Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Accordi e disaccordi sulla buona fede oggettiva (di Luca Nanni, Professore ordinario di Diritto privato – Università degli Studi di Genova.)


Il dovere di buona fede contrattuale ha avuto nel corso del tempo un andamento non lineare. Prima ignorata dalla giurisprudenza, in seguito è divenuta uno strumento fondamentale per integrare il contratto e per regolare l'esercizio dei poteri attribuiti alle parti del contratto. Anche di recente il confronto fra una decisione della Suprema Corte di Cassazione e una decisione della Corte Costituzionale italiana rendono evidente che di fronte a casi diversi per materia, ma simili per quanto concerne il ragionamento giuridico da porre a base della decisione, si possono registrare approcci più o meno convincenti.

Agreements and disagreements on the good faith clause in contracts

The contractual duty of good faith has had a non-linear trend over time. First ignored by jurisprudence, it later became a fundamental tool for integrating the contract and regulating the exercise of the powers attributed to the parties to the contract. Even recently, the comparison between a decision of the Supreme Court of Cassation and a decision of the Italian Constitutional Court makes it clear that when faced with cases that are different in subject matter, but similar in terms of the legal reasoning to be used as the basis of the decision, approaches can be more or less convincing.

  

COMMENTO

Sommario:

1. L’iniziale atteggiamento di chiusura verso l’utilizzo della clausola generale di buona fede - 2. La successiva affermazione del ruolo centrale della buona fede nella disciplina del contratto - 3. Dal consenso generalizzato al dubbio manifestato su alcune applicazioni - 4. Gli spunti offerti da una sentenza della Corte di Costituzionale - NOTE


1. L’iniziale atteggiamento di chiusura verso l’utilizzo della clausola generale di buona fede

È noto che al dovere posto dall’art. 1375 c.c., di eseguire il contratto secondo buona fede, inizialmente la giurisprudenza e parte della dottrina hanno dato scarsa importanza, soprattutto negando che la buona fede contrattuale possa costituire una fonte di integrazione del contratto. Indicativa di questo atteggiamento è la massima espressa da una delle prime sentenze di legittimità chiamata ad applicare questa norma, nel 1963 [1]: «il dovere generico di lealtà e correttezza … può costituire solo un criterio di valutazione e di qualificazione di un comportamento. Detto dovere non vale a creare, per se stesso, un diritto soggettivo … quando tale diritto non sia riconosciuto da un’espressa disposizione di legge. Pertanto, un comportamento contrario ai doveri di lealtà, di correttezza e di solidarietà non può essere reputato illegittimo e colposo, né può essere fonte di responsabilità per danni quando non concreti la violazione di un diritto altrui già riconosciuto in base ad altre norme». Mentre, nella dottrina, era diffusa l’idea che il dovere in parola, e quello analogo di correttezza previsto dall’art. 1175 c.c., non avessero un rilievo normativo autonomo [2]. Nell’indicare le cause di questo atteggiamento, innanzi tutto è stato valorizzato il dato positivo ed in particolare la scelta di inserire il dovere di esecuzione del contratto secondo buona fede in un articolo del codice civile, il 1375, che sebbene collocato immediatamente dopo, è comunque autonomo rispetto all’articolo 1374, dedicato all’integrazione del contratto. Ciò ha indotto a pensare che il dovere di buona fede, intervenendo nella fase di esecuzione, non contribuisca alla determinazione del regolamento contrattuale, che logicamente precede l’esecuzione [3]. Inoltre, hanno avuto certamente un peso anche la diffidenza verso l’uso delle clausole generali, difficilmente prevedibili quanto alla loro applicazione nei casi concreti, ed il timore che, inserendo, nel regolamento contrattuale doveri e divieti non previsti dalle parti, sarebbe risultata lesa la loro autonomia contrattuale, in un contesto, soprattutto giurisprudenziale, ancora permeato dal dogma della volontà e che vedeva perciò come del tutto eccezionale un intervento che potesse integrare il contenuto del contratto. È certamente da individuare nell’opera di Rodotà [4] lo stimolo verso un atteggiamento diverso, che induca a non considerare l’integrazione come un attentato all’autonomia privata, alla quale è pur sempre rimessa la scelta di concludere il contratto, del tipo e del suo contenuto. L’integrazione serve invece a creare il necessario coordinamento fra l’autonomia privata e i valori espressi dall’ordinamento, fra i quali, in particolare, assume fondamentale rilevanza il dovere di solidarietà sociale espresso dall’art. 2 della Costituzione. In questo modo non si consegnano le parti all’arbitrio del Giudice, la cui valutazione deve trovare pur sempre un chiaro ancoraggio legislativo. In tal senso, un ruolo determinante può svolgerlo la tipizzazione dei casi nei quali si ravvisa violazione della clausola generale di correttezza e buona fede, così come – negli stessi anni nei quali scrive Rodotà – sta avvenendo con la clausola generale di ingiustizia del danno ai fini dell’applicazione dell’art. 2043 c.c.: individuare ipotesi tipiche di violazione della buona fede, condivise dagli interpreti, significa infatti fondare i giudizi su basi solide e prevedibili, eliminando l’incognito. In tal senso, è emblematico constatare come nel clima di diffidenza e finanche di rifiuto della clausola generale di buona fede, sopra evocato, si continuasse, frequentemente e da decenni, ad applicare l’ipotesi ormai ampiamente tipizzata di violazione della buona fede precontrattuale (art. 1337 c.c.), costituita dal recesso abusivo dalla trattativa [5].


