figlia si è presa di cura di me da quando la malattia mi ha reso non autosufficiente, in modo esclusivo, accogliendomi in casa sua, e rinunciando ad esercitare la sua professione per tutta la durata della mia malattia. Dato che non avevo diritto agli alimenti ex art. 433 c.c., e che le cure che ho ricevuto eccedono la misura del dovere morale e sociale di accudire un genitore bisognoso, riconosco di aver ricevuto da mia figlia una prestazione non dovuta. In conseguenza di ciò, riconosco di maturato nei suoi confronti un’obbligazione restitutoria – pari al risparmio di spesa per il pagamento del corrispettivo dell’assistenza prestata in forma professionale – per un ammontare pari a 1.800 euro/mese, per tutto il periodo in cui mia figlia si è presa cura di me, accogliendomi in casa sua e rinunciando ad esercitare la sua professione».
[96] Chiaramente, la persona accudita potrebbe adempiere la sua obbligazione restitutoria anche prima della sua morte, pagando al caregiver la somma dovuta, e facendosi rilasciare quietanza. Quest’ipotesi, tuttavia, potrebbe dar luogo a notevoli difficoltà. Infatti, gli eredi della persona assistita potrebbero sostenere, dopo la sua morte, che (i) non vi fosse alcuna obbligazione ex art. 2041 c.c., sicché il pagamento sarebbe indebito; (ii) addirittura, che il “pagamento” sarebbe qualificabile penalmente come il prodotto di un reato di circonvenzione d’incapaci (con conseguente responsabilità restitutoria dell’accipiens ex art. 185 c.p. ); (iii) comunque, che il pagamento sarebbe stato fatto con spirito di liberalità, sicché andrebbe qualificato come donazione, valida nei limiti della donazione manuale (“modico valore” con riguardo alle condizioni economiche del donante), soggetta a riduzione e collazione), o nulla per difetto di forma (se eccedente il modico valore). Dunque, la persona accudita potrebbe scegliere, in alternativa, se pagare subito il caregiver – esponendolo alle contestazioni anzidette, da parte degli eredi, dopo la sua morte – oppure se aiutarlo nel recupero del credito, attraverso uno degli atti di ultima volontà di cui si è detto (o ancora disponendo in suo favore un c.d. legato di debito, su cui v. infra). È chiaro che, in alcuni casi, la scelta della seconda alternativa sarà obbligata, ogniqualvolta la persona accudita versi in condizioni di debolezza talmente gravi da impedirle di procedere materialmente al pagamento, oppure perché le è stato nominato un A.d.S. con rappresentanza o assistenza per la gestione del conto corrente, il quale non intende collaborare al pagamento dell’indennità ex art. 2041 c.c. (ad es., perché contesta la sussistenza dei presupposti). In un caso del genere, se è vero che la persona accudita potrebbe fare ricorso al giudice tutelare contro il proprio amministratore, è vero anche che potrebbe trovare più comodo e rapido disporre, per l’adempimento dell’obbligo, mediante un atto di ultima volontà, anche in forma diversa dal testamento.
[97] N. Di Mauro, Legato di debito e datio in solutum, in Riv. not., 1990, 2, 835 s.; V. Barba, Contenuto, cit., 223; A. Spatuzzi, Sul legato di debito sulla datio in solutum con fonte testamentaria, in Riv. not., 2018, 5, 539 s. In giurisprudenza, Cass. civ., 12 luglio 2001, n. 9467, in Giust. civ., 2002, 1, 90 s.: «La datio in solutum è astrattamente attuabile anche attraverso un negozio “mortis causa” sicché è possibile che con un legato il testatore preveda che una nuova prestazione sostituisca una prestazione precedentemente dovuta e tale disposizione testamentaria determina l’estinzione dell’obbligazione preesistente purché sia seguita dalla successiva manifestazione di volontà del legatario (convergente con la volontà del testatore) consistente nella mancata rinuncia al legato (che implica l’intenzione di rinunciare a ogni pretesa relativa all’obbligazione preesistente)»; Trib. Milano, sez. spec., 13 marzo 2020, n. 2119, in Onelegale, in motivaz.: «ai sensi dell’art. 659 c.c., il cd. “legato a favore del creditore” devoluto dal testatore è satisfaciendi causa ed in particolare costituisce una datio in solutum, talché il suo adempimento estingue il debito del testatore. Ciò comporta che questo genere di legato non comporta liberalità e deve invece intendersi alla stregua di qualsiasi pagamento effettuato ai creditori del de cuius nell’ambito della liquidazione individuale dell’eredità».
[98] V. Barba, Contenuto, cit., 224, nota 440, il quale ritiene, comunque, che «non si possa escludere che il testatore possa aver voluto beneficare il proprio creditore, attribuendogli una prestazione diversa (verso la quale il creditore aveva maggiore interesse) da quella originaria (verso la quale il creditore aveva scarso interesse)».
[99] V. Barba, Contenuto, loc. ult. cit.
[100] V. Barba, Contenuto, cit., 225.
[101] V. Barba, Contenuto, cit., 226, risolve la questione in senso negativo, in quanto «Il presupposto che sorregge la regola che impone la riduzione proporzionale di tutte le disposizioni testamentarie è che si tratti di disposizioni aventi natura liberale, dacché la regola, nel conflitto tra l’interesse alla conservazione dell’attribuzione patrimoniale a favore di non legittimari e l’interesse dei legittimari a conseguire la quota di riserva, attribuisce prevalenza a questo secondo interesse, nel presupposto che il testatore non possa beneficare altri, prima di aver soddisfatto le pretese dei legittimari. Non mi sembra, invece, una soluzione adeguata e proporzionata quella che volesse attribuire rilevanza all’interesse dei legittimari anche nel conflitto con eventuali creditori dell’eredità. In tale senso, mi sembra, infatti, orientata la stessa disciplina sul pagamento dei debiti ereditari (art. 752 c.c.), sulla liquidazione concorsuale dell’eredità (art. 498 c.c.), sulla prevalenza dei creditori sui legatari (art. 495 c.c.), nonché la stessa norma sulla riunione fittizia (art. 556 c.c.). Gli è, però, che, nel caso di legato satisfacendi causa, il soggetto è, insieme, creditore e legatario. Movendo dal presupposto che le norme sull’azione di riduzione servano per consentire al legittimario, leso o pretermesso, di aggredire le attribuzioni liberali fatte a non legittimari, mi sembrerebbe plausibile che il legato satisfacendi causa, almeno limitatamente al valore del debito originario, debba sfuggire all’azione di riduzione. Vieppiù se consideriamo che n assenza di donazioni fatte in vita dal de cuius, è tecnicamente impossibile che il legato satisfacendi causa implichi una lesione dei legittimari e che in presenza di donazioni fatte in vita, il legittimario, ove pure si escludesse la riducibilità del legato di debito, avrebbe, comunque, la possibilità di aggredire le donazioni. Si tratterebbe, dunque, di affermare che il legato di debito è esente da riduzione e che la norma la quale stabilisce che tutte le disposizioni testamentarie si riducono proporzionalmente, debba intendersi riferita a tutte le disposizioni testamentarie che non abbiano una funzione solutoria di debiti ereditari».