Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Il contratto di merchandising, gli altri contratti atipici e l'uso alternativo del diritto (di Stefano D’Andrea, Professore associato di Diritto privato – Università degli Studi della Tuscia)


L’autore, in primo luogo accerta che, prima degli interventi normativi che hanno sancito la sicura validità del contratto di merchandising, la dottrina civilistica aveva tentato di affermarne la validità, nonostante la presenza di numerose disposizioni che, secondo la pacifica dottrina industrialista, ne imponevano la invalidità. Poi mostra che la dottrina civilistica, anche per promuovere la validità di altri contratti atipici, è ricorsa all’uso alternativo del diritto. Infine, tenta di costruire un quadro organico dei “metodi utilizzati”, dei valori declamati e degli interessi velatamente, e sovente inconsapevolmente, protetti, dall’uso alternativo del diritto in materia di contratti atipici.

The merchandising contract, other atypical contracts and the alternative use of the right

The author first ascertains that, prior to the regulatory interventions that enshrined the certain validity of the merchandising contract, civil law doctrine had attempted to affirm its validity, despite the presence of numerous provisions that, according to the pacific industrialist doctrine, mandated its invalidity. Then he shows that civilistic doctrine, even to promote the validity of other atypical contracts, has resorted to the alternative use of law. Finally, it attempts to construct an organic picture of the "methods used," the values declaimed and the interests veiledly, and often unwittingly, protected, by the alternative use of law in atypical contracts.

   

COMMENTO

Sommario:

1. L’uso alternativo del diritto nelle questioni di validità dei contratti atipici - 2. Carattere relativo del principio di novità del marchio fino al 1992 - 3. La battaglia della dottrina per la tutela dell’interesse del titolare del marchio rinomato allo sfruttamento esclusivo delle potenzialità suggestive del marchio - 4. La battaglia della dottrina per la validità di licenze d’uso del marchio non esclusive ma relative a beni già prodotti dal titolare del marchio - 5. L’uso alternativo del diritto per la validità del contratto di merchandising - 6. Come è andata a finire: la genesi delle nuove norme. Adeguamento alla coscienza sociale o produzione di rilevanti mutamenti sociali? - 7. Forme dell’uso alternativo del diritto per la validità dei contratti atipici - 8. I giuristi, i metodi e l’ideologia: falsa coscienza, ideologia e interessi promossi e sacrificati dall’uso alternativo, capitalistico e antiborghese del diritto - NOTE


1. L’uso alternativo del diritto nelle questioni di validità dei contratti atipici

Alcuni recenti studi, condotti sui contratti atipici, hanno sollevato l’ipotesi che, a partire dalla fine degli anni settanta, civilisti e commercialisti abbiano fatto un vero e proprio uso alternativo del diritto, per affermare la validità dei contratti atipici, che sono, per lo più, contratti predisposti dalla grande impresa e imposti a imprenditori aderenti, per lo più piccoli e medi imprenditori, e in alcuni casi agli enti pubblici. In particolare, è sembrato che, con un vario grado di consapevolezza, i giuristi abbiano rimosso limiti che il diritto positivo di matrice liberale e borghese poneva a talune forme di valorizzazione del grande capitale [1]. In questa occasione intendo verificare se, nel dibattito dottrinale che ha preceduto gli interventi normativi che hanno condotto alla sicura validità del contratto di merchandising, la dottrina abbia svolto il ruolo di promotrice della validità, per poi tentare (§§ 7 e 8) una sistemazione generale dell’uso alternativo del diritto per qualificare validi i contratti atipici. Tuttavia, la vicenda storica della disciplina dei marchi ha un valore culturale in sé, e perciò va ben conosciuta, perché mostra che il diritto neoliberale, se, indubbiamente, sotto molti profili, è liberale – rinuncia alle politiche di piena occupazione; disciplina dei contratti di lavoro subordinato, tornata allo scambio ineguale; riduzione del settore pubblico; liberoscambismo internazionale, in particolare, libera circolazione dei capitali e quindi promozione della rendita finanziaria –, sotto altri profili, è un diritto post-borghese e pertanto post-liberale, nel senso di contrario a taluni caratteri che il liberalismo, come ideologia borghese, aveva nell’ottocento e nella prima parte del novecento [2].