2. La successiva affermazione del ruolo centrale della buona fede nella disciplina del contratto

Grazie all’opera di Rodotà e alla consapevolezza assunta dai giudici sul loro ruolo nel governo dell’autonomia privata, oggi la situazione può dirsi capovolta, in quanto si assiste ad un uso ampissimo della buona fede, al punto che fra gli interpreti si è fatta strada l’esigenza opposta, di contenere il ricorso alla clausola generale qui in esame nei giusti limiti, com’è stato dimostrato dai commenti a sentenze delle quali si dirà nel successivo paragrafo, che hanno suscitato più critiche che consensi. Che ciò dipenda anche dalla maggiore consapevolezza del ruolo assunto dal giudice può ricavarsi da una constatazione: spesso è il giudice più autorevole, quello di legittimità, a dimostrare maggiore apertura verso l’utilizzo della clausola generale di buona fede, come è dimostrato da vicende giudiziarie (delle quali si dirà in seguito), dove l’istanza fondata sulla buona fede contrattuale, rigettata in primo e in secondo grado, è stata poi accolta dalla Corte di Cassazione. Ed emblematica, rispetto a questo ruolo di guida assunto dai giudici di legittimità verso una maggiore apertura nei confronti della buona fede oggettiva, è l’inusuale critica rivolta da una sentenza del Supremo Collegio [6] alla Corte territoriale, per avere deciso a favore di un assicuratore una vicenda nella quale l’assicurato lamentava l’omessa informazione sugli elevati costi di gestione delle polizze che aveva sottoscritto nel 2000, sentendosi rispondere dall’assicuratore che tale informazione non rientrava fra quelle che secondo la normativa applicabile egli era tenuto a fornire. Nella motivazione della sentenza, addirittura la Corte di Cassazione ricorda al giudice di merito l’esistenza del codice civile: «all’epoca della stipula delle polizze oggetto del presente giudizio era in vigore, da 58 anni, il codice civile. Il codice civile contiene gli articoli 1175, 1176, 1337 e 1375 c.c. Queste norme, ovviamente già nel 2000, imponevano all’assicuratore prima della stipula del contratto: – di informare il contraente sui costi e sulla redditività della polizza; – di fornire informazioni esaustive; – di fornire informazioni utili; – di fornire informazioni chiare». Va precisato però che l’ampio utilizzo odierno della buona fede contrattuale dev’essere ridimensionato, tenendo conto che spesso viene ricondotto a tale clausola generale l’osservanza di doveri espressamente previsti dalla legge. Per esempio, è frequente il richiamo alla buona fede per valutare la condotta del prestatore d’opera che rinuncia all’incarico creando difficoltà al cliente, sebbene vi sia la previsione espressa dell’art. 2237, comma 3 c.c., secondo cui il prestatore d’opera non deve recedere con modalità tali da recare pregiudizio al cliente. Inoltre, a volte si trovano enunciazioni di principio da parte della Corte di Cassazione che non necessariamente si tradurranno in applicazioni concrete, perché normalmente la buona fede viene valorizzata dalla Corte di legittimità per contrasto con l’atteggiamento di chiusura manifestato dal giudice di merito: significa che il ricorso per cassazione viene accolto, ma l’accoglimento è fondato sull’enunciazione del principio di diritto che valorizza il ruolo della buona fede; ad esso fa seguito il rinvio alla Corte di merito, dove non è detto che il principio di diritto si tradurrà nell’accoglimento della domanda fondata sulla buona fede, potendo il giudice del rinvio giungere comunque alla conclusione che non vi è stata violazione di tale dovere, neppure se inteso nell’accezione più ampia postulata dalla Corte di Cassazione. Ciò premesso, può osservarsi che dopo l’iniziale diffidenza, di cui si è detto, la buona fede contrattuale ha assunto un ruolo determinante soprattutto quale fonte di integrazione del contratto, in una duplice modalità [7]: potendo consentire di affermare che a) il contratto obbliga a fare anche ciò che non è espressamente previsto, se è la buona fede ad imporre il dovere; b) il contratto vieta di fare anche ciò che non è espressamente vietato, se è la buona fede ad imporre il divieto [8].

Per quanto riguarda il profilo sub a), vengono in considerazione soprattutto i doveri di informazione, come evidenziato dalla sentenza precedentemente citata riguardante il rapporto fra l’assicuratore e l’assicurato.

Altre recenti pronunce si sono occupate del medesimo dovere in capo al notaio [9]. Una [10] ha ravvisato la violazione del dovere di buona fede contrattuale nella condotta del notaio che aveva rifiutato (non essendo formalmente tenuto) di fornire i dati anagrafici dell’acquirente di un’autovettura: dati richiesti dal venditore (che probabilmente li aveva smarriti) perché l’acquirente non aveva eseguito la voltura dell’intestazione dell’autoveicolo e il venditore si trovava costretto a continuare a pagare le tasse automobilistiche. Un’altra [11] ha ravvisato la medesima violazione nella condotta del notaio che aveva inserito in quattro atti di vendita immobiliare, conclusi fra le stesse parti in circa un anno di tempo, la clausola di rinuncia del venditore all’ipoteca legale, in una situazione nella quale era previsto in ogni vendita che l’acquirente non avrebbe pagato il prezzo al momento della stipula e dove, ogni volta, l’acquirente aveva immediatamente svenduto ad altri ciascun immobile appena acquistato con atto rogato dallo stesso notaio, così rendendosi nullatenente. Anche in questo caso vi era stata una difesa formale del notaio, il quale, come risultava negli atti di vendita, aveva sempre reso edotto il venditore di ciò che avrebbe comportato la rinuncia all’ipoteca legale; ma a tale difesa la Corte di Cassazione ha risposto osservando come la peculiarità della situazione, conosciuta dal notaio, imponeva ben altra condotta da parte sua, in osservanza al dovere di buona fede contrattuale, rispetto al formale ed astratto richiamo alle conseguenze della rinuncia all’ipoteca. Quanto al profilo sub b), secondo il quale il contratto può vietare di fare anche ciò che non è espressamente vietato, se è la buona fede ad imporre il divieto, viene in considerazione soprattutto il noto caso Fiuggi, deciso da un’illuminata pronuncia della Corte di Cassazione [12] che ha giudicato una vicenda nella quale l’Ente Fiuggi, affittuario dell’azienda del Comune di Fiuggi produttrice della nota acqua minerale, aveva convenuto col Comune un affitto che sarebbe negli anni aumentato in proporzione all’aumento del prezzo di vendita dell’acqua imbottigliata. Era accaduto però che nonostante l’inflazione di quegli anni ed il sensibile aumento del prezzo di vendita al dettaglio delle bottiglie, l’affittuaria continuava a corrispondere al Comune lo stesso importo. Alla richiesta di spiegazione del Comune, la risposta era stata che l’acqua imbottigliata non veniva immessa sul mercato, ma venduta ad una Società del medesimo gruppo dell’Ente Fiuggi, che la immetteva sul mercato; poiché il prezzo di vendita alla Società del gruppo era rimasto immutato negli anni, nessun aumento era dovuto al Comune. L’azione promossa da quest’ultimo fu respinta dai giudici di merito, i quali osservarono che nessuna clausola vietava all’affittuaria di vendere ad una Società del gruppo, anziché immettere direttamente le bottiglie sul mercato. Chiamata a decidere la controversia, la Corte di Cassazione osservò che «il mezzo ripropone questioni già ampiamente dibattute nel giudizio di merito e relativamente alle quali la Corte di Appello sintetizza, conclusivamente, il proprio pensiero, con la proposizione che segue: “in definitiva, poiché dai patti contrattuali non è consentito dedurre alcun diritto in capo al Comune a che l’Ente Fiuggi aumentasse il prezzo di vendita in fabbrica delle bottiglie per adeguarlo alla svalutazione della moneta, né è lecito argomentare, in presenza di specifica pattuizione che attribuisce all’Ente stesso piena libertà principalmente nel fissare i prezzi di vendita, su pretesi comportamenti attuati in spregio delle regole della correttezza e della buona fede, la domanda va rigettata, in quanto del tutto sfornita di fondamento”». In conseguenza dell’impostazione data al problema, il pensiero della Corte d’Appello espresse la tradizionale difesa del principio volontaristico: la Società non avrebbe avuto l’obbligo di aumentare il prezzo di vendita delle bottiglie dal produttore al distributore per adeguarlo alla svalutazione, in modo da consentire analogo adeguamento del canone dovuto al Comune, perché nessun obbligo in tal senso era previsto in contratto; mentre ogni diversa considerazione improntata al rispetto del canone di correttezza contrattuale avrebbe finito con l’introdurre un dovere laddove le parti avevano previsto la piena libertà d’azione; o, se si preferisce, avrebbe compresso la libertà d’azione voluta dalle parti. Ben diverso è l’atteggiamento della Corte di Cassazione: «ammesso che la legge pattizia attribuisca davvero all’Ente Fiuggi “piena libertà” nel determinare il prezzo in fabbrica delle bottiglie, essa non potrebbe, comunque, ritenersi svincolata dall’osservanza del dovere di correttezza (art. 1175 c.c.), che si porge nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, concorrendo, quindi, alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 2 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti (art. 1374 c.c.) e deve, ad un tempo, orientarne l’interpretazione (art. 1366 c.c.) e l’esecuzione (art. 1375), nel rispetto del noto principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l’interesse dell’altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio». Di qui la censura della sentenza di merito, la quale era stata pronunciata «sotto l’influsso, evidente, di persistenti diffidenze verso il principio in esame, ancorché denunciate dalla dottrina con particolare vigore a partire dai primi anni sessanta e in parte rimosse dalla giurisprudenza più recente». È interessante notare che un caso pressoché analogo, nel quale pure era stata utilizzata l’interposizione di una Società del gruppo per eludere una previsione contrattuale, si è ripresentato alcuni anni dopo. Infatti, una Società produttrice di olio aveva attribuito ad altra Società l’esclusiva per la vendita dei suoi prodotti in Libia, con l’espresso impegno della prima a non vendere il suo prodotto nel territorio senza il consenso della seconda. Era emerso però che era stata effettuata una vendita da parte di una Società controllata al 95,5% dalla produttrice e che, per la vendita, era stata utilizzata la stessa nave usata dalla produttrice prima di attribuire l’esclusiva alla sua nuova distributrice, che era stato fissato lo stesso prezzo prima praticato dalla produttrice e che era stata la stessa produttrice a fornire la garanzia richiesta dall’acquirente. Ebbene, prima la Corte d’Appello [13] e poi la Corte di Cassazione [14] hanno ritenuta fondata la domanda della distributrice fondata sulla violazione della buona fede contrattuale, respingendo quindi il tentativo della produttrice di invocare il rispetto formale del contratto, che non vietava le vendite compiute da una Società terza; tuttavia, nessuna delle due decisioni ha citato il fondamentale precedente costituito dal caso Fiuggi. Ciò sta evidentemente a significare che la valorizzazione del canone di buona fede è entrata nella mentalità delle Corti, dove non ha più bisogno ormai di fondarsi sul richiamo ai precedenti giurisprudenziali.