2. Carattere relativo del principio di novità del marchio fino al 1992

La prima legge generale che riconosceva il diritto esclusivo all’uso di un marchio si ebbe in Francia nel 1803. Cavour, nel 1854, presentava un progetto di legge sui marchi di fabbrica e commercio, che divenne legge nel 1855. Questa disciplina sarà legge del Regno d’Italia nel 1868. L’originaria disciplina dei marchi è dunque una disciplina liberale e borghese per eccellenza. Il marchio aveva, e avrà ancora per lungo tempo, un’unica funzione: la funzione di distinzione: distingueva i prodotti dell’imprenditore che li aveva messi in commercio, per i quali era stato registrato; proteggeva l’imprenditore contro contraffattori e imitatori che avessero utilizzato un marchio identico o simile per prodotti identici o simili (della stessa “specie”). Chi avesse utilizzato o registrato il marchio o un marchio simile per prodotti diversi e non simili, avrebbe agito lecitamente e validamente [3]. La tesi, pressoché pacifica in dottrina, non trovava una chiarissima affermazione nella legge del 1868 ed era fondata, da un lato, sul fatto che una norma (art. 7, lett. b, L. 30 agosto 1868, n. 4577) prevedeva che nella domanda di brevetto dovessero essere specificati gli oggetti sui quali si intendeva apporre il marchio, dall’altro sul (supposto) principio della protezione condizionata a una possibilità di concorrenza [4]. I dati normativi erano davvero labili e ciò testimonia che il carattere estremamente limitato del “monopolio” concesso al titolare del marchio trovasse fondamento nella mentalità borghese e liberale dei giuristi, i quali esprimevano la ideologica contrarietà ai “privilegi” e ai “monopoli” giuridici, facendo dire alla legge ciò che essa al più vagamente accennava [5]. Pur in assenza di chiare disposizioni, la mentalità borghese induceva i giuristi a limitare le facoltà giuridiche esclusive riconosciute al titolare del diritto di marchio, che era definito come titolare di un “monopolio” [6]. Il principio di relatività (della novità del marchio), più spesso definito di specialità, veniva espressamente consacrato dalla legge marchi del 1942 (Regio Decreto 21 giugno 1942 n, 929) e dal codice civile: per l’art. 4 della legge marchi, il brevetto esplicava il [continua ..]


3. La battaglia della dottrina per la tutela dell’interesse del titolare del marchio rinomato allo sfruttamento esclusivo delle potenzialità suggestive del marchio

L’art. 5, comma 2, della Direttiva 89/104 CEE previde che “Uno Stato membro può inoltre prevedere che il titolare abbia il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio un segno identico o simile al marchio di impresa per i prodotti o servizi che non sono simili a quelli per cui esso è stato registrato, se il marchio di impresa gode di notorietà nello Stato membro e se l’uso immotivato del segno consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio di impresa o reca pregiudizio agli stessi”. La norma della Direttiva recepiva una lunga battaglia dottrinale, condotta, in tutta Europa, sulla scorta di esperienze statunitensi, volta ad attribuire una super-tutela ai titolari di marchi “celebri” o “super-notori” o di “alta rinomanza”. Per tentare di ottenere lo scopo, questa dottrina, e la giurisprudenza di merito che la seguiva, avevano tentato di percorrere due strade. O avevano ampliato la nozione di “affinità” con riguardo al marchio di alta rinomanza, fino a dilatarla enormemente, tenendo conto non di dati oggettivi (merceologici) ma dell’ipotizzata opinione del consumatore medio, abbandonando il criterio della interpretazione restrittiva di norme che concedevano un privilegio giuridico (o monopolio) e un secolo di interpretazione dei concetti di “stessa specie”, “stesso genere” e di “affinità”. Ma poi, per evitare la palese disapplicazione della legge, avevano dovuto introdurre limiti al­l’e­stensione della tutela [9]. Oppure avevano invocato, trovando ostacolo, ancora nel 1988, nella Corte di Cassazione [10], le figure generali della concorrenza sleale – tradizionalmente intesa come relativa ad un rapporto di concorrenza e perciò non applicabile senza la confondibilità dei prodotti – e del fatto illecito, ignorando, in entrambi i casi, la non irrilevante circostanza che l’uso e la registrazione di un marchio già registrato, per prodotti non merceologicamente affini, fosse un contegno espressamente autorizzato dalla legge marchi e dal codice civile. Il governo italiano con il Decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 480, art. 1, comma 1, lett. b) introdusse la tutela extra-merceologica del marchio “di [continua ..]