3. Dal consenso generalizzato al dubbio manifestato su alcune applicazioni

Pur in un contesto di generale condivisione verso un utilizzo della clausola generale di buona fede adeguato alla sua importanza ed utilità, non sono mancati però dei casi nei quali sono stati manifestati seri dubbi, ispirati fondamentalmente dall’esigenza di individuare non solo le potenzialità applicative, ma pure i limiti alla sua operatività. La nota sentenza della Corte di Cassazione sull’abuso del diritto nel caso Renault [15] costituisce forse il caso più dibattuto [16]. La vicenda è nota [17]: Renault Italia esercitò nei confronti di numerosi concessionari il diritto, a lei spettante in base ai contratti di concessione di vendita, di recesso ad nutum da tali contratti. Emerse che la sua decisione non era motivata da insoddisfazione sull’operato dei concessionari, bensì dalla scelta strategica di favorire l’uscita di numerosi dirigenti, per ragioni di contenimento dei costi fissi, con l’incentivo a loro dato dalla promessa di affidamento di una concessionaria. I destinatari del recesso si coalizzarono in un’associazione e promossero il giudizio nel quale lamentarono l’abuso del diritto di recesso da parte di Renault Italia. Come già nel caso Fiuggi, la domanda fu rigettata dai giudici di merito; questa volta, però, non sulla base del pregiudizio manifestato dalla giurisprudenza nei primi anni successivi al codice civile, bensì con argomenti che effettivamente mettono l’interprete di fronte al problema concreto della individuazione dei limiti entro i quali la buona fede può operare. In particolare, la Corte d’Appello [18] aveva formulato, fra le altre, queste obiezioni: «… 2) la previsione contrattuale del recesso ad nutum dal contratto non consente, quindi, da parte del giudice, il sindacato su tale atto, non essendo necessario alcun controllo causale circa l’esercizio del potere, perchè un tale potere rientra nella libertà di scelta dell’operatore economico in un libero mercato; 3) La Renault Italia non doveva tenere conto anche dell’interesse della controparte o di interessi diversi da quello che essa aveva alla risoluzione del rapporto … 7) “Il mercato, concepito quale luogo della libertà di iniziativa economica (garantita dalla Costituzione), presuppone l’esistenza di soggetti economici in grado di esercitare i diritti di libertà in questione e cioè soggetti effettivamente responsabili delle scelte d’impresa ad essi formalmente imputabili. La nozione di mercato libero presuppone che il gioco della concorrenza venga attuato da soggetti in grado di autodeterminarsi”; 8) Alla libertà di modificare l’assetto di vendita, da parte della Renault Italia spa, conseguiva che il recesso ad nutum rappresentava, per il titolare di tale facoltà, il mezzo più conveniente per realizzare tale fine: non sussiste, quindi, l’abuso”; 9) La impossibilità di ipotizzare “un potere del giudice di controllo diretto sugli atti di autonomia privata, in mancanza di un atto normativo che specifichi come attuare tale astratta tutela”, produce, come effetto, quello della introduzione di “un controllo di opportunità e di ragionevolezza sull’esercizio del potere di recesso; al che consegue una valutazione politica, non giurisdizionale dell’atto”; 10) La impossibilità di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico e, particolarmente, “in ambito contrattuale in cui i valori di riferimento non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti e la composizione del conflitto avviene proprio seguendo i parametri legali dell’incontro delle volontà su una causa eletta dall’ordinamento come meritevole di tutela” fa sì che “Solo allorchè ricorrono contrasti con norme imperative, può essere sanzionato l’esercizio di una facoltà, ma al di fuori di queste ipotesi tipiche, normativamente previste, residua la più ampia libertà della autonomia privata”». In sostanza, la Corte d’Appello aveva osservato che l’attribuzione a Renault Italia del potere di recesso ad nutum costituiva il risultato di un accordo liberamente negoziato e che la limitazione di tale potere avrebbe modificato i termini di tale accordo. A queste obiezioni la Corte di Cassazione risponde osservando che un controllo sull’atto di autonomia privata è pur sempre necessario, dovendosi comunque fare applicazione del canone di buona fede [19].

La decisione è stata quindi rimessa al giudice del rinvio, il quale [20] ha sorprendentemente disatteso il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, avendo ritenuto che si debba distinguere fra abuso del diritto di recesso ad nutum dal contratto, non ipotizzabile perché il controllo sulla motivazione del recesso renderebbe non libero un potere che è riconosciuto, appunto, ad nutum, e violazione della buona fede nell’esercizio del recesso, ipotizzabile in relazione alle modalità con le quali il recesso è stato posto in essere; e che il sindacato del giudice possa avere per oggetto solo nella seconda ipotesi.

Un’altra discussa sentenza della Corte di Cassazione, più recente, è quella che riguarda un caso nel quale è stata ritenuta contraria a buona fede e, pertanto, respinta, la domanda di pagamento di un rilevante importo per canoni di locazione, senza che si fosse verificata la prescrizione, ma in base alla constatazione che dal 2004 al 2011 il locatore aveva omesso di chiedere il pagamento dei canoni, dopo di che aveva formulato la richiesta di pagamento di tutti i canoni scaduti [21]. La sentenza prende atto che, nel nostro ordinamento, un diritto di credito si perde per prescrizione, non invocabile nel caso di specie [22], o per remissione del debito, anche attraverso un inequivoco comportamento [23], ma aggiunge che «indipendentemente dall’indagine sulla volontà di rinunciare al diritto o dal decorso del termine di prescrizione del medesimo, il repentino esercizio del diritto, dopo una situazione di durevole inerzia non altrimenti giustificata, può costituire esso stesso una violazione del principio di affidamento circa la oggettiva abdicazione». Dunque, in questo modo, sembra individuare un tertium genus di perdita del diritto di credito, difficilmente distinguibile però dai due sopra indicati, perché se nella condotta del creditore si ravvisa solo una non qualificata inerzia, dovrebbe applicarsi la regola secondo cui, finché il credito non è prescritto, può essere esercitato; se invece l’inerzia dev’essere in qualche modo caratterizzata da elementi che giustifichino l’affidamento del debitore sulla rinuncia a esercitare il diritto, allora si ricade nella remissione per fatti concludenti. Di fronte a questa impasse, la motivazione inizia ad orientarsi verso una rinuncia per fatti concludenti, prima evidenziando, «peraltro ad abundantiam», la particolare situazione di fatto, nella quale vi era la locazione di un’immobile appartenente a una Società avente una compagine familiare e il conduttore era il figlio. In seguito, riferisce che tra i soci erano insorti dei contrasti, probabilmente tali da indurre il padre a non consentire più al figlio di utilizzare un immobile della sua Società senza pagare nulla (si legge nella sentenza: «ciò che conta, in definitiva, è che la valutazione dell’atto teso a far rivivere l’ob­bli­ga­zione deve essere ricondotta alla “conflittualità” esistente tra le parti»). In questo modo la semplice inerzia diviene tolleranza, motivata dai rapporti esistenti fra i soci e interrotta quando i rapporti sono cambiati. Infine, la sentenza formula il principio di diritto secondo cui «in un contratto di locazione di immobile ad uso abitativo l’assoluta inerzia del locatore nell’escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del corrispettivo sino ad allora maturato, protrattasi per un periodo di tempo assai considerevole in rapporto alla durata del contratto, e suffragata da elementi circostanziali oggettivamente idonei a ingenerare nel conduttore un affidamento nella remissione del diritto di credito da parte del locatore per facta concludentia, la improvvisa richiesta di integrale pagamento costituisce esercizio abusivo del diritto». Si tratta, dunque, di un principio di diritto che riporta il decisum al criterio di giudizio proprio della remissione tacita, sebbene nel caso di specie non vi fossero stati, da parte del creditore, dei facta concludentia, mentre vi era solamente una situazione oggettiva costituita da un rapporto familiare tra le parti. La sentenza ha perciò ricevuto numerosi commenti critici [24], anche in considerazione del fatto che ha lasciato senza risposta il quesito di fondo: se cioè una richiesta di pagamento accompagnata dalla disponibilità a concedere una dilazione sarebbe stata anch’essa ritenuta abusiva ed inammissibile.