4. La battaglia della dottrina per la validità di licenze d’uso del marchio non esclusive ma relative a beni già prodotti dal titolare del marchio

 I titolari di marchi di rinomanza volevano appropriarsi del valore di suggestione dei marchi non certo (o almeno non tanto) per evitare i danni che essi potevano subire dall’uso che altri potesse farne in settori merceologicamente eterogenei, e tantomeno per evitare che altri usasse, in diverso settore merceologico, il marchio senza arrecare al titolare del marchio celebre alcun danno, bensì soprattutto per avere il diritto di concedere in licenza il marchio, per prodotti, non soltanto merceologicamente diversi da quelli che avevano reso rinomato il marchio, ma che il titolare del marchio non aveva mai messo in commercio. Insomma per poter divenire dei redditieri che prosperano stipulando contratti di merchandising, come la dottrina, politicamente favorevole o contraria, ben capiva a ammetteva [12]. Per poter raggiungere questo obiettivo era necessario abrogare altre norme, che in Italia vincolavano il trasferimento del marchio, o la concessione in licenza, al trasferimento del ramo d’azienda e comunque imponevano che il marchio fosse ceduto o concesso in licenza in via esclusiva con riguardo a beni che il concedente già produceva. A rigore, gli interessi al libero trasferimento e alla libera concessione della licenzia del marchio senza l’azienda, erano di tutta la classe imprenditoriale. Ciò spiega per quali ragioni la battaglia della dottrina per la libera trasferibilità del marchio e per la validità delle licenze d’uso infra-merceologiche sia storicamente precedente a quella per l’attribuzione in via esclusiva al titolare del marchio di rinomanza del valore di suggestione. Tuttavia, è indiscutibile che i titolari dei marchi di rinomanza sono coloro che più degli altri imprenditori hanno interesse a poter concedere l’uso del marchio con contratti di licenza. Direi che hanno interessi ulteriori, rispetto a quelli che possono avere molti altri imprenditori, i quali, in particolare, hanno tutti l’interesse a lasciare a un figlio privo di capacità imprenditoriali, o che non voglia svolgere attività imprenditoriale, la titolarità del marchio ma non l’azienda, perché, potenzialmente a vita, lo conceda in licenza ad altri, percependo una rendita. Ma le due leggi dedicate ai marchi – certamente quella del 1942 e, secondo l’opinione prevalente, anche quella del 1868 – [continua ..]