4. Gli spunti offerti da una sentenza della Corte di Costituzionale

Sebbene con riguardo ad un caso e ad uno scenario normativo ben diverso, la valutazione della condotta di chi improvvisamente pretende il pagamento di un credito, sorprendendo la buona fede del debitore, è stata successivamente compiuta da una sentenza della Corte Costituzionale [25], nel giudizio di legittimità dell’art. 2033 c.c., «nella parte in cui non prevede l’irripetibilità dell’indebito previdenziale non pensionistico (indennità di disoccupazione, nel caso di specie) laddove le somme siano state percepite in buona fede e la condotta dell’ente erogatore abbia ingenerato un legittimo affidamento del percettore circa la spettanza della somma percepita». Nella motivazione viene ripercorsa la giurisprudenza della Corte EDU che, «nell’ambito della ripetizione di indebiti retributivi e previdenziali erogati da soggetti pubblici, ha dato corpo all’interpretazione dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU, invocato dalle ordinanze in esame quale parametro interposto, vòlto a specificare la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.». Si tratta della disposizione convenzionale secondo cui «ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni». Riferisce la sentenza che, facendone applicazione, «la Corte EDU ha ricondotto alla nozione di bene da tutelare anche la tutela dell’affidamento legittimo (“legitimate expectation”), situazione soggettiva dai contorni più netti di una semplice speranza o aspettativa di mero fatto (“hope”). In particolare, in una pluralità di casi … concernenti indebiti retributivi e previdenziali erogati da soggetti pubblici, la Corte EDU ha specificato i presupposti che consentono di identificare un affidamento legittimo in capo al percettore della prestazione, che sia persona fisica, e ha individuato le condizioni che tramutano la condictio indebiti in un’interferenza sproporzionata nei confronti di tale affidamento. La Corte EDU ha individuato quali elementi costitutivi dell’affidamento legittimo: l’erogazione di una prestazione a seguito di una domanda presentata dal beneficiario che agisca in buona fede o su spontanea iniziativa delle autorità; la provenienza dell’attribuzione da parte di un ente pubblico, sulla base di una decisione adottata all’esito di un procedimento, fondato su una disposizione di legge, regolamentare o contrattuale, la cui applicazione sia percepita dal beneficiario come fonte della prestazione, individuabile anche nel suo importo; la mancanza di una attribuzione manifestamente priva di titolo o basata su semplici errori materiali; un’erogazione effettuata in relazione a una attività lavorativa ordinaria e non a una prestazione isolata o occasionale, per un periodo sufficientemente lungo da far nascere la ragionevole convinzione circa il carattere stabile e definitivo della medesima; la mancata previsione di una clausola di riserva di ripetizione. L’identificazione di una situazione di legitimate expectation non importa, nondimeno, per ciò solo l’intangibilità della prestazione percepita dal privato. … Le censure della Corte EDU si appuntano, invece, sulla proporzionalità dell’interferenza, in quanto sede del bilanciamento di interessi fra le esigenze sottese al recupero delle prestazioni indebitamente erogate e la tutela dell’affidamento incolpevole. Nel compiere tale valutazione, la Corte EDU riconosce agli Stati contraenti un margine di apprezzamento ristretto, onde evitare che gravi sulla persona fisica un onere eccessivo e individuale, avuto riguardo al particolare contesto in cui si inquadra la vicenda … In particolare, fra le circostanze che influiscono sul carattere sproporzionato dell’interferenza si rinvengono le specifiche modalità di restituzione imposte al titolare dell’affidamento …; più in generale, rilevano l’omessa o l’inadeguata considerazione della fragilità economico-sociale o di salute dell’obbligato nell’esercizio della pretesa restitutoria (così nelle sentenze C., paragrafi 72 e 73; R., paragrafo 75; C., paragrafi da 87 a 89, e M., paragrafi 74 e 75); e, infine, ha una sicura incidenza la mancata previsione di una responsabilità in capo all’ente cui sia addebitabile l’errore (sentenze C., paragrafo 71, e C., paragrafo 80)». La Corte passa poi a verificare se il nostro Ordinamento «delinea un quadro di tutele che, se adeguatamente valorizzato, supera ogni dubbio di possibile contrasto fra l’art. 2033 cod. civ. e l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato parametro convenzionale interposto». La risposta è positiva, tenendo conto, fra l’altro, del concetto di affidamento legittimo elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riguardo all’art. 1337 c.c., ed in particolare alla massima secondo cui chi recede da una trattativa senza giusta causa agisce in modo contrario alla buona fede oggettiva, se la trattativa è giunta ad uno stadio avanzato, tale da giustificare il legittimo affidamento nella conclusione del contratto [26]. Osserva, a tale riguardo, la Corte Costituzionale: «infatti, l’opera di specificazione effettuata dalla Corte EDU dà rilievo, innanzitutto, alla relazione fra le parti, e questo è tipico anche dell’art. 1337 cod. civ. In particolare, non vi è dubbio che, per ingenerare un legittimo affidamento in una prestazione indebita, non basti l’apparenza di un titolo posto a fondamento dell’attribuzione – titolo che deve comunque radicarsi in una disposizione di legge o di regolamento o in un contratto –, ma conta in primis il tipo di relazione fra solvens e accipiens. Ed è palese che un soggetto pubblico facilmente ingenera, nell’accipiens-persona fisica, una fiducia circa la spettanza dell’erogazione effettuata, non solo in ragione della sua competenza professionale, ma anche per il suo perseguire interessi generali. In ogni caso, neppure quanto detto sopra è sufficiente a delineare un affidamento, poiché ex fide bona rilevano sempre le circostanze concrete. … In definitiva, si deve ritenere che la consonanza fra gli elementi evidenziati dalla giurisprudenza della Corte EDU e la tipologia di criteri cui può dare rilevanza la buona fede oggettiva a fondamento di un affidamento legittimo, ove riferito al contesto della spettanza di una prestazione indebita, confermi che l’interesse protetto dalla CEDU, come ricostruito dalla Corte EDU, può trovare riconoscimento, nel nostro ordinamento, dentro la cornice generale della buona fede oggettiva. La Corte Costituzionale passa quindi a verificare se sia tutelata l’esigenza di evitare che questo affidamento legittimo sia leso da «un’interferenza sproporzionata nei confronti di tale affidamento» e osserva che a tale riguardo «un primo fondamentale ruolo spetta alla categoria della inesigibilità, che si radica nella clausola generale di cui all’art. 1175 cod. civ., la quale – come già anticipato (punto 12) – impone ad ambo le parti del rapporto obbligatorio di comportarsi secondo correttezza o buona fede oggettiva. Tale canone di comportamento, inter alia, vincola il creditore a esercitare la sua pretesa in maniera da tenere in debita considerazione, in rapporto alle circostanze concrete, la sfera di interessi che fa riferimento al debitore. … In definitiva, la clausola della buona fede oggettiva consente, sul presupposto dell’affidamento ingenerato nell’accipiens, di adeguare, innanzitutto, tramite la rateizzazione, il quomodo dell’adempimento della prestazione restitutoria, tenendo conto delle condizioni economiche e patrimoniali dell’obbligato. Inoltre, in presenza di particolari condizioni personali dell’accipiens e dell’eventuale coinvolgimento di diritti inviolabili, la buona fede oggettiva può condurre, a seconda della gravità delle ipotesi, a ravvisare una inesigibilità temporanea o finanche parziale». Appare evidente l’utilità delle argomentazioni che precedono anche al di fuori della materia trattata dalla Corte Costituzionale. La decisione della Consulta, per un verso, consolida la figura dell’inesigibilità secondo buona fede, avente la forza, ormai ampiamente riconosciuta, di escludere l’inadempimento e, conseguentemente, il rimedio risolutorio, anche in presenza di una clausola risolutiva espressa [27]. Dall’altro, induce a pensare che il caso citato nel precedente paragrafo, dei canoni di locazione non riscossi per molto tempo e poi chiesti improvvisamente nella totalità, avrebbe potuto essere risolto in modo più convincente, con l’apparato argomentativo usato dalla Corte Costituzionale. Così, sarebbe stato possibile valutare innanzi tutto se il conduttore, che pure aveva stipulato un regolare contratto di locazione, poteva legittimamente fare affidamento sulla mancata richiesta dei canoni, ovvero se la sua poteva considerarsi come «legitimate expectation», o semplice «hope»; il criterio dell’inesigibilità della prestazione avrebbe poi potuto consentire di valutare se, esclusa la legittimità di una richiesta improvvisa per l’intero ammontare scaduto dei canoni, si sarebbe potuta considerare esigibile, per esempio, una richiesta adeguatamente preannunciata e la concessione di una rateizzazione.


NOTE

[1] Cass., 16 febbraio 1963, n. 357, in Foro it., 1963, I, c. 1768 e in Foro pad., 1964, I, 1283, con nota di RODOTÀ, Appunti sul principio di buona fede. La massima è stata poi ripetuta negli anni seguenti: si vedano per esempio Cass., 18 ottobre 1980, n. 5610, in Riv. Dir. Comm., 1982, II, 167; Cass., 21 novembre 1983, n. 6933, in Foro it., 1984, I, c. 456.

[2] MESSINEO, Dottrina generale del contratto, Milano, 1948, 358 e 417; PASTERIS, voce Correttezza, in Noviss. Dig. It., IV, Torino, 1959, 856. Per altri riferimenti si rinvia a Piraino, Sull’esecuzione del contratto secondo buona fede, in Nuova giur. civ. comm., 2023, I, 175, nota 14.

[3] In questo senso, Cass., 9 aprile 1987, n. 3480, in Giur. it., 1988, I, 1, 1609: «l’obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede non riveste attitudine integrativa rispetto alle determinazioni delle parti in quanto, operando solo nel momento esecutivo, presuppone un regolamento di interessi già definito».

[4] Soprattutto con Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969. Si vedano le riflessioni di Benedetti e Grondona su questa opera apparse nel 2019 in Politica del diritto, 83, e ivi, 125, Pesce, Gli itinerari della buona fede secondo Rodotà.

[5] Teorizzata da FAGGELLA, Il fondamento giuridico della responsabilità in tema di trattative contrattuali, in Arch. civ., 1909, 128 e negli anni successivi recepita dalla giurisprudenza: per esempio Cass., 6 febbraio 1925, in Riv. dir. comm., 1925, II, 428.

[6] Cass., 24 aprile 2015, n. 8412, in Onelegale.

[7] Come evidenziato da GALGANO, Trattato di diritto civile, IV ed., Padova, 2023, vol. II, 340.

[8] Entro l’ampio panorama dottrinale degli ultimi decenni sulla funzione della buona fede oggettiva si segnalano, fra gli altri, FRANZONI, Degli effetti del contratto, II, Integrazione del contratto – Suoi effetti reali e obbligatori, ne Il Codice Civile Commentario diretto da Schlesinger, artt. 1374-1381, Milano, 1999, 198; D’ANGELO, La buona fede, nel Trattato di diritto privato diretto da Bessone, XIII, Il contratto in generale, IV**, Torino, 2004, 40; UDA, La buona fede nell’esecuzione del contratto, Torino, 2004, passim.

[9] Sul tema si veda AMENDOLAGINE, Le obbligazioni gravanti sul notaio nella stesura del rogito, in I Contratti, 2024, 61.

[10] Cass., 13 febbraio 2020, n. 3694, in Onelegale.

[11] Cass., 4 marzo 2022, n. 7185, in Onelegale. Sulla sentenza si veda la nota di CATALANI, L’integrazione del rogito, la teoria dell’operazione economica e la responsabilità del notaio, in Giur. it., 2023, 2053.

[12] Cass., 20 aprile 1994, n. 3775, in Corr. giur., 1994, 566, con nota di V. Carbone.

[13] App. Lecce, 18 novembre 2013, in Foro it., 2014, I, c. 253.

[14] Cass., 7 marzo 2022, n. 7358, in Onelegale. Si veda, sulla sentenza, PIRAINO, Sull’esecuzione del contratto secondo buona fede, cit., 173.

[15] Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in Onelegale.

[16] Basti, a tale riguardo, ripetere le parole di GALGANO, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contr. e impr., 2011, 311: «un motivo di grande stupore (ma non l’unico) è lo spropositato numero di commenti, spesso critici, non di rado fortemente ostili, con i quali alcune riviste giuridiche italiane hanno accolto la sentenza della Cassazione sull’abuso del diritto di recesso del concedente nel contratto di concessione di vendita di autovetture». Si noti che un ampio dibattito ha suscitato anche, in tempi più recenti, il riferimento all’abuso del diritto, congiuntamente alla buona fede contrattuale ed al requisito generale dell’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., nel caso del rigetto della domanda di declaratoria di nullità del preliminare di vendita per omesso rilascio della fideiussione, in base all’art. 2 del d. lgs. n. 122/2005, in situazioni nelle quali non vi erano rischi concernenti l’operazione immobiliare o la situazione economico-finanziaria dell’impresa edile, sicché l’invocata nullità appariva motivata unicamente da un ripensamento: si vedano i riferimenti in GIOCONDI, Brevi note sul nesso tra interesse ad agire, buona fede e abuso del diritto, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2023, 1300; MEZZASOMA, La nullità di protezione tra violazione di obblighi di legge e abuso del diritto, in Corr. giur., 2021, 788.

[17] Ed è stata riferita da Galgano (difensore dei concessionari revocati dalla Renault nel giudizio sfociato nella decisione in commento) nel contributo citato nella nota precedente. A giustificazione del suo intervento Galgano riferisce di avere constatato che molte critiche alla sentenza della Corte di Cassazione sembravano dovute ad una non completa conoscenza della vicenda, a sua volta determinata dalla scarna ricostruzione del fatto nella sentenza della Corte di Cassazione.