5. L’uso alternativo del diritto per la validità del contratto di merchandising

Sul finire degli anni ottanta intervenne nel dibattito un autorevole civilista. L’autore, citando una sentenza della Corte di Cassazione del 1956, dava per scontato che fossero valide le licenze di marchio nei limiti di zone territoriali, quando il licenziante si impegnava a non usare il marchio in quelle zone, perché in questo caso sarebbe stato rispettato il principio dell’“uso esclusivo” [19]: la tesi, in realtà, era assolutamente minoritaria e la sentenza citata riguardava la concessione in uso da parte di un imprenditore straniero a uno italiano, per tutto il territorio, non la concessione in uso tra imprenditori italiani e relativa a parti del territorio nazionale [20]. Poi descriveva la prassi dei titolari di marchi notori di registrare il marchio per una variegata classe di prodotti merceologici, più estesa delle classi oggetto della produzione, – prassi che, di per sé, ovviamente non significava niente – aderendo, senza argomentare, alla tesi “oggi per la verità non così indiscussa come in passato” che l’uso del marchio per una parte soltanto delle classi merceologiche oggetto di registrazione impedisse la decadenza anche per le classi non utilizzate. Questa tesi, in verità, da un lato, non era mai stata indiscussa ma anzi sempre minoritaria, dall’altro, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, era pressoché pacificamente respinta e di lì a poco sarebbe stata respinta anche dal legislatore [21]. Infine, la ragione di diritto della tutela delle licenze extra-merceologiche concesse per beni mai prodotti sarebbe consistita “soprattutto, nella tutela riconosciuta al marchio celebre, che la giurisprudenza sulla contraffazione del marchio oggi tutela, al di là della affinità dei prodotti, nel suo forte valore simbolico, suscettibile di rendere affini prodotti merceologicamente diversi”. Quindi “Accade così che un marchio celebre… venga utilizzato, su licenza, per contraddistinguere prodotti di tutt’altro genere” [22]. Difficile negare che si sia trattato di una battaglia dottrinale condotta con un uso alternativo del diritto e che infatti riusciva ad affermare ciò che la dottrina industrialista pacifica aveva sempre negato. Nessun accenno alla tesi prevalente che negava la validità delle licenze di marchio [continua ..]


6. Come è andata a finire: la genesi delle nuove norme. Adeguamento alla coscienza sociale o produzione di rilevanti mutamenti sociali?

Brevemente, giova rammentare come si è conclusa la vicenda politico-giuridica del merchandising, visto che questo contratto incide notevolmente su settori rilevanti dell’economia contemporanea e profondamente su mentalità, psiche e prassi delle nuove generazioni. Non potremo mai sapere, se il tentativo di Galgano avrebbe avuto successo sul piano giurisprudenziale [26], perché, dopo pochissimi anni, il legislatore, innovando rispetto al passato: consentì a chiunque, anche non imprenditore, di poter registrare il marchio, eventualmente destinato a “imprese che ne facciano uso con il suo consenso” (nuovo art. 22, comma 1., della L.M. del 1992); eliminò la decadenza per “cessazione definitiva, da parte del titolare del marchio, della produzione o del commercio” (art. 43, comma1, n. 2. della L.M., abrogato nel 1992); e previde (nuovo art. 15) sia la possibilità di cessione senza ramo d’azienda, sia che il marchio possa essere trasferito anche soltanto per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato, sia che il marchio possa essere oggetto di licenza anche non esclusiva per la totalità o per parte dei prodotti per i quali è stato registrato e per la totalità o parte del territorio dello Stato (a condizione, se la licenza non è esclusiva, che si tratti di prodotti e servizi uguali). Se la cessione libera (senza ramo d’azienda) non era un dovere comunitario, e fu dunque una scelta della Commissione ministeriale, che scrisse sia la legge delega che la legge delegata – ma il progetto di Regolamento europeo, relativo al marchio comunitario, prevedeva la cessione senza ramo d’azienda, sicché in sede di Commissione si adombrò il rischio che le imprese avrebbero optato per il marchio comunitario – l’art. 8 della Direttiva 89/104/ C.E.E., imponeva ai paesi membri la disciplina della licenza poi trasfusa nell’art. 15 della nuova L. Marchi [27]. In definitiva, il contratto di merchandising divenne valido per decisione, o almeno forte condizionamento, della Comunità economica europea, senza che il Parlamento abbia mai discusso il tema [28] e senza che il dibattito dottrinale tra gli industrialisti avesse registrato maggioritarie o almeno consistenti critiche alla disciplina fino ad allora vigente. Anzi, i più autorevoli industrialisti avevano [continua ..]