[18] La cui motivazione è riportata nella sentenza della Corte di Cassazione; i brani fra virgolette, che seguono nel testo, sono quindi tratti dalla sentenza della Corte di Cassazione, che li ha ripresi dalla sentenza d’appello.

[19] È ispirata a tale criterio anche Trib. Roma, 27 dicembre 2022, in Il lavoro nella giur., 2023, 636, con nota di COLLIA, Sul sindacato del giudice del merito in caso di contratto che preveda il diritto di recesso ad nutum, che ha ravvisato la violazione della buona fede contrattuale nel recesso esercitato senza motivazione dopo solo un mese da un contratto di lavoro a progetto della durata di nove mesi, nel quale la persona che aveva subito il recesso, chiamata a svolgere mansioni di docente presso una scuola paritaria, lamentava di essere stata discriminata per il suo stato di donna transessuale.

[20] App. Roma, 5 febbraio 2018, in Onelegale.

[21] Cass., 14 giugno 2021, n. 16743, in Onelegale. Più precisamente, il Tribunale aveva condannato il conduttore a pagare € 222.332,10; la Corte d’Appello ha ridotto la condanna ad € 63.375,00, ritenendo contraria a buona fede la richiesta dell’ulteriore importo fino ad € 222.332,10 e la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello.

[22] Si noti che sebbene fossero passati più dei cinque anni previsti dall’art. 2948, comma 1, n. 3 c.c., e pur evidenziandosi in più parti della motivazione l’inerzia del creditore, che pertanto certamente non aveva interrotto la prescrizione, la sentenza è motivata sul presupposto che non operasse detta prescrizione.

[23] Cass., 15 marzo 2004, n. 5240; Cass., 28 gennaio 2020, n. 1888: «il mero ritardo nell’esercizio del diritto, pur imputabile al titolare ed idoneo a far ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato, non costituisce violazione della buona fede e non può essere causa di esclusione della tutela giudiziaria, salvo che dal ritardo possa desumersi una rinunzia tacita».

[24] Si vedano, fra gli altri, i commenti di CALDORO, Inerzia del creditore, affidamento, rilancio improvviso delle pretese creditorie. Di buona fede (militante), abuso e Verwirkung, in Danno e responsabilità, 2002, 91; D’AMICO, Buona fede ed estinzione (parziale) del diritto di credito, in Nuova Giur. civ. comm., 2021, I, 1164; MACARIO, Fattispecie estintiva e buona fede nell’esercizio tardivo del diritto di credito, ivi, 1171; ORLANDI, Ermeneutica del silenzio, ivi, 1179; SCOGNAMIGLIO, La Verwirkung (ed i suoi limiti) innanzi alla Corte di Cassazione, ivi, 1186; VETTORI, Buona fede, abuso ed inesigibilità del credito, ivi, 2022, I, 185; NANNA, Prescrizione, Verwirkung e buona fede, tra certezza del diritto e prospettive di riforma, in Pactum, 2022, 193; MONEGAT, La richiesta repentina di pagamento del canone dopo sette anni di mancata corresponsione costituisce abuso del diritto perché contraria ai principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto, in Immobili & proprietà, 2021, 465; ERRIGO, L’inerzia nell’esercizio del diritto di credito tra apparenza remittente, atto di tolleranza e abuso del diritto, in Giustiziacivile.com.

[25] Corte cost., Sent. 27 gennaio 2023, n. 8, in www.cortecostituzionale.it. e in Foro it., 2023, 1, 5, c. 1348. Si vedano, sulla sentenza, PAGLIANTINI, Il pragmatismo di Enrico di Navarra: l’inesigibilità restitutoria nel canone della Corte costituzionale, in Giur. it., 2023, 5, 1026; D’AMICO, Principi, clausole generali e regole nel processo di bilanciamento degli interessi (una pronuncia esemplare della Corte costituzionale), in I Contratti, 2023, 121; C. SCOGNAMIGLIO, Affidamento, responsabilità precontrattuale, inesigibilità: una nuova prospettiva di sviluppo della clausola generale di buona fede, in Accademia, 2023, 297.

[26] Da ultimo, Cass., 6 luglio 2023, n. 19202, in Onelegale.

[27] Cass., 23 marzo 2023, n. 8282, in Onelegale, in una vicenda nella quale un appaltatore si era impegnato, dopo avere dichiarato di avere preso visione e accettato lo stato di fatto, ad eseguire la manutenzione dell’impianto pubblico di illuminazione di un Comune, dopo di che, avendo constatato che l’impianto non era norma e che la manutenzione sarebbe stata pericolosa per l’appaltatore e per la cittadinanza, si era rifiutato di adempiere, inducendo il Comune ad avvalersi di una clausola risolutiva espressa. Per la Corte Suprema, invece, “il principio secondo il quale l’agire dei contraenti va valutato, anche in presenza, come nella specie, di una clausola risolutiva espressa, secondo il criterio generale della buona fede, sia quanto alla ricorrenza dell’inadempimento che del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risoluzione. Pertanto, qualora il comportamento del debitore, pur integrando il fatto contemplato dalla suddetta clausola, appaia comunque conforme al criterio della buona fede, non sussiste l’inadempimento, né i presupposti per invocare la risoluzione”. Conf. Cass., 23 novembre 2015, n. 23868, in Onelegale.

Fascicolo 2 - 2024