7. Forme dell’uso alternativo del diritto per la validità dei contratti atipici

Possiamo ora inquadrare il caso del merchandising nel quadro dell’uso alternativo del diritto per qualificare validi i contratti atipici. Nel risolvere le questioni di validità dei contratti atipici, per promuoverne la validità, la dottrina ha utilizzato uno strumentario vastissimo. In primo luogo, il superamento delle (oggi da molti vituperate) categorie astratte. Posta davanti ai contratti derivati stipulati over the counter, in particolare gli IRS (interest rate swap), per lungo tempo – non soltanto fin quando mancava una norma che prevedesse la piena efficacia dei contratti derivati OTC (art. 18, comma 4º, d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415, poi art. 23, comma 5º, tuf), ma anche in seguito, per molti anni, forse in ragione del fatto che, trattandosi di contratti di durata, la efficacia di quelli stipulati prima dell’entrata in vigore della norma avrebbe potuto essere contestata –, la dottrina ha negato che tali contratti si lasciassero sussumere nello schema millenario della scommessa. Se le parti prevedono che al verificarsi o al non verificarsi di un evento futuro ed incerto, l’una o l’altra debbano una prestazione, creano un rischio che non avevano e si ha la scommessa, salvo che discipline normative speciali sottraggano il fatto alla disciplina della scommessa dando ad esso un’altra disciplina [30]. Se si accoglie la figura generale, è del tutto evidente che non sono palesemente idonee ad evitare la sussunzione, salvo che il legislatore intervenga con una disciplina speciale, tutte le circostanze considerate dalla dottrina: che le parti prevedano periodici flussi reciproci di cassa (uno inferiore all’altro, o, in caso di pareggio, uguali); che l’oggetto della scommessa siano tassi di interesse o rapporti di cambio tra valute; che, secondo talune teorie (o teologie) economiche, simili scommesse svolgerebbero un ruolo positivo nel­l’allo­ca­zione delle risorse; che una delle parti “si assicuri”, in senso lato, contro un rischio (che non rientra nella nozione giuridica di “sinistro”; per di più, ci si “assicura”, non pagando un premio fisso, ma obbligandosi a pagare eventualmente una somma incerta); che le parti si divertano, competano e generino ansia, tensione e brivido (c.d. causa ludendi) oppure si limitino a vincere o perdere; che l’attività dello [continua ..]


8. I giuristi, i metodi e l’ideologia: falsa coscienza, ideologia e interessi promossi e sacrificati dall’uso alternativo, capitalistico e antiborghese del diritto

Se tanti giuristi hanno fatto un uso alternativo del diritto nel risolvere questioni di validità nei contratti atipici, non è possibile nemmeno ipotizzare che tutti abbiano coscientemente voluto superare la discrezionalità interpretativa, per quanto ampia si creda che essa possa o debba essere. È vero che non mancano le affermazioni che manifestano palesemente la volontà di considerare valido uno o altro contratto, mentre in altri casi la volontà è implicita ma sembra indubitabile. Tuttavia, il più delle volte la validità è considerata un presupposto indiscusso. Oppure è “dedotta” dalla diffusione del contratto, da asserite “necessità dell’economia” o dalla (asserita) impossibilità di non adeguarsi a ordinamenti di omogenea civiltà giuridica. E ormai da tempo, le questioni di validità semplicemente non sono affrontate. Ciò significa che, negli ultimi quaranta anni, i civilisti e i commercialisti si sono mossi, per lo più, dentro una ideologia: il dover essere della validità dei contratti atipici era un elemento di questa ideologia. Un chiarimento si impone, al fine di evitare che qualche lettore possa ravvisare in questo saggio una critica, persino radicale, a un amplissimo settore della civilistica, perché, al contrario, questo saggio non intende muovere, né muove, la benché minima critica ai civilisti e ai commercialisti che hanno trascurato questioni di validità dei contratti atipici oppure le hanno risolte nel senso della validità. Infatti, ogni uomo è un essere ideologico: è homo ideologicus, impregnato di ideologie. Il giurista non sfugge alla regola. Gli uomini vivono dentro correnti ideologiche; ne sono trasportati e le diffondono. E non possono uscirne, se non entrando in altre diverse o opposte correnti ideologiche. Basta osservare la contemporaneità, e addirittura la cronaca, per convenire: “bisogna combattere il cambiamento climatico”; “serve più Europa”; “si deve abbassare il debito pubblico”; “bisogna esportare la democrazia”; “bisogna ritardare lo sviluppo tecnologico della Cina”; “serve meritocrazia”; “servono governi di legislatura”; “l’Università si deve internazionalizzare”; [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2024